PROGETTO COLIB (Comunismo liberale) Maggio – ottobre 2013
Segue (in ordine temporale) raccolta di pamphlet
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Nessun commento, favorevole o contrario, è pervenuto all'indirizzo di posta precedentemente indicato: si tratta di un silenzio spropositato rispetto al numero dei contatti intercorsi e anche abbastanza sorprendente per chi si aspettava perlopiù denigrazioni e sarcasmi. In considerazione della sua scarsa utilità (eufemismo) e anche in seguito ad apparizioni un po’ sibilline, si è ritenuto più pratico optare per una chiusura.
Nel complesso di artifici culturali in cui si colloca l'intera fenomenologia umana nei limiti (piuttosto angusti) in cui può essere colta e vissuta dai suoi protagonisti, idee sufficientemente articolate da comporsi in visioni del mondo devono poter rivendicare, se a torto o a ragione non importa, una consistenza oggettiva almeno pari a quella degli eventi di cronaca e storia. Che tali idee generino flussi e scambi comunicativi oppure no, per il kolibiano autentico e originale è molto meno importante di quello che finge di ritenere la cosiddetta società civile.
L'importante è che richiedano dosi paragonabili di energia mentale per essere rintuzzate e che si consolidino invece per l’assenza di confutazioni tanto più necessarie quanto più le affermazioni sono fastidiose e imbarazzanti.
E’ inutile nascondersi dietro un dito, soprattutto in una fase storica in cui, nel merito di certe spinose tematiche, si affacciano all’orizzonte indizi di reviviscenze contestatarie organizzate da settori scolastici e giovanili: qui non ci si propone forme di pensiero positive e accattivanti, non si intende cavalcare (di fatto aggrappandosi alla coda del cavallo e cercando di risplendere di luce riflessa mentre si è trascinati con le suole che friggono) ondate di dissenso o movimenti di reazione: qui viene indicato semplicemente l’unico tipo di soluzione ritenuta efficace, tracciandone un profilo abbozzato e a grandi linee, rispettoso in modo non ipocrita dei limiti a cui deve soggiacere una inventiva singola e isolata.
L’idea di fondo del Progetto generale di stato stazionario non è innovativa, sorprendente, geniale, esplosiva, rivoluzionaria, no: è ovvia, banale, semplice, disarmante, ineluttabile. Non occorre molta intelligenza per capirla, ne occorre molta di più per raccogliere e focalizzare i riscontri e le valutazioni necessari a sfrondare e infine accantonare ogni soluzione alternativa. Ecco perché, secondo me, è importante rivalutare e alla svelta forme di pensiero critico e ‘negativo’: perché sono le sole in grado di dissipare le nebbie delle falsità ideologiche e arrivare al nucleo delle varie questioni. In un centro abitato è impossibile ricostruire un intero quartiere senza prima demolire almeno in parte le costruzioni preesistenti.
Scetticismo conservatore e foga riformatrice sono ormai due facce di una medesima moneta fuori corso: il primo è accortamente realista a patto di non considerare la questione più importante, ovvero l’entità del pericolo, il secondo ne avverte il giusto peso e poi si tuffa a capofitto nelle illusioni del volontarismo poco o punto analitico.
Ci sono idee che avviano un profluvio di chiacchiere e idee che si diffondono e si insinuano nella più programmatica e ostentata indifferenza: ai fini di un’azione effettiva conta il terreno dove attecchiscono, non l’estensione del volo.
Alla fine, l'uomo d'azione contribuisce a costruire una storia, l'uomo di pensiero una civiltà: i due ruoli non sono sovrapponibili né intercambiabili.
Una cultura non qualifica il vincente politico ideale: questi è già il prodotto di un contesto opportuno.
La cultura squalifica il vincente sbagliato: quello che invece di avviare progetti somministra ideali a masse di analfabeti culturali.
(originale: aprile 2017, revisione: marzo 2019)
8 marzo 2025
DAGLI APPUNTI VELOCI DEL SOMMO ANONIMO RENATO PEZZOTTA, CERCANDO DI MIGLIORARE L’ORGANICITA’ CONSERVANDO LA SINTESI.
A cura del Senato Redazionale degli Errepì, presieduto da Rinaldo Pallotta.
Approfittiamo di questo appuntamento per richiamare all’attenzione di tutti la novità che più ci riguarda da vicino: le sei nazioni (il cui elenco è superfluo visto e considerato che le conoscono tutti) in cui i Kolibiani si sono rivelati clamorosamente vincitori alle elezioni hanno firmato un trattato di esclusiva reciproca che consente al loro complesso ristretto una totale indipendenza economica dal resto del mondo, resa ovviamente possibile da un assetto effettivamente democratico e popolare secondo una visuale non metafisica, ma concretamente individualista, tale cioè da porsi come unico e sostanziale obbiettivo una qualità minimale quanto essenziale delle singole vite umane nel rispetto assoluto di quelle modalità che la comunità scientifica ha ormai ritenuto le uniche veramente efficaci per la salvaguardia del pianeta. L’accordo è stato ovviamente propiziato dal recente concordato mondiale inteso a salvaguardare ogni singola nazione tramite una deterrenza di tipo nucleare eventualmente delegabile a terzi tramite specifici concordati. Come tutti ormai sanno, tale deterrenza ha consentito disarmi generalizzati e unilaterali senza soverchi aggravi di costi tecnologici grazie alla norma, detta ‘cavalleresca’, che assegna immediatamente la vittoria di qualsiasi disfida militare a quello tra i contendenti che riuscirà per primo a eliminare con qualsiasi mezzo più del 50% della dirigenza politica avversa definita secondo una lista da annettere preliminarmente all’avvio delle ostilità e non più lunga di una decina di nominativi. Staremmo tutti a brindare euforici, ma purtroppo questa splendida notizia ha coinciso con un’altra assolutamente terrificante: l’asteroide si sta avvicinando e sembra proprio molto, ma molto pericoloso.
Un attento scrupolo filologico ci ha impedito di attenuare la durezza di un numero limitato di frasi, quella che il medesimo Sommo (visti anche i tempi che corrono o forse, nel suo caso, visti i tempi che corrono sempre) avrebbe probabilmente attenuato se ne avesse personalmente curato la pubblicazione ufficiale. Ci appelliamo quindi a una giusta considerazione di tale, per certi versi doverosa, fedeltà, invitando tutti (e soprattutto le esimie signorie oligarchiche spesso ingiustamente e, oserei dire, sventatamente vituperate dal Nostro) a concentrarsi sulla peculiarità fondamentale della presente proposta, ovvero se essa possa valere o meno quale dimostrazione logico-razionale riguardo all’inderogabilità del Progetto.
Purtroppo qualsiasi dimostrazione (una dimostrazione, come annotò saggiamente il Vate, non è un Valore o una Verità che nei loro arbitrari darwinismi possono rivelarsi più o meno funzionali o dannosi, bensì una procedura che può essere più o meno intellettualmente corretta o più o meno difettosa), una dimostrazione, dicevo, di siffatta necessità progettuale non può prescindere dalla dimostrazione che certe classi dirigenti stanno diventando un po’…. pazzerelle (gigantesco eufemismo).
Infatti, per la legge ferrea dell’oligarchia, che si collega a onnipresenti e onnicomprensivi determinismi sistemici, quando una tipologia politica, economica e sociale inaugura la crisi della sua parabola discendente (e tutti i complessi organizzativi decadono prima o poi e tanto più velocemente quanto più si accelerano i ritmi processuali in qualche modo attinenti) i settori più raffinati e intellettuali dovrebbero prenderne atto e agire di conseguenza: la legge ferrea dell’oligarchia stabilisce però che i settori più influenti sul fronte dell’indirizzo e della consulenza si muovono secondo interessi indistricabilmente connessi alla sopravvivenza del sistema.
Se il sistema è marcio e richiede interventi radicali, per la legge ferrea dell’oligarchia la radicalità di tali interventi non si orienterà mai verso opportune revisioni progettuali se queste contravvengono agli interessi vitali delle oligarchie dominanti: si accentueranno quindi gli aspetti repressivi e non democratici, vale a dire tutte le storture e i difetti, compatibilmente, beninteso, con i segnali provenienti da un controllo vigile di eventuali reazioni e sommovimenti provenienti dai ceti inferiori, molto più numerosi quanto molto più inerti.
Tali ceti, ovviamente, nelle democraticissime civiltà occidentali, più che conculcati da giri di vite polizieschi, verranno ammaliati con la collaborazione di tutti i partiti dagli avveniristici prodigi delle ferventi iniziative tecnologiche di cui sarà cura di tutti i partiti far dimenticare alla massa inerte dei loro elettori che: a) senza una seria preparazione scientifica, i politici conoscono delle nuove tecnologie soltanto quello che essi hanno interesse a imparare e gli esperti interesse a raccontare; b) le tecnologie, più sofisticate sono, più richiedono capitali esclusivamente accessibili da parte di chi ne detiene a sufficienza per controllare con le dovute collusioni l’intera politica di uno stato; c) il primo criterio guida nella scelta di qualsiasi strategia tecnologica su base iper-capitalista e iper-tecnologica non sarà mai la massima diffusione del benessere comune, ma piuttosto la massima remunerazione dei capitali impiegati secondo le onnipervasive leggi del profitto.
Ovviamente le leggi del profitto possono anche tramutarsi in una specie di benedizione se operano in presenza di una qualche Mano Invisibile sguinzagliata da concorrenze e competizioni effettive (una Mano che non opera scippi e taccheggi anche per la presenza di controlli politici e giudiziari efficaci): è difficile invece vedere come la Suprema Legge del Profitto possa essere migliore di una qualsiasi imposizione autoritaria (calata dall’alto) in regimi monopolistici o collusivi dove le forze economiche dominanti agiscono al di fuori di ogni controllo riconosciuto e autorevole.
Naturalmente, defezionando, almeno in (grossa) parte, la Mano Invisibile, è lecito oltre che molto comprensibile che i grandi capitalisti e i giornalisti ben pagati che scrivono sui loro giornali considerino dittature i regimi dove il potere politico pretende di sottomettere o controllare l’iniziativa privata a qualsiasi livello infrangendo l’unico concetto che per quelli è (paradossalmente!) capace di dare un senso concreto alla parola libertà; meno lecito e comprensibile e perfino contrario a un minimo di onestà intellettuale è che ritengano estremista o ignorante o addirittura populista il poveraccio o nullatenente che guarda con simpatia a quel tipo di regimi: a stretto rigore di logica dovrebbero considerarlo imbecille quando invece applaude estasiato davanti alla piena libertà creativa degli oligarchi economici.
Nei periodi di crisi, la legge ferrea dell’oligarchia attiva l’equazione utopistico uguale contrario agli interessi dell’oligarchia e quindi, negli ambiti di pertinenza di una singola oligarchia sostanziale non minacciata da moti di ribellione violenta, si constateranno irrigidimenti autoritari progressivi.
Relativamente ad aree di riferimenti e influenze più larghe, se le evoluzioni sistemiche determinano una spaccatura netta tra oligarchie con differenti interessi, il passaggio tra un sistema a un altro non avverrà attraverso prassi graduali e progettuali, ma con scarti repentini di varia gravità catastrofica, come è sempre avvenuto (finora) nel corso della storia umana.
Questa, signori cari, è scienza oppure follia, non pessimismo.
Per oligarchie che non hanno interesse a un Progetto di Stato Stazionario (il che può dipendere dalla somma degli interessi dei singoli più che da una reale convenienza sistemica) questa non deve essere scienza: deve essere follia.
Una reale convenienza oligarchica a qualche approssimativa imitazione di un Progetto di Stato Stazionario è più facile (ma forse qui mi sbaglio) che sorga nell’ambito di sistemi politici basati sostanzialmente su un partito unico, che in una bolgia politico-elettorale dove ogni partito deve prima di tutto far quadrare i suoi conti e non suscitare eccessivi allarmi da parte di chi dispone ampiamente di mezzi e capitali per condizionarne nei modi più vari e creativi l’azione sia interna che esterna.
Fortunatamente esistono Verità e Valori immarcescibili e civiltà che li incarnano.
Nella civiltà occidentale non si riscontrano più personalità mono-maniacali e maligne al 100% come Hitler e Putin, pure incarnazioni di natura diabolica, ma casi umani sempre molto variegati e di non facile definizione assiologica, i quali trovano sempre qualche legittimo estimatore, non fanno mai gridare allo scandalo escatologico e inducono perfino quesiti di sottile ed enigmatica pregnanza.
E’ meglio un sadico represso gravato da deturpanti traumi famigliari oppure un vitalista orgogliosamente e programmaticamente ignorante, prepotente e prevaricatore? E’ preferibile chi nutre un odio sottile e implacabile verso avversari di cui desidera esasperare e rendere emblematica l’ostilità o chi, grazie a una sorta di ispirazione che, per scherzo o per davvero, considera divina, disprezza sinceramente e appassionatamente i deboli che non desiderano rafforzarsi e li mette alla prova?
Forse i governanti diventano sempre peggiori perché peggiora la qualità degli elettori diventati sudditi o forse non ha mai avuto senso giudicare le persone di qualsiasi livello e importanza al di fuori di condizionamenti contestuali che agiscono nei modi più vari e più vasti possibili. Noi errepì, per esempio, siamo abituati a pensare al Sommo Anonimo come all’esempio più sublime di mente umana esistente, ma forse cogliamo una realtà incontestabile o forse stiamo volgarmente mettendo in atto l’esempio più subdolo e ingannevole di fake news immaginabile, quella usata da tutte le testate giornalistiche più celebri soprattutto se ossessionate dalle fake news, alludo a quella produzione di fake news che non mente e non dice mai il falso, piuttosto seleziona le informazioni e poi, secondo i casi e le convenienze, le sottolinea enfaticamente, le butta lì come cose qualsiasi oppure semplicemente le omette fino alla sparizione totale.
La crisi dei mutui sub-prime, nata e cresciuta negli Stati Uniti, ha evidenziato al massimo livello gli orrori delle de-regulation finanziarie e della sostituzione di una economia basata su beni concreti con le fantasmagorie delle quotazioni elettroniche gestite come in un videogioco planetario attraverso gli schermi controllati dalle iper-olo-oligarchie.
La crisi dei mutui sub-prime si è risolta con un potenziamento delle iper-olo-oligarchie americane a danno di quelle europee molto meno de-regolarizzate e con un generale e vertiginoso incremento generale dell’arbitrio economico rispetto al contenimento politico e statale.
Non avrebbe potuto essere altrimenti visto che si è affidata la soluzione dei problemi legati agli eccessi e agli arbitri economici non a una adeguata limitazione del ‘too big too fail’, bensì a un suo potenziamento in modo che il privato che detiene ricchezze puramente virtuali in quantitativi numerici paragonabili a quelli di uno stato non possa essere messo in crisi da collusioni esterne al cerchio magico di coloro che possono decidere, in combutta, ma praticamente da sé (visto la sostanziale identità di interessi strategici all’interno del cerchio), il destino e lo sviluppo delle proprie ricchezze: se questa non è la magica democrazia dell’occidente che ha inventato le magie del mercato economico, che cos’è?
Se un presidente statunitense consuma le proprie vendette personali strafregandosene dei danni che procurerà all’Europa (‘chi se ne fotte dell’Europa’ registrazione testuale di un suo braccio destro), il presidente suo acerrimo nemico non è così stupido da non trarre i dovuti insegnamenti dagli effetti positivi più o meno consapevolmente determinati dal perverso rivale, ovvero un considerevole aumento delle vendite di armi ed energia alla geniale Europa culla del mondo. E’ quindi ovvio che, visti gli effetti della propria genialità di subalterni, l’oligarchia di comando europea, anziché cercare una via di ritorno a vecchi equilibri molto più favorevoli, demonizza Putin e divide il mondo in atlantisti buoni e non atlantisti degeneri.
Per i popoli poco geniali della democraticissima Europa la stupidità dei propri oligarchi non è una buona notizia, ma purtroppo ne esiste una peggiore. Gli oligarchi europei non sono tanto stupidi quanto subalterni e opportunisti; se non fanno marcia indietro non è solo per stupidità o per non riconoscere la stupidità passata; ciò avviene soprattutto perché, tutto sommato, è più facile governare in un mondo di tensioni crescenti dove autoritarismi e contro-autoritarismi avviano concatenazioni e automatismi obbligati: questi, in genere, ridicolizzano ogni velleità democratica e quindi populista del democraticissimo autocrate in un mondo globale dalla complessità incontrollabile, mentre lo nobilitano con i crismi conferiti unicamente dall’abnegazione epica del fanatismo di parte.
La buona notizia per gli italiani è che al 6 marzo del 2025 Meloni rispetto a Macron appare un autentico genio, infatti punta all’energia nucleare e non al riarmo, mentre Macron punta al riarmo avendo il territorio disseminato di centrali nucleari: una bomba sufficientemente potente su ognuna (ma forse basta centrarne molto meno della metà) e addio Francia e zone vicine (tra cui l’Italia del nord e la sua densità industriale più elevata e inquinata del mondo).
Tutto quello che è accaduto nel mondo dopo che la perdente classe degli eletti kolibiani ha soffiato negli orecchi di tutti la necessità del Progetto di Stato Stazionario, può essere visto come una clamorosa conferma di quella necessità: questo è il motivo per cui i Kolibiani concordano con il mondo intero che il Progetto di Stato Stazionario è una pura utopia.
(R. Pallotta)
Prologo matematico
Dove è importante la sintesi e non una indispensabile precisione che chi vuole può recuperare successivamente anche riferendosi alle sezioni precedenti fino al 2022. Insistere su questioni irrisolte o risolte con dimostrazioni incredibilmente lunghe e complicate può denunciare ossessioni solo per chi non comprende come in questioni semplici quanto problematiche si possano annidare spunti filosofici di fondamentale generalità. Nelle prime fasi di qualsiasi Progetto veramente innovativo, una buona filosofia scientifica (perché di questo si tratta qui, in realtà, più che di matematica pura) diventa impositiva al fine di propiziare la scienza e la tecnologia più utili, come, d’altra parte, nelle fasi finali di un ciclo epocale, una buona scienza e una buona tecnologia possono rivelarsi addirittura dannose in presenza di impostazioni generali ormai scadute e deleterie.
Ultimo teorema di Fermat.
1) (R(L – M))n + (RL – (R – 1)M)n = ((R + 1)L – RM)n
2) (C/2 – D1)n + (C/2 + D2)n = Cn
Fissate particolari condizioni sulle variabili, la 1) e la 2) risultano equazioni impossibili.
La dimostrazione può essere ottenuta, come in quella famosa di Wiles, attraverso concatenazioni di concetti sofisticati o attraverso laboriosi calcoli ordinari.
Le concettualizzazioni elaborate traducono le complessità dei calcoli elementari e ordinari in sistemi di scatole nere dotate di ingressi e di uscite.
Una dimostrazione molto più semplice si ottiene in modo puramente logico debitamente considerando che
(KX + 1)n – (KX)n
non mantiene rapporti con K identici a quelli del differenziale della funzione continua (KX)n e quindi quelli che possiamo definire ‘integrali discreti’ di due diversi intervalli tra potenze dello stesso ordine non mantengono la proporzionalità in Kn.
La tradizionale analisi del continuo, tralasciando gli ‘infinitesimi superiori’ (un infinitesimo moltiplicato per almeno un altro infinitesimo), oblitera i caratteri fini delle accelerazioni acceleratamente accelerate, con prevedibili conseguenze sulla fedeltà di qualsiasi mimesi scientifica effettiva.
Scegliendo unità di misura sempre più fini, le differenze tra continuo e discreto dovrebbero assottigliarsi, in realtà crescono in valori dell’unità più fine secondo un polinomio di due gradi più basso, il che denuncia una incompatibilità strutturale e quindi l’esistenza di due matematiche diverse invece di una.
La soluzione dell’equazione differenziale che sintetizza la tipologia fenomenica per cui, in un certo istante, la velocità di accrescimento di una quantità è proporzionale alla quantità raggiunta nel medesimo istante
(dy/dt = ry)
ammette come soluzione una funzione esponenziale (ert).
Passando alla corrispondente equazione alle differenze finite
(yt+1 – yt) = ryt (t numero intero)
la soluzione esponenziale ert diventa (r+1)ty0, depotenziandosi (per così dire) ovvero passando da funzione esponenziale a funzione di potenza (considerando la variabile r e non t), in modo da abilitare fluttuazioni in relazione a variazioni di r rapportate a y.
Se, infatti, il coefficiente r, per tenere conto di limitazioni esterne che impediscono la crescita oltre certi valori, viene corretto da un parametro dipendente da y come nell’equazione logistica alle differenze finite
yt+1 – yt = r (1 – yt) yt (0 < y < 1)
si ottengono, fissate certe condizioni su r, le oscillazioni tipiche del cosiddetto caos deterministico.
Come dire: passate dal continuo al discreto, ponete condizioni molto realistiche di limitazioni reciproche allo svolgimento parallelo di fenomeni per cui vale la regola che tutto quello che cresce senza opposizioni e controlli tende inesorabilmente a crescere sempre di più e otterrete, invece di un mondo esaltato da fantascientifiche esplosioni pirotecniche, un mondo di frattali con esponenti frazionari minori di 3, un mondo, compatibile con parvenze di ordini e leggi locali, un mondo che, invece di assolutismi abbaglianti e fracassoni, modula continuamente complessità basate su invarianze di scala e passaggi, graduali o catastrofici, da un sistema di complessità a un altro.
Supponiamo di scrivere una serie di equazioni alle differenze finite che traducano equazioni differenziali di base (come quelle delle onde o della seconda legge della dinamica di Newton) adattandole a un sistema discreto di celle elementari organizzate secondo la scala di unità fondamentali di Planck: già a scale molto piccole rispetto a quelle della vita quotidiana ma enormi rispetto alle minime, un mondo così elementare genererebbe complessità assolutamente impossibili da decifrare per il cervello umano.
Potremmo anche pensare a una singola equazione alle differenze finite modulata secondo le quattro forze fondamentali attualmente note (la legge di gravità tra due celle potrebbe per esempio ridursi a una semplice eguaglianza tra l’accelerazione di una cella in direzione di un’altra e la massa di questa altra).
Non solo una fisica che scelga una opzione (il continuo) non coincide con la fisica che sceglie l’altra (il discreto): le due opzioni forniscono descrizioni della realtà completamente diverse.
Le supposte stranezze della meccanica quantistica o della cosiddetta teoria del caos derivano paradossalmente dalla insensibilità del pensiero scientifico ordinario verso le effettive stranezze dell’analisi matematica del continuo.
Una realtà discreta e una continua non sono affatto la stessa cosa, ma una realtà continua è antinomica nella misura in cui ammette che si possa arrivare alla fine dell’infinito.
Se una legge fisica, nel funzionamento di un pezzo di mondo effettivo o in una ideale simulazione al computer, non producesse effetti diversi assottigliando la scala, la scala ultima per cui ciò avviene fungerebbe da scala minima fondamentale.
Se ciò non avvenisse mai, come farebbe la legge fisica a produrre gli effetti che produce?
Che cosa determinerebbe il valore delle costanti presenti in ogni legge fisica (che dipendono dalla scala di riferimento prescelta)?
Se le considerazioni precedenti fossero solo filosofia e non scienza, che cosa distinguerebbe qualsiasi scienza da un tipo di tecnicismo puramente pragmatico, giulivamente dimentico delle cruciali restrizioni e deficienze umane?
Ovviamente occorre fare distinzione tra comprensione umana e ontologia universale.
Sostenere che qualcosa è comprensibile solo in un modo, non significa che quello sia il modo di quel qualcosa.
Significa però che parlare intorno a quel qualcosa senza usare quel modo, in termini puramente razionali (non pragmatici o darwiniani) non ha il minimo senso.
Nessuno, insomma, può dire che ‘Dio’ alla fine non coincida con Dio come nessuno può dire di comprendere come.
Ogni forma di fede individuale rientra tra opzioni assolutamente inattaccabili e indiscutibili come ogni forma di fede pubblica dovrebbe ragionevolmente attenersi a una sorta di silenzio mistico.
Teorema dei 4 colori.
Qualsiasi cartina bidimensionale, ridotta ai gruppi G(n,1)), si può facilmente colorare con quattro colori.
E’ sufficiente dimostrare che, introducendo un passo alla volta e nel dovuto ordine, una singola cella G(n,x > 1), esiste a ogni mossa una procedura di sistemazione, parziale e generale, che consente di non aggiungere altri colori.
Queste procedure richiedono elaborazioni non meno complicate di quelle della dimostrazione originale al computer o sono molto più semplici?
Forse, anziché considerare le distanze da una singola cellula, è più logicamente economico partire da uno strato semplice (ogni cella confinante al massimo con altre due) di celle confinanti con il vuoto esterno, quindi, operando sempre un passo alla volta, collegare una cella al lato interno di qualsiasi altra cella servendosi di solo quattro colori in generale e non più di tre solo nel caso che alla fine più di tre celle circondassero una cella finale.
Successivamente, basta dimostrare che la parte interna dello strato più esterno può essere resa compatibile con lo strato immediatamente più interno (lo strato delle celle confinanti con qualcuna delle celle del precedente strato) senza necessità di altri colori.
Congettura di Goldbach.
Si può fare intervenire in modo proficuo una valutazione probabilistica solo in presenza di un determinismo e in assenza di leggi generali, almeno di quelle ‘maneggevoli’.
Una legge di qualsiasi genere (maneggiabile o no, comprensibile dall’intelletto umano oppure no) valida per la totalità di un insieme infinito, nell’ambito della sua validità equipara quell’insieme infinito a una serie correlata di entità chiuse e limitate che si ripetono all’infinito.
Una legge disinnesca l’infinito e lo riduce a un processo iterativo.
Determinismi e leggi non sono affatto omologhi, nel senso che una legge rientra in un caso molto particolare di determinismo.
Una legge blocca la varietà creativa, un determinismo permette alla complessità di crescere indefinitamente senza risolversi interamente in caos.
Un determinismo senza legge, per quello che ne sappiamo, riguarda la distribuzione dei numeri primi nell’infinito potenziale dei numeri naturali e una valutazione probabilistica porta a considerare il concetto enigmatico di un numero finito di casi in una sequenza potenzialmente infinita e a confrontarlo con il concetto collegato di casi la cui separazione si dilata in misura potenzialmente infinita.
Un determinismo senza leggi riguarda anche la struttura di un universo interpretato come immane automa cellulare. Le leggi fisiche tradizionali richiedono le contraddizioni del continuo e sono quindi contraddittorie.
Le leggi fisiche non spiegano l’universo, mentre vale il contrario.
In un universo discreto, dove l’infinità attuale è una illusione fornita dall’estrema sottigliezza delle dimensioni basali, i parametri delle leggi fisiche si modificano nel tempo anche per l’arretramento degli orizzonti estremi collegato alle particolari e fondamentali condizioni iniziali.
In un universo discreto, i valori di singoli coefficienti sono importanti quanto i dinamismi processuali al punto che una distinzione sensata risulta problematica e perfino assurda.
Non si può dimostrare che la realtà consista effettivamente in ciò che si può comprendere, si può però concludere che l’universo è incomprensibile se non consiste in ciò che si può comprendere.
L’infinito attuale non si può comprendere e non è compatibile con la meccanica quantistica.
Ipotesi di Riemann
L’olomorfismo di un piano è perfettamente determinato dalle trasformate di Fourier delle varie frequenze lungo qualsiasi linea retta sottesa dalla superficie incurvata. Le trasformate di Fourier della linea di frequenze perfettamente allineate si possono collegare a una sequenza infinita di zeri su una retta particolare, ma non a una stessa sequenza iniziale di zeri che poi comincia a zigzagare o incurvarsi.
Teorema politico-matematico
La legge ferrea dell’oligarchia unita alla divaricazione inevitabile degli interessi e alla spontanea e creativa litigiosità degli umani (la specie più feroce e delinquenziale mai apparsa sulla faccia della Terra), nei periodi di generica prosperità porta a una suddivisione degli oligarchi (secondo la diversa strategia difensiva adottata nei confronti della massa prevalente dei sudditi, cioè dell’80% contro un 20% secondo una antica stima approssimativa e grossolana, che tende sempre più a esasperarsi dilatandosi) tra anti-ideologi (anti-socialisti) e anti-populisti (anti-materialisti). I primi intendono tenere a bada e regolamentare velleità e aspirazioni, i secondi gli istinti naturali di cosiddette masse che altro non sono che collezioni molto mobili ed estese di individui refrattari a qualsiasi modello troppo rigido, ma anche passibili di occasionali, concentrati (e pericolosi) sussulti olistici.
Consideriamo che:
a) La caduta tendenziale dei saggi di profitto ammazza la concorrenza sostituendo il mercato, in base alle stesse leggi di mercato, con oligopoli e monopoli sempre più in alto e lotte darwiniane per la sopravvivenza animale sempre più in basso, lasciando nel mezzo un vuoto punteggiato da anime sperdute, quasi sempre, almeno in linea di massima, idealisti-altruisti (proporzione non superiore a un 15%);
b) L’oggettività delle situazioni planetarie, sia climatico-ambientali che economiche, politiche e sociali, prospettano l’assoluta insostenibilità di quel consumismo diffuso su cui si è sempre basato l’assetto economico dei paesi occidentali, impossibilità constatata ormai da tutti tranne che dagli imbecilli senza virgolette (ovvero gli imbecilli autentici, non quelli che fingono di esserlo per raccogliere voti dalla miriade di scalcagnati che si credono per davvero il centro dell’universo (anche perché sono veramente ‘un’ centro di un universo capace di auto-riferimento, uno tra molti miliardi di altri non solo umani);
A seguito soprattutto di quanto espresso in a) e b), l’oligarchia attualmente si divide tra 1) fautori della riduzione del consumo voluttuario attraverso principi di selezione rigida che emarginino dalle correnti gerarchie i deboli, gli sfortunati, i dipendenti, i nemici combattivi e le partite IVA non sufficientemente ‘scafate’ oppure ribelli verso i desideri superiori di appaltatori e mandanti: e 2) promotori di una resa volontaria e incondizionata dei popoli per motivi etico-umanitari e dogmatismi di uno scientismo quasi religioso, i quali riservano in via esclusiva il proprio disincanto critico, inattaccabilmente realista, a partite IVA sempre più forzate e diffuse che, in larga parte, risultano troppo scafate e delinquenziali a seguito di necessità di pura sopravvivenza.
Notiamo di passaggio che, in un sistema elettorale che si rispetti ovvero in una ‘vera’ democrazia occidentale come Israele, le vittorie alle elezioni possono determinarle percentuali ridotte di veri imbecilli: basta che gli intelligenti normali seguano i propri interessi e questi, date le leggi di mercato e l’offerta limitata che deriva dalla legge ferrea dell’oligarchia, li dividano in schiere più o meno paritarie.
Quanto alla valutazione corretta dei propri interessi considerati in senso lato (qualità della vita in generale al di là del computo quantitativo dei beni economici), notiamo tra parentesi che questi non possono prescindere dalla natura specifica della persona a cui essi si riferiscono. D’altra parte le caratteristiche delle persone, per quanto se ne possa dare una definizione scientifica in termini psicologici o magari psichiatrici, fissata una base sufficientemente estesa quanto omogenea, manifestano distribuzioni statistiche analoghe a quelle riscontrabili per misurazioni puramente fisiche come peso o statura.
Per esempio, altruisti, egoisti e opportunisti, come eterosessuali, bisessuali e omosessuali (le due serie non manifestano alcun legame specifico) si presentano in percentuali abbastanza statiche e poco variabili da popolazione a popolazione e addirittura poco variabili, sembra, da una specie di mammifero all’altra, anche se ovviamente, per quanto riguarda le altre specie, dubbi e incertezze derivano dalla carenza di dati e per quanto riguarda la sola specie umana i problemi derivano dalle metodologie sempre in qualche misura opinabili di definizione e misurazione.
L’universo o è deterministico o è magico.
Il libero arbitrio per davvero e non per finta può esistere soltanto in un universo magico.
Negli attuali frangenti di declino, la spaccatura dell’oligarchia per indistricabili intrecci di interessi e culture si affianca a un’altra concomitanza almeno altrettanto preoccupante: la necessità di appellarsi a un veemente fanatismo per conseguire e mantenere un qualsiasi ruolo di rilievo o posizione di preminenza. Quando la qualità più indispensabile del vincente diventano vari tipi di fanatismo (quelli economici, per esempio non vivono mai da soli), qualsiasi congruità di corretta valutazione delle persone si squaglia e il genio universale per certi aspetti può addirittura coincidere con il perfetto cretino per altri.
Se questi sono i presenti chiari di luna, esisterà mai una qualche frazione dell’oligarchia decisionale incline a una ipotesi di Progetto? Si vedrà.
Per il momento mi limito a sottolineare che, per il Sommo Anonimo (che, benché sommo, era privo, non a caso, di peculiarità adatte a schierarsi in qualcuna delle divisioni in gran parte strumentali e artificiose dell’Oligarchia) assenza di Progetto significava estinzione o quasi estinzione in tempi molto rapidi (pochi, pochissimi secoli) della pessima (in quel caso) umanità.
In una solida democrazia occidentale, esattamente come nei regimi a partito unico, l’Oligarchia economica (l’unica che conta veramente) rimane sempre più meno compatta. Quando però i nodi cruciali del sistema non tengono più e intervengono causalità imperscrutabili e incontrollabili, la dittatura della maggioranza in cui consiste ogni autentica democrazia si spacca e costringe l’oligarchia a fare blocco con parti minoritarie diverse del blocco spaccato dei sudditi.
La società democratica tradizionale basata sulla prassi elettorale diventa un carrozzone farraginoso e disfunzionale che andrebbe rapidamente sostituito o con regimi a partito unico (che mantengono più facilmente le lotte interne tra oligarchi nell’ambito della disfida aristocratica evitando la guerra civile) o con un Progetto di Stato Stazionario.
DAGLI APPUNTI
I singoli appunti veloci sono stati selezionati, raccolti e riordinati in modo da ottenere sequenze che presentassero un minimo di coerenza tematica e discorsiva. A prescindere dagli sforzi compiuti in tale direzione, rimane aperta la possibilità di una lettura in parte arbitraria e casuale, che cominci cioè da un punto qualsiasi, prosegua per qualche frase e poi si riposizioni ripartendo da qualche altro punto.
Si sono cercati effetti come di una musica di sottofondo con bassi e rullii continui, strisciate sommesse dei fiati e pizzichi di corde, con acuti squilli improvvisi. Purtroppo o per fortuna, non esiste musica senza discontinuità, ripetizioni e abbandoni. Abbiamo pure inseguito una parvenza di esaustività, arrivando alla conclusione che ogni sintesi non risolve le complessità, ma le evidenzia e le dilata.
In musica, le ripetizioni, con varianti o meno, disciplinano il flusso complessivo.
Come dice il Sommo dei Sommi, la poesia non esiste in piccolo e se cerchi la grande poesia cerchi solo un grande fallimento.
Fisica e darwinismo sono due facce della stessa medaglia multidimensionale.
La base comune di fisica e darwinismo s’incentra su una sorta di enigmatica ineluttabilità mascherata, ovvero il determinismo assoluto e indecifrabile.
Ciò che non è deterministico è magico e più in là, in un’analisi degli elementi essenziali della cosiddetta realtà, le nostre facoltà di discernimento non possono spingersi.
Ciò che è deterministico e non magico non è compatibile con l’assurdità di un infinito attuale localmente circoscritto o, per meglio dire, se infinito attuale e locale e quindi quella compatibilità esistessero, l’uomo non potrebbe comprendere come.
Se Dio esiste, l’uomo non è in grado di comprenderlo per il semplice motivo che chi crede nella magia non può sapere in modo assoluto in che cosa effettivamente consista.
La fisica è matematica in atto su un substrato (l’essere in sé) che, ovviamente, in base alla logica più elementare, non è concepibile né definibile.
Se si intende la filosofia come ricerca, non di Grandi Valori o di Grandi Verità, bensì di Grandi Ovvietà, la filosofia diventa la premessa fondamentale di ogni discorso razionale e scientifico.
Senza discorsi razionali e scientifici ogni comunicazione è una commedia degli equivoci instaurata tra amici e nemici o tra buoni e cattivi che attribuiscono l’una o l’altra definizione a seconda della setta più o meno vasta a cui appartengono.
Morali ed etiche nascondono sempre delle quote di razzismo di parte se non sanno tradursi in regole di comportamento e convivenza onnipresenti e onnicomprensive.
Ciò che non può tradursi in legge di validità generale rimane soggetto all’arbitrio individuale e ai darwinismi di gruppo, di casta, di classe o di nazione.
Il darwinismo è la fisica, ovvero la matematica in atto, della biologia considerata al livello della fisiologia degli organismi.
Le dinamiche di gruppo all’interno di una specie rappresentano un ulteriore scarto in quei processi di auto-riferimento ontologico inaugurati dai primitivi microorganismi unicellulari o da qualsiasi fenomeno che potremmo definire ‘vita biologica’.
Le specifiche caratteristiche della specie homo s.s. (sesta estinzione o sapiens sapiens) hanno dilatato in modo iperbolico le conseguenze sistemiche della vita sociale annessa e connessa liberando una pirotecnica di livelli che nessun rappresentante della specie più intelligente del pianeta sa come dirimere o controllare a prescindere da quello che dice di sapere.
Il Progetto di Stato Stazionario rappresenterebbe una ipotesi di genere cautelativo e prudenziale che però richiede una limitazione drastica di quella che rappresenta attualmente l’unica forma di libertà accettata come tale, ovvero la libertà dei benestanti o aspiranti tali di coltivare i propri progetti o sogni di auto-affermazione.
Alle persone ‘libere’ secondo la curiosa interpretazione economicista del termine, il Progetto di Stato Stazionario non conviene.
Qualcosa che non conviene a chi conta secondo la legge ferrea dell’oligarchia viene definito ‘utopistico’.
Le persone più libere e geniali del mondo attualmente si trovano in Europa e sono quelli che pensavano di colonizzare la Russia grazie alla superiorità militare della Nato e invece stanno quasi raddoppiando i costi energetici comprando la materia prima dalla nazione il cui presidente li ha spinti all’impresa bellica per ragioni di vendetta personale (vedi campagna elettorale persa in precedenza).
Quando le persone più libere e geniali commettono esiziali errori strategici, non recitano un mea culpa e tornano sui propri passi; piuttosto demonizzano l’antagonista che ha infranto senza grossi meriti i loro balzani e sgangherati sogni di potenza.
I balzani e sgangherati sogni di potenza delle persone più libere e geniali del pianeta erano nati dalla resa di nazioni come Iraq o Serbia, dimenticando il piccolo particolare che a differenza di Santo Domingo, la Russia è la nazione con il territorio più grande del pianeta.
Le persone più libere e geniali del pianeta forse pensavano che la Russia, nonostante lo schieramento di armi nucleari più potente al mondo, usurpasse il territorio più vasto del pianeta millantando un titolo di potenza mondiale che il saggio Obama aveva già declassato a regionale.
Un mostro al comando di una potenza mondiale è pericolosissimo, però il capo di una potenza regionale non sarebbe diventato il mostro di una potenza mondiale senza i balzani e sgangherati sogni di potenza neo coloniale delle persone più libere, geniali e naturalmente buone del pianeta.
Quando può essere molto più difficile sopravvivere un anno da nullatenenti che guadagnare nello stesso periodo un milione di euro per chi già ne possiede molti altri, è difficile che le persone più importanti di un pianeta siano anche le più intelligenti.
Un tempo gli appartenenti a un’aristocrazia di comando, a causa dell’usanza di scambiarsi ovuli e semi all’interno di una cerchia dal patrimonio genetico ristretto, correvano il rischio di essere le persone più malate e rimbambite del pianeta.
La storia di quella specie quasi divina che è l’umanità pullula di conseguenze dovute a stordimenti (diciamo così) per ragioni genetiche e ambientali, ma fortunatamente quelli non dovrebbero rappresentare l’handicap principale degli aristocratici di oggi, anche se una eccessiva e socialmente immotivata potenza qualche effetto degenerativo in qualche mente dei supremi potrebbe produrlo.
In qualsiasi assetto economico, dinamiche intrinseche commisurano i guadagni (detratta la componente del lavoro umano adibito) alle complessità organizzative degli impianti generatori e ai quantitativi energetici impiegati.
Le enormi sperequazioni economiche ineluttabilmente innescate da economie sottratte a radicali riequilibri da parte dell’azione politica indicano che le classi elevate producono moltissimi più danni ambientali pro capite delle classi inferiori mentre la maggior parte del costo esistenziale ed economico dei danni grava su queste ultime.
La conservazione di strutturazioni sistemiche complicate comporta di per sé un assorbimento energetico adeguato.
I sistemi organizzativi (compresi quelli economici, politici e sociali) presentano gradi diversi di funzionalità e la funzionalità varia nel tempo.
Su un piano puramente razionale non esiste alcuna proprietà matematica esclusiva in grado di distinguere modelli pertinenti a fenomeni economici e sociali da modelli pertinenti alle dinamiche naturali.
Il passaggio da un sistema (economico, sociale, naturale o quello che è) a un sistema diverso può avvenire in modo graduale, brusco o catastrofico.
Il darwinismo include automaticamente nei propri schemi qualsiasi competizione relativa a risorse limitate indispensabili per la vita in quanto tale o per suoi particolari sviluppi.
L’economia non è che una forma particolare e specifica (meno generale) di darwinismo.
Il darwinismo è un lusso che l’umanità non può più permettersi
Gas serra, gas schermanti, particelle e pulviscolo si commisurano a variazioni di entropia caratteristiche di quel particolare strato planetario che chiamiamo atmosfera.
L’entropia in aumento sul pianeta Terra si commisura all’intensificazione progressiva di quel 100% in più (stima grossolana e per difetto) che l’umanità propina al pianeta in aggiunta al flusso che ha avvolto la biosfera per centinaia di milioni di anni senza variazioni quantitativamente paragonabili.
Gas serra, gas schermanti, particelle e pulviscolo si predispongono in quantità e rapporti che dipendono da leggi chimiche e fisiche in modo che interventi tecnologici umani li possono contenere e variare solo in misura limitata.
L’entropia sviluppata dagli eventi energetici cresce percentualmente rispetto a questi in relazione alle differenze di temperatura riscontrabili nel corso degli eventi medesimi (meno differenza, intesa come opportuno bilancio complessivo, più sviluppo relativo di entropia)
E’ ragionevole pensare che i gas serra del carbonio si connettano in modo stretto, indissolubile e irrimediabile ai ricambi di materiale organico che avvengono nell’unità di tempo su tutto il pianeta Terra.
Le principali fonti di ricambi organici che attualmente si trovano in azione sul pianeta sono riferibili alla produzione agricola e zootecnica.
Molto più grave è la distruzione del suolo naturale per imprese come la Pedemontana lombarda (che avviene in un territorio di quasi centomila chilometri quadrati che, a parità di estensione, risulta il luogo più inquinato del pianeta).
La distruzione del suolo naturale diffonde gas serra in contemporanea con l’abolizione della possibilità di assorbirli da parte della vegetazione.
L’incremento del suolo naturale rispetto a quello edificato rappresenterebbe l’unica seria e conseguente politica ambientale se si esclude la limitazione dei flussi energetici avviati dalle attività umane.
Le energie pulite e rinnovabili non esistono e comunque, a parità di flusso energetico, generano più entropia di tutte le altre forme.
L’entropia generata dalle fonti cosiddette pulite e rinnovabili non produce gas serra del carbonio, ma questi da che cosa vengono sostituiti nell’atmosfera?
L’entropia in più prodotta dalle fonti cosiddette pulite e rinnovabili può essere assorbita dalla vegetazione?
L’energia nucleare per uso civile fa salire la vulnerabilità delle nazioni ad attacchi militari al di là di qualsiasi volontà di colpirle in modo mirato.
Una cattiva gestione politica della tecnologia sofisticata rende una nazione debole in tempo di guerra e succube di altre in tempo di pace.
Solo un sistema globale di holding-nazione pienamente libere di instaurare accordi e alleanze con qualsiasi altra holding-nazione può dipanare la strisciante involuzione del potere tecnologico basato sul profitto, rappresentando un’alternativa efficace a una strategia della tensione tra sistemi dittatoriali o comunque autoritari dominanti.
I rafforzamenti militari delle singole nazioni aumentano i rischi di guerra tra di loro.
Ombrelli militari comuni sollecitano il rafforzamento delle nazioni esterne e l’aggressività di nazioni interne sempre tentate di depredarne altre in cambio del dono supremo della loro libertà e della loro democrazia.
Un ombrello militare comune che non porti in un modo o nell’altro a forsennate escalation militari e a rischi incontrollabili esige il progetto di un sistema di prevenzione globale.
Se utopia significa impossibilità di convivere senza rischi elevatissimi di guerra mondiale, realismo significa irrimediabile e definitiva imbecillità umana.
Se utopia significa impossibilità di convivere senza rischi elevatissimi di catastrofe ecologica, climatica e ambientale, realismo significa irrimediabile e definitiva imbecillità umana.
I rappresentanti più autorevoli dell’imbecillità umana non sono affatto imbecilli: sono ‘imbecilli’ ovvero atleti darwiniani.
Il darwinismo è un lusso che l’umanità non può più permettersi.
Gigantesche imprese di energia strategica e sofisticata delegate a interessi privati di fatto riducono qualsiasi effettiva possibilità di auto-determinazione democratica da parte di un astratto popolo di elettori.
Negli ultimi decenni tutte le grandi innovazioni tecnologiche hanno generato in occidente, per la complicità o l’inadempienza di amministratori versati soprattutto in comunicazione, propaganda e poco altro (o moltissimo altro, però inutile o perfino dannoso per la carriera intrapresa), una graduale e continua sostituzione della politica con l’economia.
Sensi e significati di una procedura si collegano in genere agli equilibri che quella è in grado di instaurare.
Nella realtà di qualsiasi mondo, gli equilibri stabili non esistono.
Un equilibrio è più stabile di un altro se dura una irrisoria frazione di tempo geologico in più.
La tecnologia non rispecchia la realtà: la simula.
Chiunque si dichiara fiducioso che il mondo tecnologico umano, perlomeno in una prospettiva di medio o lungo termine e persistendo gli attuali sistemi, saprà rispettare i requisiti minimi per evitare catastrofi di estensione planetaria è un ingenuo, un millantatore o un truffatore.
Le oligarchie partitiche europee ritengono che un popolo non sia in grado di capire il rapporto tra tecnologia umana e biosfera.
Un popolo ignorante possiede quello che le oligarchie non possiedono: l’intelligenza olistica.
Un’aristocrazia non possiede intelligenza olistica, non tanto per una questione numerica, quanto per il fatto di possedere una intelligenza aristocratica.
L’aristocratico medio è senz’altro più istruito del popolano medio, ma niente (ma proprio niente!) prova che sia più intuitivo né più intelligente.
Ci vuole più intelligenza e carattere a sopravvivere in condizioni difficili che ad arricchirsi partendo da una base di ricchezza già presente.
Il presidente degli Stati Uniti, paese che ha legittimato l’azione politica delle lobby private sotto l’assistenza costituzionale di Dio, è un individuo che ha simpatie e antipatie come ogni individuo del popolo.
All’ x + dx (percento), che ha eletto un presidente al posto di quell’ x e basta che sosteneva il rivale, piace vincere come all’x e basta, ma all’x + dx piace anche riconoscere una sconfitta se può imputarla all’x e basta e ai suoi capoccioni.
A una oligarchia partitica europea quasi unanime nell’appoggiare una guerra che pensava di vincere a man bassa, non può convenire il riconoscimento di una sconfitta non attribuibile ad altri.
Un presidente degli Stati Uniti, come il segretario di un partito unico, divide il mondo in amici e nemici: l’aristocrazia partitocratica europea lo divide in buoni e cattivi.
Una oligarchia partitica europea attribuisce la sconfitta che dissimula a quelli che semplicemente la constatano e anche, ovviamente, alla brutalità di un mondo insensibile verso quegli irrinunciabili valori ideali di cui la suddetta oligarchia si presenta come incarnazione e vessillo.
I valori ideali irrinunciabili permettono di sottoscrivere un accordo cruciale a titolo di garanti e poi defilarsi come se niente fosse da qualsiasi obbligo e impegno quando l’accordo viene bellamente infranto da filo-nazisti e CIA con l’avallo di un presidente che detesta uno dei contraenti semplicemente perché ha contribuito a fargli perdere una campagna elettorale.
I valori ideali irrinunciabili al punto che contestarli diventa crimine contro l’umanità stabilisce che un paese che attacca un altro paese merita una condanna senza se e senza ma, salvo quando a invadere un paese sovrano o a recingerlo di armi di offesa negli immediati confini è la Nato.
Secondo i valori ideali irrinunciabili di quel faro della civiltà mondiale che è l’Europa, un paese può essere invaso a patto che a farlo sia una santa alleanza di Paesi Buoni.
Secondo i valori ideali irrinunciabili di quel faro della civiltà mondiale che è l’Europa non conta se le aree invase siano abitate in maggioranza da una popolazione affine agli invasori e perseguitata dagli invasi.
I putiniani che spaccano il capello in quattro sarebbero perfino capaci di giustificare l’invasione nazista della Polonia, come ha sottolineato con la pungente ironia che lo contraddistingue un presidente buono e puro del paese che ospita un santo padre che purtroppo nella fattispecie ha ecceduto in putinianesimo.
Quando una società aristocratica arriva a decidere contro i più evidenti interessi popolari perseguendo millantati motivi ideali fino al punto di rischiare catastrofi, occorre decifrare l’importanza economica e strategica di quei motivi ideali, la loro furbizia o demenza a seconda degli esiti.
Un rischio di 1 su 10 di catastrofe (cifre buttate lì solo per dare una idea) può essere compensato da rischi relativamente minori per sé rispetto ad altri e da vantaggi di cento volte (se tutto va bene) per chi decide di rischiare la catastrofe.
Un rischio di 1 su 10 di catastrofe non può certo valere le risicate ricadute positive o addirittura gli effetti negativi che riguardano esclusivamente i popoli populisti.
Quando l’aristocrazia partitocratica europea sbaglia i suoi calcoli, non può addebitare le colpe a un’altra parte, come può fare un presidente USA nei confronti del predecessore dell’altra parte: deve lamentare una degenerazione dei valori supremi e accingersi di conseguenza a essere meno buona.
Essere meno buona da parte di qualsiasi aristocrazia, più o meno partitica, significa, in una buona sostanza sapientemente camuffata, essere costretta a limitare i diritti dei popoli a causa di errori economici e strategici intrapresi per ottenere 100 e rilasciarne almeno un 10% verso il basso.
Dividere il mondo in buoni e cattivi, anziché in amici e nemici, permette di presentarsi alla ribalta internazionale come meno buoni per ragioni di forza maggiore, non come nemici che diventano più nemici.
I poteri statunitensi più democratici si sono sempre presentati al mondo come buoni costretti da forza maggiore a essere meno buoni.
I poteri statunitensi meno democratici si sono preferibilmente presentati al mondo come amici che invitano l’amico a valutare correttamente la loro forza maggiore al fine di evitare di non essere più amico o addirittura nemico.
I poteri statunitensi più democratici hanno intrapreso guerre qui e là per il mondo più o meno come i poteri statunitensi meno democratici.
I cattivi secondo la valutazione dei buoni oligarchi europei rimangono abbastanza stabili, gli avversari secondo la valutazione dei supremi poteri statunitensi mostrano tipologie assegnate secondo i caratteri e gli interessi di poche persone (o addirittura una sola).
Amici e nemici dovrebbero variare nel giudizio delle persone perbene più di buoni o cattivi, in realtà variano nel tempo più o meno con la stessa rapidità.
Diventa sempre più difficile capire se il politico in evidenza è un furbacchione o uno stupido, mentre diventa sempre più facile capire se è un furbacchione o un idealista (l’idealista non vince).
Nessun politico in carriera può essere ingenuo.
L’ingenuità è stupidità pubblica e intelligenza privata.
L’ingenuo è un fesso apparente che, se si discrimina esclusivamente in base alla qualità della vita individuale, è meno fesso di quasi tutti i furbacchioni matricolati.
Quando l’unica possibilità di salvezza passa verosimilmente attraverso qualche progetto utopico, ovvero durante una crisi cruciale, gli uomini si affidano tanto più ai furbacchioni quanto più dovrebbero affidarsi agli idealisti ingenui.
In un sistema funzionale il politico scrupoloso e intelligente è anche vincente, in un sistema in decadenza…. mah!
Il darwinismo è un lusso che l’umanità non può più permettersi.
Una classe dirigente dove i furbacchioni sono probabilmente più numerosi degli stupidi non è certo migliore di una classe dirigente equamente divisa tra furbacchioni e ingenui, ma di sicuro è più stabile e coesa.
Considerando che in fondo, per la mentalità popolare dominante, la stupidità non patologica coincide con un eccesso di semplicità, l’alternativa tra furbizia e stupidità può facilmente vendersi in campagna elettorale come una sintesi tra buon senso e sommarietà decisionale.
Chi attribuisce i difetti di una oligarchia, non a una oligarchia in quanto tale, ma alle ineluttabilità di un sistema, propende per un cambio di sistema e si rivela, secondo l’oligarchia, un pessimista utopico.
Chi attribuisce i difetti di una oligarchia a un cattivo assortimento di oligarchi improvvidamente selezionati per rigurgiti populisti da un serbatoio umano di qualità sensibilmente superiore, si sintonizza con l’intimo narcisismo positivo del tipico aristocratico, rivelandosi un ottimista dalla tempra concretamente determinata.
Una competizione relativamente uniforme e diffusa, con rischi di fallimento abbastanza condivisi, innesca i classici automatismi più o meno liberali sottintesi dalla famosa metafora della Mano Invisibile.
La stratificazione dei regimi concorrenziali, con trasformazione almeno parziale della concorrenza, da un certo livello a salire, in collusioni impositive che sfruttano esasperazioni della concorrenza su livelli più deboli, si manifesta conseguenza inevitabile delle dinamiche competitive originarie.
Più le competizioni, dilatandosi orizzontalmente, si raccolgono in ascese verticali delle aree di privilegio secondo distribuzioni canoniche dette ‘scale free’, più le competizioni si intensificano mal sopportando qualsiasi tipo di regolamentazione esterna a un economicismo sempre più paranoide e febbrile.
La velocità di crescita delle competizioni globali strutturate secondo i vari livelli di potere e d’importanza risulta almeno proporzionale rispetto al quantitativo di competizione presente.
Equazioni differenziali in cui la velocità di crescita in un punto è proporzionale al valore della funzione in quel punto sono risolvibili mediante funzioni esponenziali.
In presenza di limiti insuperabili delle condizioni al contorno come per esempio un quantitativo limitato di risorse vitali o fragilità ambientali di tipo ecologico o climatico o socio-politico, i vincoli opposti alle dilatazioni esponenziali portano alle fluttuazioni tipiche del caos deterministico evidenziate già a livello molto elementare dall’equazione logistica alle differenze finite.
I regimi di concorrenza, su cui si sono basati in passato gli effetti di raffinamento tecnico, tecnologico e quindi esistenziale della famosa Mano Invisibile, sono un lusso che l’umanità non può più permettersi.
I sostenitori della competizione come humus vitale delle società basate sull’economia produttiva possono vantare tutte le ragioni del mondo se il mondo umano consiste in una specie di oasi soprannaturale retta da poteri magici effettivi.
I grandi tecnologi che reggono i destini dell’umanità fanno benissimo a raccogliersi ritualmente in umili e devote orazioni prima dell’inizio di ogni riunione.
Essi sanno che il loro potere dipende da Dio sia che Dio esista realmente sia che una parte decisiva degli elettori creda che esista.
Nessun massimo potere può fare ormai a meno di Dio (ovvero della magia soprannaturale), dato che ogni massimo potere si confronta almeno con ‘Dio’.
La Costituzione nazionale degli Stati Uniti (lo stato più effettivamente integralista e per niente aristocratico del pianeta) si basa espressamente su tutele e benevolenze divine senza le quali un liberalismo puramente economico (e non culturale né esistenziale né, il che è veramente paradossale, individualista nel senso più comprensivo e profondo del termine) risulterebbe una opzione assolutamente velleitaria e scriteriata.
La cultura statunitense genuinamente democratica e concretamente contestataria si è sempre nutrita di autentici e robusti individualismi.
L’individualismo americano è sempre stato tacciato di astratto ribellismo da parte della sussiegosa sinistra europea, ma ha permesso infiltrazioni di un effettivo sentimento democratico anche in strutture di potere burocratico che ne sembrerebbero immuni per definizione.
L’altra faccia della medaglia traspare se pensiamo che l’individualismo degli autocrati si può facilmente macchiare di intrusioni nevrotiche e psicopatologie debilitanti.
‘Dio’ non permette di stabilire con la necessaria approssimazione l’inizio del crollo totale e quindi, dato che l’attuale cultura dominante dei massimi poteri non consente di rivolgersi a un Progetto di Stato Stazionario Mondiale come a qualcosa di conveniente, i massimi poteri fingono che il crollo sia lontano grazie all’assistenza di Dio.
Un Progetto di Stato Stazionario Mondiale (forse, non lo so) potrebbe essere lontano dalle raffinate ‘visioni’ elitarie dei ‘democratici’ statunitensi più che dai concetti volgari o brutali di lotta per la sopravvivenza o la sopraffazione ai quali si riduce la visione filosofica delle destre americane.
Nell’attuale sistema, il realista di destra finisce per concludere che un volgare compromesso è meglio di una vittoria impossibile, il realista di sinistra si concentra sui mezzi pratici in grado di difendere strenuamente astrazioni senza le quali non avrebbe senso dichiararsi astrattamente di sinistra.
Quando un idealista di sinistra diventa realista, un cadente idealismo di facciata nasconde (male) il calcolo di edulcorati interessi.
In un sistema politico in cui il socialismo è pura utopia sarebbe meglio un partito unico (di destra con virgolette o sinistra con virgolette) che più partiti i quali, messi alle strette, sono obbligati a fare le stesse cose.
Il crollo non può essere molto lontano se l’accelerazione imposta ai processi sia storici che naturali procede in modo esponenziale.
Solo sistemi magici e divini sopportano accelerazioni di tipo esponenziale.
Poiché la trascendente complessità dell’universo in generale e del pianeta Terra in particolare non consente di definire entità e limiti delle diverse accelerazioni non lineari e dei relativi effetti soglia, l’unica strategia valida consisterebbe nel rispettare determinati limiti di probabilità secondo parametri commisurati alla gravità degli eventi.
Prima che subentrassero gli analfabetismi tecnologizzati di chi schiaccia bottoni ottenendo meraviglie, anche in settori delle discipline umaniste è andata per qualche tempo di moda una branca della topologia denominata teoria delle catastrofi.
Feynman si lamentava che proprio i suoi allievi più bravi a maneggiare formule e a intuire e definire soluzioni di tipo meccanico risultassero completamenti inetti rispetto a una comprensione effettiva dei fenomeni fisici intesi come fatti di un mondo reale da cui non si può prescindere.
Chi, come un tecno-teocrate che dispone di incredibili ricchezze, si crede un mago e dispone di qualche riscontro effettivo che gli fornisce qualche sostegno in merito, non dispone certo di molte motivazioni per vedere dietro formule o ingegnosi giocattoli un mondo reale più potente di lui (ovvero ‘Dio’) e per quanto concerne invece Dio, quello è un mago più potente di lui, certo, il quale però, se non gli volesse molto bene, non lo avrebbe fatto arrivare là dove si trova.
Qualcuno che si vanti di possedere i benefici e i meriti che possiede (ricchezza, intelligenza, bellezza, coraggio eccetera) dovrebbe potersi anche vantare di essere capace di attribuirsi i benefici e i meriti che possiede, ma allora inaugurerebbe la classica regressione all’infinito.
Uno che si sente libero di realizzare quello che vuole, dovrebbe anche sentirsi libero di volere quello che vuole, ma allora inaugurerebbe la classica regressione all’infinito.
Le regressioni all’infinito si interrompono solo attraverso l’atto di arrendersi umilmente e definitivamente davanti alla semplice esistenza in quanto tale.
Chi crede in ‘Dio’, ovvero in un Dio che il cervello umano è impossibilitato a comprendere, pensa che ogni miliardario si trova dove si trova per una serie di estrazioni a sorte dell’automa universale che ha realizzato a suo favore una tra le miliardi di miliardi di distribuzioni ‘scale free’ presenti nel medesimo universo.
Secondo i fedeli di ‘Dio’, nessuno può prevedere o comprendere quando, come e perché qualcuno può guadagnare o perdere il favore di ‘Dio’.
‘Dio’ è semplicemente Dio epurato da ogni darwiniano elemento di magia propiziatoria.
‘Dio’ ci sta dicendo che il darwinismo è un lusso che l’umanità non può più concedersi.
Ogni sostenitore entusiasta delle competizioni oggi si rivela un ‘imbecille’ (notate le importantissime virgolette) ovvero un atleta darwiniano.
Oggi l’umanità non si può più permettere di vincere alla ruota della fortuna darwiniana.
Per uno sciatore che gareggia in discesa libera un rischio dell’uno su mille di rompersi una gamba può essere accettabile, ma per un politico lo stesso rischio riferito a una guerra atomica dovrebbe sembrare intollerabile.
Qualsiasi ambito antropologico sufficientemente vasto riproduce gli schemi strutturali dei vari mondi biologici secondo le dinamiche pertinenti a un substrato assolutamente non concepibile in sé e indirettamente indagabile solo attraverso risultanze di tipo scientifico.
Invarianze di scala e leggi di potenza non potrebbero verificarsi con implacabile frequenza nei fenomeni statistici provocati dalle attività umane senza alcuna forma di intenzionalità relativa, se certi automatismi applicabili solo a entità di base di uno spaziotempo discreto non governassero in modo assoluto tutto quello che accade.
Se tutto ciò che rientra in un orizzonte degli eventi determinato dalla velocità della luce risulta fisicamente collegato, in uno spazio tridimensionale solo una dimensione frattale dei fenomeni inferiore a 3 e quindi una densità asintotica nulla può verosimilmente accordarsi con una parvenza di leggi locali in una fase determinata dell’evoluzione o involuzione universale.
I luoghi comuni e le sottaciute premesse che l’uomo qualunque è condizionato ad adottare in base ai costumi antropologici e culturali approvati e vigenti risentono di una metafisica retta in buona parte da pura magia mascherata.
Da un punto di vista pragmatico, la funzionalità dei prodotti culturali si lega agli effetti sulle dinamiche sociali e non alla corrispondenza delle varie affermazioni rispetto a realtà non sociali.
Che nelle società umane propagande ideologiche e pubblicità commerciali risultino enormemente più influenti di una qualsiasi filosofia sta diventando sempre più esiziale ogni giorno che passa.
Che nel mondo globalizzato idealità e ideologizzazioni di destra o di sinistra risultino più determinanti di una buona filosofia scientifica rappresenta un rintronamento operativo incoraggiato da compagini di intellettuali organici il cui ruolo è ormai scaduto a prescindere dal colore.
E’ impossibile, a meno di non essere rimbambiti, approvare una guerra con centinaia di migliaia di morti e conseguenze nefaste sull’economia nazionale, se non si ritiene che la propria squadra del cuore vincerà a man bassa.
Vista la malaparata, chi ha sponsorizzato una guerra con centinaia di migliaia di morti e conseguenze economiche nefaste è costretto a salvare la faccia accampando ragioni ideali.
Quando una classe intellettuale di ‘buoni’ e di ‘giusti’ che approva una guerra sostiene che contravvenire alle ragioni ideali che la rendono giusta sarebbe ‘crimine contro l’umanità’, forse tutta una classe intellettuale di ‘buoni’ e di ‘giusti’ si sta macchiando di crimini contro l’intelligenza.
In un mondo globalizzato i crimini contro l’intelligenza delle persone che contano potrebbero portare a conseguenze molto più devastanti di qualsiasi crimine contro l’umanità.
E’ più difficile concordare sui crimini contro l’intelligenza che sui crimini contro l’umanità.
Se prima delle due guerre mondiali del secolo scorso non fossero stati commessi crimini contro l’intelligenza da parte dei vincitori e dei perdenti di prima e di dopo, molti crimini contro l’umanità, come lo psicopatico sterminio degli ebrei o le molto razionali tempeste di fuoco (riuscite o meno) o le iper-razionali bombe atomiche sganciate come test sul Giappone, non sarebbero avvenuti.
In ogni guerra vincenti e perdenti commettono ‘crimini contro l’umanità’ e alla fine della guerra quelli dei vincenti scompaiono.
Forse, definire la Pedemontana Lombarda un crimine contro l’umanità è un tantino eccessivo, se però si considera che lo scempio avviene nella zona più inquinata del mondo (a parità di estensione) qualche dubbio subentra.
Che i fautori delle energie ‘pulite e rinnovabili’ non dicano niente contro la Pedemontana Lombarda fa venire il sospetto che ogni ambientalismo è morto se non si aggrappa a qualche lobby economica.
Ai ‘veri democratici’ sembra interessare soprattutto se girano e (in subordine) come girano i soldi, mentre di certe salvaguardie assolutamente strategiche non importa un fico a nessuno a meno che egli non sia direttamente interessato.
Naturalmente se i soldi girano con la scusa di una Olimpiade il consenso si espande ancora di più a prescindere dal fatto che tutte le Olimpiadi di qualsiasi paese del mondo si sono risolte in perdite economiche pagate in un modo o nell’altro da cittadini comunque personalmente onorati e glorificati dall’ospitare il grandioso evento.
Una mancata comprensione dell’insorgere di complessità potenzialmente illimitate da semplici meccanismi di base equivale alla mancata comprensione di tutto.
Niente e nessuno è abbastanza complesso per comprendere effettivamente come un qualsiasi universo proceda dalla semplicità locale dei meccanismi di base a una proliferante creatività complessiva.
Se i meccanismi locali non fossero semplici, la sostanza della nostra incomprensione si modificherebbe di poco o di niente.
Se i meccanismi non fossero locali in un senso molto ‘stretto’, un cervello come il nostro sarebbe definitivamente impossibilitato a comprenderli.
Se il valore e la sostanza dei meccanismi fosse generale e immediatamente intuibile, la incredibile ricchezza degli eventi sarebbe illusione.
Se le vite avessero un senso, il senso varrebbe più delle vite.
Un senso che avesse senso dovrebbe corrispondere a una sorta di climax orgasmico eterno e ovviamente spirituale.
Una frase poetica dice troppo, una frase scientifica troppo poco.
Il minimalismo scientifico è una forma auto-terapeutica di megalomania incontenibile
L’enfasi poetica è una forma espressiva di suicidio assistito.
Less is more, less is bore.
Motivazioni psicologiche individuali ed esigenze di legittimazione dei poteri convergono spesso verso soluzioni affini o sovrapposte.
Motivazioni psicologiche individuali ed esigenze di legittimazione dei poteri portano a dissimulare incomprensioni croniche e basilari attraverso creazioni mentali di pura fantasia.
Pretendere di capire Dio o ‘Dio’ quando non si potrà mai capire con i dovuti dettagli come il semplice diventa complesso in un automa cellulare o in una rete neurale sarebbe bestemmia, se le bestemmie esistessero.
Una definizione non enfatica e millantata di ‘intelligenza artificiale’ dovrebbe limitarsi alle procedure che avviano processi di selezione e stabilizzazione il cui adempimento effettivo non può essere predetto né controllato e nemmeno compreso dai programmatori che li impiantano con i dovuti accorgimenti informatici.
Una corretta definizione di ‘intelligenza artificiale’ toglierebbe ogni illusione circa la padronanza del mondo e del futuro che le eminenze tecnologiche in auge proclamano di possedere.
Pretendere di capire che cosa significa la parola ‘Dio’ denuncia semplicemente la megalomania assurda e irrazionale che ogni soggettività umana cova come un tarlo invincibile.
L’incredibile megalomania umana e la sua vocazione magica si rivelerebbero molto meno dannose se avessero almeno l’acume sufficiente a sospettare o ritenere almeno possibile che il pianeta non sopporti più la specie umana e quindi Dio o ‘Dio’ non sopportino più la specie umana
Cooperazioni e solidarietà sono strumenti darwiniani quanto gli egoismi.
I fallimenti sono darwiniani quanto i successi.
La legge ferrea dell’oligarchia ci assicura che, a prescindere da ogni destino individuale, acquista rilevanza pubblica solo il comportamento di una porzione minoritaria della popolazione.
Quando un individuo di qualsiasi classe o ceto emerge, entra nell’oligarchia.
L’individuo che non si adatta alle regole e ai comportamenti di una oligarchia geograficamente e storicamente determinata, come personaggio pubblico scompare.
I dirigenti di qualsiasi gruppo socialmente rilevante, non appartengono al gruppo, ma all’oligarchia.
Un Progetto di Stato Stazionario rimane utopistico finché contravviene, non agli interessi di una oligarchia, ma a ciò che una oligarchia storicamente e geograficamente determinata considera i propri interessi.
I comportamenti effettivi di una popolazione non contano: contano le interpretazioni e le manipolazioni che le varie parti di una oligarchia decidono di trarne.
La legge ferrea dell’oligarchia è un principio darwiniano.
Il darwinismo, inteso come ‘egoismo dei geni’, è una Grande Ovvietà.
Solo ciò che è ontologico non è darwiniano.
Le Grandi Ovvietà si possono ridurre a teoremi logici.
La logica è ontologica.
Credere nei valori eterni è darwiniano.
I valori eterni semplificano le funzioni di comando.
Una logica non semplifica: comprende nel senso di raccogliere e collegare.
I valori eterni esistono di per sé, quindi sono inconcepibili.
Per una mente pensante l’esistenza in sé realizza una contraddizione.
Per una mente pensante la propria esistenza assoluta realizza una contraddizione.
La semplice esistenza, intesa come attributo e non come premessa senza condizioni, realizza una contraddizione.
L’esistenza di qualcosa implica la differenza di quel qualcosa rispetto a tutto il resto.
Un qualcosa non esiste senza il resto.
Per chi ritiene che il pensiero (l’anima) preceda l’esistenza e la logica, tutto diventa possibile.
La realtà nasce dall’esistenza e dalla logica intese come premesse assolute del pensiero.
Quando la realtà ordinaria diventa un attributo conferito dall’anima umana, le magie divine prendono il posto della realtà.
La realtà non favorisce i poteri che necessitano di consacrazioni.
La realtà è Dio o ‘Dio’ in modo che nessuna realtà parziale possa farsene interprete.
Le uniche possibilità concesse al cervello dell’uomo di rispettare e onorare Dio o ‘Dio’ esigono semplificazioni consapevoli come quelle scientifiche.
La tecnologia della tecno-teocrazia non semplifica: complica.
La divinità per i massimi poteri è quello che essi rappresentano.
I massimi poteri semplificano il proprio ruolo complicando la realtà.
Complicare gli annessi e connessi della presenza umana sul pianeta significa richiamare una catastrofe senza possibilità di controllo.
I massimi poteri tecnologici possono semplificare la presenza umana sul pianeta solo attraverso vincoli dittatoriali.
Progetto di Stato Stazionario o Dittatura più o meno spietata rappresentano la sola alternativa realistica a medio o lungo termine.
Nella pratica, le organizzazioni politiche effettive tenteranno di avvicinarsi all’uno o all’altro estremo del dilemma tra Progetto e Dittatura.
Le politiche professionali e le culture ortodosse detestano le ovvietà e soprattutto le Grandi Ovvietà.
La sinistra è ipocrita quanto umanitaria.
La destra è calcolatrice quanto religiosa.
La destra divide il mondo politico-economico in amici e nemici, la sinistra in buoni e cattivi.
Un nemico può essere rispettato e perfino ammirato, essere ‘buoni’ comporta limiti che non si possono eccedere.
La religiosità di destra demonizza i nemici, il classismo di sinistra induce un disprezzo razzista verso i ‘cattivi’.
L’intuizione olistica di un popolo si confronta sempre, più o meno nebulosamente, con il dilemma se essere amici ‘populisti’ della destra o allievi ‘buoni’ benevolmente tollerati dalla sinistra.
Il Progetto di Stato Stazionario non può essere considerato da un popolo semplicemente perché non rientra tra il limitato novero di opzioni politiche la cui offerta proviene dall’alto.
Le radicalizzazioni contro il nemico portano a eccessi razzisti e degenerazioni psicopatiche.
Il razzismo classista richiama legittimazioni attraverso principi inviolabili.
La sicurezza di vincere si nasconde sempre dietro principi inviolabili.
I valori eterni e inviolabili non resistono alle sconfitte.
A sinistra la legge ferrea dell’oligarchia gioca in prevalenza la carta della superiorità intellettuale, a destra quella della vitalità soverchiante.
Ogni religione è una forma di vitalità animale che sprona i piani alti attraverso sublimità epiche e i piani bassi con speranzose infatuazioni.
L’umanità è la specie animale dominante del pianeta.
Il dominio del pianeta da parte dell’umanità sta determinando la sesta estinzione globale di forme biologiche, la più devastante e rapinosa in assoluto.
Il darwinismo è un lusso che l’umanità non può più concedersi.
Ogni religione è un darwinismo di lusso.
Quando il sostegno politico-sociale è favorito da una fase prospera, l’oligarchia legifera per limitare l’autodeterminazione della parte numericamente preponderante.
Quando il sostegno politico-sociale è compromesso da crisi sistemiche, la destra chiama a raccolta le maggioranze relative contro le minoranze deboli, legiferando per calmierare i pericoli.
Quando le cose vanno bene, la democrazia è puramente sistemica e gli intellettuali possono dedicarsi ai loro raffinati ricami.
Quando le cose vanno male, la democrazia dipende da quei rischi effettivi di sollevazione popolare che un intellettuale non può guardare spassionatamente e senza diffidenze.
Quando le cose vanno male, lo scetticismo verso l’opportunità o la possibilità di una sollevazione popolare porta a considerare l’autoritarismo alla stregua di una semplificazione realisticamente dirimente.
Per la legge ferrea dell’oligarchia, finché una porzione sufficientemente vasta della popolazione considera l’autoritarismo come il minore dei mali, la vincente cultura darwiniana di sinistra si accomoda nel prestigioso isolamento di una superiorità aristocratica.
Il centro amministra un sistema e quando amministrano un sistema destra e sinistra si ritrovano al centro.
Dove e quando un sistema funziona, buoni amministratori sono preferibili ai riformisti.
Dove e quando un sistema fa cilecca, i riformisti sono preferibili ai buoni amministratori.
Ogni conservatorismo è una specie di riformismo e ogni riformismo una specie di conservatorismo: dipende da come si sviluppano le cose.
La bontà di una politica non la decidono i politici né gli elettori.
La bontà di una politica la decide il sistema.
Le idealità servono o non servono, sono utili, nocive o indifferenti.
La pornografia è l’erotismo degli altri (Kraus)
Il peccato è la religiosità degli altri.
Le idealità sono sovrastrutture in senso marxiano e quindi strumenti darwiniani.
Laddove non è ovvietà, il marxismo è fantasia.
Laddove non è ovvietà, ogni teoria è fantasiosa.
Due teorie avverse che si confrontano minimizzano l’una le ovvietà dell’altra, ma soprattutto tacitano le ovvietà segretamente condivise.
Ciò che non può essere validamente descritto non può essere compreso.
Pensare di poter descrivere Dio in modo efficace è una specie di bestemmia.
Non esistono due volti uguali sulla faccia della terra.
Nessun essere umano è abbastanza simile a un altro.
Esistono molte persone che dicono di credere in Dio, ma non esistono due persone sulla faccia della Terra che credano allo stesso Dio.
La matematica, come la realtà, è un intreccio complicato di ovvietà.
L’impressione della supposta grandezza dello spirito umano nasce dallo smarrimento davanti alla trascendente complessità del mondo.
Reprimendo gli smarrimenti e tramutando le complessità in divinità da adorare, l’impotenza si tramuta in speranza.
Le speranze modificano gli atteggiamenti davanti alla realtà.
In un mondo umano gli atteggiamenti davanti alle realtà possono contare almeno quanto le realtà.
In un mondo extra-umano e sovra-umano, conta solo la realtà.
Se la realtà viene divinizzata, l’anima umana conta almeno quanto la realtà.
Quanto possa essere utile la divinizzazione della realtà dipende dalla realtà di Dio o di ‘Dio’.
Se un Progetto di Stato Stazionario è utopistico e la realtà esiste, la catastrofe è molto probabile.
Per valutare correttamente quanto la probabilità di una catastrofe umana sia tollerabile, occorre considerare a) la sua gravità; b) i fattori imprevedibili e incontrollabili delle dinamiche implicate; c) le vertiginose accelerazioni impresse dall’umanità ai normali processi naturali e geologici.
Le attuali probabilità di cataclismi climatici risultano oggettivamente elevatissime.
Una probabilità di escursione termica di 5 gradi a fine secolo implica probabilità molto più alte di cataclismi riguardanti qualche miliardo di persone.
Naturalmente una persona alla quale, per i motivi più vari, fosse credibilmente predetta una probabilità di morte del 40% entro la sera stessa nel caso uscisse di casa, può uscire di casa e rientrare la sera vivo e vegeto sfruttando la probabilità a favore.
L’amministrazione comunale che riceve dai tecnici una previsione del 10% di rischio per una catastrofe conseguente a una coincidenza molto particolare che poi viene meno, ha più probabilità di ottenere consenso non facendo assolutamente nulla che diramando ordini di evacuazione o altri provvedimenti turbativi del normale tran tran.
Perché il calcolo delle probabilità abbia senso, deve esistere qualche forma di legge deterministica o di determinismo con leggi variabili.
Relativamente alla casualità assoluta o al caos assoluto (che ‘probabilmente’ non esistono) qualsiasi calcolo delle probabilità non ha senso.
Le qualifiche indispensabili a emergere e distinguersi all’interno di una classe politica e più generalmente dirigenziale non garantiscono affatto una migliore predisposizione a focalizzare e contenere le incombenze più pericolose e cruciali.
L’esistenza o meno di incompatibilità essenziali e irreparabili tra sviluppo economico delle società umane ed esigenze cardinali delle strutture planetarie non può essere ammesso dal pensiero che domina in virtù della legge ferrea dell’oligarchia.
L’esistenza o meno di incompatibilità essenziali e irreparabili tra sviluppo economico delle società umane ed esigenze cardinali delle strutture planetarie non ricade nella discrezionalità del pensiero che domina in virtù della legge ferrea dell’oligarchia.
L’esistenza di Dio o di ‘Dio’ al di fuori della divinizzata umanità, dovrebbe introdurre tra gli interessi basilari di una oligarchia dirigenziale una radicale riforma degli automatismi intrinsechi alla legge ferrea dell’oligarchia.
Se una certa umanità stia diventando o sia diventata intollerabile per la biosfera di cui è parte, non lo decidono una certa filosofia o una certa religione.
Le sorti dell’umanità le decidono Dio o ‘Dio’.
Di sicuro fa molta differenza se Dio, in realtà, è ‘Dio’.
Se Dio esiste senza le virgolette e non sopporta il disprezzo che l’umanità nel suo complesso manifesta verso le creazioni di Dio esclusa se stessa, forse sarebbe meglio per l’umanità che Dio fosse in realtà ‘Dio’.
Nessuna religione, a parte quelle orientali, prevede che il proprio Dio possa provare verso la specie umana quella stessa indifferenza o fastidio che invece mostra di manifestare verso le specie animali saccheggiate dalla sesta estinzione (una estinzione globale molto più rapida delle altre)
Nessuna classe politica sinceramente democratica (per quanto ne possano esistere compatibilmente con la legge ferrea dell’oligarchia) riuscirà mai a imporre le riforme draconiane necessarie a stabilire un’armonia sufficiente tra esigenze economiche umane ed equilibri ecologici e ambientali.
Una classe politica, che sia democratica o autoritaria, dovrebbe razionalmente affrontare i problemi climatici partendo da un Progetto di Riforma radicale (ma sarebbe meglio dire Rivoluzione).
I Progetti di soluzione efficaci per curare il cancro che attualmente l’umanità rappresenta nei confronti del pianeta si qualificheranno esclusivamente in base ai livelli di pertinenza razionale eventualmente posseduti.
Domanda cruciale: come può una razionalità di natura ineluttabilmente scientifica venire a patti con la sostanziale irrazionalità manifestata dalla specie umana lungo tutti i decorsi storici e nella cronaca quotidiana?
Per la legge ferrea dell’oligarchia, la sostanziale e onnipresente stupidità umana non è il frutto di un presunto populismo (pervaso, al contrario, da razionalità olistica), ma della stupidità oligarchica costretta a guadagnarsi i rassegnati e disincantati consensi popolari nei confronti di un’offerta politica gravemente limitata da questioni ineluttabili d’interesse elitario.
La stupidità oligarchica agisce in senso globale e consuntivo giovandosi di varie punte di genialità specialistica come quelle, per esempio, che riguardano i pirotecnici virtuosismi tecnologici.
Non esistono soluzioni tecnologiche dei problemi ecologici e ambientali in presenza di un flusso energetico che cresce anno dopo anno o perlomeno non esistono soluzioni che non aumentino esponenzialmente i rischi di catastrofi di diverso genere.
Tra i rischi di catastrofe conseguenti a soluzioni dei problemi climatici in presenza di flussi crescenti di energia che pervadono il pianeta vanno inclusi sia le cause che gli effetti degli accentramenti dittatoriali e delle appropriazioni private di apparati strategici.
Una intelligenza umanitaria o genericamente di sinistra lascia molto a desiderare se non riesce a dissuadere l’intelligenza olistica del popolo (l’intelligenza che scaturisce dalla statistica delle reazioni individuali) dal sospettare che non esistano soluzioni senza accentramenti dittatoriali o totalitarie appropriazioni private.
L’attenuazione della pressione umana sul pianeta non è questione di democrazia o dittatura: è questione di Progetto.
Le energie ‘pulite e rinnovabili’ non sono un Progetto, anche perché non esistono.
Lo svilimento dittatoriale dei problemi non è un Progetto e nemmeno l’allentamento della pressione dei vinti imposta da una schiera minoritaria di vincitori.
Le varie catastrofi potrebbero riguardare tutti gli uomini o solo una parte cospicua della popolazione, di sicuro quella più debole relativamente a un concetto di forza inteso in un senso darwiniano il più largo e variegato possibile.
In situazioni di caos l’essere più abbiente perde parecchie posizioni nella classifica delle dotazioni darwiniane.
Le élite che contano di scampare a qualsiasi catastrofe ambientale in virtù delle proprie prerogative dovrebbero considerare che quelle conseguono necessariamente da un surplus di ‘anti-prerogative’.
Gli ordini degli organismi biologici si ottengono attraverso quote proporzionalmente maggiori di disordini contestuali.
Privilegi e magnificenze non sopravvivono in assenza di quantitativi adeguatamente più grandi e diffusi di deprivazioni e miserie.
Le disuguaglianze sociali e gli inasprimenti prevaricatori più o meno collegati alle onnipresenti dinamiche concorrenziali conseguono da automatismi di tipo sistemico che solo procedure di drastico controllo artificiale possono interdire.
I numeri delle varie fasce di privilegiati come quelli delle varie fasce di indigenti riflettono le risultanze di diagrammi strettamente connessi alle leggi di potenza che competono a processi caratterizzati, come tutti i processi naturali sufficientemente complicati, da autosimilarità e invarianza di scala.
I numeri dei privilegiati e degli indigenti, come quelli dei livelli più estremi e degli strati intermedi, si dispongono secondo ineluttabilità statistiche di cui solo la capacità di realizzare in pratica rigorose astrazioni progettuali potrebbe correggere la naturale tendenza a esasperare le differenze fino a quei livelli insostenibili che finiscono per decomporsi nei rimescolamenti e negli appiattimenti del caos.
Le mitologie tecnologiche, strettamente intrecciate ai fideismi comandati dalla teo-tecnocrazia o tecno-teocrazia, servono a illudere i sudditi più creduloni e i dignitari più tonti circa le magnifiche sorti progressive, ma si tratta, appunto, di mitologie.
Le magnifiche sorti progressive si sono verificate (se si sono verificate) sempre e solo in termini statistici per quanto riguarda la sola umanità e in termini esattamente inversi per quanto riguarda la biosfera planetaria.
Che le incontrovertibili devastazioni ambientali abbiano mai procurato un miglioramento della qualità della vita riferibile a una effettiva maggioranza di individui umani sembra una ipotesi molto discutibile e comunque di assai difficile dimostrazione.
Di sicuro le incontrovertibili devastazioni ambientali hanno procurato carichi enormi di generica sofferenza animale, il che può dare una idea dei meriti condivisi da tutti gli homo sapiens ai fini di una loro monetizzazione nei confronti del Creatore di tutto, ma prima e sopra di tutto, secondo credenze non certo avverse ai più ineffabili dei devastatori, delle anime immortali.
Una dimostrazione (giusta o sbagliata) dell’inevitabilità della catastrofe non è una verità o un valore: è una dimostrazione.
Si può giustificare il passaggio alle energie pulite senza diminuire il flusso energetico che l’umanità propina al pianeta soltanto ignorando elementari considerazioni termodinamiche, tra cui quelle che legano l’efficienza dei processi alle differenze di temperatura che li provocano.
Tra i tanti effetti negativi, i gas serra del carbonio inducono anche generali effetti fertilizzanti.
I gas serra provocati inevitabilmente da qualsivoglia attività industriale e agricola per elementari e ineliminabili ragioni termodinamiche possono agire a concentrazioni inferiori rispetto agli odierni principali gas serra senza indurre alcun beneficio alla crescita della vegetazione.
I flussi energetici provocati dalle attività umane non possono non produrre gas serra e pulviscoli in quanto non possono non produrre entropia.
Il controllo dell’entropia a parità di temperatura non può non produrre più entropia di quella che si vuole controllare e quindi si può al massimo modificare il tipo di entropia che si produce.
I tipi di entropia che possono produrre determinate attività dipendono molto più da oggettività naturali che dall’ottimismo e dalle buone disposizioni dell’uomo.
L’impoverimento dei suoli cancella tutti i benefici effetti collaterali di qualsiasi gas serra.
Ridurre la concentrazione di carbonio nell’atmosfera senza ridurre o rivoluzionare i processi agricoli e zootecnici porta di sicuro a una gigantesca crisi alimentare.
Incrementare la pressione sul pianeta degli attuali processi agricoli e zootecnici porta di sicuro a una gigantesca crisi ecologica.
L’unica seria e coerente politica ecologica, climatica e ambientale che eviti la catastrofe a breve termine (pochi, pochissimi secoli) si incentra sulla salvaguardia e l’estensione degli ambienti naturali liberi da interferenze antropiche.
Gli assetti politici generali in grado di ridurre e allontanare i rischi di catastrofe rientrano sostanzialmente in due categorie: impoverimento vessatorio dello stile di vita relativo a masse crescenti di individui o Progetto di Stato Stazionario.
Incalzata dalle urgenze di crisi capitali, la organica solidarietà pro-sistema che normalmente vige all’interno delle varie classi dirigenti viene messa a dura prova in vista di svolte molto delicate e radicali.
Le forze egemoniche di centro, sfumate di vari colori ai fini di espletare credibili sceneggiate elettorali, si dividono in schieramenti contrapposti, l’una che cerca decisive maggioranze popolari a favore di una conferma radicalizzata e spavalda dei difetti di un sistema considerato unico e insostituibile per sanzione divina, l’altra che cerca di consolidare una élite intellettuale di appartenenza predicando un ridimensionamento di tenori di vita che già non garantiscono una sufficiente vitalità motivazionale.
Finora non si è mai verificato che la legge ferrea dell’oligarchia si sia tradotta in una progettazione razionale e consapevole da parte di una oligarchia illuminata dotata di adeguati poteri.
Finora, tutte le grandi crisi storiche si sono tradotte in cambi radicali di sistema solo attraverso guerre sanguinose, dittature feroci e altre simili calamità.
Mai è avvenuto, nella storia dell’uomo, che l’oggettività di condizioni ontologiche riguardanti la realtà extra-umana e sovra-umana del mondo in quanto tale abbiano riguardato l’avvenire dell’umanità più che i suoi incredibili assilli e cavilli politico-sociologici.
La storia umana è un bellissimo romanzo nei toni della commedia nera e del grottesco surreale, ma sfido chiunque a reputarla una nobile e gloriosa recita di anime immortali.
L’autoritarismo fino alla dittatura, a prescindere dal colore, non è affatto utopistico se inteso come brutale scorciatoia per imporre in tempi brevi ordini e pacificazioni compromessi dalle complicazioni sociali.
Le drastiche semplificazioni della rappresentatività che favoriscono le strutture gerarchiche di controllo (extrema ratio della ‘spada di Damocle’) rimangono sempre e comunque una opzione più o meno emergenziale contro il dilagare delle varie anarchie.
La fatale anarchia del mondo globalizzato si chiama ‘complessità’.
Autoritarismi e dittature diventano utopistici se valutati come un rimedio alle catastrofi prossime venture, sia ambientali che politico-sociali.
Qualsiasi ordine stabilizzante è tale entro determinati range di tolleranza, diventa innesco più che lineare e perfino esponenziale di disordini quando si violano i limiti estremi di specifici intervalli.
Autoritarismi e dittature non consigliano alla gente di calmarsi e godere un diverso stile di vita.
Autoritarismi e dittature si limitano ad alzare di continuo le asticelle che segnano i livelli da superare al fine di acquisire particolari tornaconti.
La risalita automatica, per i meccanismi inesorabili delle economie della crescita e del profitto, delle asticelle che segnano i livelli da superare al fine di acquisire particolari tornaconti determinano lo slittamento progressivo delle democrazie ipocrite e formali (i peggiori sistemi eccetto tutti gli altri) in regimi sempre più autocratici e dittatoriali (i migliori sistemi eccetto tutti gli altri).
Gli adepti più entusiasti di autoritarismi e dittature, a prescindere dal ceto di appartenenza e dal livello economico, nascondono perlopiù presunzioni e ambizioni proprie di un individualismo acritico improntato su una certa megalomania paranoica (perlopiù in forme lievi che possono però degenerare).
Autoritarismi e dittature trasformano automaticamente ed implicitamente molti degli adepti più entusiasti in pericolosi oppositori.
Nell’economia dove non ce n’è mai a sufficienza per tutti (in pratica, qualsiasi assetto sociale dove l’economia impone le variabili dominanti) i danni provocati dalla quota di chi insegue i requisiti sempre più esigenti che regolano l’accesso a distinzioni e benefici superano i sollievi molto relativi dovuti a quelli che si rassegnano a stili di vita molto modesti e contenuti (dal punto di vista puramente economico).
Autoritarismi e dittature non differiscono granché dalle formalistiche e ipocrite democrazie proprie delle fasi di declino della civiltà occidentale.
Le ipocrite e formalistiche tardo-democrazie occidentali si caratterizzano tutte per una erosione dei diritti minimi a tutto vantaggio di frenesie meritocratiche che celano nella nebbia iridescente delle mitologie tecnologiche le loro paranoiche e assillanti aggressioni a equilibri ambientali già di per sé instabili e precari.
Le frenesie meritocratiche scaricano sul grosso della popolazione la fatale e dilagante scarsità di meriti e prestigi delle varie classi dirigenti sempre più frastornate dalle complessità insormontabili.
Le classi dirigenti oberate di questioni insolubili si mettono a studiare Propaganda come unica materia rimasta a promettere buoni voti e profitti.
Quando il discrimine fondamentale per giudicare un’attività politica dipende dalla misura in cui i poteri economici condizionano i poteri politici, un sistema a partito unico può benissimo dimostrarsi nella sostanza dei fatti più democratico di un sistema bi o pluri partitico.
Per democrazia s’intende sempre e comunque una particolare e variegata dittatura della maggioranza.
Giudicare della qualità di una democrazia porta a considerare anche le opzioni che garantisce alle minoranze.
Attualmente la qualità di una democrazia, oltre al rispetto delle minoranze, richiede una valutazione concreta e conseguente delle garanzie, promesse e prospettive riservate alle maggioranze.
Le Grandi Ovvietà scandalizzano.
Grandi Verità e Grandi Valori conferiscono prestigio e facilitano il comando
Le Grandi Verità mistificano e travisano le Grandi Ovvietà.
I Grandi Valori si tramutano viaggiando nel tempo e nello spazio.
La velocità con cui si tramutano i Grandi Valori è incredibile se paragonata alla loro grandezza.
Qualsiasi potere sufficientemente grande diffida delle ovvietà e fabbrica verità e valori.
Grandi Verità e Grandi Valori non reggono di fronte all’attacco involontario quanto sistematico che la società dello spettacolo più allineata e ortodossa infligge loro a dispetto di tutti i buoni propositi di rispetto e obbedienza dei poteri che contano.
Le grandi kermesse televisive come San Remo, le grandi esibizioni pubbliche, gli eventi sportivi, l’ironia e gli spiriti sottilmente dissacratori senza i quali non ci sarebbe comicità, le enfasi celebrative che scintillano nell’aura di qualsiasi personaggio di successo eccetera eccetera, tutto ciò erode i Grandi Valori e le Grandi Verità.
L’epica della tecnologia vincente non deriva da una generalizzata cultura scientifica che al contrario, se ci fosse, solleverebbe più di un dubbio al riguardo, ma dalla necessità di cementare i presupposti di quella divinizzazione dell’umanità senza la quale qualsiasi potere dovrebbe umilmente inchinarsi a requisiti di sobria e prudente razionalità.
La divinizzazione dell’umanità risulta premessa fondamentale della teo-tecnocrazia o della tecno-teocrazia molto più di quanto non lo sia per una religione tradizionale per quanto politicizzata e istituzionalizzata.
La fiducia da riporre nei rappresentanti di Dio, non deriva tanto dalla fede in Dio, quanto dalla divinizzazione dell’umanità.
La celebrazione dei poteri letteralmente sovrannaturali della tecnologia rappresenta una divinizzazione dell’umanità tanto più pericolosa quanto più si finge scientifica e razionale.
La rivoluzione luterana, svolta storica cruciale che in Europa ha incrinato i dogmatismi teocratici rendendoli più permeabili nei confronti della razionalità economica, ha indebolito le intermediazioni ecclesiastiche favorendo un rapporto diretto tra il singolo uomo e Dio.
Fondamentali per instaurare le sindromi di fiducia e arrendevolezza nei riguardi dei massimi poteri, non risultano a conti fatti i rapporti religiosi tra la singola anima e Dio, ma quella divinizzazione dell’umanità che in sostanza significa legittimazione di quei poteri teocratici di rappresentanza indispensabili per la consacrazione di autoritarismi politici non fondati esclusivamente su rapporti di forza militare.
Una dittatura che non si regge sulla pura forza poliziesca o militare necessita di principi di legittimazione di natura religiosa in senso dogmatico e fideista.
Una democrazia autentica nei limiti in cui può essere abilitata stante irrevocabilmente la legge ferrea dell’oligarchia necessita di una cultura laica e razionale sufficientemente diffusa.
Ognuno può singolarmente credere quello che vuole e frequentare i riti e le cerimonie che più gli si confanno, ma è ben difficile che concetti sostenibili e duraturi di qualità della vita conseguano da modelli politici e sociali (relativamente solidi, ordinati e pacifici) promossi da esaltati che vedono l’umanità come la conquistatrice del sistema solare in nome di missioni epiche e ideali soprannaturali.
Chi crede che il Creatore del pianeta autorizzi l’umanità a distruggerlo forse avrebbe bisogno di un consulto psichiatrico.
Chi crede che certa megalomania tecnologica si possa realizzare senza distruggere il pianeta forse avrebbe bisogno di qualche ripasso di scienza fondamentale.
E’ un misfatto sostenere che imprese come quelle della Pedemontana lombarda rappresentano crimini legalizzati dell’ignoranza istituzionale?
Le frasi che fanno scandalo rientrano sostanzialmente in due tipologie: clamorose idiozie o semplici verità nel senso di fedele descrizione e interpretazione dei fatti.
La maggior parte delle frasi che provocano denunce per diffamazione sono semplici verità difficilmente dimostrabili.
Le procedure di giustizia istituzionale si dovrebbero basare esclusivamente su semplici verità e dimostrazioni, evitando classifiche di valori.
Nel rapporto tra umanità e resto della biosfera, il darwinismo è un lusso che l’umanità non può più permettersi.
Il darwinismo rappresenta una delle Grandi Ovvietà fondamentali.
Le Grandi Ovvietà permettono di comprendere il mondo.
Sostituendo le Grandi Ovvietà sgradevoli con le Grandi Verità consolatorie, si sostituisce all’autentica comprensione, inevitabilmente razionale e scientifica, una ricerca di illusioni darwinianamente motivata ed esercitata.
Al di fuori delle caotiche fasi di transizione, non esistono periodi storici in cui non abbia dominato la legge ferrea dell’oligarchia.
La legge ferrea dell’oligarchia è un principio darwiniano specificamente adattabile ai contesti umani.
Per comprendere la Grande Ovvietà del darwinismo generalizzato, basta comprendere la grande ovvietà del cosiddetto ‘gene egoista’.
Sopravvive ciò che è compatibile con le condizioni della propria sopravvivenza .
La sopravvivenza e la durata di qualsiasi cosa dipendono dal contesto che modifica la cosa e ne è modificato.
Il darwinismo non è che il principio di causalità applicato a contesti biologici e umani.
Che la valutazione della presunta o reale moralità di un uomo non possa prescindere dal contesto effettivo in cui quello agisce, è una grande ovvietà darwiniana.
L’economia rappresenta un darwinismo di livello superiore a quello biologico, il darwinismo che regola intese, collaborazioni, competizioni e conflitti nei contesti sociali e culturali umani, dove gli individui restano individui e i gruppi di interesse sostituiscono le specie biologiche.
In ogni contesto, la rapidità temporale degli sviluppi si pone in relazione con la quantità dei flussi energetici.
La velocità delle reazioni non si commisura in modo lineare all’entità dei flussi, ma procede esponenzialmente in rapporto agli eccessi che si verificano al di là dei limiti di tolleranza.
L’economia in azione è un x per cento piccolo di scienza umana e un y per cento grande di darwinismo in atto.
Al di fuori di applicazioni specifiche relative ai settori di particolare pertinenza, non esistono leggi economiche.
L’unica legge economica di portata ecumenica afferma che si ottiene con relativa efficacia quello che ci si impegna a realizzare con la dovuta razionalità di parte.
Le ‘leggi economiche’ non spiegano o descrivono un mondo: lo creano e lo governano.
Se si inventa uno strumento teorico per gestire i fenomeni economici (per esempio l’equazione di Black e Scholes), quello non descrive la fenomenologia in atto nel mondo economico reale, bensì contribuisce a crearla, conformarla, determinarne i destini.
Le ‘leggi economiche’, unite alla legge ferrea dell’oligarchia e a generalissimi principi causali o darwiniani, sostituiscono al mondo concretamente produttivo dei beni reali il mondo fittizio delle invenzioni finanziarie e delle acrobazie tecnologiche.
La tecnologia più sofisticata (è una Grande Ovvietà) non si correla alla qualità delle vite qualunque, ma alla moltiplicazione dei capitali che la impiantano.
Invenzioni finanziarie e acrobazie tecnologiche inaugurano una spirale di cause ed effetti che porta a colossali quanto assurde concentrazioni di capitali.
Da un certo punto in poi, la tecnologia di avanguardia non si preoccupa della libertà dell’individuo-massa, bensì di liberare gli esemplari alfa della specie dal controllo e dalla minaccia delle masse.
Le assurde e mega-galattiche concentrazioni di capitale generate dall’instabilità catastrofica del mondo fittizio della finanza, diventano presto l’unico mezzo disponibile per tamponare questa instabilità assolutamente deleteria per il mondo della produzione dei beni reali.
Concentrazioni e iperboli finanziarie e tecnologiche ipotecano il funzionamento stesso della cosiddetta economia di mercato negando il mercato e i concetti democratici attecchiti su quello.
Le concentrazioni di capitali comprano la politica democratica dei partiti eletti da libere elezioni.
Le elezioni sono tanto più libere e non condizionate quanto più il risultato è scontato.
Il risultato di una elezione è scontato a prescindere dalle coalizioni che vincono, se l’oligarchia economica di controllo si mantiene sostanzialmente omogenea.
Quando una oligarchia egemonica si spacca, una libera elezione assomiglia più a un surrogato di guerra fredda civile che a un confronto democratico.
I politici, che nella fase di crescita delle concentrazioni vendono ai sudditi elettori le illusorie Grandi Verità elevate a sistemi di Grandi Valori, si ritrovano a fare i conti con la Grande Ovvietà del darwinismo quando alcune concentrazioni cominciano a rivendicare i poteri derivanti dalla loro prevalenza causale o darwiniana.
Quando solo alcune concentrazioni intendono optare per un abbattimento delle finzioni legate alla rappresentanza, quelle fedeli a una maggiore correttezza formale sorvegliano gli sviluppi preoccupate soprattutto dell’insorgenza di nuovi padronati, nuove rivalità, nuove concorrenze.
Una oligarchia egemonica equivale a un Partito Unico.
Una oligarchia spaccata richiama alla mente le antiche lotte dinastiche.
Per elementari motivi darwiniani, senza Progetto non rinascerà mai un nuovo tipo di democrazia, formale o sostanziale che sia.
I grandi cambiamenti nella storia dell’umanità sono avvenuti sempre attraverso grandi catastrofi e grandi dolori, mai attraverso grandi Progetti.
I condottieri dell’umanità dovrebbero finalmente rendersi conto che i condottieri della peggiore specie animale del pianeta, così sancita dai fatti, non possono che essere i peggiori animali del pianeta.
Una sinistra di impostazione marxista, grazie al suo realismo darwiniano, possiederebbe strumenti culturali (almeno) di contrasto della filosofia iper-capitalista molto migliori di quelli a disposizione di una élite intellettuale che crede in un mercato probo e laborioso gestito da politici di illuminato buon senso.
Nei giudizi sulla guerra di Ucraina le varie sinistre hanno mostrato di credere nei Grandi Valori inesistenti piuttosto che nelle grandi analisi critiche.
I marxisti o pseudo-marxisti attualmente si trovano solo a destra e sono quelli che vedono nei Grandi Valori e nelle Grandi Verità non qualcosa in cui credere, ma qualcosa di molto utile per gestire i rozzi darwinismi populisti di un popolo di pericolosi individui.
I rozzi darwinisti populisti di un popolo di pericolosi individui un tempo costituivano ossa, muscoli, nervi e tendini della Mano Invisibile.
Nella fase in cui i nodi dei grandi capitali e delle fantasmagorie tecno-teocratiche vengono al pettine, i politici che, rispetto ai sudditi elettori, fingevano meglio di credere alle Grandi Verità e ai Grandi Valori si trovano a mal-partito rispetto a quei politici che le Grandi Verità le hanno usate soltanto in modo puramente darwiniano, strizzando l’occhio alla concretezza populista dei propri sudditi elettori.
Pausa.
Ogni sintesi è una forma embrionale di poesia.
Non esistono culture senza sintesi.
Sintetizzare una effettiva complessità è semplicemente impossibile.
La carica poetica di ogni sintesi incisiva si annida nel suo inevitabile fallimento.
Senza le sintesi di semplificazioni eccessive non esisterebbe alcun tipo di scienza.
Al di fuori di ogni astrazione matematico-scientifica, le sintesi non spiegano le complessità più di quanto le complessità non spieghino le sintesi.
Quasi sempre, nel mondo reale, le complessità spiegherebbero integralmente le sintesi se noi fossimo in grado di capire come.
Sintesi molto generali accendono reti di piccole scintille in un grande buio.
Il grande buio dovrebbe costituire la base di ogni credo religioso.
Ogni credo religioso preferisce al buio l’inversione analogica di un totalitario bagliore accecante.
Ogni potere sa che una luce eccessiva fa chiudere gli occhi mentre qualsiasi mistero suscita curiosità o sospetto.
I poteri più raffinati sanno che ai popoli va risparmiato il disagio della Verità insostenibile da riservare a se stessi.
I poteri più rudi e vincenti sanno invece che solo la marmaglia incivile a cui nessuno si sente di appartenere non dispone di un’anima forte abbastanza per reggere le verità che essi seminano.
Verità che non danneggiano alcuno non sono degne del nome.
Le verità che danneggiano i gruppi ai quali non si appartiene acquistano prestigio e importanza.
Le verità non esistono.
Le verità travisano o mistificano il semplice esistente eludendo in modo ladresco o deturpando fino all’abominio qualsiasi logica dimostrativa.
Le verità consentono ai poteri di valere tautologicamente per se stessi a prescindere da ogni funzionalità effettiva.
Le verità servono a disinnescare la pericolosità dei numeri quando gli individui si fondono in una massa dai moti solidali e coordinati.
I moti solidali e coordinati di una massa di individui non possono contare su alcuna verità che ne garantisca la giustezza, l’opportunità o l’efficacia.
La legge ferrea dell’oligarchia può essere brevemente sospesa durante i moti di massa, ma poi riprende imperterrita.
I moti di massa non garantiscono affatto l’oligarchia migliore.
L’assenza di qualsiasi pericolo di moti di massa garantisce l’oligarchia peggiore.
Gli equilibri instabili che non si possono stabilizzare si tramutano in equilibri più stabili e meno dinamici o si esaltano in equilibri ancora più instabili.
In un modo o nell’altro, prima o poi gli equilibri instabili raggiungono le parificazioni del caos.
A prescindere che sia utopico o meno, il miglior compromesso tra stabilità e dinamismo si può solo ottenere attraverso un Progetto.
Solo un Progetto mondiale eviterà un conflitto mondiale.
Che una instabilità mondiale possa essere risolta da qualcosa di diverso da un Progetto mondiale è una possibilità che può derivare solo dalla proverbiale tecnica dello struzzo.
Lo struzzo dei proverbi quando vede un pericolo lo fa sparire infilando la testa sotto terra.
Gli intellettuali che ritengono un Progetto utopistico, fanno sparire il pericolo attraverso un ottimismo che davanti a contingenze soverchianti e incontrollabili diventa una scelta obbligata e non utopistica.
Come lo struzzo intellettuale risolve le crisi mondiali si è visto con la guerra di Ucraina: attraverso i grandi principi inviolabili.
Se una potenza nucleare è circondata da nazioni ostili tutte aderenti all’unica e ovviamente più potente alleanza militare del pianeta, lo struzzo intellettuale si sente tranquillo, non perché la sua nazione appartiene all’alleanza militare, ma perché esiste il principio sacrosanto, testimoniato in modo indelebile da Santo Domingo, Iraq, Serbia, Afghanistan, Libia eccetera, che ogni nazione ha diritto a confini inviolabili e non può invadere né essere invasa.
Ovviamente, si dà il caso che gente come Saddam Hussein o Gheddafi costituisse mostruosità assolutamente deleterie e terrificanti, mentre le milizie di naziskin che controllano un governo sono innocui pazzerelli.
La famosa Mano Invisibile ha quasi rappresentato per un breve lasso di tempo di quasi concorrenza generalizzata l’equivalente di un Progetto.
Oggi, appena si alza dai livelli di sopravvivenza basale, la Mano Invisibile è colta da necrosi artritiche e paralisi invalidanti.
Per una mente razionale, piccole scintille di conoscenza sparse nel buio finiscono sempre per diventare un compromesso tollerabile rispetto alla luce accecante.
Nel mondo reale, ogni minima scintilla, se intesa come prologo e promessa di una luce assoluta, invece di fornire indizi e tracce per una conoscenza orientativa, asseconda, a un estremo, i deliri e i fanatismi necessari ai poteri e, all’altro estremo, i deliri e i fanatismi necessari alle sopravvivenze.
Le teo-tecnocrazie nascono dal dissolvimento di ogni intermediazione tra dominio e sopravvivenza.
La rarefazione fino all’annientamento degli strati sociali intermedi dovrebbe favorire i Progetti, invece favorisce gli autoritarismi integralisti.
Non avviene mai nulla nelle società umane che contraddica la legge ferrea dell’oligarchia.
Non è chiaro come, perché e in che misura una oligarchia possa preferire un fideismo autoritario a un Progetto.
Una oligarchia compatta è un’astrazione come il concetto di cultura privilegiata di una oligarchia.
Una oligarchia, come l’umanità, è una collezione di individui e quindi di fantasmi.
La maggiore funzionalità relativa delle democrazie rispetto alle dittature si deve al fenomeno dell’intelligenza cumulativa dei gruppi molto numerosi.
Il mito della Mano Invisibile nasce come iperbole puramente economica degli effetti statistici riscontrabili nei comportamenti e nei funzionamenti mentali di popoli dotati di parziali e relative libertà.
L’intelligenza olistica, scientificamente provata, che si sviluppa in base all’interazione di apporti numerosi, rappresenta una sorta di legge dei grandi numeri valida in ambito culturale umano.
L’intelligenza olistica è un prodotto della complessità deterministica agente al livello dei riferimenti percettivi.
L’intelligenza olistica richiede grandi numeri e scarsa gerarchizzazione.
Una oligarchia necessita di un popolo per esercitare con intelligenza il suo potere.
Le passioni violente come quelle necessarie a una rivolta non facilitano l’intelligenza olistica.
Un popolo che necessita di un certo fanatismo per affrontare i problemi della sopravvivenza non rappresenta il terreno di coltura ideale per una intelligenza olistica.
Un popolo troppo prudentemente pacifico nei confronti dei poteri e troppo prevaricatore nei confronti della concorrenza più debole tarpa le ali a qualsiasi intelligenza olistica.
Un progresso tecnologico che diventa occasione per esasperate e megalomani esagerazioni propagandistiche taglia le gambe dell’intelligenza olistica.
La base di ogni progresso tecnologico rimane l’immane e incessante lavorio di una vasta schiera di addetti ai lavori nelle industrie e nei laboratori in cui avvengono le applicazioni pratiche delle varie nozioni scientifiche.
La selezione dei risultati conseguiti dalle proliferanti attività applicative nell’ambito dei diversi capisaldi scientifici non avviene sulla base esclusiva di interessi comuni largamente condivisi.
La selezione dei risultati conseguiti dalle proliferanti attività applicative salvaguarda in primo luogo gli interessi e le motivazioni puramente economiche di una élite di promotori finanziari e industriali politicamente tutelati..
Anche quando tra i finanziatori dei vari studi applicativi in materie scientifiche e tecnologiche compaiono amministrazioni statali è ben difficile che i relativi pareri vincolanti non siano guidati da consulenti condizionati da grandi interessi privati.
La politica professionale non dispone in generale della preparazione necessaria a orientare scelte fondamentali di tecnologia strategica e quando, in casi particolari, ne dispone, le competenze relative interagiscono inevitabilmente con consultori fortemente influenzati dalle capitalizzazioni private.
Il benessere dell’occidente si basa su un immenso e capillare fervore di attività produttive svolto in regime di autentica concorrenza.
La concorrenza economica ai medi e alti livelli è destinata a estinguersi in base a elementari leggi di mercato.
Le grandi decisioni strategiche sia tecnologiche che politico-amministrative rientrano nella sfera di influenza delle grandi capitalizzazioni.
Le grandi capitalizzazioni decidono consensualmente in regimi di oligopolio e monopolio, ma, quando entrano in competizione, non attivano concorrenze benefiche nel senso della mitica Mano Invisibile (completamente inabile da certi livelli in su): attivano conflitti globali.
Nessuna concorrenza salutare può instaurarsi dove vige il principio del ‘too big to fail’.
Quando il principio della concorrenza soccombe davanti alle implacabili leggi di mercato, l’economia domina la politica.
Quando l’economia domina la politica, elementari principi darwiniani dominano l’economia.
Il principio darwiniano fondamentale che domina l’economia e la politica nei sistemi occidentali in declino non consiste più in una lotta per la sopravvivenza tra sistemi produttivi e organizzativi impiantati in luoghi di produzione numerosi e e tra loro indipendenti.
Il principio economico-darwiniano dominante del declino occidentale diventa sostanzialmente: costruisci e vendi la tua immagine appropriandoti del lavoro degli altri.
Il vincitore darwiniano delle società in declino non è un politico e non è un economista: è un piccolo o medio o grande sfruttatore di quell’enorme lavorio che una volta costituiva l’unica autentica base di benessere delle società occidentali.
Quando il successo non può dipendere dal lavoro degli altri, ma solo dal tuo, non c’è alternativa a un’applicazione assidua e pressoché fanatica al fine di ottenerlo.
Il fanatismo genera stress, a meno che non riguardi attività mono-maniacali per cui si riesce almeno in parte a divertirsi.
Se qualcuno si diverte ad applicarsi in modo maniacale a qualche attività è meglio che non lo faccia intravedere, altrimenti i poteri più vicini finiranno di sicuro per appropriarsi anche del divertimento.
La delinquenza non pervade i settori canonici del lavoro e dell’economia soltanto per la necessità di limitare i rischi di repressione legale e poliziesca.
La delinquenza pervade i settori canonici del lavoro e dell’economia soprattutto perché un certo grado di illegalità diventa indispensabile per non soccombere in quegli esercizi in cui le sfide concorrenziali continuano a valere, vale a dire nelle vaste aree degli indotti e dei servizi, degli appalti e sub-appalti e delle produzioni non tecnologizzate.
Una cultura tecnologica che, invece di costituire la base di un Progetto, corrobora deliri e fideismi integralisti in nome di una fiducia obbligatoria e comandata non fornisce motivi a un ottimismo che non sia opportunistico e deviante.
Pausa.
Ogni sintesi poetica richiede una presunzione dei sentimenti consapevolmente priva di speranza.
Ogni epica descrive i meccanismi dei poteri senza meccanismi e senza poteri.
‘Poesia epica’ è un ossimoro, a meno che non rappresenti la sconfitta inevitabile di un idealismo rassegnato al proprio fallimento.
La poesia esige un certo tipo di sconfitta.
L’animalità umana richiede una componente anche esigua di poesia per non risultare l’animalità peggiore del pianeta.
I rituali della propaganda politica si basano su una sorta di contraddittoria poesia epica da suscitare in una massa appassionata di sudditi elettori.
La politica vincente trascura gli interessi perché gli interessi dei rappresentanti e quelli dei rappresentati non coincidono mai.
Per la legge ferrea dell’oligarchia, una politica vincente è costretta a dimenticarsi degli interessi concreti ed effettivi.
Il sogno di democrazia dell’occidente si è sempre basato sul mito assolutamente capitale della Mano Invisibile.
Le leggi di mercato erodono progressivamente e inesorabilmente il mito essenziale e fondamentale della Mano Invisibile.
Il politico che riduce tutto a interessi economici è ben difficile che si riveli un politico vincente.
Più si erode il mito della Mano Invisibile e più la politica deve appellarsi a una sorta di poesia epica.
Non esiste alcun vitalismo per quanto rozzo e ignorante che, prima o poi, non senta un qualche bisogno più o meno nascosto di esaltata poesia epica.
Il vitalismo è un requisito obbligatorio per una giustizia e un benessere basati sulla concorrenza.
Il vitalismo della nazione più potente del mondo si basa in buona parte sui boss della droga sudamericani.
Una enorme fetta delle classi dirigenti mondiali (forse la maggioranza) si sostiene attraverso sostanze chimiche assimilabili a droghe.
Chi dispone di abbondanti flussi endorfinici che corrispondono a drogaggi fisiologici odia le droghe in quanto strumenti privilegiati di una concorrenza sleale.
Poesia è presunzione impossibile insieme a umiltà altrettanto impossibile.
In politica la cattiva poesia epica agisce come una specie di droga.
Il sogno della concorrenza rigeneratrice, ovvero della Mano Invisibile, è poesia epica.
Un’autentica umiltà può fondarsi solo sul disincanto razionale.
Un fanatismo variamente modellato secondo il sogno di una ideale vita comunitaria muove sia la poesia che l’epica.
Non esiste rispetto per l’individuo umano in assenza di un autentico rispetto per la biologia dei corpi.
Ogni individuo è un corpo.
Un’anima immortale non è un individuo: è un nodo del determinismo divino (senza virgolette).
Ogni individuo è il prodotto dell’autoreferenza di un organismo animale, quindi una specie di fantasma.
Un individuo sorge dall’insieme dei complanari o successivi livelli meta-teorici del determinismo ‘divino’ (con le virgolette)
Qualsiasi livello meta-teorico di una coscienza biologica si sviluppa da sdoppiamenti potenzialmente illimitati fondati sulle possibilità di auto-riferimento (pensate a Goedel per una più precisa intuizione matematica) attivate da un organo complesso come un cervello animale.
Il rispetto effettivamente democratico dell’individuo è altra cosa rispetto al rispetto del valido concorrente o del valido professionista o delle persone comunque meritevoli di varie considerazioni anche sentimentali.
Il rispetto effettivamente democratico dell’individuo nasce dal riconoscimento delle proprie incomprensibili anomalie individuali.
Una società effettivamente democratica ottiene il proprio indispensabile ordine partendo dall’inevitabile disordine degli individui.
Una società effettivamente ordinata ordina le esigenze fisiologiche elementari degli individui, non le loro casualità metafisiche e deterministiche.
Le casualità metafisiche e deterministiche degli individui sono regolate dalle leggi penali, non da Costituzioni e Progetti.
Nella misura in cui allude a qualcosa di molto più importante di quello che effettivamente dice, c’è poesia in ogni testo.
Il mistico tace.
Una religione troppo parlata non si distingue dalla pura politica.
La vitalità irriflessiva produce l’ordine della propria enfatica e obbligatoria ripetitività.
Ordini e discipline senza progetti si rivelano genitori o figli del caos.
Se puoi comandare la fiducia dei sudditi, non ti preoccupi di guadagnartela.
Speranza, ottimismo e fiducia dei subalterni corroborano i vari poteri.
La vitalità dei subalterni rientra nei sogni obbligatori che i meccanismi dei poteri instaurano automaticamente molto al di là di singole od oligarchiche volontà.
L’epica della Storia si genera a prescindere dalla miriade di bassezze, meschinità e orrori di cui si compone la Storia.
Nella Storia non esistono individualità effettive.
Una individualità effettiva è l’ombra di un fantasma.
Un Progetto consentirebbe finalmente a ciascuno di aderire al proprio fantasma.
Una umanità di fantasmi uniti da una comune razionalità operativa salverebbe il pianeta prolungando la propria durata.
L’unica legge economica esistente a prescindere dal sistema in uso dice che si realizza con efficacia quello per cui ci si dedica con convinzione e impegno adeguati.
Non esiste altra legge economica assoluta al di là del fatto che si realizza quello che si vuole realizzare.
In un sistema economico complesso nessuno sa effettivamente che cosa verrà fuori da quello che nessuno di preciso vuole realizzare.
La quasi totalità degli attuali sedicenti liberali ignora che la base filosofica del liberalismo consiste nella non controllabilità dei sistemi complessi.
Chi parla di ‘intelligenza artificiale’ ignora quasi sempre che la base degli studi effettivamente innovativi sulla intelligenza artificiale riguarda metodologie di simulazione della ontogenesi biologica.
Metodi di simulazione evoluzionistico-darwiniana in senso lato ottengono risultati di cui il programmatore stesso non può prevedere l’esito in partenza, né, a risultato ottenuto, comprendere gli specifici marchingegni funzionali messi in atto dai calcoli del computer.
L’ottimismo irriflessivo non è mai stato più di oggi il motore fondamentale della scienza tecnologica.
L’ottimismo irriflessivo fa da maquillage sui lineamenti delle mitologie che impallidiscono, prima fra tutte la leggenda della Mano Invisibile.
Una umanità di corpi animali che competono attraverso l’invenzione darwiniana di un potente cervello distruggerà inevitabilmente se stessa e il pianeta.
Il darwinismo è un lusso che l’umanità non può più concedersi.
Le democrazie occidentali demandano a mass media e altre strutture intermedie la creazione di speranza, ottimismo e fiducia.
Poteri dittatoriali che hanno imparato dall’occidente certe astute finezze nella gestione dei poteri hanno smesso di apparire troppo dittatoriali.
Le frasi che seguono compongono un tentativo operato dal Sommo con una parte dei propri quaderni, intendendo realizzare qualcosa di analogo a ciò che ci siamo proposti in questa sezione. Il tentativo fu abbandonato. Noi ve lo riportiamo pari pari, senza le modifiche e i ritocchi che abbiamo altrove ritenuto opportuni, avvertendovi però che il Sommo stesso non ne avrebbe probabilmente autorizzato la pubblicazione senza prima averlo sottoposto ad attenta revisione.
‘O bladì o bladà’ funziona, ‘i sgucrì i sgucrà’ molto meno.
Il nulla e l’essere in sé non possono essere pensati e neppure nominati senza generare una contraddizione insanabile.
Dio o ‘Dio’ non possono essere nominati senza generare una contraddizione insanabile.
I canali neurali diretti dal cervello all’organo di senso periferico sono più numerosi di quelli che partono dall’organo di senso e raggiungono il cervello centrale.
Un mondo è la creazione di un sistema nervoso immerso in un ‘mondo’.
Citando tra virgolette si possono evitare contraddizioni, se le virgolette alludono a uno spostamento di senso.
Uno spostamento di senso implica un diverso piano o livello nel sistema di referenze legate al fenomeno della coscienza animale.
‘Io non sto dicendo il vero’ è un’antinomia.
‘Io non sono dimostrabile’ può essere indirettamente dimostrato.
Negli schemi generali degli auto-riferimenti biologici, su un piano o livello avvengono i fatti e gli eventi che fanno esistere il piano successivo.
Su un piano o livello si può sviluppare una dimostrazione dei fatti e degli eventi che avvengono sul piano precedente.
La verità è una mistificazione dell’esistenza e un fraintendimento della dimostrazione.
Uno spazio tra lettere è e non è equivalente a una lettera.
Due celle diverse di uno spazio vuoto sono e non sono uguali.
Variando il significato dei termini e delle perifrasi, affermazioni verbali contraddittorie possono ridursi a variazioni sul tema.
Con sintesi e contraddizioni si ottiene un aforisma zen.
La filosofia si compone di grandi ovvietà manipolabili.
La politica manipola le grandi verità.
Le grandi verità o sono manipolazioni di grandi ovvietà o semplicemente non sono.
Le scienze matematiche si compongono di grandi ovvietà difficili da formulare e provare.
Le affermazioni maggiormente scandalose per pubblici poteri e pubblici sudditi si rivelano grandi ovvietà.
In politica, affermazioni simili e perfino uguali possono nascondere interessi diversi.
In politica, affermazioni diverse e perfino opposte possono basarsi sugli stessi interessi.
Possiamo concepire uno spazio vuoto ma non un tempo vuoto.
Comprendere un testo significa comprendere le singole frasi e i collegamenti tra le frasi.
In certe composizioni musicali è difficile capire dove comincia e finisce la singola frase musicale.
In molte composizioni musicali è difficile capire se una frase si ripete oppure no.
Nel nulla non esistono differenze.
Non c’è differenza tra due differenze in sé.
La poesia è una forma di religione e la religione una forma di poesia.
L’erotismo è una forma di religione e la religione una forma di erotismo.
La pornografia è l’erotismo degli altri (Kraus)
Il fanatismo è la religione degli altri.
La volgarità è la poesia degli altri.
E’ impossibile dipingere o fotografare un mucchio di immondizie senza trasfigurarlo (Benjamin)
L’essere in sé si può nominare solo tra virgolette, come Dio.
Il naturale istinto sociale dell’uomo è istinto di gruppo.
Il naturale istinto sociale dell’uomo non è umanitario.
Un sistema nervoso non percepisce un mondo.
Un sistema nervoso percepisce le reazioni a stimoli e segnali che un ‘mondo’ fa arrivare a un sistema nervoso.
Per la sopravvivenza dell’uomo il pensiero più o meno razionale è più importante degli istinti fondamentali.
‘Io sono io’ esprime una tautologia, ‘io non sono io’ una contraddizione.
Una dimostrazione non è un fatto individuale.
Una ovvietà si dimostra, una verità esiste.
‘Io sto dicendo il vero’ è un non senso.
‘Io non sto dicendo il vero’ è un’antinomia.
‘Io non sono dimostrabile’ può essere dimostrato.
‘Zum zum zum’ può funzionare, cts cts cts’ molto meno.
Ogni volta che si dice ‘vero’, sarebbe meglio dire ‘effettivo’.
Mettendo insieme la giusta serie di ovvietà, si ottiene uno scandalo.
Quando il pessimismo diventa scandalo, l’ottimismo si rivela in prevalenza o tendenzioso o stupido.
Le pubblicità televisive generano rilassamento e fiducia.
Una dimostrazione esula da ottimismo e pessimismo.
Un istinto funziona o non funziona per motivi che l’istinto non controlla.
L’intelligenza della folla non funziona in gruppi ristretti.
L’intelligenza della folla, al di fuori dei contatti esistenziali diretti, è mediata da sistemi di comunicazione di massa come giornali e televisione.
Ogni intelligenza olistica è un fatto statistico in un insieme sufficientemente numeroso.
Ogni intelligenza olistica è manipolabile.
Le rivelazioni scientifiche su come si genera ottimismo non favoriscono l’ottimismo.
Se una dimostrazione matematica portasse a conseguenze politiche, molti la riterrebbero scandalosa.
Ciò che è compreso da pochi non induce la necessità dello scandalo.
E’ impossibile sapere che cosa siano religione, politica o economia senza sapere che cosa sia una scienza.
Nessuno sa esattamente che cosa sia una scienza perché nessuno può sapere con esattezza che cosa sia l’oggetto di una scienza.
Una certa megalomania necessita allo spirito.
Il rispetto dell’individuo richiede un’autentica umiltà.
Il rispetto dell’individuo richiede il rispetto dei corpi.
L’insignificanza politica di molti rilievi scientifici importanti deriva dalla diffusa incapacità di comprenderli davvero.
L’insignificanza politica di molti rilievi scientifici importanti deriva dalla capacità delle oligarchie di travisarli, deformarli o renderli incerti e opinabili.
Per la legge ferrea dell’oligarchia, la scienza come prodotto sociale serve soprattutto le oligarchie.
La scienza come prodotto intellettuale non può servire nessuno.
Le maggioranze che hanno sempre contato nel passato e nel presente sono le maggioranze di quelli che non hanno mai letto un libro intero in vita loro.
Un ‘mondo’ deve essere tale da generare un sistema nervoso umano.
Un ‘mondo’ deve essere tale da condizionare una sua parte più piccola.
Un ‘mondo’ è comprensibile da un cervello umano soltanto se le caratteristiche generali alla base del funzionamento di un cervello riflettono il funzionamento del ‘mondo’.
L’autosimilarità di un mondo è necessaria per una fondazione locale delle leggi generali e la località delle leggi è indispensabile per la comprensione di un mondo da parte di un cervello minuscolo.
L’autosimilarità consente la conoscenza umana nel momento stesso in cui la rende impossibile.
La generazione del cervello umano per magia non rende comprensibile né il ‘mondo’ né il cervello umano.
La competizione elettorale non favorisce oligarchie in cui la maggioranza perde tempo a leggere libri e a ragionarci sopra.
Una prassi elettorale come quelle in uso nelle democrazie occidentali potrebbe benissimo riguardare gli esponenti di un partito unico.
Un partito unico inteso come apparato amministrativo-burocratico non dissolve affatto l’effettivo carattere democratico di una nazione.
Partiti schierati su fronti opposti elettorali dissolvono l’effettivo carattere democratico di una nazione se sono finanziati dagli stessi gruppi d’interesse.
Un esponente di un partito unico finanziato da un gruppo d’interesse configura un reato di corruzione.
Un partito finanziato da un gruppo d’interesse non configura un reato di corruzione.
La rappresentatività democratica in genere si riferisce al singolo rappresentante.
Il singolo rappresentante politico è generalmente scelto dai partiti.
La rappresentanza politica delle ‘democrazie’ occidentali sta configurando ogni sorta di equivoci.
Un Partito Unico può meglio identificarsi con lo Stato e quindi trasforma il modo di operare delle lobby.
La legittimazione istituzionale del sistema delle lobby fonda una democrazia contraddittoria.
Una logica a più valori di verità è la logica delle possibilità arbitrarie.
Una logica delle possibilità arbitrarie non decide attraverso dimostrazioni.
Dove vige indeterminazione e incertezza, là interviene meglio la forza dirimente del potere.
Internet e il pensiero debole sembravano promesse di democrazia più diffusa e sostanziale: hanno rappresentato esattamente il contrario.
Le contraddizioni di una democrazia vengono risolte dai poteri dei più forti e dalle propagande delle prassi editoriali e televisive.
Una democrazia senza Progetti equivale a una economia di mercato condizionata dalle leggi darwiniane del mercato.
Una democrazia auto-contraddittoria può anche essere la peggiore democrazia eccetto tutte le altre, ma prima o poi diventa la migliore eccetto tutte le altre.
Per una lobby, identificarsi con lo Stato è più difficile che identificarsi con due partiti minoritari, ma determinanti, schierati su fronti opposti.
Per il rappresentante di un partito unico identificarsi con lo Stato è più facile.
Per il rappresentante di un partito unico identificarsi con un solo tipo di lobby è più facile.
L’internazionalismo favorisce le lobby più grandi.
Il sovranismo e il populismo delle destre tende a favorire industria e lobby nazionali.
L’anti-sovranismo e l’anti-populismo delle sinistre tende a favorire finanza e lobby internazionali.
La propaganda elettorale delle destre favorisce una dura concretezza abbellita da demagogie.
La propaganda elettorale delle sinistre favorisce un rigore moralistico temperato da edonismi.
Nei momenti economicamente floridi gli edonismi favoriscono le sinistre.
I momenti difficili favoriscono le destre.
Nei momenti di declino i cittadini diventano sudditi.
Quando la maggioranza dei sudditi ritiene che la salvaguardia delle minoranze sia un lusso insostenibile, le destre guadagnano terreno.
Una democrazia è una specie di dittatura della maggioranza.
Una democrazia che non difende le minoranze non si distingue sostanzialmente dalla maggior parte dei regimi autoritari.
Le maggioranze che sostengono un regime autoritario si dividono tra sostenitori, indifferenti e rassegnati.
Le maggioranze che si rimettono ai risultati elettorali si dividono tra sostenitori del governo eletto, indifferenti e rassegnati.
Le offerte politiche che piovono dall’alto per la legge ferrea dell’oligarchia equiparano in termini pratici gli indifferenti o rassegnati ai sostenitori senza se e senza ma.
Accade a volte che la maggioranza degli elettori voti contro il proprio interesse.
La parte degli elettori che si accorge di aver votato contro i propri interessi deve pazientare fino al prossimo turno elettorale.
Un tempo, quando il mondo era diviso dalla guerra fredda, i governi cadevano per un eccesso di ‘opposti estremismi’.
Oggi, poiché in qualsiasi governo risultano decisivi partiti minoritari schierati su fronti opposti e condizionati dagli stessi grandi interessi, i governi cadono se i politici ragionevoli e moderati vicino a quegli interessi decidono di farli cadere per instaurare un governo tecnico che faccia meglio e con meno ambiguità le stesse cose di quello caduto.
Oggi i governi di sinistra cadono più facilmente dei governi di destra.
Le crisi di sistema favoriscono le destre.
Destre e sinistre, nelle economie di mercato, all’atto pratico si distinguono solo per dettagli marginali e di facciata.
Quando il sistema entra in crisi, le ipocrisie non funzionano più.
Quando le ipocrisie non funzionano più, le spaccature verticali riguardano anche i vertici.
Quando le ipocrisie non funzionano più, risultano favoriti i governi di destra.
La politica che, senza speranza, cerca di liberarsi dal condizionamento delle lobby diventa automaticamente velleitaria e ideologica per le oligarchie di destra, volgare e populista per quelle di sinistra.
Grazie al realismo dei moderati e delle élite colte e raffinate, ogni Progetto diventa automaticamente utopico.
Se ogni Progetto diventa automaticamente utopico per il realismo dei moderati di destra e di sinistra, nei momenti di crisi i governi di destra risultano favoriti.
I governi di destra non hanno bisogno di fingere di essere di sinistra e non di centro-destra come esige la continuità dei sistemi vigenti.
I governi di destra non hanno bisogno di fingere di essere di sinistra come i padri dell’europeismo di sinistra fondato sui principi economici reaganiani dei Chicago Boys.
Nei momenti di crisi, oggi come ieri, il sistema non si riforma mai radicalmente, ma si consolida stringendo le cinghie e irrigidendo le strutture portanti in senso autoritario.
Nei momenti di crisi, la maggioranza dei sudditi vota quella parte di oligarchia che tuona contro le minoranze.
Nei momenti di crisi, la maggioranza dei sudditi vota contro le minoranze proprio per il rischio individuale statisticamente molto maggiore di trovarsi tra le minoranze disagiate.
L’intelligenza delle folle, l’intelligenza olistica che fiuta le situazioni secondo automatismi misteriosi, non ha il tempo di formarsi in periodi storici di mutamenti accelerati.
In periodi storici dai tempi accelerati, la maggioranza degli elettori è troppo impegnata a sopravvivere per avere il tempo di riflettere con cura.
La maggioranza degli elettori non ha mai letto un libro intero in vita sua.
La democrazia si regge su intelligenze olistiche generate per automatismi di tipo statistico.
La democrazia perde consistenza reale in regimi di accelerazioni artificiali indotti dalle oligarchie tecno-teocratiche.
Se le oligarchie tecno-teocratiche non disponessero di acceleratori tecnologici veri o fasulli, dovrebbero inventarseli.
L’intelligenza artificiale rappresenta un acceleratore tecnologico vero o fasullo.
L’incidenza politica dell’intelligenza artificiale non risiede in un effetto propulsivo reale.
L’incidenza politica dell’intelligenza artificiale risiede nel fatto che il suddito qualunque vi annette un effetto propulsivo reale.
E’ importantissimo dal punto di vista politico che i viaggi spaziali si leghino all’immaginario fantascientifico dell’umanità che conquista il cosmo.
Il suddito che crede all’impatto dei viaggi spaziali non sa un accidente della relatività speciale e generale.
I politici accorti non divulgano la cultura scientifica.
I politici accorti divulgano culture religiose che favoriscono una concezione magica dei poter tecnologici umani.
I poteri umani nei riguardi del pianeta sono immensi soprattutto in senso distruttivo.
Dopo la rivoluzione informatica di inizio secolo, la produttività del lavoro è precipitata in tutto il mondo occidentale nonostante il giro di vite operato un po’ ovunque sui diritti dei lavoratori dipendenti.
Nei momenti di crisi, le oligarchie, che hanno bisogno delle minoranze per depotenziare le pretese di maggioranze sempre più precarie, si dividono tra chi finge di contrastare le minoranze in cambio di restrizioni dei diritti delle maggioranze e chi finge di appoggiare le minoranze (che comunque votano) per ragioni morali e non economiche.
Senza Progetti, le leggi del mercato e della propaganda eleggono la logica della forza come l’unico strumento capace di risolvere complessità e contraddizioni.
Il darwinismo è un lusso che l’umanità non può più concedersi.
Il razzismo consiste in degenerazione del classismo nei ceti bassi, in classismo difensivo in quelli medi e in classismo e basta nei ceti alti.
Le crudeltà che contraddistinguono il passato e il presente della specie umana sono mostruose in senso criminale e non latino.
L’assurdità che genera gli atti crudeli nel passato e nel presente della specie umana è mostruosa sia in senso criminale che in senso latino.
Qualsiasi rilievo scientifico dovrebbe avere un suo peso politico.
Ogni cultura umana traduce le Grandi Ovvietà in linguaggio magico o non le traduce affatto.
Le Grandi Ovvietà non tradotte rimangono ignote ai più.
Le Grandi Ovvietà tradotte vengono in genere travisate.
La traduzione delle Grandi Ovvietà deve rimanere compatibile con la legge ferrea dell’oligarchia.
Fare di uno scandalo un reato o un peccato, dipende da interessi e da poteri.
Nel presente, le Grandi Verità aliene degli altri deturpano la cultura degli altri.
In un passato abbastanza remoto (basta qualche decennio), le Grandi Verità rivestono di abiti sgargianti la cultura dell’Umanità.
Nella selva dei dettagli, le Grandi Ovvietà si dissolvono come una immagine elettronica nei pixel troppo dilatati.
Non esiste una procedura tecnico-scientifica o puramente razionale che possa dissolvere le Grandi Verità.
Il valore pragmatico e darwiniano delle Grandi Verità si crea e si dissolve nel tempo.
La natura esatta di uno spermatozoo e di una cellula uovo (genoma, controlli epigenetici, organi cellulari...) determina l’anima di un individuo.
L’anima di un individuo viene modificata dalle condizioni ambientali a partire dall’ambiente materno intra-uterino.
Spermatozoi e cellule uovo di integralisti ebrei, trasferiti a tempo debito negli uteri di donne arabe di Gaza, molto probabilmente darebbero vita a una certa percentuale di terroristi palestinesi e questa percentuale non differirebbe molto da quelle ordinariamente esistenti.
Spermatozoi e cellule uovo di terroristi palestinesi trasferiti a tempo debito nell’utero di donne ebree darebbero vita a una certa percentuale di integralisti favorevoli alle più devastanti tecnocrazie militari e questa percentuale non differirebbe molto da quelle ordinariamente esistenti.
L’anima forse non ha niente a che vedere con spermatozoi, cellule uovo e influenze ambientali.
L’anima forse è un mistero assoluto.
Come qualcuno si possa ritenere interprete autorizzato di un mistero assoluto rimane un mistero assoluto.
Le Grandi Ovvietà non sono vere.
Le Grandi Ovvietà esistono.
Le Grandi Verità o sono Grandi Ovvietà mistificate o sono invenzioni dell’uomo.
Un uomo pubblico di successo che adotta entusiasticamente una Grande Verità poco prima che quella diventi vincente o comunque determinante all’interno di una società diventa un Grande Uomo di quella società.
Non si può diventare un Grande Uomo accettando le Grandi Ovvietà.
Le Grandi Ovvietà funzionano al di là di ogni volontà di farle funzionare oppure no.
Alcune Grandi Ovvietà dipendono in parte dalla volontà degli uomini.
Alcune Grandi Ovvietà dipendono dalla volontà di Dio o di ‘Dio’.
Le Grandi Ovvietà che dipendono dalla volontà degli uomini non sono comunque controllabili dagli uomini.
Gli uomini possono solo semplificare e agire di conseguenza
Le semplificazioni della vera scienza si inchinano davanti alle complessità.
Le semplificazioni delle Grandi Verità si inchinano davanti alla falsa modestia degli illusi.
Le Grandi Verità proiettano la mente dell’uomo nell’essere del mondo.
Le Grandi Ovvietà non dipendono dalla mente degli uomini anche quando riguardano la mente degli uomini.
Il darwinismo è una Grande Ovvietà.
Il ‘gene egoista’ è una Grande Ovvietà.
Il darwinismo all’interno delle società umane, mutata mutandis, è una Grande Ovvietà.
Che il darwinismo sia un lusso che la specie umana non può più concedersi è una Grande Ovvietà.
Che l’infinito attuale sia auto-contraddittorio è una Grande Ovvietà
Il determinismo assoluto è una Grande Ovvietà.
Che i dettagli numerosi e complessi creino apparenti magie è una Grande Ovvietà.
La necessità della magia per le società umane e per i sudditi in particolare è una Grande Ovvietà.
Ognuno può sembrare libero di fare quello che vuole.
E’ molto strano che qualcuno sembri libero di volere quello che vuole.
Un uomo libero di volere quello che vuole crea la propria volontà con nessuna volontà.
Un uomo libero di volere la propria volontà o entra in un circolo vizioso o crea qualcosa dal nulla.
Chi entra nel circolo vizioso che crea, crea qualcosa dal nulla.
Un mago è un dio se la magia esiste, altrimenti è un sognatore.
Nel concreto mondo darwiniano, un mago è un dio se riesce a convincere i sognatori che la magia esiste, altrimenti è un calcolatore fallito.
E’ difficile convincere i sognatori senza trascorrere una parte del tempo sognando.
Ogni politico professionale che si rispetti è un calcolatore vincente e un sognatore fallito.
Per chi crede nel divino impero, fortune e tragedie avvengono sempre secondo uno scopo preciso.
Il divino impero dei ricchi si avvera nel presente, quello dei poveri nel futuro.
Un conservatore vorrebbe conservare il presente.
Se il futuro si prospetta pessimo, un conservatore appare più saggio di un progressista.
Sostenere che, allo stato attuale, distruggere un bosco per costruire un’autostrada rappresenta un atto criminale verso le popolazioni vicine è semplicemente scandaloso.
Tagliare un bosco con un’autostrada sviluppa esponenzialmente le fragilità del bosco.
Nelle vicinanze di un’autostrada, le massime temperature estive si elevano di qualche grado rispetto a quelle di un bosco.
Se l’unica seria politica ambientale consiste nell’estensione o almeno salvaguardia del suolo naturale, un progressista ambientalista è un controsenso.
Per la legge ferrea dell’oligarchia, morali, ideologie e populismi si affermano solo se convengono a una cospicua fetta di classe dirigente.
Se dai della scimmia a un prestante atleta di colore sei un mostro da mettere alla gogna mediatica, se dai della racchia a una adolescente bruttina e anoressica che rischia una depressione mortale sei solo un gran maleducato.
Una manifestazione che non fa paura serve a molto poco.
Una manifestazione che provoca reati diventa controproducente.
Oligarchie illuminate restano l’unica possibilità di salvezza dell’umanità.
Una rivoluzione violenta non favorisce oligarchie illuminate.
L’impossibilità di una rivoluzione violenta non favorisce oligarchie illuminate.
Se le leggi di mercato vengono applicate con cinismo e malvagità, la concorrenza si trasforma in oligopoli e monopoli e i poteri cominciano a delirare.
Se le leggi di mercato vengono applicate correttamente, la concorrenza si trasforma prima o poi in oligopoli e monopoli e i poteri più forti cominciano a delirare.
Ottanta anni di pace in Europa sono stati propiziati anche dalle varie comunità europee.
Le varie comunità europee sono stati propiziate soprattutto dalle atrocità incredibili e assurde di due guerre mondiali.
Le atrocità naziste sono un allucinante conseguenza di una diffusa psicopatia sociale.
Le atrocità naziste dimostrano che una inflazione a tre o più cifre può generare psicopatia sociale.
Le atrocità alleate, come tempeste di fuoco su intere grandi città (riuscite o meno) o le bombe di Hiroshima e Nagasaki sono frutto di una razionalità spietata e vincente.
Della bomba di Nagasaki non si parla perché non è mai esistito alcun motivo al mondo per sganciarla tranne quello di dover sperimentarne il funzionamento dal vivo.
Chi considera un normale atto militare lo sterminio di quarantamila civili, può arrivare a considerare un normale atto militare lo sterminio di x miliardi di civili.
Ogni individuo umano è un mostro nel senso latino di ‘monstrum’.
Come solo gli illuministi del ‘700 hanno avuto il coraggio di ammettere apertamente, i populismi di tipo religioso sono bene accetti se depotenziano i pericoli di ribellione violenta.
Chi crede in una onnipresente legge divina di solito crede anche nel libero arbitrio.
‘Io, in quanto ‘io in sé’, non mi posso dimostrare’ è una grande ovvietà.
Un organismo riflette se stesso, il suo specchio è il sistema nervoso.
La percezione di sé di un organismo agisce nello specchio.
Io penso nella mente, ma esisto nella realtà.
‘Cogito, ergo sum’ è un non senso poiché la negazione è un’antinomia come ‘io non sto dicendo il vero’.
La cultura filosofica moderna nasce da un puro non senso.
Chi canta una canzone senza parole, dice più facilmente ‘la la la’, non ‘brcum brcum brcum’.
C’è chi ringrazia Dio per aver vinto una gara sportiva o aver vinto a San Remo.
Chi crede nel libero arbitrio e nella legge divina, in genere ritiene di essere libero di crederlo al di fuori di qualsiasi legge divina.
Per dimostrarmi, è necessario che il mio punto di vista si sollevi dall’ambito in cui esisto.
Io, in quanto ‘io’, non sono dimostrabile anche se mi sollevo al di sopra dell’ambito in cui esisto poiché ‘io sono vero’ è un non senso.
Chi crede nel libero arbitrio dovrebbe credere anche di essere un eletto.
Un punto di vista al di sopra della pura esistenza richiede una legge divina o ‘divina’.
La legge divina o ‘divina’ che crea le anime si chiama possibilità di auto-referenza.
Se rimango sul piano della mia esistenza, io non sono io.
Quasi nessuno pensa di essere eletto o di essere un mago.
Chi crea dal nulla è un eletto o un mago.
Se io non sono io, o non esisto o sono una contraddizione.
‘Io non sono ‘io’‘ non è una contraddizione se le virgolette alludono a un ‘piano inferiore’ di pura esistenza.
Una dimostrazione soggettiva è una contraddizione in termini.
Le verità non esistono al di fuori del piano dell’esistenza.
La Verità è una mistificazione dell’esistenza e un fraintendimento della dimostrazione.
Se il determinismo universale esistesse, non sarebbe presente come una qualsiasi legge divina.
Se il determinismo universale esiste, è presente come l’unica legge divina.
Ogni organismo animale percepisce segnali che gli eventi dell’ambiente in cui si trova imprimono nell’organismo animale.
Una vita troppo riflessiva è squallida.
Una società troppo irriflessiva genera vite squallide.
Una puntura di zanzara avvia dei segnali nervosi interni come una bella canzone.
Percepiamo una reazione di cellule nervose che avviano una sensazione spiacevole, non l’atto della puntura.
Se la vita avesse un senso, il senso varrebbe più della vita.
Meriti e abilità consistono di volta in volta in probabilità di successo in contesti fissati.
Se un potere avesse una funzione, la funzione varrebbe più del potere.
Se due rivali di una competizione sportiva potessero entrare in gara per cento giorni di fila conservando le forze iniziali, vittorie, pareggi e sconfitte si distribuirebbero in certe percentuali.
Percepiamo gli effetti sul nostro sistema nervoso di una musica di San Remo, non le onde sonore della musica di San Remo.
Le onde sonore di una canzone di San Remo derivano da un insieme di dimostrazioni.
Una combinazione semplice di frequenze evita battimenti sgradevoli.
I fiumi di parole che si sprecano su un singolo evento importante si concentrano su quello a prescindere dalle percentuali ignote che sovrintendono agli esiti.
Ogni animale percepisce le variazioni del proprio organismo e sensazioni generali dell’organismo medesimo, non il mondo che lo stimola.
Un incidente in moto è più probabile della vincita alla lotteria nazionale.
Se qualcuno non va in moto, un incidente in moto è più probabile della vincita alla lotteria nazionale.
La supposizione da parte dell’organismo animale inesorabilmente avvolto in se stesso di un mondo esterno molto più vasto e potente rientra nelle irremovibili cognizioni fondamentali dell’organismo medesimo.
Se qualcuno non va mai in moto, un incidente con la propria moto è meno probabile di una vincita alla lotteria nazionale.
Ogni animale è il centro di un universo in grado di generare innumerevoli centri di auto-riferimento.
Un elettore non conta perché vota: conta se può influire su quelli che sono stati votati.
Ogni centro autoreferenziale di un universo capace di generarlo costruisce una propria specifica visione della parte di universo in cui si trova, nonché del proprio organismo e del complesso universale.
Un elettore che si proietta emotivamente e si immedesima con simpatia in chi viene votato pensa di contare di più
Alcune canzoni piacciono, altre no.
L’importanza individuale dei sentimenti riguarda i riferimenti interni, non quelli esterni.
L’importanza oggettiva dei sentimenti riguarda i riferimenti esterni, non quelli interni.
Ogni visione del mondo deve essere tale da consentire la sopravvivenza dell’organismo nel mondo.
All’interno di un individuo, un sentimento che riguarda Dio può equivalere a un sentimento che riguarda un pulcino.
La visione del mondo media di una specie deve essere tale da consentire la sopravvivenza della specie nel mondo.
All’esterno di ogni individuo, l’importanza relativa dei sentimenti dipende da fatti, eventi, interessi e poteri.
I centri di autoreferenza umana rimangono globalmente collegati (i famosi sette gradi di separazione)
In aree ristrette, i centri di autoreferenza animali si influenzano reciprocamente attraverso segnali di livello semantico superiore al puro substrato fisico (espressivi, emotivi, fonici eccetera)
Ogni organismo rappresenta un particolare centro di secondo livello meta-teorico, per così dire, dell’universo in cui si trova.
I centri di autoreferenza biologica si influenzano reciprocamente tramite il determinismo e la ipersensibilità al contorno (teoria del caos).
L’autocoscienza non è caratteristica esclusiva degli animali superiori.
Intesa come possibilità di auto-riferimento, un’autocoscienza puramente simbolica si riscontra già all’interno della comune aritmetica assiomatizzata.
Un cervello umano attiva le possibilità di una sorta di autocoscienza astratta che senza di lui resterebbe biologicamente inerte.
La possibilità di qualsiasi tipo di coscienza esiste indipendentemente dal cervello umano.
Ogni vita attualizza un numero sterminato di teoremi logico-matematici.
E’ scientificamente provato che un numero sterminato di calcoli elementari in ambiti isolati può generare ordini e teoremi generali relativi a quell’ambito.
Subordinatamente a certe condizioni iniziali, un numero sterminato di calcoli elementari produce necessariamente un certo tipo di ordine insieme a una quantità proporzionalmente maggiore di disordine.
Ordine e disordine dipendono dalle condizioni iniziali.
In qualsiasi condizione iniziale, effetti casuali nel vero senso della parola genererebbero puro caos.
La casualità pura equivale a una specie di magia.
La casualità pura non esiste.
Nel puro caso o puro caos, le probabilità non esistono.
Il calcolo di una probabilità esige un determinismo.
Ordini e disordini producono nuove condizioni iniziali per lo svolgimento di nuovi calcoli elementari.
Il tempo, come lo spazio, se è continuo è antinomico.
Se la continuità e l’infinito attuale esistono, l’uomo non è in grado di comprenderli.
Se la magia esiste, l’uomo non è in grado di comprenderla.
Se la magia esiste, è assolutamente casuale e quindi incomprensibile.
Qualsiasi potere implica una causalità e qualsiasi causalità implica un determinismo.
Come una canzone di San Remo produce gli effetti nervosi che provoca, non sarà mai possibile comprenderlo del tutto.
Come una canzone di San Remo riesca a produrre gli effetti sociali che provoca, non sarà mai possibile comprenderlo del tutto.
E’ più facile comprendere certe motivazioni a generare certi effetti sociali, che gli effetti sociali medesimi.
Le motivazioni umane sono causalità darwiniane.
Fatti ed eventi trascendono sempre le comprensioni e le motivazioni umane.
Le semplificazioni che aiutano comprensioni e motivazioni valgono solo all’interno di specifiche finalità progettuali.
Semplificazioni generate da fini illusori complicano inesorabilmente le realtà degli uomini.
Se i calcoli elementari non esistono in Natura, l’universo è magico, altrimenti è deterministico.
Un universo magico è definitivamente incomprensibile, un universo deterministico è definitivamente incontrollabile.
Una qualsiasi parte dell’universo è tanto più incontrollabile quanto più è vasta e complessa.
Una qualsiasi parte dell’universo, per controllarne un’altra, deve possedere un coefficiente di potenza e complessità enormemente superiore.
Una qualsiasi parte dell’universo, per controllarne un’altra, deve poterla isolare.
Parti complesse dell’universo che entrano in rapporto reciproco determinano uno sviluppo esponenziale di complessità.
Parti ridotte di una complessione di parti complesse in rapporto reciproco non possono assommare rapporti di potenza e complessità sufficienti a controllare l’insieme.
Qualsiasi collezione ristrette di esseri umani non può controllare l’Umanità.
Una collezione di esseri umani relativamente comprensibile e controllabile è una collezione molto ristretta.
Se contasse solo l’Oligarchia, una società umana sarebbe controllabile.
I numeri contano sempre qualcosa , sia che riguardino una somma di individui che un indice economico.
La cultura generale e filosofica (non tecnica) di una oligarchia conta solo darwinianamente, dal lato interno, e demagogicamente, da quello esterno.
L’accordo tra darwinismo e demagogia va al di là delle intenzioni e dipende dal contesto dei fatti oggettivi.
Un’autentica democrazia consiste in dittature di maggioranze che sperano di salire in grado, controllata da minoranze che sanno di poter sprofondare nelle maggioranze in qualsiasi momento della vita.
Una dittatura e basta è un governo di minoranze troppo garantite sostenute da pezzi delle maggioranze spaccate.
Una minoranza di governo è più democratica di un’altra soltanto se è meno garantita.
La minoranza oligarchica di un partito unico è meno democratica di una oligarchia economica soltanto se questa risulta meno garantita e sicura in conseguenza di una effettiva concorrenza.
Ogni concorrenza divora se stessa.
Un regime a partito unico può benissimo essere più democratico di una democrazia elettorale basata su partiti finanziati da concentrazioni di potere industriale e finanziario.
Solo i matti possono ritenere per davvero di comprendere la magia e controllare una parte significativa di un universo deterministico.
L’uomo può comprendere e controllare per davvero contesti ristretti solo traendone dei modelli semplificati in modo che vi si possano applicare formulazioni adeguatamente maneggiabili.
Se l’allargamento dell’orizzonte dell’universo che avviene in ogni istante non muta, anche se in modo lievissimo, il funzionamento complessivo delle leggi fisiche, queste non possono spiegare integralmente il funzionamento dell’universo; se l’allargamento dell’orizzonte muta le leggi fisiche, le leggi fisiche non sono fisse e immutabili.
Ogni autocoscienza animale, come in una galleria degli specchi, si apre a raddoppiamenti non infiniti, bensì potenzialmente illimitati come la sequenza dei numeri naturali.
Una sequenza di raddoppiamenti può anche richiudersi ad anello, ma non potrà mai violare la barriera che separa l’esistenza pura dall’esistenza percepita.
L’esistenza pura non può essere percepita né pensata né semplicemente nominata senza generare contraddizioni.
L’esistenza pura è una supposizione metafisica del pensiero razionale.
Il pensiero razionale può realizzare dimostrazioni tra riflessi fisiologici delle varie evenienze debitamente formalizzati (linguaggio + assiomi + logica), non registrare la pura esistenza di quelle evenienze.
Il pensiero razionale non può realizzare neppure l’esistenza di sé medesimo se non come riflesso di qualcosa che razionalmente comprende di non poter sentire, pensare e perfino nominare senza contraddirsi.
Nel pensiero di Cartesio, Leibniz, Kant, Darwin eccetera sono presenti grandi ovvietà.
La grande filosofia può essere solo una collezione di grandi ovvietà.
La buona scienza e la buona tecnologia non dimenticano mai, anche se per molti versi rimangono estranee al funzionamento dei propri dettagli, le grandi ovvietà.
Il pensiero razionale tende, più o meno irrazionalmente, a sintetizzare il complesso globale di fantomatiche esistenze irriducibili a qualsiasi pensiero nel concetto consapevolmente nebuloso di Dio o ‘Dio’.
Si può superare la barriera che ci divide dal concetto contraddittorio di esistenza pura solo ritenendosi magici e divini.
Chi si ritiene divino è un ‘imbecille’ (si prega di notare le virgolette) ovvero un atleta darwiniano.
Il pensiero magico e la divinizzazione di sé possono acquisire un senso e uno scopo in qualche modo razionali soltanto secondo una considerazione integralmente darwiniana, sempre in qualche misura opinabile e astratta, dei vantaggi per la sopravvivenza di gruppo o individuale.
Dio o ‘Dio’ determinano i vantaggi effettivi che le interazioni delle credenze darwiniane legate alla trasfigurazione magica di sé determinano a partire dall’ambito individuale in su, con ritorni e riverberi intrecciati nelle varie direzioni.
E’ impossibile comprendere Dio o ‘Dio’.
Ogni darwinismo agisce nei fatti, non negli organismi.
Ogni interesse egoistico o è automatico o è visionario.
L’egoismo razionale non esiste come non esiste l’esistenza pura percepita.
‘Io non sto mentendo’ è un non senso. ‘Io sto mentendo’ un’antinomia.
Io posso dimostrare di non essere dimostrabile se per dimostrarlo mi sposto in un ambito contestuale (livello meta-teorico in termini tecnicamente più corretti) diverso da quello in cui esisto e dislocato anche rispetto al livello in cui avviene la dimostrazione.
La Verità non esiste perché, a differenza della dimostrabilità, non può essere trasportata dalla porzione della realtà che viene presunta ‘vera’ a uno degli innumerevoli strati di coscienza.
Io non esisto entro il livello meta-teorico in cui presumo me stesso.
Io esisto nel quadro referenziale di una metafisica realtà, non in quello della coscienza.
La coscienza esiste nell’ambito dell’auto-riferimento, non in quello della realtà.
La coscienza è un auto-riferimento reale.
Ogni entità esistente e ogni auto-riferimento reale o è deterministico o è magico.
Io non percepisco qualcosa, io percepisco le modificazioni che quel qualcosa ha operato nel mio cervello e, più in generale, nel mio organismo biologico.
Il ‘mio’ organismo biologico rappresenta uno schermo inviolabile oltre il quale mi è assolutamente impossibile accedere se non attraverso una concatenazione di ragionamenti logici e astratti.
Io posso razionalmente accedere a dimostrazioni, mai a ‘verità’.
Le ‘verità’ non esistono.
La Verità consiste semplicemente in un fraintendimento e una mistificazione del concetto antinomico di esistenza pura.
Ogni coscienza animale trasforma una realtà oggettiva in realtà percepita o pensata.
Io non posso accedere al livello in cui esisto.
Noi percepiamo caratteristiche e attributi di cose esistenti, non l’esistenza in sé.
L’esistenza in sé non può essere neppure concepita.
La Verità è un fraintendimento dell’esistenza al livello della realtà e una mistificazione della dimostrazione al livello della coscienza.
Cantando una canzone senza parole è più facile cantare ‘la la la’ che ‘fs fs fs’.
Quando cantiamo una canzone di San Remo alcuni stati interni del nostro organismo si trasformano in un flusso piacevole.
La piacevolezza di uno stato interno viene assunta da un ‘imbecille’ o atleta darwiniano come una prova inconfutabile di esistenza pura e vera.
Una esistenza pura e vera può essere provata solo da altra esistenza pura e vera e sentimenti e sensazioni, piaceri e sofferenze sono interpretati dall’organismo in cui avvengono come puri e veri.
Per certi versi, un ‘imbecille’ o atleta darwiniano, con il suo magico idealismo irriflessivo, manifesta coerenza maggiore rispetto a un rozzo scientismo positivista non filosoficamente educato.
Feynman notò come la quasi totalità dei suoi allievi più bravi nel maneggio delle formule della matematica e della fisica pura manifestava un rozzo scientismo positivista insofferente verso i suoi ingegnosi quanto vani tentativi di comprendere ‘veramente’ la ‘realtà’.
La maggior parte dei tecnologi più bravi risolve la smaccata incoerenza del proprio rozzo scientismo positivista aderendo a un quadro generale di magico idealismo.
La maggior parte dei tecnologi (intesi in senso lato come professionisti raffinati e cultori di discipline varie, comprese quelle cosiddette umanistiche), i quali costituiscono la parte decisiva dell’oligarchia imperante, si rivela o cinico-agnostica o tecno-teocratica (teo-tecnocratica).
La Verità è una illusione che qualcuno riesce a somministrare a un altro soltanto se sa cantarla come si deve.
La dimostrazione dell’impossibilità delle questioni affrontate nel Prologo scientifico si può ottenere attraverso calcoli ordinari oppure attraverso sistemi concettuali raffinati.
Concetti molto specialistici e raffinati si traducono in complessi di nozioni intellettuali utilizzabili a scatola chiusa tramite ingressi e uscite opportunamente strutturati.
La ricerca matematica avanzata, come i vari apparati tecnologici, si basa su scatole nere utilizzabili attraverso dispositivi di input e output combinati.
Scatole nere di vario tipo rendono maneggiabili complessioni basate su immani estensioni di calcoli elementari.
Un tecno-teocrate tende a credere che le concettualizzazioni sofisticate spieghino i calcoli elementari ordinari, ma in realtà, come è perfino ovvio, vale il viceversa.
‘Zum zum zum’ e ‘la la la’ a parte, la vendita della Verità si connette implicitamente alla vendita di un cattivo infinito.
Un cattivo infinito (un infinito ontologicamente e logicamente inaccettabile) si può prendere tutto insieme come un oggetto finito.
Un buon infinito presume una effettiva illimitatezza e inesauribilità.
Una effettiva illimitatezza e inesauribilità si trova alla base dell’indomabile creatività delle esperienze di vita vissuta all’interno di un determinato organismo.
L’intera vita di un qualsiasi organismo si connette al flusso temporale di tutte le modificazioni biologiche dell’organismo medesimo indipendentemente dalle distinzioni tra ‘anima’ e ‘esterno’ che l’organismo è istintivamente portato a formulare.
L’infinito correttamente inteso crea illimitate possibilità, non oggetti magicamente finiti.
Una buona metafisica è il sogno di una ragione molto sveglia.
Una cattiva metafisica è il sogno di una Verità che rifiuta ogni dimostrazione logica e coerente rimandando agli effetti molto più espressivi e sintetici di una bella canzone di San Remo.
Esiste anche la musica classica, ma è meno democratica e confonde le acque con complicazioni eccessive.
La realtà soggettiva dipende da un punto di vista esclusivo.
Un soggetto si crede reale accanto ad altri reali, ma in realtà sperimenta soltanto le coerenze interne del proprio organismo.
Nessuno, a parte i matti, all’interno di un organismo animale che permane come lo schermo invalicabile di un auto-riferimento fondamentale, presume di creare il mondo in cui si trova o di dotarlo di leggi generali di propria invenzione.
Quasi tutti presumono leggi generali esterne e obbligatorie, il cui carattere magico varia molto da individuo a individuo, ma non scompare mai del tutto.
Nella realtà percepita attraverso lo schermo della coscienza animale, simultaneità di interazioni complesse simulano l’auto-creazione magica al punto di far ritenere il determinismo un’assurda ingenuità.
Il razionalismo logico e scientifico rappresenta l’unico limite concepibile agli arbitri delle soggettività inventive.
Premesse stabilite con linguaggi adeguatamente strutturati e derivazioni logiche, come calcoli e dimostrazioni di qualsiasi tipo, possono raggiungere approssimazioni valide solo semplificando enormemente i sistemi reali ovvero percepiti e razionalizzati.
Pensare di poter condizionare sentenze divine o ‘divine’ complicando e non semplificando i contesti esistenziali denuncia una classica ‘imbecillità’ (notate le virgolette) da atleta darwiniano di alto livello.
L’umanità non può più concedersi il lusso di quel darwinismo che l’ha consacrata specie vincente del pianeta per un periodo che si sta rivelando irrisorio in termini geologici.
La specie più atletica di tutte le specie mai apparse sul pianeta,, potrebbe rivelarsi di fatto la più deficitaria in assoluto.
Potremmo farcene una idea immaginando Helon Musk che passa sotto una cornacchia.
Come giudicherebbe una cornacchia, se il giudicare non travalicasse felicemente l’insieme delle sue prerogative, quel puntino che striscia rasente alla terra e che per volare richiede tutto quell’immenso lavorio e quei rigidi apparati che nel loro insieme rappresentano folli accelerazioni termodinamiche e quindi folli accelerazioni del tempo concesso a ogni modello organizzativo prima di estinguersi o stravolgersi?
La cornacchia vola solo da un albero all’altro, mentre l’uomo vola da una scatolina all’altra, però in continenti, satelliti e perfino, chissà, pianeti diversi.
Probabilmente, se consideriamo che qualsiasi specie si compone di una particolare combinazione di individui, l’umanità potrebbe rivelarsi fin da ora la specie più deficitaria in assoluto.
E’ infatti possibile e perfino plausibile, anche se mai dimostrabile, che l’umanità sia l’unica specie vivente i cui rappresentanti individuali abbiano sperimentato finora molte più sofferenze che piacevolezze o indifferenze.
Il punto di vista statistico ci dice, per esempio, che, se uno ha mille e mille hanno uno, mediamente tutti hanno 1,998001998001998001….. (che qualsiasi governo di buona volontà sollecito verso il benessere del popolo può aumentare a 1,998002 diminuendo dello zero virgola il mille dell’uno e aumentando dello zero virgola l’uno dei mille (la veridicità del dato la lascio al lettore accontentandomi del senso generale)
Quando si tratta di piacevolezze e dolori l’assortimento statistico delle dotazioni favorevoli non asseconda esattamente la distribuzione dei beni materiali, ma sembra che qualsiasi oligarchia non disponga alla fine che di misure relative a questi ultimi.
E’ possibile e perfino plausibile giudicare la specie umana come quella individualmente più infelice .
Quasi di sicuro la specie umana è individualmente la specie più scontenta, ma ciò potrebbe dipendere da un eccesso di aspettative legate a un eccesso di fantasiosità.
Di sicuro senza il quasi, la specie umana ha prodotto più devastazioni sistematiche di vite in generale e umane in particolare di qualsiasi altra specie.
Gli individui più in evidenza della Catastrofe Umana che apportano il loro piccolo contributo alla catastrofe generale e ritengono di farlo a fin di bene e su mandato divino si qualificano senza ombra di dubbio come ‘imbecilli’ (notate le virgolette) ovvero atleti darwiniani, spesso di alto o altissimo livello.
Persiste enigmatica quanto avvincente la questione dei rapporti, storicamente e sociologicamente molto variabili, tra prodezze darwiniane e deviazioni psicopatiche.
La Specie umana, se la consideriamo composta di individui qualunque invece che sostanzialmente riassumibile in condottieri ‘divini’, non può permettersi il lusso del proprio darwinismo trionfante.
Un ‘imbecille’ o atleta darwiniano ha tutto l’interesse a negare che esista una nozione valida di darwinismo applicabile alla specie umana.
Chi nega il darwinismo sostanziale presente nelle società umane sostiene implicitamente che la specie umana possa concedersi il lusso del suo particolare darwinismo vincente, ma la specie umana non può più concedersi il lusso del suo particolare darwinismo vincente.
Tenuta ferma la legge ferrea dell’oligarchia (che può piacere o non piacere, ma rimane comunque una legge ferrea eventualmente arrugginita) la forma di potere meno psicopatica rimane una oligarchia di almeno il 20% adeguatamente diffusa e strutturata.
Un potere oligarchico adeguatamente e stabilmente diffuso e strutturato forse si palesa più utopico di qualunque Progetto e forse è ottenibile soltanto attraverso un Progetto.
Un potere oligarchico che non si avvicini a una dittatura psicopatica più che a una democrazia maggioritaria non esige soltanto il sostegno di una maggioranza.
Un potere oligarchico ‘democratico’ (notate le virgolette) esige il rispetto delle minoranze.
Il trattamento equanime delle minoranze si basa soprattutto sull’intelligenza e la prudenza di vincenti che sanno di poter diventare perdenti per i capricci del caso.
Vincenti troppo vincenti per subire le incertezze delle sorti economiche (incidenti e malattie sono altri discorsi) non sentono alcuna necessità di una ponderata prudenza.
Un popolo troppo perdente per potersi concedere lussi di benevolenze eccessive trascura anzitutto probabilità molto alte di diventare più perdente di quello che è.
In Italia, una larga maggioranza della popolazione si trova a rischio sismico, climatico (siccità, temperatura eccessive eccetera) o idro-geologico, ma il costo per porvi rimedio che verrebbe fatto pesare su quella maggioranza viene ritenuto eccessivo da quella maggioranza se la probabilità di incorrere entro qualche anno nelle suddette calamità non viene considerata sufficientemente alta rispetto all’impoverimento sicuro.
L’autostrada Pedemontana Lombarda aumenterà sensibilmente, oltre a più tenui rischi generali, i rischi climatici delle popolazioni vicine, ma le popolazioni più lontane considerano irrisorio quel rischio se ritiene che il movimento di soldi relativo possa sollevare lievemente la propria condizione economica e gli indici generali.
Finché il costo per le politiche ambientali ricadrà senza compensazioni sulle varie popolazioni, l’oligarchia si dividerà tra chi, per non fare niente, si appellerà a imposizioni dall’alto che allarmano gli elettori e chi, per fare ancora meno, ergerà scudi più o meno fasulli di fronte a quelle imposizioni.
Una democrazia occidentale ormai trasforma tutte le questioni di vitale importanza in conteggi economici ed elettorali, nel migliore dei casi, e, nel peggiore, in questioni di prestigio dei Papaveroni capaci di spacciarle per questioni di prestigio nazionale.
L’umanità non può più permettersi un darwinismo vincente nel cui ambito l’essere cretino, lungi dal comprometterli, aumenta i coefficienti standard di successo o di sopravvivenza.
Definire cretineria ciò che propizia successo o sopravvivenza a seconda del ceto in cui agisce rappresenta ovviamente una contraddizione in termini.
Una definizione adeguata della generale idiozia umana deve riferirsi a quelle sentenze futuribili di Dio o ‘Dio’ che riguardano tutti da vicino.
La democrazia in senso occidentale non è più il peggior sistema politico eccetto tutti gli altri anche se non è ancora il migliore eccetto tutti gli altri.
Vincenti troppo vincenti godono istintivamente di un senso quasi divino di invulnerabilità che riguarda però il loro essere condottieri della Catastrofe Umana e non il loro essere individui.
Vincenti troppo vincenti tendono a divinizzare l’umanità di cui sono in grado di condizionare i destini e quindi divinizzano la propria persona al di là dei vincoli di quell’individualità che la propria anatomia e fisiologia animali ricordano in modo pedissequo e sgradevole.
Popoli divinizzati e condottieri megalomani rovesciano semplicemente i rapporti di causalità tra complesso planetario e biosferico e singola specie darwinianamente e temporaneamente egemone.
Condottieri megalomani e popoli fanatizzati per controverse ragioni di sopravvivenza elementare finiscono per vedere la Natura come un accidente del proprio Spirito Sovrano invece di vedere se stessi come fenomeni quasi puntiformi della Natura.
Gli oligarchi idealisti nel senso deteriore del termine (incline alla megalomania piuttosto che al rispetto e alla prudenza), come il loro seguito di sudditi, dovrebbero trarre spunto dalle atrocità delle decine di guerre in corso per esercitare un saggio disincanto nei confronti della natura umana (la specie animale più assassina che sia mai esistita).
Si dà il caso che l’individuo impotente davanti a nefandezze incontrollabili tenda in maggioranza a reagire con un fideismo tanto più efficace quanto più irrazionale.
Le oligarchie sadiche o semplicemente maldestre che provocano disastri possono sfruttare le idolatrie che essi generano per consolidarsi.
Le oligarchie si santificano chiedendo nobili sacrifici, non manovrando partite di scambio nel segno del ‘do ut des’.
Il suddito che santifica le oligarchie si sente istintivamente meglio se lo fa per un ideale eroico che santifica il popolo a cui appartiene.
Il suddito che santifica le oligarchie si sentirebbe un po’ fessacchiotto a farlo solo per continuare a tirare una carretta sempre più pesante.
Un oligarca che non soccombe a una guerra, ne rimedia una impronta sacrale e niente favorisce una guerra più di quel tipo di consacrazione quasi obbligata.
Ogni guerra rappresenta un rischio per una oligarchia di comando, ma ogni consacrazione finisce per indurre anche nelle caste più avvedute una deleteria illusione di invulnerabilità.
Che gli atleti darwiniani siano ‘imbecilli’ (si prega di notare le virgolette) si può spesso desumere dai disastri provocati nelle loro stesse vite oltre che nelle vite degli altri.
Una completa nullità filosofica aiuta molto le possibilità di successo dell’atleta darwiniano.
Non c’è niente di più passivo, di più succube agli automatismi del determinismo e del destino dell’attivismo darwiniano.
Il darwinismo è un vizio lussureggiante che divora.
Finché la maggioranza di atleti darwiniani di una oligarchia puntava a un’agiata e onorevole vita da reduci, ex o pensionati, i danni non superavano certi limiti.
Un’agiata e onorevole vita da reduci, ex o pensionati appare una miserabile inedia da invalidi a persone la cui situazione patrimoniale diventa confrontabile con quella di interi stati ‘sovrani’.
Persone la cui situazione patrimoniale diventa confrontabile con quella di interi stati ‘sovrani’ sentono in qualche modo la necessità di giustificare le proprie fortune.
Niente di più facile, stante l’attuale antropologia dei vincenti, che giustificare le proprie fortune per chi ne possiede a bizzeffe, comporti, non il miglioramento della sorte delle masse presenti di individui prosaici e difettosi, un futuribile mondo da sogno per una progenie sconfinata di eletti.
Un invisibile puntino biologico che fa sentire la sua voce in tutte le fasce elettromagnetiche che avvolgono il pianeta, è naturalmente portato a spiritualizzare le proprie interiora anatomiche ed è più facile sterminare anime eterne che animali che soffrono e sanguinano.
Quando qualcuno attribuisce la propria fortuna politicamente rilevante al caso (un’estrazione a sorte di ‘Dio’ ovvero del determinismo universale) piuttosto che al favore di Dio (ovvero al dominio eterno e universale dei propri valori), il mondo è più fortunato.
Che derivi da Dio oppure da ‘Dio’, ogni situazione patrimoniale dipendente dai valori di Borsa rimane in qualche misura una gigantesca creazione fittizia e immaginifica sprigionata da un sistema astratto e artificiale di contrattazioni finanziarie del tipo di quella che alle aste di Sotheby’s o Christie’s valuta milioni di dollari una tela non più grande di tre metri quadrati sapientemente coperta da colori in lenta alterazione spesso già alterati da sapienti restauri.
Qualsiasi ingente situazione patrimoniale si ridimensionerebbe drasticamente se si modificassero bruscamente i capisaldi portanti dell’organizzazione economica.
Se una qualsiasi azienda chiudesse da un giorno all’altro si ritroverebbe con un un buco finanziario che solo le aziende molto sane avrebbero potuto colmare con i dividendi che però sono già stati privatizzati.
La destra in genere non se la prende con gli evasori fiscali che costituiscono una fetta non trascurabile del proprio operato.
La sinistra stigmatizza l’evasione fiscale che nelle piccole aziende svolge a volte un ruolo di indennizzo anticipato per un eventuale fallimento di cui il titolare può essere chiamato a rispondere.
E’ facile che sinistra e destra omettano l’elusione fiscale sui dividendi (evasione legalizzata) che indennizza gli azionisti per i buchi che gli azionisti stessi riverseranno interamente sul cittadino qualunque nel caso l’azienda fallisse.
La mole dei debiti correnti in una dinamica e produttiva economia di mercato è qualcosa di assolutamente spaventoso.
Analisi e critiche sociali e politiche sono spesso dettate unicamente dagli interessi.
Un interesse in genere non necessita di giustificazioni morali.
Gli interessi che accampano giustificazioni morali si rivelano alquanto sospetti.
L’unica legittimazione possibile di un interesse si chiama onestà intellettuale.
Sentimenti genuinamente altruisti privi di onestà intellettuale si rivelano alquanto sospetti.
Può anche darsi che le istituzioni occidentali tendano a stabilizzare un modello considerato unico e insostituibile di democrazia elettorale.
Di sicuro (è prova provata!) le istituzioni occidentali tendono a stabilizzare e anzi a rimpinguare le ingenti situazioni patrimoniali.
Ogni arbitrio inventivo, per quanto ben cantato, decorato o spiritualizzato, rimane un arbitrio inventivo a cui la realtà non soggiace.
Se linguaggi, premesse e logiche si rivelano fantasiosi e ballerini, tanto varrebbe intavolare discussioni usando la scrittura automatica surrealista o sotto l’influsso di droghe allucinogene.
Linguaggi, premesse e logiche adibiti dalla politica professionale, in una percentuale che tende a diventare maggioritaria per l’azione delle leggi e delle logiche di mercato della politica professionale, si rivelano sempre più fantasiosi e ballerini.
Calcoli e dimostrazioni dettati dagli interessi si rivelano quasi sempre fantasiosi e ballerini
Ogni interesse egoista è fortemente aleatorio e perfino contraddittorio.
Ogni interesse egoista dovrebbe essere individualista, ma in effetti si determina in base a pressioni di sistema che con ogni sorta di individualismo hanno poco o nulla a che fare.
Istinti e interessi (ovvero il filtro soggettivo, più o meno raffinato e sublimato, delle onnipresenti dinamiche darwiniane) appartengono più a sistemi che a individui.
Un interesse individuale che non consideri quanto e in che modo una catastrofe globale coinvolga la propria individualità e la propria posizione più che egoista è idiota.
Un effettivo interesse individuale a ignorare o addirittura favorire catastrofi più che egoista è sadico.
A individui appartengono sensazioni e sentimenti, piaceri e sofferenze.
Sensazioni e sentimenti, piaceri e sofferenze condivisi pubblicamente si stravolgono in modi enigmatici e individualmente incontrollabili
Credere che la realtà indipendente, che non si può concepire, si possa inventare, rappresenta una immane sciocchezza.
La realtà indipendente è quel Dio o ‘Dio’ con cui si può convivere non attraverso la Verità che non esiste se non in quanto pura esistenza metafisica e non soggettiva, bensì attraverso la razionalità dimostrativa della coscienza autoreferenziale che presume metafisicamente la realtà come causalità deterministica ineluttabile.
Supporre di poter comprendere Dio o ‘Dio’ si può considerare ‘bestemmia’ secondo un’appropriata definizione semantica del termine.
Le religioni istituzionali ortodosse (‘religioni ‘orientali a parte) non diffondono bestemmie solo perché di fatto si risolvono in divinizzazioni dell’umanità.
Divinizzare l’umanità significa in sostanza divinizzare le soggettività presenti nelle oligarchie direzionali al punto di esaltare fino a deliri di spropositata megalomania le loro effettive possibilità di controllo nei confronti dell’azione continua e irrefrenabile di Dio o ‘Dio’.
Scienza e tecnologia domano una moderata complessità sul piano della pura esistenza trasformandola in cultura sul piano della coscienza umana.
Scienza e tecnologia non possono domare quantitativi di complessità esistente che si estendano oltre certi valori.
La complessità esistente sul piano di quella pura esistenza che non può nemmeno essere concepita dal cervello umano, per quanto ne sappiamo e mai riusciremo a saperne, può essere tradotta in una mole sterminata di calcoli elementari.
Certe ‘verità’ attinenti al piano della pura esistenza e non trasferibili su quello della pura coscienza non possono essere cantate in modo gradevole e persuasivo con ‘zum zum zum’, ‘la la la’ e ‘o bladì o bladà’.
Le ‘verità’ non cantabili non piacciono alle oligarchie persuasive e neanche a quelle autoritarie.
Parafrasi di Dio o ‘Dio’ non adeguabili a strategie di governo, persuasive o autoritarie, non possono corrispondere a utili e comode divinizzazioni istituzionali della sovrana umanità.
Parafrasi razionali e coerenti di Dio o ‘Dio’ portano al Progetto come sbocco ineluttabile di ogni politica effettivamente democratica, ma non convengono ai ceti che sostengono le oligarchie di gestione e comando.
Nei ceti che sostengono le oligarchie di gestione e di comando rientrano le maggiori possibilità di controllo delle scatole nere che presiedono ai funzionamenti più sottili e delicati del sistema economico e produttivo.
L’evidenza innegabile dell’ineluttabilità del Progetto, constatata da una intelligenza oligarchica, conduce alla distorsione del Progetto in irrigidimenti gerarchici e impositivi favoriti dalle Verità cantate in forme demagogiche e plagianti.
Il primo passo sulla via dell’ineluttabile Progetto stravolto e snaturato per interessi oligarchici comporta l’instaurazione di una dittatura della maggioranza.
Ogni democrazia consiste in gran parte in una dittatura della maggioranza.
La differenza tra un sistema politico effettivamente democratico e un sistema politico di fatto autoritario riguarda unicamente il trattamento delle minoranze.
Una dimostrazione presuppone un linguaggio ovvero una parafrasi di determinate realtà.
Una dimostrazione parte da premesse ovvero da caratteristiche e attributi organizzati da un linguaggio in un certo modo per pervenire attraverso una logica ad attributi e caratteristiche organizzati dallo stesso specifico linguaggio in modi diversi.
La ‘verità’ o è una tautologia o è un non senso.
La ‘verità’ non è mai la Verità.
La ‘verità’ che diventa Verità riguarda trucchi e imposture legati a questioni di interesse e di potere o a illusioni risarcitorie dei singoli individui.
Concettualizzazioni elaborate sintetizzano laboriosi calcoli ordinari ed elementari, ma non li spiegano.
Laboriosi calcoli ordinari spiegano le concettualizzazioni elaborate.
Concettualizzazioni elaborate riguardano campi della matematica superiore come, per esempio, topologia algebrica multidimensionale, equazioni differenziali in campi vettoriali, rotori, tensori eccetera eccetera.
Calcoli ordinari elementari sono quelli che il genio umano è riuscito a delegare a computer incredibilmente veloci.
Concettualizzazioni elaborate consentono l’utilizzo di ingenti porzioni del pensiero matematico e tecnologico alla stregua di scatole nere.
Una scatola nera di concetti funzionali correla determinati input a determinati output.
L’utilizzo di una scatola nera può essere automatico o manuale.
Le regole per un utilizzo manuale di una scatola nera si possono omologare in senso lato alle pressioni combinate di pulsanti.
Premere pulsanti e ottenere risposte elaborate ricorda metaforicamente lo sfregamento della lampada di Aladino o il pronunciamento di una formula magica.
La tecnologia favorisce il pensiero magico dell’utilizzatore, ingenuo o geniale che sia.
Chi combina per decine di pagine input e output di scatole nere e bamboline matrioska è un genio.
Chi copre centinaia di pagine con calcoli elementari viene considerato una specie di idiot savant.
E’ possibile e magari probabile che, entro pochi, pochissimi secoli il giudizio inappellabile della Natura Idiot Savant avrà bollato la geniale umanità come la specie animale più fallimentare mai apparsa sul pianeta Terra.
L’unica nozione sensata che possiamo formulare di Dio o di ‘Dio’ rimane quella di una sorta di Idiot Savant Universale.
Il fatto che l’unica nozione sensata che possiamo formulare intorno a qualcosa sia X, non significa che quel qualcosa consista effettivamente di X.
Non è scandaloso considerare Dio o ‘Dio’ un Idiot Savant: scandaloso e perfino blasfemo è supporre di poterLo veramente comprendere e interpretare.
Comprendere di non poter comprendere richiede un tipo di ragionamento che per la maggior parte di quelli in grado di comprenderlo rimane comunque indigesto per ragioni psicologiche e motivazionali.
Comprendere di non poter comprendere introduce a una mentalità idonea ad affrontare l’idea di Progetto.
Alla maggior parte delle élite che potrebbero promuoverlo il Progetto rimane indigesto per ragioni psicologiche e motivazionali.
La maggior parte degli attuali oligarchi (pseudo-democratici o autocratici, poco importa) risultano teo-tecnocrati o tecno-teocrati.
Sono pochi gli oligarchi in carica che non si ritengano, in modi più o meno espliciti o segreti, interpreti di Dio.
La maggior parte degli oligarchi in carica sono blasfemi.
Che Dio o ‘Dio’, nel breve arco di una vita, condanni per blasfemia gli oligarchi in carica o li esalti come tende sempre a fare una fetta consistente di ‘popolo’, rimane una questione di casi e di fortune.
Se successi o insuccessi, a parte la minima dose di fanatismi assolutamente indispensabili, non si rivelassero questioni di casi e di fortune variamente giudicabili secondo le varie posizioni e i vari interessi, tutte le persone ragionevoli e non solo i fanatici potrebbero trarne l’impressione di aver intravisto almeno qualche tratto del volto di Dio o ‘Dio’.
Chi ritiene il proprio successo il frutto di un verdetto divino, ritiene di possedere una fotografia in piena luce di Dio.
Chi ritiene il proprio successo il frutto di un verdetto divino, possiede di sicuro quella dose minima di indispensabili fanatismi in grado di favorire, anche se non garantire, il successo.
Ogni morale privata corrisponde a un modus vivendi.
Una morale privata contiene inevitabilmente parti di egoismo.
Pochissimi considerano egoista la propria morale, ma quasi tutti finiscono per considerare morali i propri egoismi.
Il successo mondiale del liberismo economico (che con l’autentico liberalismo ha poco o nulla a che fare) deriva dal mito famoso della Mano Invisibile.
Il mito della mano invisibile conquista più facilmente i ‘popoli’ di qualsiasi mito circa la capacità dei governanti di rappresentare effettivamente ‘i popoli’.
Una moralità sociale, per non sottostare al giudizio arbitrario di particolari gruppi di interesse, dovrebbe declinarsi in termini razionali e scientifici.
A qualsiasi oligarca non conviene che una moralità sociale si declini in termini razionali e scientifici.
Un ‘popolo’ non è mai educato secondo modalità che gli consentano la comprensione effettiva della razionalità scientifica.
Un ‘popolo’ non è mai educato a una cultura razionale, bensì, nella migliore delle ipotesi, elevato a sacrale entità teo-tecnocratica o tecno-teocratica.
Ogni effettiva moralità sociale rimanda a un Progetto, esplicito o sottaciuto che sia.
Una dittatura può essere a suo modo morale se dà priorità assoluta a ordine e disciplina e vi sottomette ogni altra istanza sociale.
Una democrazia di tipo occidentale può essere (ipocritamente) immorale quando dà priorità assoluta a istanze economiche e vi sottomette ogni tipo di ordine e disciplina.
La moralità (relativa) di ogni democrazia di tipo occidentale coincide (per ora) con il suo anarchico individualismo di fondo.
Nessun individualismo sopravvive all’anarchia pluri-centralista e pluri-autoritaria del globalismo economico.
Il globalismo economico privo di razionalità progettuale significa (in tempi più o meno rapidi) dittatura del caos.
La razionalità progettuale diretta o condizionata da mega-gruppi industriali potrebbe significare dittatura e basta.
Una dittatura rappresenta una metodologia politica grezza e semplicista di contenimento del caos.
L’efficacia di controllo del caos sotto le dittature si commisura al loro grezzo e sbrigativo semplicismo.
Nei limiti in cui una dittatura è efficace il caos si riduce.
Quando una dittatura, nonostante la propria sommaria ed efficace rozzezza, perde il controllo del caos, il caos si moltiplica.
Gli intellettuali organici resi autorevoli dalle più varie e diverse istituzioni non possono preoccuparsi di esigenze totali o maggioritarie, bensì dell’importanza del loro ruolo in un assetto ordinato e conseguente.
Preoccuparsi dell’importanza di un ruolo sofisticato conduce alla ricerca di una società adeguatamente sofisticata.
Una società troppo sofisticata, quando comincia a cedere sotto il peso delle proprie velleità, comincia a dissolvere le eccessive finezze in altrettanti germi di caos.
Se i sottili intellettuali si occupassero di esigenze totali o almeno maggioritarie delle disomogenee individualità indipendenti dovrebbero parlare di Progetti e solo di Progetti.
I sottili intellettuali non si occupano mai di disomogenee individualità indipendenti, ma di astratte individualità intellettuali.
Solo Progetti consentirebbero di allentare la morsa degli automatismi di sistema.
Se i sottili intellettuali parlassero di Progetti e solo Progetti, qualsiasi Progetto decadrebbe dal titolo onorifico e nobiliare di Utopia per diventare argomento di un civile dibattito democratico.
Se discutere apertamente di Progetti si risolvesse per la legge ferrea dell’oligarchia in reazioni forti dei poteri forti, ciò modificherebbe solo in modo superficiale le evoluzioni o involuzioni in atto, apportando in compenso una maggiore chiarezza.
Che si parli di Progetti o non Progetti dipende molto più da questioni di interesse che da realismo o non realismo.
Ogni autentica realtà sociale assume la forma di combinazioni e scontri di interessi.
Ogni autentica realtà naturale rimanda a Dio o a ‘Dio’.
Ogni idealità che non metta d’accordo Umanità e Natura riguarda una porzione di tempo incredibilmente ristretta e contingente se misurata in unità di tempo geologico.
Un Progetto razionale spaventa mentre una tecnologia sofisticata ammalia come la strega Amelia.
Non si può fotografare un mucchio di immondizie senza trasfigurarlo (W. Benjamin).
Non si può percepire qualsiasi cosa senza trasfigurarla.
Non si può pensare, non si può vivere qualsiasi cosa senza trasfigurarla.
Non si può essere se stessi senza trasfigurarsi.
Ogni rivoluzione sociale e ogni conservatorismo idealistico consistono anzitutto in giganteschi psico-drammi, sognanti trasfigurazioni rituali di qualcuna delle tante assolute Verità impossibili.
Ogni Progetto manifesta gradi diversi di fattibilità e funzionalità.
Se qualcuno non intravede la necessità inderogabile di un Progetto, non lo prende minimamente in considerazione.
Non esiste via di mezzo tra ordinaria normalità e sublimazione mistificante.
Una idea genericamente plausibile o viene ricondotta con studi e lavori opportuni e almeno nei desideri alla cronaca della corrente funzionalità o viene esposta (almeno nei desideri) come Verità obbligata sugli altari della pubblica adorazione, inviolabile almeno quanto inerte.
Che ordinaria funzionalità e spronante idealismo possano marciare insieme rappresenta solo una drammatica illusione comune a tutti i teorici delle società integraliste che non siano delinquenti o psicopatici.
Tutte le società integraliste tentate finora hanno funzionato da male a malissimo.
Le società occidentali hanno funzionato meglio più per un delicato connubio tra anarchico cinismo e ingegneria burocratica che per le proclamate mitologie relative alla dignità e libertà delle persone.
Le società di tipo occidentale (mi si consenta la grossolana approssimazione) hanno funzionato in un modo che nessuno può effettivamente comprendere.
Dignità e libertà degli individui non costituiscono valori, ma fatti individuali.
Favorire le dignità e le libertà degli individui costituirebbe un valore sociale se i modi per farlo non si rivelassero numerosi quanto gli individui stessi o quasi.
Le società di tipo occidentale moderno non si sono mai rette su valori, ma, nel migliore dei casi, su approssimazioni costituzionali architettate da una ingegneria politica e sociologica impegnata a risolvere conflitti insanabili tra concretezze viventi e filosofie astratte.
Le società di tipo occidentale sono state in tempi recenti le peggiori a parte tutte le altre.
Le società di tipo occidentale stanno velocemente diventando le peggiori uguali a tutte le altre.
Le società di tipo occidentale hanno funzionato perché nessun gruppo preciso di persone si è mai preso seriamente la briga di farle funzionare in base a propri criteri, metodi e valori.
Le società occidentali hanno applicato la legge ferrea dell’oligarchia con la massima estensione possibile dell’oligarchia.
Quando una oligarchia copre una grande fetta minoritaria del corpo sociale (circa il 20%), la legge ferrea dell’oligarchia si avvicina a una legge olistica.
Un certo grado di mobilitazione sociale (sempre in larga parte solo presunta e illusoria) rimane fondamentale per la tenuta ‘democratica’ della legge ferrea dell’oligarchia.
Le società basate su formule e concetti generalisti del fenomeno umano (a prescindere da buone intenzioni sempre peraltro da leggersi secondo una dialettica, più che marxista, darwiniana) non hanno mai funzionato.
L’incredibile caos medio-orientale (equilibrato ed equanime soltanto nella suddivisione di allucinanti ferocie) compone una dimostrazione definitiva e incontrovertibile della fallimentare e velleitaria presunzione di qualsiasi tipo di assolutismo religioso.
Alla prova dei fatti, l’unica concezione delle società umane che abbia funzionato (paradossalmente e alla meno peggio) si è in concreto tradotta in un disincantato agnosticismo davanti alla possibilità di fondere una collezione sterminata di individui, per non pochi versi incompatibili tra di loro, in entità più organiche e compatte.
L’evoluzione naturale delle società occidentali sta operando la trasformazione della legge ferrea dell’oligarchia massimamente estesa in economicismo oligopolistico basato su enormi concentrazioni di capitali che, per conservare se stesse e il sistema da cui dipendono, necessitano di assolutismi visionari di tipo teo-tecnocratico o tecno-teocratico.
Concentrazione assurde di capitali dipendono dalla razionalità di un sistema di contrattazioni che, nei suoi gesti più audaci, ha saputo valutare un seme di tulipano alla stregua di un castello, un’azione di Tiscali a mille cinque anni prima e a uno cinque anni dopo e valuta milioni di dollari una tela dipinta con colori destinati a marcire e più piccola di tre metri quadrati.
La tecno-teocrazia (o teo-tecnocrazia) rappresenta la versione più aggiornata di una concezione integralista dei governi e degli stati.
L’aspetto paradossale della T.T. salta subito all’occhio se pensiamo che la linfa vitale di ogni economicismo dovrebbe consistere nella competitività e non nell’unificazione verticista.
Senza quella competitività che, paradossalmente quanto deterministicamente, le stesse leggi di mercato tendono ad abolire (attraverso meccanismi di auto-negazione molto più diffusi in Natura di quello che si è portati a creder) l’economicismo politico potrebbe essere sostituito dall’assolutismo religioso con le stesse probabilità di successo.
T.T. significa che il Mercato è diventato un Idolo eretto da pochi per l’adorazione di Tutti.
Il mercato economico ortodosso può plausibilmente e sinceramente piacere solo alle entità che lo dominano.
Il mercato diventa automaticamente (dando tempo al tempo) il Mercato, una divinità staticamente ieratica da osannare con acritica fiducia (la fiducia che il suddito è obbligato a coltivare e che il governante ha tutti i diritti di ricevere e nessun dovere di generare) come un Bene Garantito del Popolo o come il Dio Umanità benevolente verso le individualità che abolisce.
Il mercato (con la sua iniziale prosaicamente minuscola) finisce con il ridursi a quello che è sempre stato ai piani bassi fino alle cantine e ai sotterranei: una lotta per la pura sopravvivenza.
La lotta per la pura sopravvivenza costituiva titolo di merito per le classi inferiori quando queste, almeno nella prassi elettorale, costituivano compagini organizzate e influenti per la scelta delle classi dirigenti.
La lotta per la pura sopravvivenza oggi si identifica in buona parte con l’evasione fiscale delle partite IVA aperte per l’impossibilità di diventare dipendenti fissi e regolari.
In certe fasi storiche la lotta per la pura sopravvivenza guadagna promozioni etiche e considerazione sociale, in altre avvia perlopiù, almeno nelle considerazioni più diffuse, degenerazioni delinquenziali di varia gravità.
Se le caratteristiche di minore o maggiore moralità o di minore o maggiore furfanteria si trasmettono dal basso verso l’alto o viceversa, risulta una classica questione irrisolvibile come i rapporti tra genetica e ambiente o quelli tra meriti e convenienze.
Moralità e furfanterie si muovono in su e in giù attraverso gli strati sociali secondo combinazioni inesauribili
8 dicembre 2023
ALTRE CONCLUSIONI FORSE PROVVISORIE.
Le dimostrazioni originali (riassunte in data 10 novembre 2022) dell’ultimo teorema di Fermat, del teorema dei 4 colori, della congettura di Goldbach e dell’ipotesi di Riemann si basavano su metodi euristici tali da far storcere il naso a un purista della tecnologia matematica.
Le errate dimostrazioni successive, come quella che riportiamo di seguito, cercavano soluzioni più tradizionali e sono state presentate in parallelo con analisi su questioni generali per affrontare le quali, al fine di ottenere almeno una parvenza di scientificità, il metodo euristico, ossia il tentativo di effettuare deduzioni da principi generali di grande plausibilità, rimane il solo abbordabile con un minimo di fattibilità e credibilità effettive.
Un confronto esemplificativo e concreto tra le due procedure, l’una che affronta il dedalo dei dettagli, l’altra che cerca di fissare quadri e orientamenti di ordine generale può apparire sofistico soltanto a chi crede veramente che principi di ordine assoluto siano imposti dall’alto e per il resto basta immergersi a testa bassa in tecnicismi di ogni sorta come se quelli non cambiassero completamente valenze e significati a seconda delle impostazioni di base.
Comunque sia, i meccanismi sottili delle realtà che veramente riguardano gli uomini e li coinvolgono tutti da vicino rimangono sostanzialmente inconoscibili e l’unico approccio politico serio ai destini dell’umanità (tutti gli altri rimangono risibili nel senso della frase di Chaplin per cui la vita è una tragedia vista da vicino, ma una esilarante commedia nel lungo termine) imporrebbe di fissare delle priorità e cercare di realizzarle semplificando al massimo e al massimo alleggerendo l’influenza sul pianeta della specie homo.
Tutto il resto è insensato frastuono.
An = P2(L – M)An-1 + P3 (L2 – M2)An-2 + ….. Ln – Mn
A > n (L – M)
Li – Mi > (L – M)i se i > 2
Rn (L – M)n > Rn-1 P2 (L – M)n + Rn-2 P3 (L – M)n + ….. (L – M)n
con R numero razionale maggiore di n
Rn > (R + 1)n – Rn
il che presuppone valori di R troppo grandi rispetto a n.
Il classico ottimismo dei vincenti rappresenta l’impostazione automatica ed esclusiva su cui si modula la voce degli oligarchi al comando.
Ogni atteggiamento che non vi si intona risulta marginale e secondario a prescindere da qualsiasi tipo di verità e pertinenza scientifica, per non parlare di fattori ipso facto minoritari e in gran parte fantasmatici quali le effettive valenze artistiche e culturali.
Quindi la presente analisi critica, che non mira a una reprimenda degli (almeno in parte) interscambiabili e occasionali vincenti od oligarchi, ma a evidenziare ineluttabilità sottaciute per quella che, con un quasi-ossimoro, definirei ipocrisia funzionale, fa propria la inefficacia e irrilevanza di ogni intelligenza anti-sistema nelle fasi di acquiescente declino che preludono a stravolgimenti epocali.
Paradossalmente, ma neanche tanto a pensarci bene, un indicatore di quanto un sistema politico-economico versi in crisi irrimediabile appare senz’altro il rifiuto quasi plebiscitario, pregiudiziale, vilmente e stolidamente difensivo, invece dell’accoglimento a titolo di sfida creativa e di stimolo, di ogni modo alternativo di pensare.
Nelle fasi di stravolgimento, tali tipi di critica (caos e anarchia permettendo) saranno applicabili pari pari agli eventuali vincenti od oligarchi ‘rivoluzionari’ almeno finché non aderiranno esplicitamente a forme trasparenti e dichiarate di quel contrattualismo progettuale che di fatto risulta sgradito a qualsiasi politica professionale impostata sul gioco delle parti tra destre, centri e sinistre e non si può certo sperare che arrida a despoti illuminati quanto si vuole.
Il gioco delle parti politico piace tanto (e tanto di più quanto più è specioso, artefatto e convenzionale) a chi è interessato soltanto al controllo e alla governabilità dall’alto e/o a chi non può fare a meno di positivismi retorici di tipo dialettico e umanistico, ma prima o poi, per i propri meccanismi intrinseci, contravviene a concezioni ontologiche elementari che richiamano il giudizio che possiamo tranquillamente definire divino (con virgolette o meno) di ovvie (scientificamente parlando) oggettività naturali.
Tutto ciò, ovviamente, vale nel caso che l’umanità, anziché costituire il fiore all’occhiello del Dio / Uomo senza virgolette nella totalità degli infiniti universi, della Natura costituisca soltanto una parte irrisoria e transeunte a prescindere dalla propria disastrosa benché transitoria invadenza, in modo che la glorificazione delle pratiche sociali nella propria dirompente e dilagante prolificità si configuri, né più e né meno, come un grave sfregio dell’integrità planetaria.
I vincenti coincidono con l’uno su mille, più o meno, che (come cantava un saggio menestrello) ce la fa (o, molto più probabilmente, ci è), supportato dall’uno per cento circa di quelli che quasi ce la fanno e dall’uno su dieci o su cinque che anche se non ce la faranno mai o quasi possono sempre sperare di farcela.
Si qualificano secondo verdetti di capacità e fortuna la cui mutua interazione rimane nella stragrande maggioranza dei casi indistricabile come i rapporti tra genetica e ambiente o quelli tra convenienza e abilità.
Poiché le complessità che così si delineano finiscono inevitabilmente con lo sminuire l’autorevolezza delle personalità di comando, l’ottimismo dei vincenti deve puntare prima e sopra di tutto a depotenziare le medesime complessità.
Sostenere dogmaticamente o comunque acriticamente la trascendenza della mente umana rispetto alla realtà naturale diventa indispensabile al fine di salvaguardare il rispetto del potere decisionale oligarchico (l’unico tipo possibile in società non contrattualistiche-progettuali).
Da qui nasce l’alleanza istituzionale indistruttibile tra poteri teocratici e poteri tecnocratici (quella tecno-teocrazia che nelle società più integraliste diventa teo-tecnocrazia rimanendo sostanzialmente la stessa cosa)
Ribaltando i termini di trascendenza tra facoltà umane e vertiginosa inesauribilità (relativa alle stesse facoltà) della natura (l’automa cellulare o rete neurale o simile esteso all’intero universo e alla scala di Planck) si tramuta il vero liberalismo in dispotismo illuminato travestito di illusorie ritualità elettoralistiche (la scelta tra partiti diversi finanziati o comunque pesantemente condizionati dagli stessi finanziatori).
Il finanziamento può riguardare direttamente le casse dei partiti o anche, per esempio, l’assunzione di famigliari, parenti e amici del personale politico di qualche peso.
Il vero liberalismo non può esimersi dalla ricerca dello stato stazionario secondo concezioni neo-contrattualistiche alla Rawls, che fondano il concetto di giustizia sulla prevenzione dell’aleatorietà che pervade i destini individuali (criterio del maximin).
Il contrattualismo non è mai piaciuto a sinistra perché nega la vitalità del dinamismo sociale e a destra perché imbalsama il decisionismo auto-referenziale, ma tali vitalità e risolutezze, individuali o corali, possono essere considerate valori solo all’interno di concezioni metafisiche di tipo dogmatico-religioso o comunque escatologico-palingenetico.
Basta considerare le dinamiche dei sistemi reali (reti frattali, leggi di scala come quella di Zipf, riduzione tramite esponente di opportuna potenza del numero di rappresentanti a fronte di valori corrispondentemente più alti...) e riscontrarvi le dissonanze profonde che riguardano le antropologie storiche, politiche e sociali per nutrire fortissimi dubbi circa la pertinenza di ogni millenarismo comunque razionalizzato e laicizzato.
Tra autentico liberalismo sancito con dettati costituzionali e liberismo gerarchico per automatismi impliciti di assoluta inesorabilità intercorre un abisso e si può perfino affermare che l’uno sia il contrario dell’altro.
L’aleatorietà insita nei destini individuali, che costituisce la base filosofica dell’autentico liberalismo, mina in effetti qualsiasi principio assoluto di autorità non progettuale e deve così essere negata attraverso l’assurdità di concezioni pseudo-religiose come l’essenzialità metafisica di ogni singola anima immortale.
Autentico liberalismo significa anche estremismo di centro.
La formula sottintende l’ambiguità e l’ipocrisia di quel sedicente moderatismo che, ignorando in modo perfino grottesco la proliferazione incontrollabile di ogni complessità creativa, mente spudoratamente sapendo di mentire circa gli aspetti problematici di una libertà esistenziale effettivamente degna del nobile nome e del nobile aggettivo.
La libertà dei moderati non è che la libertà degli autarchici e non populisti padroni del vapore di concedere in modo accorto e controllato licenze di relativa autonomia sempre strettamente subordinate a fini di progresso economico rigidamente gestiti e distribuiti in quanto a effetti e ricadute.
Moderatismo significa anche garantismo di élite ovvero la facoltà di aggiustare il peso dei reati e degli oneri di prova in base a considerazioni di importanza gerarchica e politica.
Che ogni società umana, per non finire nel caos e dissolversi, esiga almeno in parte siffatti travisamenti e addomesticamenti delle libertà individuali non falsifica le precedenti osservazioni, piuttosto le rende banali.
Una banalità non può mai essere pericolosa: se lo diventa, occorre sviscerarne il motivo e questo, in qualsiasi paese, occidentale o meno, mette capo alla relativizzazione di qualsiasi rapporto tra libertà e potere.
Seguendo tali precetti, gli oligarchi al comando rappresentano una categoria politico-sociologica che, prescindendo da qualsiasi caratterizzazione individuale, si risolve integralmente in un complesso di condizionamenti sistemici, storicamente e geograficamente fondati.
Un oligarca si definisce tale in base alle capacità di scindere la propria esistenza individuale dalla funzione pubblica, il che presuppone ovviamente sostanziose indennità materiali.
La separazione tra pubblico e privato comporta gratificante prestigio da un certo livello in su, derive depressionarie e schizofreniche da un certo livello in giù.
L’individualismo democratico diffuso soccombe come insostenibile astrazione davanti al sofisticato individualismo aristocratico sancito alla stregua di principio universale dalla legge ferrea dell’oligarchia.
Il privilegio aristocratico nutre e sostiene quell’ottimismo dei vincenti che quando, complici le complicazioni e ineluttabilità delle circostanze, inclina verso un cupo realismo, favorisce il passaggio dall’egemonia elegante delle élite colte e raffinate alla durezza imposta giocoforza e obtorto collo ai quasi tiranni (loro malgrado) consci del proprio ruolo ingrato quanto tristemente doveroso e responsabile.
In queste fasi, intelligenza pura e pura imbecillità si sovrappongono fino a confondersi se contesto sociale umano e substrato ontologico primario non si possono più armonizzare, se le esigenze della stabilità politica e sociale e quelle di sopravvivenza della specie all’interno del mondo naturale e planetario divergono irrimediabilmente.
Alla fine, intelligenza o imbecillità si rimettono al giudizio inappellabile dei fatti non umani e perfino disumani, alle sentenze che attendono al varco l’umanità trascendendo le sue volontà.
Tali fatti, se esistono a prescindere da ogni delirio di onnipotenza antropologica, secondo una visione puramente scientifica e quindi autenticamente religiosa, dipendono dai verdetti di una ontologia in cui l’umanità è annessa e connessa secondo modalità molto rilevanti nel breve, ma effimere e trascurabili nel medio-lungo periodo.
Ovviamente una simile visione può apparire allo stato attuale addirittura scandalosa per la maggioranza di sedicenti credenti che commisurano la verità e profondità di una fede a una adeguata salvaguardia dei propri equilibri psicologici e interessi mondani.
Tale visione apparirà però finanche scontata a chi crede veramente e non ipocritamente all’esistenza di Dio o ‘Dio’ nei termini e nei risvolti che suggerisce una filosofia razionale opportunamente generalizzata.
Dovrebbe risultare abbastanza ovvio che una qualsiasi forma di pensiero che tenga di mira l’oggettività degli eventi e dei problemi, o risulta scientifico almeno in senso lato, o si palesa come mera forma di comunicazione antropologica (un gioco alla Wittgenstein) condizionata dalle più diverse modalità di coinvolgimento, coordinazione, manipolazione eccetera.
Queste modalità comunicative si risolvono sempre in meccanismi di complicità o influsso reciproco già nelle sfere intime e private, figuriamoci quello che può accadere in ambiti pubblici e funzionali.
Dovunque avvengono contatti tra diverse soggettività umane (singole, poche, molte o moltissime nelle più diverse combinazioni), tali soggettività pensano di giocare, giocarsi o essere giocate capitalizzando i frutti del proprio libero arbitrio o lamentandone l’ingiusta valutazione, ma in realtà sono giocate da quella trascendente complessità del determinismo assoluto i cui decreti rappresentano la volontà di Dio o ‘Dio’.
Rispettare tale volontà facendo comunque agire analogie di libero arbitrio il più possibile aderenti all’inarrivabile applicazione letterale del concetto comporta un solo tipo di condotta comunitaria: l’autolimitazione critica e consapevole di una dannosa e prevaricatrice arbitrarietà di specie.
Se attuare tale autolimitazione attraverso una razionale preservazione di una qualità opportunamente modificata delle vite individuali oppure attraverso lo sterminio delle stesse qualità o addirittura degli stessi individui rappresenta la scelta politica cruciale se non dei prossimi anni, di sicuro dei prossimi decenni.
Tutto ciò può apparire dogmatismo religioso a rovescio, ma in realtà coinvolge la questione elementare e fondante di ciò che si può o non si può concepire intorno alla nozione di esistenza oggettiva al di là degli schermi cangianti e ballerini dove si anima qualsiasi nostro concetto o rappresentazione (le funzioni di verità dell’ordine di centinaia elevate a centinaia, ridotte a poco o niente solo dall’accettazione supina di uno status quo che appare fisso e inviolabile finché a un certo punto deflagra).
Poiché non esiste alcuna possibilità di differenziare non determinismo, auto-creazione e magia, questo ci obbligherebbe, in sede pubblica e funzionale, a limitarci a modalità di approccio scientifico, il che non necessariamente pregiudica, in sede privata, alcun tipo di scelta individuale.
Tutto ciò le stelle più brillanti dei più brillanti atenei del mondo lo sanno benissimo, anche se devono accuratamente evitare di rivelarlo se vogliono continuare a brillare insieme ai loro atenei nel segno totalitario e inviolabile del ‘divide et impera’ culturale.
Non esistono società umane in cui la cultura pubblica non debba inginocchiarsi davanti ai presupposti della governabilità.
Soltanto una società interamente progettuale renderebbe possibile il contrario, per cui, se la si ritiene una utopia, cari oligarchi (soprattutto voi, esimi intellettuali autorizzati a parlare in nome della casta), dovreste almeno conservare la decenza e il pudore, non di spogliarvi degli ornamenti in pubblico, il che rimane incompatibile con esigenze di ruolo, ma almeno di considerarvi in privato dei re nudi che obbligano ogni persona del popolo a indossare occhiali che rivestono le fisiologiche nudità ‘spirituali’ (tristi e deprimenti come quelle di tutti) con magnificenti e magniloquenti orpelli.
Che tali occhiali facciano veramente il dovuto oppure, come nella favola, obblighino soltanto ad attestarlo per scansare le pene riservate agli eretici, si manifesta, tutto sommato, questione di secondaria importanza.
Che i sudditi e i governanti migliori siano idealisti convinti o, al contrario, scettici nichilisti più o meno dissimulati è un fatto come la circostanza che la maggioranza sarà sempre costituita da realisti barra opportunisti barra affaristi.
La maledizione peggiore in cui può incorrere un popolo, qualsiasi cosa la parola significhi, rimane comunque incappare in quei governanti che si faranno un vanto di disinibire la maggioranza (circa i due terzi) di un popolo moderatamente integralista e confessionale dalle remore e dai rimorsi latenti per essere in fondo soltanto dei realisti barra opportunisti barra affaristi.
Chi oserà dire che il re è nudo apparirà comunque ‘ideologico’ secondo il giudizio di centro-destra e ‘populista’ secondo quello di centro-sinistra, dove per ‘centro’ si deve intendere ‘moderato’, parola che in Italia è diventata di uso politico positivo e abitudinario solo dopo l’avvento di uno dei personaggi più estremi (ma non estremisti e anzi, appunto, ‘moderati’) della storia politica occidentale.
‘Ideologico’ definisce, per la brutale schiettezza di centro-destra, colui che non appartiene al centro-destra, ‘populista’, per la raffinata cultura di centro sinistra, significa pertinente a chi è troppo rozzo e ignorante per poter accampare interessi rozzi e ignoranti come sono tutti gli interessi materiali tranne quelli che non è necessario attivare perché quello che serve è già dato.
Sottolineo che ‘centro’, applicato a destra o sinistra, rappresenta un semplice peggiorativo, nel senso specifico di svuotare la politica di ogni seria valenza anche solo dialettica.
Inclinare al centro in sostanza significa, a destra o a sinistra, connotarsi secondo qualifiche obbligate in ordine alla sopravvivenza del sistema.
Perché ciò appaia peggiorativo e non migliorativo dipende dalla fase storica che attraversa il sistema: se esso si trova in fase di sviluppo creativo (come il liberalismo di mercato dell’immediato ultimo dopoguerra) si ha una caratterizzazione perlopiù positiva, se è in fase declinante (come il liberismo collusivo di oggi) prevale quella peggiorativa.
Tornando a ‘ideologico’ e ‘populista’, ecco alcune ulteriori, brevi e sintetiche delucidazioni.
Se un magistrato si palesa di sinistra, applica una ‘ideologia’ inopportuna, se si dimostra di destra rientra in una doverosa per quanto scipita (dato il mestiere che fa) e comune normalità.
Piccola parentesi apparentemente incongrua: si è mai condotta una analisi attenta sul rapporto tra percentuali di rovesciamento delle prime sentenze a opera dei gradi successivi di giudizio e percentuali relative allo status socio-economico dei giudicati (o, il che è lo stesso, relative a rinomanza e costo degli avvocati della difesa)?
Altra piccola parentesi altrettanto incongrua: da modesto cultore del cinema statunitense meno holywoodiano per quanto possibile (anni 70 /80: Siegel, Peckinpah, Altman, Coppola, Kubrick eccetera) mi sono permesso in questo testo di rammaricarmi per come l’enorme talento di Spielberg sia stato infettato dalla rettorica perbenista del sogno americano ricondotto a semplice realtà incontestabile: la critica è apparsa a molti ‘ideologica’, in quanto per quelli è evidentissimo che celebrare il sogno americano è un obbligo morale e non ideologico.
‘Populista’ (termine il cui abuso rappresenta in Italia una spia di quanto sia sinceramente democratico il suo utilizzatore) significa che ogni pedina del ‘popolo’ ovvero dei ceti medio-bassi, deve ricorrere alla raffinata cultura di chi rappresenta la voce dei ceti medio-alti se vuole avere una cognizione non deforme e perfino grottesca dei propri scialbi interessi purtroppo autentici e genuini (se una o l’altra chiesa non riesce a convincere il testone che ogni interesse, da un certo livello in giù, è peccato): la dimostrazione viene immancabilmente fornita proprio dalla mediocrità di tali interessi rispetto alle nobili motivazioni di chi dispone quasi in automatico di pancia piena, tetto sulla testa e bollette pagate.
In passato, per gli alternarsi ampiamente teorizzati dei cicli economici di diversa valenza e durata, ci sono stati anni buoni e anni meno buoni o cattivi: in quelli buoni l’oligarchia di sinistra era chiamata a frenare, tramite riforme di destra, il ‘populismo’ ingordo di chi rischiava di pretendere troppo dalla spinta creatrice dell’economia in tiro, negli anni meno buoni l’oligarchia di destra, mentre allentava le tensioni con movimenti di ridistribuzione rigorosamente limitati a fasce di reddito interne al cosiddetto ceto medio (toccando solo in modo irrisorio i conti celesti di sponsor e finanziatori) predicava di rimboccarsi le mani e darci dentro duro abbandonando ogni ‘ideologia’ fantasiosa e velleitaria.
In futuro governeranno più le destre o le sinistre?
La presente sezione nasce da un quesito assai problematico che ci riguarda tutti da vicino, in un senso o nell’altro.
Eccolo: i semidei che detengono controlli e proprietà delle alte tecnologie, inclusa la nuova stella del chiacchiericcio elegante, ovvero l’intelligenza artificiale (che, al di fuori delle procedure di automazione industriale e della violazione sistematica della privacy per presunti e spesso millantati e deviati obbiettivi di ordine e sicurezza, consiste perlopiù in pura mistificazione mitologica o mitologia mistificata di programmazioni elettroniche sofisticate), potranno accontentarsi di equiparare il collegio degli elettori a un’accozzaglia di sudditi proni e acquiescenti, illusi da ritualismi ipocriti o messi in riga da dissuasioni di tipo poliziesco, oppure, al fine di godere a fondo delle loro prerogative divine, dovranno forzatamente procedere a sterminare una quota considerevole di tali elettori / sudditi?
Poiché qualcuno, davanti alla domanda, già si sarà ritratto schifato supponendo che denunci il classico complottismo e vittimismo dei perdenti, tengo a precisare che la mia intende essere una trattazione puramente scientifica.
Se il pieno godimento dei vantaggi delle alte tecnologie richiede stermini di massa, poiché le alte tecnologie consentono stermini di massa, gli stermini di massa molto probabilmente avverranno (sotto vari pretesti, tra cui il più gettonato di solito riguarda una qualche guerra santa, in tal caso addirittura più santa di tutte le guerre sante condotte finora dalla Nato e dagli Stati Uniti).
Un altro fatto scientifico ci attesta che ben difficilmente i semidei della tecno-teocrazia potranno godersi i meritati frutti dei loro potenti, in senso letterale, ingegni e privilegi, senza ridurre gli elettori a sudditi e / o sterminarli, dato che l’ordine quasi esasperato e surreale delle fabbriche super-organizzate, in conseguenza della salita generale dell’entropia in un bilancio complessivo anche e soprattutto in sistemi non isolati e non in equilibrio, non potrà evitare di tradursi nel caos dirompente e indomabile che coinvolgerà masse maggioritarie di individui lasciati liberi di trafficare, sgomitare e, nel loro piccolo, ingegnarsi al fine di provvedere alla propria dignitosa sopravvivenza o anche solo a una sopravvivenza di qualsiasi genere.
Ciò non è che una banale conseguenza del secondo principio della termodinamica applicato a un sistema planetario attraversato da un flusso di energia crescente in cui il fenomeno umano, responsabile di almeno un raddoppio insostenibile del flusso, con tutta la relativa profusione di magnifici cervelli, si inserisce come particolare e rarissima congiuntura sottoposta a leggi generali che rimangono le stesse sia in congegni massimamente complicati che in condizioni di totale vuoto apparente (ambiti mai separati, ma in costante rapporto continuo se un raggio luminoso emesso dall’uno può raggiungere l’altro).
Fortunatamente, egregi signori che osate affrontare i faticosi travagli di una lettura eretica e corruttrice, ecco qui l’easter egg che non vi aspettavate, una spia di ottimismo addirittura abbagliante tale da farvi sentire sanpaolini sulla via di Damasco, un finale a sorpresa che giustificherà santificandole tutte le vostre fatiche.
Sissignori, ascoltate bene la frase seguente: la Natura è pervasa da Giustizia Divina e il modo come tale giustizia si manifesta possiamo riassumerlo in un aforisma sintetico e conclusivo: nessun dio parziale è permesso dal Dio o ‘Dio’ totale e assoluto.
In verità, per giustificare l’ultima frase non sarebbe neppure necessario scomodare la scienza: basterebbe solo un po’ di sano esistenzialismo e valutare i resoconti storici intorno alla vita dei grandi personaggi del passato, i quali tutti, incredibile a dirsi, sono morti, spesso prematuramente, e tutti, o hanno passato la vita senza potersi occupare veramente di quello che veramente li avrebbe fatti felici oppure appartenevano a una specie di inguaribili dementi la cui larga diffusione è sufficiente a spiegare tutte le abnormi incongruenze delle vicissitudini concrete di tante anime immortali.
Una delle più spaventose di quelle incongruenze riguarda la diffusione dal Rinascimento in avanti della cultura occidentale nel mondo, arrivata dappertutto a rivoluzionare la vita di ogni popolazione esistente grazie alla tenacia di pazzoidi che per mesi dormivano uno sull’altro sotto un tetto di legno alto un metro, scambiandosi generosamente vomiti, diarree e tutti gli annessi e connessi, e poi quando sbarcavano, orgogliosi della prova superata, si sentivano autorizzati a illuminare a ogni costo con il sole dell’avvenire commerciale genti di terre lontane così pigre e mollaccione, così poco epiche, al confronto, da vivacchiare tristemente e poveramente a casuccia loro.
Domanda tra parentesi: stivate per mesi in microcosmi pervasi da tali miasmi, in che stato arrivavano le merci importate o esportate dopo aver eroicamente navigato per mari e per oceani?
E’ verissimo, d’altra parte, che le classi dirigenti attuali, grazie agli incredibili sforzi del passato e in barba ai benesseri futuri, godono di privilegi tali che i loro analoghi precedenti si sognavano appena (basti pensare all’autodisciplina esasperante e all’altissimo rischio di morte delle classi dirigenti militari in regimi teocratici o aristocratici), per cui il dualismo tra potere e qualità della vita non ha mai raggiunto un grado di consonanza come quello presente, ma ciò (incredibile a dirsi, ma è vero, almeno per me che sono una delle personalità scientifiche più ottimiste della Terra) fa ritenere l’adesione al Progetto di Stato Stazionario più probabile dell’opzione di trasformarsi in tiranni sanguinari.
Progetto o Sterminio rimane infatti una insuperabile alternativa di base, sempre meno sfumata e dissimulabile ogni anno che passa, per risolvere i problemi climatici e ambientali, dove ‘ambientale’ va usato nel senso più inclusivo possibile e riferito sia all’ambiente naturale che a quello politico e sociale.
La situazione può farci addirittura sperare che, dato che i moderni tiranni per istinto e vocazione, non devono reprimersi e auto-censurarsi fino al limite estremo di convincere se stessi che, metaforicamente parlando, i vari bunga bunga siano tentazioni del diavolo mentre le lotte per la sopravvivenza in chiave dialettica e culturale nelle sale di riunione politica trasmettano benedizioni del Cielo, la forma più pericolosa di tiranno, ovvero il tiranno perverso, ma represso e frustrato, si manifesti molto meno diffusa e probabile che in passato.
Io però, ripeto, risulto alla prova dei fatti un inguaribile ottimista.
La dimostrazione che vorrei darvi non si basa però su un esistenzialismo di tipo religioso anche se laico, ma su elementari e inconfutabili verità scientifiche per rinvenire le quali procederò come segue.
Il metodo di diagonalizzazione di Cantor, base assoluta dell’analisi matematica dei ‘reali’, e l’antinomia di Richard, la cui traduzione in formule mediante il processo di aritmetizzazione meta-linguistica sostanzia il teorema di incompletezza di Goedel, in realtà coincidono.
Per rendersi conto di come una diversa numerosità possa dare adito a una contraddizione basta considerare due diversi, ma paralleli ordini di realtà ovvero quello delle teorie supposte esaustive di qualsiasi combinazione di stati di cose e l’insieme assoluto dei medesimi stati di cose: se vengono considerati entrambi discreti e numerabili (secondo uno schema complessivo una cui valida traduzione e interpretazione rimane la logica reticolare di Von Neumann e Birkhoff), ma l’insieme degli stati di cose supera tutte le combinazioni possibili delle proposizioni teoriche, basta insistere a considerare tali proposizioni esaustive (escludendo ogni forma di indeterminazione) per provocare una sovrapposizione di due diverse matrici di valori di verità 0 e 1 e determinare quindi, automaticamente, la contraddizione di qualche casella rispetto a un’altra corrispondente.
Se d’altra parte si aggiunge il valore indeterminato, le proposizioni indeterminate (che contengono almeno un ‘indeterminato’ al posto di uno zero (falso) o di un uno (vero)) diverranno la stragrande maggioranza.
Questa stragrande maggioranza si può tradurre in una frase che sembra uno slogan ‘ideologico’ per produrre nella mente dei minus habens pirotecnici effetti speciali e invece descrive una semplice verità: la realtà è inconoscibile.
Tale verità si può considerare sia fisico-matematica (perché ottenuta con metodi razionali esatti) che metafisica, dato che l’inconoscibile rimane il regno della indicibilità e perfino della non pensabilità.
Occorre comunque distinguere tra la meno formulabile delle indicibilità e la capacità della mente umana, concreta e oggettiva, di testare i confini delle proprie limitazioni assolute.
Le procedure di aritmetizzazione poste alla base del teorema di incompletezza di Goedel richiedono numeri estremamente grandi per attuare il modello di autoriferimento completo ovvero il metalinguaggio che rende possibile ai numeri naturali farsi teoria di se stessi.
Numeri enormemente grandi significa che, fissato un enne sufficientemente grande e limitandosi a quello, il rapporto tra formule meta-teoriche (gli elementi del cervello pensante) e formule della disciplina di base (la sua realtà oggettiva) diventa sempre più piccolo e al limite, incrementando enne all’infinito, infinitesimale.
Non penso di effettuare chissà quale pacchiana forzatura affermando come ciò dimostri che qualsiasi cervello di animale superiore non potrebbe funzionare senza un rapporto sufficientemente elevato tra i lati del parallelepipedo in grado di contenerlo appena e le unità di base di Planck.
Ogni persona autenticamente religiosa ora ha due scelte davanti, scandalizzarsi o applaudire, ma io, comunque, avverto: convenzionalismo confessionale (l’adesione ai dogmi come principio di ordine e disciplina) e tecnicismo laico (il dinamismo attraverso la strutturazione ragionata) funzionano solo in modo coordinato: in teoria, il primo semplifica, il secondo arricchisce.
Quando questa mutua interazione diventa tecno-teocrazia (o teo-tecnocrazia) di estensione planetaria globale, il gioco non funziona più.
Si è passati da un ambito ancora compatibile con un’adesione localizzata tra individuo e ambiente, molto allargata rispetto a ciò che avviene nelle altre specie animali, ma non ancora antitetica rispetto a quelle doti istintive e intuitive che presiedono agli adattamenti e alle sopravvivenze individuali di qualsiasi esemplare vivente, umano e non umano, a una superiore dimensione in cui le complessità causali implicate dall’umanità trascendono qualsiasi coordinazione ristretta di esseri umani iscrivendosi al livello superiore di causalità pan-terrestri sostanzialmente inconoscibili.
Focalizziamo ora i termini di riferimento e applichiamo tali modestissimi ragionamenti a due diversi ordini di realtà: le proposizioni scientifiche riguardo alle condizioni climatico-ambientali del pianeta Terra e le condizioni climatico-ambientali come effettivamente si determinano alla faccia di tutte le pretese della megalomane umanità.
Rappresenta solo un dilettantesco sofisma irrispettoso della tecno-teocrazia la tesi che non esiste alcuna soluzione al problema climatico-ambientale se non quelle che prevedono in via pregiudiziale di procedere drasticamente a una semplificazione e auto-limitazione della ingombrantissima presenza umana sul pianeta?
Semplificazione e autolimitazione implicano Progetto di Stato Stazionario o mi sbaglio?
Consideriamo la situazione dal punto di vista termodinamico.
L’efficienza media complessiva dell’utilizzo dell’energia solare da parte della biosfera, ovvero il rapporto tra energia ‘costruttiva’ (degli organi, dei tessuti e delle molecole funzionali) ed energia ‘dissipativa’ (calore ed entropia complementari) non supera di molto il 20%.
Che l’efficienza media complessiva (inclusiva di tutte le fasi di qualsiasi processo a cominciare dalla predisposizione delle fonti energetiche e di tutti gli ingranaggi di qualsiasi macchinario indispensabile all’attuazione del risultato finale) superi di molto quel 20% agendo a un livello di realtà che risulta di circa 10 elevato alla quindici (stima prudenziale per difetto) più grossolano del livello in cui opera la natura…. permettetemi di essere molto scettico al riguardo, senza contare che tutta l’energia adibita dall’uomo moltiplica almeno per due il flusso energetico abbastanza stabile che ha permeato la biosfera per centinaia di milioni di anni prima dell’avvento dell’era industriale pochi secoli fa.
Tutte le stime encomiastiche che vengono fornite al riguardo non tengono conto del ciclo completo, ma solo delle fasi terminali di attuazione e utilizzo.
In un sistema attraversato da un flusso costante di energia, a parità di efficienza ovvero di rendimento in termini energetici del processo produttivo generalizzato, la creazione di entropia è minima in regime di stato stazionario, in un regime cioè in cui temperatura ed entropia, da un lato, e varie forme di energia potenziale, dall’altro, aumentano o diminuiscono in modo regolare e coordinato.
Minima entropia, a parità di rendimento e flusso energetico, significa tuttavia massima temperatura e gli agenti umani, attraverso concetti come quelli relativi a una organizzazione strutturata e consapevole, potranno controllare l’entropia, non certo la temperatura.
Identificare la fonte più semplice di generazione termica come l’effetto serra indotto dai combustibili fossili (che forse si ridimensionerebbe di molto lasciando libera la natura di assorbire gli eccessi), a parte il fatto che probabilmente si correla in modo inesorabile ai flussi di ricambio agricolo e zootecnico in modo che ogni assorbimento naturale non potrà mai porvi un efficace rimedio, non garantisce che altre molecole o altri processi dotati di maggiore potere induttivo agiscano in modo ancora più virulento soprattutto all’interno di una diminuzione dell’effetto schermante operato da aerosol, pulviscoli, composti azotati e inquinanti in genere (trasformare una intera superficie desertica splendente di sole o un’area marina ghiacciata, artica o antartica, nella distesa uniforme di una distesa quasi del tutto nera ci garantisce da effetti imprevisti, dapprima locali e poi estesi in modo imprevedibile?
D’altra parte, lasciare andare lo sviluppo delle situazioni senza alcuna supervisione interventista può portare a un sola tipologia di esiti certi e inconfutabili, ovvero quelli che generano caos con discesa dei rendimenti e salita sia della temperatura che dell’entropia.
E allora?
Allora esiste una sola metodologia di scelte concepibili in senso preventivo e curativo: la progettazione di uno stato stazionario in direzione di una semplificazione generalizzata che, per non diventare arbitrio di una élite che limita il caos solo nel proprio ambito e lo lascia invece scorrazzare nell’ambito dei ceti più bassi (che non vengono sterminati prima di tutto perché lo sterminio comporterebbe il drastico ridimensionamento dei vantaggi e dei privilegi di élite e comunque rischi e malesseri intollerabili), deve preoccuparsi di un livello minimale di benessere condiviso da tutti.
Se si rivedono i criteri del benessere in senso drasticamente limitativo, facendo appello a pochi generi di soddisfazione oggettivamente generalizzabili (per esempio, possibilità di godere, a fronte di ben precisi, ma non soverchianti, impegni lavorativi, di una relativa facilità nello soddisfare i bisogni fisiologici primari di cibo e abitazione, godimento di una natura liberata dal giogo di un asservimento antropocentrico, vite virtuali sempre più sofisticate nel segno di un’intelligenza artificiale messa al servizio del divertimento comune come già avviene, per esempio, nei videogiochi e così via) la società umana può essere programmata secondo prospettive di durata illimitata (fermo restando l’assenza di ogni prevenzione credibile contro inconvenienti radicali come la caduta di asteroidi o mega eruzioni vulcaniche come l’intera esplosione dell’area del parco di Yellowstone), in caso contrario i palliativi consentiranno proroghe (se non addirittura accorciamenti) misurabili probabilmente in qualche decennio al massimo.
CONCLUSIONE (PROVVISORIA?) DEL 16 NOVEMBRE 2023
Tutte le dimostrazioni successive a quella originale (a parte perifrasi e commenti della stessa) sono sbagliate.
Rappresentano un tentativo di ricostruire il goffo ed esitante procedere della mente per risolvere questioni enormemente più semplici rispetto alla complessità di porzioni anche infime del mondo.
Errori banali come quelli che vi si incontrano vengono comunemente commessi in ogni scritto o dibattito orale di qualsiasi livello, ma in matematica ci sono solo due valori di verità e un sistema consolidato di pochi assiomi, nella vita sociale, economica e politica i valori di verità sono decine e le centinaia di assiomi inespressi si muovono come file diverse di ballerini che si alternano sul proscenio ballando la samba o la mazurka o quello che volete.
In sostanza, le dimostrazioni sbagliate rappresentano una sorta di controcanto ironico a ogni mio diverso e più generico argomentare, la cui validità o insulsaggine rimane completamente indipendente da esse.
Quello a cui mi hanno condotto nello specifico, che potrebbe risultare altrettanto errato o inconsistente, lo riassumo qui di seguito.
Azzardo che, poiché la dichiarazione di Fermat di aver scoperto una dimostrazione si trova nell’edizione di un testo di Diofanto, quella sua convinzione potrebbe relazionarsi alla formula generale delle triadi pitagoriche scoperta dal greco.
Dati due qualsiasi numeri interi x e y, la formula generale fornisce i tre numeri
x2 – y2 , 2xy , x2 + y2
ovvero gli A, B e C interi della formula
An + Bn = Cn
per n= 2
che con i loro multipli esauriscono il problema.
Dividendo per An tutti i termini e cambiando posizione a uno otteniamo
1 = sn – rn
con r e s ovviamente razionali, ovvero, nel caso n= 2
1 = ((x2 + y2)2 – (2xy)2) / (x2 – y2)2
che equivale ad ammettere equazioni del tipo
(D2 – E2)2 = (F2 + G2 + H2)2 = (O2 + P2)2
Dove le lettere e gli esponenti vanno intesi come funzioni di grado 2 (come x2 o xy), sia positive che negative, dei numeri x e y.
Passando a un esponente n qualsiasi, i numeri x e y fornirebbero triadi di grado n, ma in questo caso la ricombinazione dei termini analogamente al caso 2 diverrebbe impossibile, come si desume dalla disuguaglianza
sn – rn > (s – r)n
valida per numeri interi.
Per altri versi, partiamo da
1 = P2 (L – M) / A + P3 (L2 – M2) / A2 + ….. Ln – Mn / An >>2)
e dalle diseguaglianze:
Ln – Mn > (L – M)n
A > L
2n (L – M) > A > n (L – M)
La formula funziona nel continuo, a prescindere dalle pregresse disuguaglianze, perché in quel contesto L e M si possono avvicinare quanto si vuole (infinitamente avvicinare!).
Domanda: si può verificare l’impossibilità della 2) per numeri interi utilizzando dove è possibile la disuguaglianza di Chebychev e la formula per la somma delle progressioni geometriche
(1 – fn) / (1 – f)
dove gli fi sono gli (Li – Mi) / A i
?????
In attesa che guadagni credibilità e debitamente si diffonda l’idea del Progetto Generale di Stato Stazionario
BUONA DECADENZA A TUTTI
14 NOVEMBRE 2023
RICCANGELO PAPAPAZZO MANTIENE LE PROMESSE: UTILIZZANDO I SUGGERIMENTI RICAVATI DAGLI APPUNTI DEL PIU’ SOMMO DEGLI ERREPI’ PRESENTA UNA DIMOSTRAZIONE ELEMENTARE DELL’ULTIMO TEOREMA DI FERMAT ADDIRITTURA PIU’ SEMPLICE DI QUELLA DEL SOMMO SOMMO, QUINDI NE ADIBISCE LE CARATTERISTICHE A UNA INDAGINE DELLA NON CONTINUITA’ CHE, TRAMITE LA LOGICA DEI RETICOLI, SI COLLEGA ALLA FISICA DI BASE ATTRAVERSO I NUCLEI SOSTANZIALI DEL TEOREMA DI GOEDEL E DELLA DISUGUAGLIANZA DI BELL, CHIAMANDO A RACCOLTA SPUNTI E INTUIZIONI RELATIVI A QUELLE DIMOSTRAZIONI ELEMENTARI DI CUI L’UMANITA’ INTERA E’ DEBITRICE AL SOMMO SOMMO: DEL TEOREMA DEI 4 COLORI, DELLA CONGETTURA DI GOLDBACH, DELLA CONGETTURA O IPOTESI DI RIEMANN.
PORTATA A BUON FINE QUESTA NOTEVOLISSIMA IMPRESA SECONDO MODALITA’ ESTREMAMENTE SINTETICHE, CHIARE E INCONFUTABILI, IL PAPAPAZZO VIENE TESTE’ DETRONIZZATO DALLA CARICA DI SOMMO ANONIMO SULLA BASE DI UNA ARGOMENTAZIONE ANCORA PIU’ SEMPLICE, SOLIDA E STRINGENTE DI QUELLE DA LUI MESSE IN CAMPO PER PRODURRE IL SUO FANTASTICO RISULTATO: SOLO UN PAPA PAZZO, GUARDA CASO CHIAMATO PAPAPAZZO (NOME OMEN), AMBIREBBE PRETENDERE LA QUALIFICA DI PAPA KOLIBIANO DOPO AVERE ACQUISITO NOZIONI LOGICHE E FILOSOFICHE COSI’ FERMAMENTE ANTITETICHE RISPETTO ALL’ESISTENZA DI QUALSIASI PAPA: PAPAPAZZO, HA FINITO PER SOSTENERE A MAGGIORANZA L’ASSEMBLEA, O NON CREDE VERAMENTE A QUELLO CHE HA SCRITTO O CONTRADDICE SE STESSO CONFERMANDO L’ASPIRAZIONE A OCCUPARE IL SOGLIO KOLIBIANO.
PARTICOLARMENTE AGGUERRITE SU QUESTA LINEA OSTILE ANCORA PRIMA CHE DIVENTASSE MAGGIORITARIA SI SONO RIVELATE L’AREA TECNOLOGICA DEL MOVIMENTO, PER UN VERSO, E QUELLA RELIGIOSA (IN SENSO LATO) PER UN ALTRO IN QUALCHE MODO COMPLEMENTARE, FAUTORI DELLA VOLONTA’ DI PROGETTO COME ESSENZA ULTIMA E DEFINITIVA DI OGNI PROGETTO: COSTORO, MAESTRI E ISPIRATORI DI OGNI FANATISMO PERFEZIONISTA PURCHE’ ADEGUATAMENTE RISTRETTO E LOCALIZZATO, SI LIBERANO CON UNA SCROLLATA DI SPALLE E LO SVENTOLIO DI UNA MANO ANNOIATA E INSOFFERENTE DELLE QUESTIONI PIU’ FONDAMENTALI IN QUANTO SI RIVELANO ANCHE LE PIU’ SOTTILI E CAPZIOSE, DOPO DI CHE PREDICANO SOMMINISTRAZIONI DI CONCRETEZZA E REALISMO COME OBBLIGHI IMPOSTI DALL’ALTO DEI CIELI, IMPOSIZIONI CHE FUNZIONANO DI SICURO SE SI IGNORANO CON UN ATTO VOLONTARISTICO E PRAGMATICO QUEGLI INTRALCI CHE COSTITUISCONO IL TESSUTO BASILARE DI UNA TIRANNICA REALTA’ A CUI, PROPRIO PERCHE’ TIRANNICA, OCCORRE SOVRAPPORRE DECISIONI REPRESSIVE TANTO PREGIUDIZIALI QUANTO CORAGGIOSE E OTTIMISTE.
MANCO A DIRLO, LE DECISIONI PIU’ REPRESSIVE, CORAGGIOSE E OTTIMISTE POSSONO CENTRARE UN QUALSIASI BERSAGLIO (UNO DEI TANTI DANNOSI O NEUTRALI O UNO DEI POCHI UTILI E BUONI) SOLO SE VIGE UN DECISIONISMO CHE ATTRIBUISCE PER DECRETO AUTOREFERENZIALE, TRASCENDENTE E QUINDI AUTOTRASCENDENTE (E QUINDI AUTOREVOLE) LO STATUS DI DECISIONE UTILE E BUONA ALLE DECISIONI ( A VOLTE, RIGOROSAMENTE PER CASO, PERFINO UTILI E BUONE) ADOTTATE DAI DECISIONISTI CHE SI DECRETANO UTILI E BUONI PER DISPOSIZIONI DEL PROPRIO ORDINE SUPERIORE A TUTTO E SOPRATTUTTO A SE STESSO.
UN PAPA PUO’ ANCHE SVEGLIARSI UN MATTINO E DIMOSTRARE CHE LE EQUAZIONI DIFFERENZIALI CON POTENZE DI ORDINE MAGGIORE DI 2 RAPPRESENTANO MOSTRUOSITA’ MATEMATICHE AMBIGUE E INAFFIDABILI SE LA NATURA DEL MONDO E’ QUANTICA NON PER FINTA MA PER DAVVERO: POTREMMO ANCHE CONCEDERGLI UNA BATTUTA DI MANI ESITANTE E PERPLESSA, MA MAI E POI MAI AMMETTERE CHE POSSA METTERSI A FARE IL PAPA A MENO CHE, COME IL SOMMO DEI SOMMI R.P., NON SI DIMOSTRI IL MOSE’, IL GESU’ O IL MAOMETTO DI QUELL’UNICO E VERO DIO O ‘DIO’ DI CUI HA DAPPRIMA E SOSTANZIALMENTE PER PRIMO DIMOSTRATO L’ ESISTENZA ASSOLUTAMENTE CERTA E INCONFUTABILE QUANTO ENIGMATICAMENTE ALIENA E DEFINITIVAMENTE INCOMPRENSIBILE.
UN PAPA, INSOMMA, PUO’ ESSERE PAPA FINCHE’ NON DIMOSTRA CHE DIO O ‘DIO’ NON PUO’ ESSERE IL POTENTE BUONO CHE ASSISTE IN MODO SPECIALE E RISERVATO UNO DI QUEI MILIARDI DI CENTRI DELL’UNIVERSO RIFLESSO IN UN CERVELLO CHE SI CREDONO COME MOLTISSIMI ALTRI ‘IL’ CENTRO DELL’UNIVERSO RIFLESSO IN UN CERVELLO O SI RITENGONO COMUNQUE UN CENTRO PRIVILEGIATO DEGNO DELL’ASSISTENZA DEL POTENTE DIO O ‘DIO’ NEI DISBRIGHI QUOTIDIANI COME NEGLI ANNI DI UNA CARRIERA BENEDETTA DA DIO O DA ‘DIO’ (PER NON PARLARE DELLA GLORIA CHE LI ATTENDE NELL’ AL DI LA’).
DOPO CHE HA DIMOSTRATO CHE RITENERSI DEGNO DI DIO O ‘DIO’ NON E’ UNA BESTEMMIA SOLO PERCHE’ LE BESTEMMIE NON ESISTONO (SAI QUANTO GLIENE PUO’ FREGARE A DIO O ‘DIO’ SE UN ESSERE UMANO LO INSULTA O LO MALEDICE! E’ PIU’ PROBABILE CHE SI DIVERTA, SEBBENE ANCHE QUESTA SIA UN’ASSURDITA’) UN PAPA RIMANE PAPA A TITOLO PURAMENTE ONORARIO, MA, MORTO LUI, NON SE FA UN ALTRO.
COMMENTO DI RICCANGELO PAPAPAZZO.
PER QUANTO MI RIGUARDA, DEGLI ONORI SOCIALI ME NE INFISCHIO: MI INTERESSEREBBE MOLTO DI PIU’ UN TENORE DI VITA DIGNITOSO, SENZA LUSSI INUTILI, BENSI’ TALE DA PERMETTERMI DI DEDICARE RAGIONEVOLI LASSI DI TEMPO ALLE COSE CHE MI PIACCIONO O INTERESSANO.
TRA QUESTE NON RIENTRA OVVIAMENTE L’ULTIMO TEOREMA DI FERMAT IN QUANTO TALE, PIUTTOSTO: A) LE DIFFICOLTA’ E I MALINTESI CHE SI INCONTRANO PER RISOLVERE UNA FORMULA COSI’ SEMPLICE, B) COME E’ FACILE INGANNARE (E INGANNARSI) AL RIGUARDO ANCHE DISPONENDO DI NOZIONI ADEGUATE, C) CIO’ CHE CI RIVELA (O NON CI RIVELA) DI PROFONDO NONOSTANTE LA SUA APPARENTE IRRILEVANZA, D) COME SERVE A INTRODURRE (PERLOMENO IO L’HO USATO COSI’) ALLA SEMPLICE CONSTATAZIONE CHE, SE SI AMMETTE, OLTRE AL VERO E AL FALSO, IL VALORE ‘INDETERMINATO’, LE FUNZIONI DI VERITA’ (PER 2 SOLE PROPOSIZIONI RELATIVE A UN NUMERO X QUALUNQUE DI ASSIOMI) DA 16 PASSANO A 19.683 E, SE DI VALORI DI VERITA’ SE NE AMMETTONO 10, SI DEVE PASSARE, AL FINE DI POTER DEFINIRE UNA LOGICA ESAUSTIVA CHE MERITI QUEL NOME (MA SOLO IN RELAZIONE AGLI ASSIOMI ASSUNTI) A UN NUMERO DI CASELLE DA ESAMINARE EQUIVALENTE A 10 ELEVATO A CENTO (10 ELEVATO A 10 AL QUADRATO E AL QUADRATO E NON DI PIU’ SOLO PERCHE’ LE PROPOSIZIONI ESAMINATE (VALIDE LIMITATAMENTE AL SISTEMA DI ASSIOMI SCELTO) SONO SOLO 2 E NON 7 O 24.
OVVIAMENTE UN POLITICO, COME OGNI ALTRO TECNO-TEOCRATE E COME AVREI FATTO ANCH’IO SE MI AVESTE CONFERMATO PAPA, NELLE VARIE FASI DELLA SUA PROFESSIONE ADOTTA MOLTO PIU’ DI DIECI VALORI DI VERITA’ SOLTANTO E NE TROVERETE QUALCHE ESEMPIO NELLA MIA RELAZIONE.
PER ALTRI VERSI, RIMANGO CONVINTO CHE CORAGGIO, DETERMINAZIONE E OTTIMISMO BASATI SU FALSITA’, DEFORMAZIONI E IPOCRISIE RAPPRESENTANO SOLTANTO LE MANEGGEVOLI ARMI DEL CONTROLLO OLIGARCHICO IN DIFESA DI GRANDI PRIVILEGI E INTERESSI, MENTRE, QUANTO PIU’ SI SCENDE NELLA SCALA SOCIALE, TANTO PIU’ SIMILI LODEVOLI QUALITA’ INDIVIDUALI SI STEMPERANO NEL SERVILISMO CONFORMISTA DEL SUDDITO RASSEGNATO E REALISTA.
COMUNQUE, ATTENZIONE RAGAZZI! DETRONIZZARE UN PAPA HA POCO SENSO SE NON SI DETRONIZZA ANCHE UNA MIRIADE DI PAPINI E CESARINI DIMENSIONATI SECONDO IL LIVELLO DELLA SCALA GERARCHICA, MA DETRONIZZANDO PAPINI E CESARINI CI SI PRIVA ANCHE DI UNA ENORME QUANTITA’ DI INTELLIGENZA OLISTICA COLLETTIVA: AVETE STESO UN PROGETTO CHE CONSENTA DI RINUNCIARE A O RICONFIGURARE L’INTELLIGENZA DELLA FOLLA RELATIVA A PAPINI E CESARINI?
SE NON L’AVETE FATTO, UN SOLO TIPO DI ESITO MI SEMBRA CERTO AL DI LA’ DI OGNI RAGIONEVOLE DUBBIO: PRIMA O POI DOVRETE OBBEDIRE AL PAPA O AL CESARE DI ALTRE FEDI E ORGANIZZAZIONI, MAGARI CREATE DI FRESCO DA UNA BELLA RIVOLUZIONE TUTT’ALTRO CHE PROGETTUALE, MAGARI PROMOSSA PROPRIO DA VOI, CARI TECNOCRATI O TEOCRATI, OPPURE DA UNA MASSA STRARIPANTE DI SUDDITI CHE PROPRIO NON NE POTEVANO PIU’, AL PUNTO DI NON DISDEGNARE DEVIAZIONI TERRORISTICHE.
I DUE TIPI DI RIVOLUZIONE (O REAZIONE) ALL’INIZIO APPAIONO MOLTO DIVERSI, MA PRIMA O POI, SENZA UN PROGETTO VALIDO, DIVENTANO LA MEME CHOSE.
La relazione di Riccangelo Papapazzo
Il numero 1 degli R.P., forse la persona più straordinaria, incredibile, eccezionale mai apparsa sulla faccia della Terra o addirittura nell’intera storia dell’universo, mi raccontò una volta uno dei rari episodi capaci di suscitare in lui una indignazione morale forte al punto da invocare drastici interventi di repressione poliziesca.
Procedeva lungo una strada di periferia, non ricordo se a piedi, in automobile o altro, in una di quelle rare giornate di piena estate dall’aria limpidissima, forse ripulita da una precedente bufera temporalesca; a un certo punto incrociò una coppia di giovani donne con ampia scollatura e braccia e gambe nude, non belle di una bellezza stereotipa da calendario, ma fresche, spigliate e dal viso intelligente: pochi attimi e via, eppure l’incontro fu sufficiente a suscitare in lui un senso di felice libertà simile a quello prodotto da certi scenari naturali. Poco dopo svoltò un angolo e si ritrovò davanti, vicino e inaspettato, un corpo di donna soffocato sotto un burka integrale, ricevendone, anche per contrasto con l’incontro precedente, l’onda di una repulsione disgustata.
In seguito, spianate le effimere emozioni del momento, considerò i fatti in una luce diversa. Probabilmente, indossare il burka in una giornata simile non poteva essere né libera scelta, né frutto di costrizione, ma semplicemente un atto dimostrativo caratteristico di una rivendicazione di diritti minoritari. Allora si domandò: perché gli atti di ribellione, per poter acquistare una minima valenza di coesione interna e di resistenza verso l’esterno devono sempre conformarsi secondo modalità radicalmente spiacevoli e sia etero che omo coercitive? Avverrebbe così se la pressione esercitata nei confronti dell’autonomia da difendere non si accompagnasse alla percezione di un sistema persecutorio altrettanto spiacevole e coercitivo?
Si trattava insomma di un circolo vizioso senza via di uscita: il fanatico diverso è insopportabile, ma non si svilupperebbe se non esistessero i fanatici uguali e del fanatismo in cui ci si trova immersi alla lunga si finisce per non avvertire più nemmeno i minimi sintomi.
A volte, però, il fanatismo degli uguali emerge in forme nuove e inaspettate e qualcuno degli uguali un po’ meno uguale degli altri potrebbe perfino captarne almeno una labile traccia.
Qualche anno fa un gruppo terrorista islamico uccise alcuni redattori di una rivista satirica francese che aveva pubblicato vignette irrispettose su Maometto: ebbene, la memoria collettiva ci ha steso sopra un velo pietoso, ma il tenore sottaciuto, sfumato fino all’inibizione, eppure in qualche modo dominante che pervase allora i commenti più ortodossi e autorevoli, soprattutto sui quotidiani più venduti e sui canali televisivi nazional-popolari, suonava più o meno così: le esagerazioni vanno comunque condannate, ma chi scherza con i santi e non con i fanti dovrebbe sapere che qualche conseguenza se la merita.
Fino a pochi anni fa Israele registrava: 1) convinti sostegni dal centro politico filo occidentale; 2) compassate tolleranze a sinistra (disposte a chiudere un occhio sulla situazione medio-orientale in considerazione dei simboli di creativa indipendenza osteggiata da selvaggio oscurantismo che l’ebraismo configura nei confronti della storia occidentale); 3) malcelate antipatie di una destra (non sociale) comunque ammirata per la bruta forza tecnologica che Israele era stato capace di mettere in campo con cospicui aiuti da oltreoceano.
Nel frattempo il centro è scomparso devastato da morbi contagiosi quali omologazione, garantismo, perbenismo, moderatismo, intelligenze sclerotizzate di compiaciute e onorate vecchiaie eccetera (leggi anche: liberismo illiberale); a sinistra è cambiato poco, a destra si è fatta una giravolta di quasi 180 gradi passando dalla freddezza all’appoggio entusiasta ‘grazie’ alla salita al governo dei gruppi integralisti ebrei più estremisti: evidentemente a destra (nella destra non sociale) si condannava il terrorismo islamico non per quello che faceva, ma perché manifestava una qualità di estremismo sbagliata, quella che taglia la testa ai bambini invece di farli morire a centinaia (sulle migliaia di morti) dopo minuti o ore di atroci sofferenze del loro corpicino incastrato in una fessura sovrastata da quintali di macerie.
Fortunatamente la sensibilità dei giornalisti di destra della RAI (tutti o quasi, almeno un po’, dopo che il governo è diventato di destra, esattamente come tutti o quasi, almeno un po’, fino a pochi anni addietro, passavano dal centro-sinistra a Berlusconi e viceversa) non ci sta.
E’ per questo e solo per questo (per indirizzare in via subliminale l’attenzione del pubblico verso la sofferenza dei bambini) che, almeno per qualche giorno, i telegiornali RAI hanno lanciato in prima serata il caso della bambina inglese a cui i crudeli giudici inglesi vogliono sospendere la sopravvivenza assistita anche perché, a detta loro (sadici ipocriti!), ma non dei genitori (evidentemente fiduciosi in un intervento miracoloso irrazionalmente avulso dai pareri della scienza medica ufficiale) soffre inutilmente e senza speranza.
Anche i bambini dell’Europa benestante soffrono, ma l’Italia, che è un paese di fede e di speranza, offre l’aiuto del governo più buono d’Europa affinché, se anche continuassero a soffrire, almeno incarnino un nobile simbolo di fede e di speranza che proclami ai quattro venti: anche i nostri bambini soffrono, non solo quelli sotto le macerie, ma guardate noi come li assistiamo e in che ospedali efficienti e funzionali!.
Ovviamente, secondo alcuni punti di vista (secondo me assolutamente idioti, ma il mio parere, nel caso specifico, non può certo considerarsi obbiettivo e neutrale), le argomentazioni addotte nei paragrafi precedenti offrono il fianco ad accuse di giustificazionismo nei confronti degli atti terroristici.
Per me vale l’esatto opposto: rappresentano un primo esempio concreto di ragionamento dissuasivo nei confronti degli atti terroristici di qualsiasi specie, del tecno-militarismo come di qualsiasi forma di insurrezionalismo criminale.
Il terrorismo che nasce dal basso, a prescindere dalle sponsorizzazioni e dai finanziamenti provenienti da influenze e interessi di dimensione molto maggiore (che sempre e comunque rimangono la chiave di ogni reale persistenza e diffusione oltre i singoli episodi sporadici), nasce e si motiva da esperienze tragiche reali come quella di perdere un parente o un conoscente in un bombardamento o essere costretti dall’oggi al domani a lasciare tutto per trasformarsi con tutta la famiglia in un animale denudato e indifeso in un branco di altri disperati con cui magari si deve anche competere per accedere a risorse di pura sopravvivenza fisiologica.
E’ inutile far finta di credere che il galateo della solidarietà comandata, gli atti di una verbosità politica puramente gratuita, meccanica, stilizzata che rientra secondo pragmatica tra i privilegi di una classe superiore di buoni e di giusti per diritto inalienabile (che magari vede in certe tragedie il preludio a uno sviluppo economico basato su un ulteriore taglio del costo del lavoro), serva a qualcosa contro l’odio incontenibile e i feroci istinti vendicativi di quella parte cospicua degli oppressi e dei disperati che esperienze di una brutalità... non inimmaginabile, bensì non immaginata per quieto vivere da parte dei buoni e dei giusti (che dunque dovrebbero sforzarsi, per quanto sgradevole sia, di immaginarsela in tutti i dettagli) spinge continuamente a rimpinguare le fila dei movimenti intenzionati a condurre la guerra con altri mezzi che non siano quelli puramente tecnologici in cui gli avversari prevalgono.
I terrorismi di élite, i terrorismi strategici degli strati oligarchici che se ne servono per fini di consolidamento o prevalenza, troveranno sempre la materia prima degli adepti di base senza la quale non potrebbero esistere, se si tollerano orrori indicibili solo perché cagionati per motivi in parte razionali e perfino, in parte, legittimi.
Di sicuro, molto più che la volontà di capire quasi sempre colpevolizzata dagli araldi di qualsiasi regime sotto l’accusa di giustificazionismo, la minaccia terroristica è sorretta da interessi comuni che si dividono in basso, ma si congiungono in alto molto al di sopra dei conflitti apparenti o reali.
Proviamo a ragionare concretamente sulla cruda materia dell’orrore e del disagio intollerabile per opporvi un rifiuto fermo e tassativo e forse le guerre, se, almeno in un primo tempo, non spariranno, cominceranno a diventare più tradizionali e, per ciò stesso, più politicamente gestibili.
PARTE LOGICO-MATEMATICA E DI FILOSOFIA DELLA SCIENZA
Partendo da
An + Bn = Cn >> 1)
valida per numeri interi, dividendo per An tutti i termini e cambiando posizione a uno otteniamo
1 = sn – rn
con r e s ovviamente razionali.
Poiché r e s sono maggiori di 1 e hanno una base comune, vale la disuguaglianza
sn – rn > (s – r)n
La disuguaglianza vale per n = 3 e, se vale per un i qualunque, vale anche per i +1, come si dimostra facilmente moltiplicando per (s – r) i due termini della disuguaglianza i.
Per arrivare alla dimostrazione effettiva partiamo ora da
An = P2 (L – M)An-1 + P3 (L2 – M2)An-2 + ….. Ln – Mn
Pi è l’i-esimo coefficiente della riga n + 1 del triangolo di Pascal (formula del binomio di Newton)
Moltiplicando ambo i termini per 1 / An otteniamo
1 = P2 (L – M) / A + P3 (L2 – M2) / A2 + ….. Ln – Mn / An >>2)
Valgono le diseguaglianze:
Ln – Mn > (L – M)n
A > L (altrimenti l’impossibilità della 1) è ovvia)
2n (L – M) > A > n (L – M) (idem come sopra)
(Li – Mi) / Ai > (L – M)i / (2n (L – M))i > 1 / 2n
per qualsiasi i della formula 2)
Le diseguaglianze dimostrano che la 2) è impossibile.
Domanda: come possono dimostrazioni tanto elementari essere state ignorate addirittura per secoli dai migliori matematici?
Possibile risposta: perché spargono dubbi irriducibili su tutta l’analisi tradizionale e in particolare sulla validità delle equazioni differenziali con esponenti razionali maggiori di 2 (basta considerare come il vincolo della unità base rispetto alla ‘libertà’ di rendere un intervallo piccolo a piacere comporti discrepanze quantitative notevolissime: moltiplicando 1 per cifre astronomiche tali discrepanze diventano astronomiche (anche se, raffinando le unità di misura, il rapporto tra differenze e valori sommati e sottratti rimane invariato e può essere ritenuto trascurabile in un range specifico e limitato): come ci si può garantire che, a prescindere dalle unità sistematiche in gioco nelle realtà effettive del mondo, contino sempre i rapporti e non le differenze in valore assoluto come accade nei cosiddetti effetti di soglia? Il presentarsi del caos in senso fisico matematico (ma purtroppo anche in un senso qualunque) non risulta una pura e semplice ovvietà in presenza di qualsiasi atomismo?
Le ultime affermazioni suscitano spontanee epifanie intuitive e rimandano per analogia al cosiddetto principio olografico secondo il quale la massima informazione (logaritmo del numero di bit della più succinta descrizione di un sistema esaustivo) concentrabile in qualsiasi spazio tridimensionale ossia contenuta in un buco nero (se, in un buco nero, come infine ha ammesso Hawking dopo aver sostenuto per molti anni la tesi contraria, l’informazione si conserva per intero) è proporzionale alla superficie che contiene lo spazio e non al volume e quindi chiama in causa esponenti non maggiori di 2.
Questo aggancio tra fisica di base e matematica elementare può sembrare a taluni cervellotico, ma a me proprio per niente.
Ricordo che le prime interpretazioni sulla violazione da parte di particelle in stato di ‘entanglement’ della disuguaglianza di Bell (violazione che rientra nella piena ortodossia canonica della meccanica quantistica al punto che, se non avvenisse, suonerebbe un campanello di allarme circa la coerenza disciplinare dei suoi ‘paradigmi’ fondamentali) tiravano in ballo capisaldi epistemologici irrinunciabili delle filosofie scientifiche tradizionali quali l’esistenza di una realtà indipendente dall’osservatore, l’applicabilità dei principi induttivi canonici e la separabilità di eventi non collegati da segnali specifici sottoposti al vincolo fondamentale della massima velocità di trasmissione ovvero la velocità della luce nel vuoto).
Pochi (o nessuno) osarono invece trovare una spiegazione che negasse la continuità del mondo fisico reale affermando invece la sua divisibilità in costituenti minimali misurabili verosimilmente in unità di Planck: a me la faccenda è sempre risultata stranissima, dato che la meccanica quantistica, che si occupa dell’immensamente piccolo, si chiama così perché appunto divide materia, energia, campi, particelle eccetera in quanti ovvero in enti basilari indivisibili.
Se si ritiene concretamente e non solo teoricamente il mondo fisico definito in quanti, un sacco di apparenti paradossi, come appunto la violazione della disuguaglianza di Bell e perfino il teorema di Goedel (come spiegherò tra poco) trovano una delucidazione semplice e naturale senza bisogno di scomodare sovvertimenti epistemologici più impegnativi come quelli citati in precedenza.
Quantizzata la realtà, la si può dividere idealmente in elementi costitutivi singoli e relativamente indipendenti, ai quali diventa possibile assegnare valori anch’essi discreti e limitati in una quantità complessiva data e ciascuno con il suo specifico valore intero o razionale: all’interno di questa concezione fondamentale, la logica quantistica identificata da Von Neumann and Co. come un particolare reticolo non distributivo spiega perfettamente paradossi come quello evidenziato da Bell.
In effetti, identificando la logica classica, la teoria degli insiemi e l’algebra di Boole, da una parte, con un particolare reticolo e altri schemi organizzativi come l’inclusione e la intersezione di spazi vettoriali o la logica descrittiva degli esperimenti che studiano i valori di spin delle particelle, dall’altra, con un diverso reticolo, si è posto un principio fermo e inviolabile che rende perspicue moltissime cose, prima fra tutte la sovrapponibilità nulla, parziale o totale tra un discorso di qualsiasi genere, dotato di una sua logica reticolare, non necessariamente complementata e distributiva (rispetto alle operazioni di unione e intersezione (gli ‘o’ e gli ‘e’)), e le dinamiche interattive di un sistema descrivibile attraverso configurazioni grandi quanto si vuole, purché scindibili in parti dotate di un livello di informazione finito.
L’unica cosa veramente strana e inspiegabile resterebbe, secondo me (se ce ne fosse bisogno per forza), la capacità della Natura di trattare in un tempo finito un volume d’informazione infinito (connesso a curvature dei livelli materiali ed energetici altrettanto infinite), ma probabilmente è proprio a questo che un teo-tecnocrate o tecno-teocrate fatica a rinunciare illuso che la Natura accoglierà qualsiasi sua trovata o capriccio aggiustandosi secondo principi di ordine in qualche modo magici (magia è tutto ciò che trascende i mezzi di comprensione adottati), invece di tollerare le influenze più varie soltanto fino a una certa soglia superata la quale subentra il sovvertimento radicale che cambia le carte della partita per cominciare un gioco nuovo e impredicibile.
Dicevo del Teorema di Goedel; passare da due valori di verità (vero o falso) a tre (vero, falso e indeterminato) fa cadere un sacco di misteri (quelli a cui i poteri sacralizzati, non necessariamente religiosi, non possono rinunciare proprio perché hanno bisogno di sacralità (e non di progetti) per regnare).
Il teorema di Goedel non rappresenta lo scacco definitivo e umiliante delle facoltà della specie uomo, piuttosto lo scacco di ogni facoltà parziale che, con la sua limitatezza, sterilizzerebbe l’immensa creatività potenziale implicita nelle proliferanti vastità: una facoltà di pensiero qualunque non si rivela saggia considerandosi onnipotente e cioè onnicomprensiva (il che renderebbe ogni metafisica una creazione di assurdi e banali giocattoli), bensì realizzando i vincoli tassativi imposti dalle certezze di verità (le tautologie che discendono dalla decidibilità pertinente al metodo delle tavole di verità).
La logica classica rimane insostituibile se si vogliono evitare ambiguità, ma la ricchezza del mondo la costringe a realizzare le proprie impotenze, ad ammettere cioè che due valori di verità (vero o falso) servono a qualcosa soltanto nel quadro di assiomi specifici e anche in quello riescono a catalogare solo un ambito minuscolo delle relazioni possibili: sono d’altra parte gli assiomi di partenza (ovvero le premesse cruciali e inevitabili), necessariamente fissi e perciò stesso parziali e insufficienti, a garantire la forza della mente e non la forza della mente a controllare l’espansione creativa della realtà verso la quale può solo dichiararsi impotente.
Ovviamente un politico vincente, un premier o un papa non usano la logica classica e l’algebra booleana: il sistema delle loro proposizioni spazia su un’ampia serie di etichette possibili: vero o falso tout court (e in questo caso sacro), ma anche… giusto per consolidare l’idea… che so... vero in questo sistema di poteri, vero ma dannoso, falso ma utile, vero se vale questo, falso se vale quello, vero ma non mi conviene, falso ma speriamo che non lo scoprano, vero se fosse possibile, falso se non fosse doveroso, incerto ma irrinunciabile, incerto da deviare sul no eccetera eccetera.
Passando da due valori di verità a 10 (numero qualunque) il sistema delle tavole di verità per due proposizioni qualunque passa da uno schema con 16 caselle a uno di 10100 (sì, avete capito bene!) caselle, ciascuna corrispondente a una funzione di verità.
Quante proposizioni di base assomma un qualsiasi discorso? Inoltre, nella pratica, le funzioni di verità dipendono da premesse (gli assiomi) non scritte e non dichiarate, se non in riferimento a sistemi vigenti (gradi di adesione o difformità parimenti non specificati e che possono essere numerosi quanto le sezioni in cui il sistema si può scindere).
Come si fa a sostenere che, non solo un politico, ma perfino un qualsiasi uomo intelligente, possiede una minima nozione non casuale intorno alle proprie autentiche convinzioni e convenienze?
Istinti, intuiti e sentimenti (cioè fattori irriducibili e spesso incompatibili passando da un essere biologico all’altro) possono intervenire e dirimere in una dimensione strettamente individuale, ma in ambito sociale umano esigono ovviamente mediazioni tecniche e oggettive legate all’idea di progetto.
Forse la democrazia (sorvolando sulla vaghezza e genericità del termine) resta una opzione consigliabile soltanto perché permette a chiunque di buttare un contributo a caso in un sistema sociale che funziona in certe parti e non funziona in altre (auspicabilmente meno numerose e importanti) seguendo regole sue proprie, in gran parte automatiche: la democrazia insomma non vale per se stessa, bensì in esclusiva dipendenza da un modello strutturale di società.
Quando questo smette di funzionare a dovere ci vuole più democrazia e meno premier, papi o cesari semplicemente perché la vera intelligenza è quella complessiva di una folla pensante (quella che giunge molto vicino a quasi impossibili stime numeriche esatte di enormi quantità di piccoli elementi semplicemente facendo la media di un numero adeguato di approssimazioni): è necessario però che tale intelligenza lavori su ipotesi di progetto e non opti per l’imposizione di qualunque verità eterna e universale scelta nel mucchio delle più diverse stramberie.
Può forse risultare utile, in appendice, accennare al valore che il più sommo degli Errepì annetteva alle sue dimostrazioni elementari di tre problemi matematici rimasti insoluti nonostante che, nella loro apparente semplicità, siano comprensibili anche da chi non possiede nozioni sofisticate
Teorema dei 4 colori. La soluzione della divisione delle diverse aree geografiche della mappa in gruppi G (n, d), dove n rappresenta la distanza minima (misurata in numero di passaggi da una casella all’altra) da una casella qualunque (ovviamente invariabile una volta scelta) e d la distanza dal gruppo n + 1, prospetta una divisione in strati della mappa in modo che la dimostrazione del perché per colorare qualsiasi mappa bastino 4 colori si riduce a dimostrare che, data una mappa colorata adeguatamente con strati circolari o lineari G (n), è possibile inserirvi, con operazioni successive indipendenti, qualsiasi strato, il che implica possibilità di revisione dei colori abbastanza facili da dimostrare.
Entrare nei dettagli non rientra nello scopo principale che è quello di indirizzare l’attenzione su modalità per cui una semplice impostazione di base consente il risparmio o l’aggravio di miliardi di operazioni da adottare nella procedura dimostrativa.
La semplificazione del mondo è la procedura razionale più importante: si può condurre con strategie scientifiche o con imposizioni di autorità.
Un progetto è difficile, mentre fede e obbedienza richiedono solo una libera scelta, peccato che non servano a niente senza un progetto già attivo: fede e obbedienza rappresentano solo la cieca e indiscriminata adesione a un sistema di cui possono solo confermare la stabilità, ma non migliorare un funzionamento generale che, posto il sistema al di là di ogni libera scelta, da un certo punto in poi, più che dalle logiche interne al sistema, dipende da fattori incontrollabili ovvero da Dio o da ‘Dio’ , a meno che le logiche progettuali non abbiano appunto tenuto conto di tale alea incontrollabile, ovvero dei principi fisici fondamentali, adottando razionalmente le auto-limitazioni indispensabili.
L’ubbidienza a Dio o a ‘Dio’ può sembrare un’ottima strategia quando si suppone di conoscere la natura e la volontà di Dio o di ‘Dio’ , ma è appunto tale presunzione, secondo i kolibiani, a costituire sempre e comunque nulla più di un atto scellerato di megalomania dalle evidenti implicazioni discriminatorie e razziste.
Congettura di Goldbach. La matematica può escludere la casualità? Se la probabilità di una certa equazione tra numeri interi, mai verificata, decresce in base al massimo numero preso in considerazione, l’equazione è impossibile oppure si verifica un numero finito di volte in una sequenza infinita oppure compare periodicamente a intervalli sempre più dilatati e in modo quasi inconcepibile? Le ultime due opzioni sono in effetti distinguibili?
Congettura di Riemann. Se il ragionamento è corretto (e francamente non vedo come potrebbe essere sbagliato visto che l’estensione di una funzione del sistema numerico dai reali ai complessi è condizionata solo dalle proprietà della funzione reale che si sviluppa su una singola linea e da modalità procedurali che rimangono invariate per qualsivoglia funzione e sono imposte dalle proprietà algebriche di campo commutativo, associativo e distributivo) perché il movimento kolibiano non si attiva affinché il Clay Institute devolva il premio di un milione di dollari (se è ancora valido) alla memoria imperitura del più sommo dei sommi ovvero all’erezione di un mausoleo nella sede ONU di New York oppure (molto meglio) ai suoi eredi?
6 NOVEMBRE 2023
NEL MOVIMENTO KOLIBIANO INFURIANO ANIMOSE POLEMICHE INTORNO ALLA CONGRUITA’ DELLA SECONDA DIMOSTRAZIONE ELEMENTARE DELL’ULTIMO TEOREMA DI FERMAT PROPOSTA DA RICCANGELO PIZZAPAPERA.
GLI ASPIRANTI (DELUSI) ALLA CARICA DI SOMMO ANONIMO, CIASCUNO A CAPO DI UNA PROPRIA CRICCA DI PUGNACI SEGUACI, NE DENUNCIA GLI ASTRUSI E INCONCLUDENTI SOFISMI, MENTRE I SOSTENITORI DI R.P. ACCUSANO I RIVALI DI NON COMPRENDERNE LA NATURA PROFONDA.
LA DIATRIBA SFIORA DI UN PASSO LA CLAMOROSA ROTTURA DEFINITIVA E QUALCUNO DEI NEUTRALI GIUNGE A RITENERE INEVITABILE LO SCIOGLIMENTO DI UNA ORGANIZZAZIONE CHE NON RIESCE NEPPURE A RAGGIUNGERE UN RAGIONEVOLE ACCORDO SU UNA FORMULA TANTO ELEMENTARE, CHIEDENDOSI ALTRESI’ COME SI PUO’ RITENERE AMMISSIBILE DECIDERE INTORNO AI DESTINI DELL’UMANITA’ IN PRESENZA DI SIMILI GIGANTESCHI DEFICIT COGNITIVI.
UN ALTRO OSSERVA CHE IL RAGIONAMENTO NON FA UNA PIEGA, MA DOVREBBE VALERE NON SOLO PER IL MOVIMENTO KOLIBIANO, MA PER OGNI TIPO DI ORGANIZZAZIONE PUBBLICA, IN SPECIAL MODO PER I PARTITI POLITICI, I QUALI, PRESA ATTO DELLA PROPRIA INADEGUATEZZA DAVANTI ALLE SOVERCHIANTI E INCOMBENTI COMPLESSITA’, DOVREBBERO AFFRETTARSI A CONCORDARE UN ASSETTO PROGETTUALE DI MASSIMA E POI SCIOGLIERSI E FONDARE UN PARTITO UNICO DA GESTIRE CON PESI E CONTRAPPESI PROCEDURALI MODIFICANDO DI CONSEGUENZA PRATICHE ELETTORALI DIVENTATE ORMAI FINZIONI RITUALISTICHE AMPIAMENTE SUPERATE DA CIRCOSTANZE DI FATTI ED EVIDENZE SIA STORICHE CHE CONGIUNTURALI, ONTOLOGICHE, NATURALISTICHE ECCETERA.
A OGNI BUON CONTO, QUANDO LA SITUAZIONE SEMBRA ORMAI IRRIMEDIABILMENTE COMPROMESSA, DIO O ‘DIO’ INTERVIENE IN SOCCORSO DELL’INIZIATIVA ASSURTA AL MASSIMO SPLENDORE GRAZIE ALL’OPERA DI QUEL SOMMO CHE PER PRIMO HA CERTIFICATO L’ESISTENZA E LA PRESENZA CONTINUA E INDEFESSA NELL’ATTUALE UNIVERSO DEL SUO PRINCIPIO CREATORE INSIEME ALLA IMPOSSIBILITA’ ASSOLUTA PER UN ESSERE UMANO DI FARSI INTERPRETE DELLA SUA NATURA, ESSENZA, VOLONTA’, INCLINAZIONI, SCOPI, OBBIETTIVI O QUALSIASI ALTRA FORMULAZIONE ATTRIBUTIVA CHE, PUR CORRISPONDENDO A UNA IRRINUNCIABILE VOCAZIONE ANTROPOMORFA (O ANTROPOCENTRICA), RIMANE NONDIMENO ASSOLUTAMENTE PRIVA DI SENSO E SOSTANZA SE APPLICATA A TALE INCOMMENSURABILE ENTITA’.
NELL’IMMENSO, STERMINATO ARCHIVIO DEL SOMMO DEI SOMMI VENGONO RINVENUTE ANNOTAZIONI ASSAI ILLUMINANTI RELATIVE A QUELLA SECONDA DIMOSTRAZIONE ELEMENTARE CHE EGLI STESSO AVEVA ANNUNCIATO IN UNA LETTERA AL SUO VICE.
IL CORRENTE R.P. RIESCE A PERSUADERE L’ASSEMBLEA DIRETTIVA DI AVER COLTO ALMENO QUALCHE ASPETTO E SFUMATURA DELLE IDEE EMERSE DALLA RECENTE SCOPERTA E VIENE CONFERMATO NELLA CARICA IN SEGUITO ALLA PROMESSA SOLENNE CHE MANDERA’ DEFINITIVAMENTE A SEGNO I SUGGERIMENTI IVI CONTENUTI, INCLUSI I VENTILATI COLLEGAMENTI CON IL TEOREMA DEI 4 COLORI, LA CONGETTURA DI GOLDBACH, L’IPOTESI DI RIEMANN, IL SIGNIFICATO FISICO DELLA VIOLATA DISUGUAGLIANZA DI BELL E INSOMMA TUTTE LE PIU’ SIGNIFICATIVE ILLUMINAZIONI SCIENTIFICHE SCATURITE DALL’IMPAREGGIABILE CERVELLO DEL NOSTRO PIU’ ILLUSTRE RAPPRESENTANTE PURTROPPO DEFUNTO. .
La definizione o almeno l’approfondimento in termini di matematica elementare delle problematiche indicate, risolte (o non risolte) con (o nonostante) l’impiego di tecniche oltremodo sofisticate riservate a specialisti di avanguardia estrema intende enucleare significati cruciali (e cruciali soprattutto nell’ottica di una filosofia necessariamente sottesa alla pratica della progettazione politica) relativi al rapporto tra un tipo di razionalità logica e scientifica fruibile in misura diffusa e l’inventività tecnologica intesa come creazione di portenti non necessariamente utili e remunerativi al di là di una esigua minoranza che ne monopolizza l’uso e la gestione.
Scienza e razionalità fanno comprendere e rendono (o dovrebbero rendere) vivibile il mondo al di là di certe illusioni sempre, almeno nel lungo periodo, dannose e da abbattere; le tecnologie temporaneamente vincenti, come, per altri versi e risvolti, le religioni istituzionali (da cui l’espressione tecno-teocrazia o teo-tecnocrazia sovente usata nel presente testo) funzionano e servono nell’immediato secondo criteri di compiaciuta autorità e di consenso minimo combinati nel rispetto di varie congruità e pertinenze: esigenze di governabilità relativamente pacifica e inesorabili auto-referenzialità dei poteri si devono in qualche modo bilanciare, ma ubbidiscono sempre e comunque a logiche ineluttabilmente oligarchiche (legge ferrea dell’oligarchia).
Il punto di vista scientifico e razionale dovrebbe contribuire in modo decisivo a fornire i riferimenti sostanziali atti a costruire un quadro di fondo in cui la teo-tecnocrazia o la tecno-teocrazia possano agire in modo generalmente produttivo prevenendo l’impulso, connaturato ai loro meccanismi egemonici (rapporti di forza dai verdetti inappellabili sui mercati e produzione / confezione di valori assoluti a titolo identificativo e costituzionale nelle stanze degli alti prelati e a titolo cautelativo e propagandistico in quelle dei governanti) dal prevaricare tirannicamente trasformando principi fisiologici di ordine e legittimità per molti versi innati in specifiche coercizioni indefettibili obbligatorie per tutti.
Religioni istituzionali e tecnologie liberiste rappresentano le due punte di diamante, canoniche e complementari, della sacralizzazione dei poteri, le prime fornendo crediti pregiudiziali di autorevolezza a prescindere dai risultati, le seconde esaltando, più che l’ingegno dei creatori, la saggezza e lungimiranza di quegli investitori senza i quali sforzi capillari ed estenuanti basati su miriadi di aggiustamenti e prove di errore finirebbero inevitabilmente per arrendersi davanti alle difficoltà dei compiti.
Il benessere occidentale, lo abbiamo spesso ripetuto e sottolineato, si basa (o, forse, si basava) su tale assidua e incalzante proliferazione di calibrazioni e messe a punto, ma anche gli egoismi arbitrari e le autarchie incontrollate di chi gestisce i flussi di denaro possono impunemente operare sfruttando quell’enorme creatività materiale come barriera che cela altri fini e altri mezzi: come spiegare del resto la salita all’unisono a partire dal nuovo secolo dei raffinamenti tecnici dell’industria di élite, da una parte, e della galoppante inefficienza media della generica funzione lavorativa, dall’altra?
Ogni prodotto d’impresa, come ogni scoperta teorica basata su tecnicismi ricercati che si accumulano nel tempo a opera di attori diversi, si basa su un complesso quasi inimmaginabile di scatole cinesi quasi tutte usate in base a funzioni di input e di output che evitano all’utente la fatica di possedere alcuna cognizione precisa circa le modalità di funzionamento interno.
L’efficienza del servizio prestato è garantita almeno quanto la mancanza di ogni consapevolezza circa la natura reale dei fenomeni adibiti e sfruttati: se ne conosce il valore d’uso, ma non la consistenza effettiva, la correlazione sistematica all’altro e al tutto altro, le condizioni di mantenimento e durata, la sostituibilità o meno con qualcosa di più semplice e meno oneroso, il costo effettivo a prescindere da ricarichi arbitrari, dallo sfruttamento dei marchi e dai privilegi delle rendite di posizione... eccetera eccetera.
La situazione è tale che un oligarca intelligente che voglia garantirsi un minimo di stabilità sa che, escludendo dispotismi violenti che del resto si rivelano sempre più probabili ogni anno che passa, la scelta politica che si trova davanti si riduce a due opzioni drastiche e alternative: 1) una progettualità democratica che, nel segno archetipo di un genuino individualismo liberale, garantisca un minimo durevole e non autolesionista di benessere sostenibile generalmente diffuso; 2) il solito arcaico dispotismo illuminato capace di inebetire le folle sempre più impoverite con le virtualità pirotecniche dei panem et circenses (quanto effettivamente ‘sostenibile’ nessuno lo sa, probabilmente molto poco).
La seconda opzione sembra quella più a buon mercato, ma in realtà nessuno riesce a farsi la più pallida idea sulle tipologie di mostri sempre meno virtuali che certi lavaggi del cervello (con profusioni galattiche di assurde ipocrisie sempre meno dissimulabili) partoriscono, nutrono e diffondono in un mutare di congiunture sempre più condizionato da una ostilità crescente dell’ambiente planetario e dai fenomeni migratori a essa connessi.
4 NOVEMBRE 2023
ABBIAMO IL PIACERE DI ANNUNCIARE CHE RICCANGELO PIZZAPAPA OTTIENE LA CARICA A VITA DI SOMMO ANONIMO SCOPRENDO LA SECONDA DIMOSTRAZIONE ELEMENTARE DELL’ULTIMO TEOREMA DI FERMAT VENTILATA IN MARGINE A UNO SCRITTO DELLO SCOPRITORE DELLA PRIMA SOLUZIONE ELEMENTARE, IL SOMMO PIU’ SOMMO DI TUTTI.
Annotiamo ala stregua di una semplice curiosità (che però potrebbe racchiudere ben più cruciali e fatidiche implicazioni di cui per ora ignoriamo i sensi nascosti) che tutte le massime cariche del movimento registrate finora rispondevano a nome e cognome con iniziali R e P (Romolo Piallaremo, Rinaldo Passacarta, Renato Pezzotta (il sommo dei sommi) e infine, appunto, Riccangelo Pizzapapa).
La dimostrazione
Dobbiamo dimostrare che non esistono tre numeri interi positivi che soddisfino l’equazione
(A + M)n = (A + L)n – An >>1)
n > 2
L > M
A > n(L – M) perché, per A non adeguatamente maggiore, l’impossibilità è evidente come si evince traducendo l’equazione in
An = P2 (L – M)An-1 + P3 (L2 – M2)An-2 + ….. Ln – Mn >>2)
(Pi rappresenta l’iesimo coefficiente della riga n + 1 (includendo n = 0) del triangolo di Pascal (formula del binomio)).
Poniamo
Ri = (Li – Mi) / nA
Sostituendo nella 2) tutte le espressioni Li – Mi con il corrispondente nRiA otteniamo dopo facili manipolazioni l’equazione
H An = f1(n)R1 An-1 + f 2(n)R2 An-2 + ….. nRn A . . . 3)
le fi sono funzioni di n, H è un numero intero positivo.
L’equazione deve valere anche per ogni kA, kL e kM dove k è un numero grande quanto si vuole.
Quando A è moltiplicato per k, Ri viene moltiplicato per ki-1.
Moltiplicando per k i termini della 1) possiamo trasformare la 3) in modo da interpretarla come un polinomio in k ottenendo
(H An) kn = ((f1(n)R1 An-1 + f2(n)R2 An-2 + ….. Rn A)) kn-1
k può essere grande quanto si vuole, quindi può superare in valore i termini moltiplicativi tra parentesi che lo precedono nella precedente equazione e che, fissato n, assommano a un certo valore fisso: quando questo accade il primo termine diventa sicuramente maggiore del primo (per rendersene conto, basta considerare i due membri come numeri espressi in base k).
Quindi, per non generare contraddizioni insanabili, la 1) non può valere per numeri interi.
Fine della dimostrazione.
Commento: seguendo la logica della dimostrazione e considerando che la 2) deve essere valida anche per numeri A, L e M ‘reali’ ovvero irrazionali (le mostruosità tipo numero ‘reale’ elevato a numero ‘reale’ ovvero i numeri ‘trascendenti’ esulano da qualsiasi discorso collegato a polinomi) viene da chiedersi: che cosa significa che non esistono soluzioni razionali, ma solo irrazionali?
Significa che i rapporti tra A e (L – M) non possono essere espressi da rapporti tra numeri interi, ma da numeri con decimali infiniti che non consistono nella ripetizione di alcuna sequenza precisa e invariabile per quanto lunga essa sia; ciò d’altra parte comporta che ogni numero ‘reale’ deve incrementarsi per infinitesimi senza rivelare le accelerazioni di accelerazione di accelerazione eccetera (n volte) che comportano invece gli incrementi per singole unità, il che è reso possibile dal ‘fatto’ che il decorso di qualsivoglia tratto della curva xn da 0 a infinito viene determinato dal valore di tutte le n derivate (l’ultima è uguale a zero) in un singolo punto qualsiasi e quindi basta spostarsi lungo la curva per tratti infinitamente piccoli per evitare ogni sorta di guai.
E’ come se la curva in numeri reali concentrasse nello spazio ciò che la curva discreta espressa da unità di misura minimali è costretta a espandere in avanzamenti successivi assimilabili a incrementi di tempo: quindi la curva discreta, che pecca di grossolana impazienza, è costretta a mancare l’appuntamento con i tre valori (infiniti e senza ripetizioni) che invece la curva continua centra perfettamente e con una precisione infinita.
Dopo che l’appuntamento è mancato, se la curva discreta cerca di rimediare assottigliando la propria unità di misura, subisce l’effetto opposto ovvero aumenta le distanze misurate nella nuova unità di misura: quindi la curva discreta si allontana in valore assoluto (anche se si avvicina in proporzione) dalla triade miracolosa se adotta unità di misura sempre più piccole, mentre la curva continua (che è benedetta dal cielo) manda meravigliosamente a buon fine i suoi scopi proprio perché adotta da subito unità di misura infinitamente ridotte.
Come dire: L e M, che avanzano infinitesimo dopo infinitesimo, si separano per un numero infinito di infinitesimi, che è come dire un numero infinito di zeri, da valori che soddisfano l’equazione e intanto i rapporti tra A, B e C non si discostano nemmeno di un infinitesimo dai valori che soddisfano l’equazione.
Ci si dimostra eccessivamente eretici ritenendo l’analisi del continuo e le matematiche dell’infinito in genere fondate su sabbie liquide per non dire mobili?
Ci sarebbe poi da osservare che ogni sequenza di decimali finiti (divisa in tratti perfettamente identici oppure sempre irriducibilmente diversi) dipende dalla base numerica adottata e lo stesso rapporto di numeri interi può passare da infinito (con ripetizioni) a finito cambiando la medesima base (sono infiniti tutti i numeri razionali non interi e ridotti ai minimi che a denominatore contengono fattori primi non inclusi nella base, finiti i pochissimi (relativamente), ma sempre infiniti, altri)
E’ un vero peccato che non si possa adottare una base infinita che possa risolvere i problemi di espressività nel modo in cui gli infinitesimi risolvono i problemi di precisione e certi grandi filosofi politici quelli di Bene, Verità e Giustizia.
Commento del neo Sommo Anonimo Riccangelo Pizzapapa
Dopo i travagli, i malesseri, le incomprensioni e/o malversazioni che hanno particolarmente agitato il Movimento Kolibiano negli ultimi tempi, la mia dimostrazione spicca per candore, se è giusta, o strilla di nequizia, se è sbagliata.
Io potrei chiamarmi anche Gioacchino A. Giocarebiglie o Genoveffo Birignaolino invece di possedere il bel nome sonoro ed espressivo, a tutto tondo, che mi ritrovo, il Movimento Kolibiano potrebbe anche decidere di serrare i battenti e riaffondare il dibattito politico nelle secche inconcludenti in cui giaceva prima, ma, per fortuna, logica e matematica alla fine forniscono risposte univoche e verdetti inappellabili o permettono almeno di ben definire i confini delle incertezze e dei dubbi.
Ciò non inaugura un discorso puramente teorico, ma piuttosto l’esatto contrario: basta rendersi conto che la realtà totale e scientificamente effettiva (uomo biologico più Natura che lo contiene e non uomo spirituale ‘trascendente’ la Natura) o si può descrivere in termini empirici mediati da logiche di tipo matematico o rimane totalmente e definitivamente incomprensibile anche per un cervello complesso e raffinato come quello della specie umana.
Mi correggo: soprattutto per un cervello complesso e raffinato come quello della specie umana.
Il che non significa affatto che le religioni costituiscano un modello di conoscenza alternativo alla scienza: significa invece che si può gettare la spugna e rinunciare a capire la realtà generale (il che per alcuni, e magari non a torto, sfiora l’idea di massima saggezza individuale), basta che poi non si commetta il peccato assolutamente blasfemo ed esiziale di pretendere di capire Dio o ‘Dio’.
Che cosa si può dire allora di quella che potremmo considerare una dimostrazione matematica esatta (ed elementare) di certe intrinseche nebulosità della matematica del continuo? (ammettendo che sia giusta, ma, paradossalmente, cambierebbe poco anche se fosse sbagliata, dato che rimarrebbero validi tutti i principali sottintesi del discorso imbastito e soprattutto gli enigmi e i quesiti racchiusi in una formula di partenza così elementare).
Si deve a tali nebulosità se menti sicuramente più efficienti della mia (e perfino più efficienti di quella del sommo dei sommi) non hanno neppure intravisto una soluzione così elementare (nell’ipotesi ovviamente che essa sia corretta), addirittura più elementare (forse) di quella già riportata a suo tempo?
Si è trattato di auto censura difensiva contro il disfattismo eretico del dubbio più che autentica cecità?
Non so e al limite non mi interessa.
Non ho mai capito le remore ad abbandonare un certo ‘paradigma’ quando quello si palesa irrimediabilmente invecchiato e mostra crepe da tutte le parti.
Difendere a ogni costo una causa persa al fine di salvaguardare alcuni valori fondanti o dogmi sacrali comporta un solo tipo di esito certo e inesorabile: lo snaturamento fino al rovesciamento nell’esatto opposto dei significati strutturali e funzionali che hanno diretto le più importanti scelte originali.
Il continuo è servito egregiamente a Leibniz e Newton per cominciare a indagare certi aspetti della natura, ma quando l’universo si estende dal sistema solare a un raggio di decine di miliardi di anni luce i valori in unità correnti esplodono di conseguenza e la Natura comincia a rivoltarsi contro il giochino che risolve per magia l’inflazione di rapporti e combinazioni attraverso decisioni stravaganti e antitetiche del tipo: numeri incredibilmente grandi ci creano problemi? Ma, perbacco, rendiamoli infiniti e i conti cominceranno a tornare.
Nelle politiche veramente democratiche sta avvenendo qualcosa del genere: le oligarchie non sanno più che pesci pigliare per diffondere una parte ‘non eccessiva ma sufficiente’ di benessere dalle proprie file al grosso del parco buoi elettorale il cui consenso maggioritario effettivo renderebbe inattaccabili (per quanto sempre inevitabilmente un po’ squallide) le logiche di fondo del sistema? Ma, perbacco, facciamo in modo che le oligarchie decidano in modo autocratico (almeno nel periodo da una elezione all’altra, sperando di poterci compiere decisioni definitive e irreversibili) e ogni deficit strutturale verrà automaticamente risanato da un surplus di efficienza nelle capacità delle oligarchie di gestire i propri interessi.
Questa sì che è democrazia: indennizzare da disturbi di ogni genere (inclusi quelli provenienti da potenziali pari in grado che dissentono per varie ragioni) il candidato eletto da un terzo scarso della popolazione complessiva
La deriva nazista di Israele ((dei governanti di Israele, non dei sudditi in larga maggioranza contrari) (non si intenda il termine ‘suddito’ in senso dispregiativo: stiamo tutti diventando sudditi e non cittadini delle ‘nuove autentiche democrazie’)), la deriva nazista, dicevo, e anzi iper-nazista, (dato che la forza e la velocità dei massacri tecnologicamente diretti fa apparire i nazisti originali dei bambinoni inutilmente sadici e perversi) fornisce un altro esempio classico di rovesciamento, in questo caso di un concetto storico di diritto all’esistenza nell’esatto contrario di un diritto al genocidio dei nemici.
La iper-tecnologia è ormai diventata un modo per distanziare i pesi e i valori impersonali e oggettivi delle unità antropologiche al punto che il tecnologo militare (o chi lo comanda) raggiunge livelli di preminenza qualitativa e quantitativa che, rispetto al nullatenente ridotto a semplice particella anonima e indistinta in una massa informe di fuggitivi o migranti (e quindi, in buona sostanza, anche rispetto a me o a te esimio lettore qualunque) non appaiono meno qualitativamente e quantitativamente sproporzionati di me o te, esimio lettore qualunque, rispetto alla mosca che ci importunava e che abbiamo schiacciato in assenza di soluzioni diverse e comunque perché non abbiamo considerato la morte dell’insetto un problema meritevole di attenzione.
Se così è (e in termini puramente impersonali e oggettivi così è) personalmente non vedo un grande futuro per l’evoluzione dei nostri sistemi ‘democratici’ in assenza di radicali ristrutturazioni funzionali e ideali.
Date tempo al tempo e tempo ai dissesti ambientali e climatici nonché sociali ed economici per intensificarsi oltre certi limiti e vedremo come, davanti a catastrofi presenti o semplicemente annunciate, una oligarchia che monopolizza le tecnologie più costose e rilevanti, trovandosi davanti a decisione drastiche considerate le più sicure per conservare un proprio irrinunciabile grado minimo di salvaguardia e preminenza, esiterà in considerazione del rispetto di singole vite umane di qualsiasi genere, importanza e numerosità, almeno nel caso in cui le reazioni possano essere giudicate un rischio tollerabile rispetto ai vantaggi).
Non si deve pensare necessariamente a genocidi e massacri: ridurre una vita umana a pedina utilizzabile in un meccanismo funzionale e negarle, al di fuori di quel meccanismo, qualsiasi soddisfazione soggettiva può corrispondere a una uccisione o perfino peggio.
Costringere una tribù primitiva di una foresta, perfettamente ambientata nell’antico ambiente, a vivere da gente povera e disprezzata in uno squallore mefitico e inquinato è tanto meno orribile che lo sterminarla?
Se, utilitaristicamente, ma anche scientificamente, (sorvolando sulla forzata vaghezza dei termini) giudichiamo la morale come aumento medio quantitativo di benessere e diminuzione media quantitativa di malessere, potrebbe addirittura essere peggio.
Comunque sia, senza una forma o l’altra di utilitarismo, la democrazia in senso occidentale a me appare un puro non senso.
E’ possibilissimo, del resto, che l’alta tecnologia favorisca dei mutanti umani capaci di vivere in modo soddisfacente lontano da ogni ambiente naturale, ma ritengo molto difficile credere che mutanti e non mutanti possano pacificamente convivere o che la Natura non ‘decida’ in tempi brevi di sbarazzarsi di mutanti dominanti e non mutanti succubi.
29 ottobre 2023
IL COMITATO DI ESPERTI ASPIRANTI ALLA CARICA DI SOMMO ANONIMO, DOPO ATTENTO ESAME DEGLI ARCHIVI CARTACEI SOPRAVVISSUTI A UNO SBRIGATIVO QUANTO SCELLERATO RIORDINO DA PARTE DELLA GOVERNANTE, PROPONE UNA SECONDA DIMOSTRAZIONE ELEMENTARE DELL’ULTIMO TEOREMA DI FERMAT QUALE POTREBBE ESSERE QUELLA A CUI AVEVA ALLUSO IL SOMMO ANONIMO PIU’ SOMMO DI TUTTI (R.P.) IN UNA LETTERA SPEDITA AL KOLIBIANO N.2
I vostri affezionati redattori si scusano con i milioni di lettori per insistere a giocare con il pallottoliere mentre s’impongono consequenzialità molto più stringenti come aderire alla logica ferrea di chi afferma che Israele rappresenta l’unica vera democrazia in un’area turbolenta e ha il pieno diritto di difendere la propria sopravvivenza.
Un profondo senso di colpa ci spinge quindi a collaborare a quella tesi perfetta apportandovi i contributi ormai classici della sillogistica kolibiana.
Definizioni di vera democrazia.
1) Dicesi ‘vera democrazia’ quella in cui esiste almeno un partito veramente democratico che gli elettori possono liberamente preferire oppure no ad altri partiti meno democratici. Tale partito, che in alcuni paesi merita il titolo di partito democratico punto e basta, può concedere sportivamente e cavallerescamente, a propria discrezione, la vittoria elettorale a partiti meno democratici ogni qual volta un proprio candidato la otterrebbe sicuramente, mettendo però in dubbio la prosecuzione dei finanziamenti che il partito veramente democratico ha tutto il diritto di pretendere perché ha diritto alla propria sopravvivenza.
2) Dicesi ‘vera democrazia’ quella in cui un pacchetto non proprio commendevole di raffazzonati governanti, che a suo tempo ha ottenuto una risicata maggioranza di minoranza grazie ad agnosticismi o disillusi disgusti detti collettivamente astensionismo nonché divisioni e stanchezze delle controparti, dopo essere precipitato nei sondaggi sotto la soglia di eleggibilità o quasi, può decidere i più rischiosi e calamitosi azzardi poiché il tempo che rimane prima delle prossime elezioni garantisce che nessun collega del partito unico o concorrente gerarchico o rivale di baronia possa intervenire e frapporsi. Gli azzardi si giustificano in genere invocando il diritto alla sopravvivenza della vera democrazia: ovviamente, se essi ottengono provvisoriamente il risultato voluto, moltiplicano esponenzialmente le insidie che minacceranno il diritto alla sopravvivenza futura, autorizzando così i campioni della vera democrazia ad assumere decisioni sempre più drastiche, risolute e arbitrarie (cioè autocratiche) in sincera e amorevole difesa della vera democrazia.
Definizione di diritto alla sopravvivenza
Vedi definizioni della vera democrazia.
Per fortuna, come recita un luogo comune, la matematica non è una opinione o, perlomeno, come commenta la razionalità e la logica, anche quando offre il fianco a ombre e recessi di incertezza e opinabilità o addirittura nasconde deleterie imprecisioni, riguarda comunque (o dovrebbe riguardare per la buona salute della disciplina) persone interessate a concetti di verità condivisa e di limitata e tollerante opinabilità.
In fondo la differenza in termini razionali e filosofici tra matematica e politica, come quella tra qualsiasi altra coppia di discipline i cui cultori ambiscano a un minimo di concordanza diffusa, riguarda più le caratteristiche e le qualità delle persone coinvolte che le premesse e i capisaldi dottrinali.
Se i partecipanti a una qualsiasi discussione, indagine o elaborazione non si accordano in via preliminare sulle logiche di base, possono solo fingere d’intendersi o perfino di contraddirsi, ma invece di costruire consapevolmente protocolli d’intesa o arbitrarie decisioni unilaterali lasciano che meccaniche generali conosciute e approvate solo in piccola parte (e da piccole parti) sviluppino gli eventi secondo cause e principi di dominanza ancora più oscuri e imperscrutabili: si finge di voler pervenire a decisioni costruttive, ma in realtà, al posto di troppo onerose e rischiose disfide violentemente risolutive (finché la barca va e schiva gli scogli sommersi), si stanno inscenando difese di più o meno legittimi interessi in forma di pantomime dialettiche: come le imprese sportive o economiche, le battaglie normative e giuridiche sostituiscono il cozzo fragoroso e virulento delle armi.
A volte, però, i grovigli e le contrapposizioni degli interessi o privilegi basilari superano ogni altra possibilità di composizione e allora subentra la guerra come igiene del mondo e prosecuzione della politica con altri mezzi, il che richiede che gli interessi o i privilegi di parte si trasformino in principi assoluti e indiscutibili di portata oggettiva e universale.
Conviene a una persona minimamente intelligente trasformare interessi o privilegi in valori intoccabili?
Non si può escludere del tutto: basta, forse, che si riesca a condividere sufficientemente i propri interessi, privilegi o valori o, se non ci si riesce, basta che la guerra disturbi poco o niente mentre scrolla di dosso concorrenti, avversari e nemici: difficile, molto difficile, ma non impossibile, purtroppo, soprattutto se le sperequazioni che avanzano a ritmi esponenziali favoriscono un certo tipo di caste iper-tecnologiche.
La questione meriterebbe la giusta considerazione, ma purtroppo la sostituzione del guerriero risolutamente e forzatamente monomaniaco al politico illusionista e spacciatore di immagini nei più diversi sensi della parola è talmente veloce che manca il tempo per riflettere.
Guerre a parte, resta il fatto che in condizioni normali, per una politica che si definisce democratica, il nemico vero, non da abbattere (è impossibile: siamo appunto in democrazia!), ma da confondere e neutralizzare, al di là dell’abile gioco delle apparenze in cui eccellono i ‘maestri di comunicazione’ (un politico che non è ‘maestro di comunicazione’ più o meno bravo non farà il politico a lungo e per il resto può limitarsi a una intelligenza specialistica purché non accentuata al punto di diventare controproducente)… il nemico vero, si diceva (‘concorrente’ o ‘avversario’, se si teme di eccedere in drammatizzazioni), non si trova davvero nei colleghi di milizia appartenenti al ‘fronte opposto’ (senza i quali non potrebbe fare quello che fa), bensì risponde al nome o alla definizione di ‘elettore’: solo costui, con le sue pretese assurde di coerenza e concretezza (che riserva sempre agli altri e mai a se stesso) e tutte quelle sue incredibili rivendicazioni di meschini interessi gli uni contro gli altri armati (tutti quei ridicoli ‘giardinetti’) può turbare (lo si dica tranquillamente a mo’ di constatazione per niente demagogica) gli espletamenti professionali di una corporazione o una casta dirigenziale che obbedisce, in modo non certo sprovveduto e privo delle necessarie sottigliezze e avvertenze, alle logiche imperanti di sistema come al loro progressivo, inarrestabile, incontrollato e incontrollabile alterarsi e mutare.
Così è e così sarà sempre oscillando in più o in meno nella misura minore o maggiore in cui insiste e predomina un modello culturale di riferimento che possiamo sempre riferire, al di là di inutili distinzioni come quella tra teoria e pratica (indistricabili come genetica e ambiente o capacità e convenienze o utopia e realismo o tante altre false opposizioni binarie), a un Progetto di Stato Stazionario esplicito o sottaciuto che sia.
Naturalmente Progetto non significa progetto buono e può anche tradursi in una idolatrica, teologica sottomissione al Sistema Vigente: le poche nozioni abbastanza inconfutabili al riguardo concernono il sospetto che le dissimulazioni (il non-progetto dei pragmatici barra opportunisti) servano appunto a nascondere gli interessi o, meglio, i privilegi.
Questo è quanto (il che, salvo possibilissime catastrofi prossime e venture, non è né bene, né male, dato che un progetto può essere buono o cattivo, concreto o sognante, plebiscitario o autarchico eccetera) e questo, senza progetti espliciti che si possano analizzare e giudicare, continuerà a realizzare l’autentica, irrimediabile e in qualche ineffabile modo seducente, ‘ma anche’ deludente, sostanza della socialità auto-celebrativa (deludente soprattutto se vista in senso produttivo e non puramente storico-narrativo o fenomenologico-esistenziale) almeno finché l’oligarchia (per le incapacità e le convenienze inestricabilmente intrecciate) rifiuta (ignorando la minaccia più o meno intollerabile delle catastrofi accennate in parentesi) anche solo di prendere minimamente in considerazione l’unica strategia alternativa ovvero quella del progetto… pardon, del Progetto (di Stato Stazionario).
Una volta che si è equiparata tale strategia, senza se e senza ma, a una pura e semplice Utopia, occorre solo ignorare che, come si è cercato di dimostrare nel presente testo, l’intera storia e l’intero presente dell’umanità consistono in una serie involontaria di disperate utopie pagate profumatamente da coacervi di singoli individui fantomatici e fantasmagorici almeno quanto le utopie che li animano sotto un brulichio di pressanti esigenze concrete.
Tali individui risultano politicamente attivi e misurabili solo in quantità complessive variamente ponderabili eppure ciascuno insiste nondimeno a considerarsi ‘il’ centro dell’universo solo perché risiede effettivamente in ‘un’ centro di universo, uno dei tanti miliardi, non solo umani, esistenti sul pianeta, un centro di universo impossibilitato a conoscere che cosa significhi davvero risiedere in un centro diverso (soprattutto in presenza di enormi differenze socio-economiche), al di là di considerazioni svolte all’insegna del festival della banalità convenzionale o, appunto, della remunerazione politico-economica.
Continueremo a stupirci se anche la cronaca corrente si svilupperà in pirotecniche e micidiali sarabande senza capo né coda, se la Storia Umana autentica e provata (quasi come la Storia Naturale) continuerà a rivelarsi un incredibile e assurdo pandemonio di eventi ‘reali’?
LA DIMOSTRAZIONE
A ben guardare, più che di una seconda dimostrazione si tratta di una esplicitazione della prima che, se ne disperde la fulminante incisività, fa meglio comprendere le esplosive implicazioni in essa contenute.
Riassumendo:
L, M, A interi
L > M
(A + L)n – An = (A + M)n
TP + n(L- M)An-1 – An = 0 . . . . . . 1)
TP = termine positivo
TP = P3 (L2 – M2)An-2 + ….. Ln – Mn
Pi rappresenta l’iesimo coefficiente della riga n + 1 (includendo n = 0) del triangolo di Pascal (formula del binomio).
A > n(L – M) (necessario per la validità della 1)
Partendo da M = 0, diminuendo A, L – M diminuisce in misura inferiore rispetto alla diminuzione di A, ma contemporaneamente M aumenta nei confronti di L e quindi TP diminuisce.
Ciò dà una spiegazione intuitiva di come l’equazione 1) discreta possa ‘tallonare’ quella continua.
Perché non possa coincidere per n > 2 dipende da come le differenze dei termini elevati a potenza variano i rapporti reciproci, situazione complicata il cui esito si evidenzia però facilmente, in assenza di contraddizioni, moltiplicando i termini per un coefficiente comune.
Si tratta alla fine di un problema di tipo combinatorio, illuminato anche dal fatto che se sommiamo tre potenze invece di 2 una soluzione intera diventa possibile.
Per esprimere la situazione dal punto di vista del continuo, partiamo ora dall’equazione
2(2-1/nC)n = Cn
C numero intero
poniamo
Z = 2-1/n
e cerchiamo due valori irrazionali w e y tali che
(Z – w)n + (Z + y)n = 1
Dato un w compatibile si trova sempre un y corrispondente secondo l’equazione
y = (1 – (Z – w)n)1/n – Z
Si tratta allora di capire perché, spostandosi da Z, rispettivamente in giù e in su, w e y, nonostante incontrino infiniti numeri razionali, non intercettino mai in contemporanea (in assenza di contraddizioni!) due numeri razionali corrispondenti.
Dobbiamo pertanto esplicitare il significato di tale …. anomalia?
E’ ciò che intendiamo proporre nelle righe seguenti.
Supponiamo che valga l’equazione:
An + Bn = Cn
ovvero
An = Cn – Bn
con n > 2 e C > B > A tutti e tre numeri interi
Allora esiste un r numero razionale tale che
(B +1)n – Bn = rAn
con r = ((B +1)n – Bn) / (Cn – Bn)
Poniamo ora
C = B + d
ri = ((B + i +1)n – (B + i)n) / (Cn – Bn)
Per le ipotesi ammesse e le posizioni fatte risulta
Σ0d-1 ri = 1
Consideriamo ora l’equazione:
(kA)n + (kB)n = (kC)n
con k numero intero.
Possiamo ripetere le stesse procedure adeguando i valori secondo il coefficiente k ottenendo
Σ0 kd-1 rki = 1
dove
rki = ((KB + i +1)n – (KB + i)n) / (KnCn – KnBn)
Possiamo dunque scrivere
d(medd) = kd(medkd) = 1
Questa equazione è improponibile per il semplice motivo che le due medie, a differenza di quanto avviene con i numeri irrazionali, non possono mantenersi in proporzione perfetta rispetto a un k qualsiasi come se le due sommatorie discrete fossero una somma di infinitesimi.
Ricordando infatti l’equazione
f(kx) = f(k) f(x)
si vede che mentre l’integrale su un segmento della variabile x conserva la proporzionalità in f(k) l’ascesa discreta, per così dire, manifesta una variazione più che proporzionale rispetto a f(k)
L’unico modo perché il fatto non comporti una contraddizione insolubile resta quello di negare la validità (asserendone quindi la impossibilità) dell’equazione di partenza (An + Bn = Cn).
E’ ovvio che la discrepanza tra ascesa discreta e ascesa nel continuo sviluppa problematiche assai insidiose per quanto riguarda la sovrapposizione tra l’analisi infinitesimale e i processi effettivi: basta considerare che l’ascesa discreta, seguendo la logica dei rapporti tra funzione e variabile di base, dovrebbe coincidere sempre di più con l’ascesa continua e invece avviene esattamente il contrario seppure in valore assoluto e non secondo gli ordini di grandezza ovvero in proporzione assoluta.
Non ci si dovrebbe quindi stupire se, indagando realtà sempre più minuscole (ma non infinitamente minuscole!), l’adozione di conseguenti unità di misura spalanca un abisso di difformità legato alla salita esponenziale delle combinazioni dei fenomeni più che a poche quantità e a pochi rapporti specifici.
Detto altrimenti: l’analisi infinitesimale approssima bene le realtà, ma la rozza, grossolana realtà discreta si fa un baffo di tale sottigliezza e la sommerge sempre e comunque di complessità (la meccanica quantistica e soprattutto le teorie quantistiche dei campi con i loro processi di cosiddetta normalizzazione insegnano).
Per comprendere come in questo modo l’analisi infinitesimale trucca le carte e nasconde le dinamiche del caos è forse utile riferirsi a un bigliardo circolare a forma di uovo: il diagramma planare delle traiettorie (massima e minima a parte) riempie l’intero riquadro con un addensarsi polverizzato di punti, ma, teoricamente, il singolo rimbalzo rispecchia un analogo rimbalzo in un bigliardo con la forma di un cerchio perfetto: si trova la tangente nel punto di impatto, si traccia la perpendicolare e si fa in modo che il ‘punto palla’ rimbalzi secondo un angolo uguale a quello di provenienza. Tutto ok, peccato che la curva del bigliardo a uovo, a differenza di quello perfettamente circolare, non si comporti in modo simmetrico rispetto alla tangente ai due lati della perpendicolare sul punto di impatto.
Questo dettaglio che l’analisi infinitesimale ignora nel definire ogni specifica azione del ‘punto-palla’ riappare alla fine nel modo più evidente e invadente possibile: la dispersione delle linee dei grafici descrittivi in una polvere di punti (un caos di punti) in porzioni areali che si dilatano e si infittiscono in relazione alla deformazione progressiva del bigliardo da cerchio perfetto a uovo variamente sagomato.
Come dire: l’analisi infinitesimale può pure ammettere soluzioni reali per l’equazione dell’ultimo teorema di Fermat, ma la realtà non ci sta, segue la propria strada a prescindere dal sogno che ogni aspirante demiurgo in seconda, terza o millesima (vice del vice del vice….) coltiva di seppellire la complessità e la creatività della Natura / Dio sotto monoliti semplici, ma infiniti.
Per dirla papale papale fino in fondo, la scienza del mondo reale (senza virgolette) che utilizza l’infinito dell’analisi infinitesimale assomiglia alla politica che usa Dio o ‘Dio’ per i propri scopi: entrambi non sanno di che cosa stanno parlando, ma, in un certo senso ed entro certi limiti di approssimazione o pressapochismo, ottengono scorciatoie utili per determinati scopi indipendenti dalle verità.
Già in logica generale gente come Poincaré, Brower, Weyl aveva additato le insidie e i trabocchetti irrimediabili dell’infinito attuale, ma fa particolarmente specie rilevare che Riemann, il creatore della geometria differenziale adottata da Einstein, col suo grande intuito fisico e naturalistico aveva subodorato la suddivisione quasi obbligata della realtà in elementi discreti.
Il genio di Einstein ha introdotto in modo stabile e predominante il paradigma della curvatura in un continuo geometrico ma altri, come ancora Poincarè, avevano pensato di risolvere il paradosso di Michelson e il significato fisico delle coordinate di Lorentz in schemi algebrici di contrazioni metriche.
Per la politica e la comunicazione sociale far sparire le tracce degli azzardi fantasiosi nascondendoli dietro le acrobazie dialettiche e le illusionistiche astuzie di interessi concreti diventa non solo possibile, ma quasi obbligatorio (la politica si dimostra alla fine l’arte di assecondare i poteri vincenti e smussare i poteri contrapposti abbastanza equivalenti, travestendo gli uni e gli altri secondo concetti commercialmente gestibili di moralità e di giustizia).
Per le scienze, la dissimulazione si dimostra molto più difficile, dato che le pecche prima o poi vengono a pettini che ripagano gli infiniti con altri infiniti e incongruenze logiche di base con incongruenze sperimentali (a puro titolo di esempio potremmo ribadire qui l’incompatibilità tra relatività generale e meccanica quantistica, le cosiddette normalizzazioni nella teoria quantistica dei campi, gli enigmi astronomici legati alla materia oscura, le proposte di modifica delle leggi gravitazionali (teorie MOND) per spiegare fenomeni come la stessa materia oscura e la costante gravitazionale responsabile dell’espansione accelerata dell’universo)
Tutto ciò evidentemente sembra non risultare (a meno che non sia stato deliberatamente sottaciuto) da dimostrazioni molto più sofisticate come quella di Wiles (che, ovviamente, a differenza di quelle qui presenti, non rientrava nelle disponibilità e possibilità di Fermat) oppure viene celato dalle complessità come accade spesso nei tecnicismi più all’avanguardia, segnalando almeno la spia di una frattura sempre più problematica tra certi eccessi visionari della tecnocrazia di élite e i responsi essenziali e inderogabili della scienza di base.
19 ottobre 2023
Precisazione n. 3
Gli aspiranti alla carica di Sommo Anonimo si dividono attualmente in due fazioni caratterizzate dagli elementi chiave proposti per risolvere la celeberrima e fantomatica seconda dimostrazione elementare accennata sui margini di una lettera da colui che possiamo considerare il Sommo dei Sommi, la cui scomparsa ha lasciato un vuoto incolmabile o solo parzialmente colmabile definendo il suo ultimo lascito e gli enigmatici e cruciali riferimenti in esso contenuti.
Un gruppo ritiene essenziale e inderogabile riferirsi a fattorizzazioni e parità, l’altro ritiene che la chiave di volta, come quella della prima dimostrazione elementare, debba per forza consistere in ciò che caratterizza le potenze algebriche rispetto alle altre funzioni analitiche ovvero l’assenza di una scala caratteristica (come il tempo di dimezzamento per le funzioni esponenziali o la periodicità per quelle trigonometriche) indipendente dalla scelta di una specifica unità di misura.
Decisiva sarebbe insomma l’equazione:
f(kx) = f(k)f(x)
che in modo semplice e chiaro lega (pariteticamente, verrebbe da dire) le funzioni di potenza al fattore di scala ovvero all’unità-base, evidenziando nell’algebra polinomiale e razionale, capace di fondare la totalità dei calcoli effettivi ovvero dei calcoli senza infiniti, una complessa ammucchiata di frattali sotto mentite spoglie ovvero di frattali con esponenti interi e non frazionari, una tripudiante fiera di ‘non-frattali’ che spiega la vera natura fisica dei frattali teorici (che, fisicamente parlando, si proclamano ‘più che infiniti’ e quindi manifestano difetti essenziali, dato che l’esponente si deduce da un rapporto logaritmico e quindi è ‘reale’ ovvero irrazionale).
Seguendo questa linea di pensiero, i rappresentanti della seconda fazione ritengono che in realtà la seconda dimostrazione elementare si trova già espressa nelle precedenti appendici (soprattutto quella che parte dall’equiparazione di A e B ‘reali’ (p = 1 / 21/n)) se solo si trascurano e correggono imprecisioni inserite ad arte per intenti di malversazione politica o per lo sbrigativo avallo di un R.P. troppo affaticato e in stato pre-comatoso o per le due cause combinate insieme.
Ciò comporta conseguenze notevoli se l’uomo è costretto ad assumere certe configurazioni di pensiero e non altre quando vuole, in qualche modo, sempre, inevitabilmente, incerto e problematico, sovrapporre le meccaniche del pensiero alle meccaniche della realtà.
Tale esigenza si può considerare superflua e anzi riprovevole se il pensiero può dominare la realtà grazie a una intrinseca trascendenza di base (proprietà difficile da giustificare scientificamente, ma comprovabile a livello umano e politico sottolineando come le mentalità più spiccatamente religiose (religiose in senso assolutistico, diremmo) hanno saputo offrire modelli di convivenza ideale in ogni momento della storia e in ogni parte del mondo, segnatamente, tanto per citare un esempio a portata di mano, nelle aree medio-orientali)
Se l’uomo non fosse un essere soprannaturale prediletto da Dio o almeno da ‘Dio’ e dotato dei suoi poteri e delle sue priorità per parziale e condizionata concessione (ma, ripeto, la negazione di simili privilegi rispetto agli animali più prossimi come scimmie e maiali sviluppa tesi di un razionalismo estremo che la maggior parte degli oppositori non ha neppure bisogno di contestare con ragionamenti ostici, pericolosi e pericolanti di qualsivoglia natura: basta, avanza ed è molto più consigliabile ai fini del trionfo della causa che, wittgensteinianamente, tali oppositori non dicano, ma mostrino se stessi e le proprie qualità superiori come hanno saputo fare in Medio Oriente), la scelta dell’unità di base diventa essenziale per qualsiasi sistema e allora in politica spicca l’importanza, più che della natura dei valori, dei livelli di realtà in cui li si intende azionare a titolo di salvaguardia e tesaurizzazione, per esempio se tali valori devono conservare e valorizzare gli individui o gli stati o gli uni subordinatamente agli altri.
La razionalità di tipo scientifico, in politica, rappresenta in sostanza un ‘buon senso’ di grado elevato, un buon senso privo delle sfumature ciniche e classiste che infettano almeno in parte la generica razionalità di chi può permettersela ‘pro domo sua’.
Razionalità e buon senso ottimali dicono e mostrano allora che individui e stati in politica si manifestano come entità indefinite e camaleontiche che, per guadagnarsi scampoli di presunta realtà, devono passare attraverso mediazioni circolari e infinite (infinite perché circolari) di gruppi di individui estremamente stereotipati in quanto appartenenti a un gruppo ed estremamente concreti in quanto impersonificazioni degli interessi di gruppo.
L’unica caratteristica capace di assicurare un minimo di solidità e certezza al concetto di democrazia inteso come caratteristica basilare del modello di scambi, mediazioni e interazioni rimane il riferimento alla individualità della persona umana al di là di tutte le incrostazioni culturali e sociologiche, di difficilissima compatibilità reciproca, che possano attecchirvi sulla base dei percorsi di vita effettivi.
Se questa enigmatica, fantomatica, problematica entità individuale appartenente a ciascun singolo rappresentante umano (ma anche, verosimilmente, a qualsiasi rappresentante di specie animale, almeno da un certo grado in su) viene completamente disconosciuta a vantaggio di astrazioni ideali, non esiste più democrazia, perlomeno non in senso scientifico e liberale.
Per quanto ci riguarda (e a prescindere da quanto sospetta, allarmante e scandalosa tale posizione possa apparire), a ogni riunione politica, i partecipanti, prima di essere ammessi alla sala del dibattimento, dovrebbero essere ispezionati da un analogo di metal-detector capace di individuare in qualsiasi tipo di personalità qualsiasi tipo di (necessariamente falso, bugiardo e ingannevole e auto-ingannevole, almeno secondo i sottoscritti) valore assoluto.
Chi se ne rendesse colpevole, dovrebbe dimetterne i contenuti prima di ricevere qualsiasi diritto di accesso, sempre che, secondo modalità variamente giudicate eccessive o prudenziali, non siano state previsti stati di fermo o dimissioni forzate.
Il problema tecnologico principale per mettere a punto un simile pseudo metal detector può sembrare quello di contraddistinguere la consistenza ontologica dei valori assoluti rispetto ad altre caratteristiche materiali o biologiche, ma in realtà esiste una difficoltà più profonda e sostanziale: i valori assoluti non esistono oppure sono indistinguibili dagli interessi.
N.B. Il Sommo Anonimo più sommo di tutti (R.P.) aveva in effetti valutato la possibilità di riunire i più dotati esperti kolibiani nel campo della tecnologia al fine di progettare lo pseudo metal detector in questione, ma poi si convinse della sua irrealizzabilità: un tale attrezzo atteneva al problema della verità e qualsiasi tecnologia non scopre verità, bensì se le inventa.
Una tecnologia può, per esempio, deviare i missili dell’avversario verso l’obbiettivo che si ritiene utile colpire senza coinvolgersi in modo diretto, ma proprio per questo o per altre ragioni e opportunità non può assolutamente stabilire in maniere inequivocabili e politicamente valide e fattive la responsabilità dei crimini di guerra quando si confrontano opposte propagande l’una contro l’altra armate.
14 ottobre 2023
PRECISAZIONE N.2
Gli esperti hanno dato il loro responso e l’aspirante alla carica di Sommo Anonimo sarà costretto a indirizzarsi verso più modesti obbiettivi.
Rimane comunque interessante il riferimento a fattori primi che, insieme alla segmentazione in unità di base e alla distinzione tra pari e dispari, caratterizza i numeri interi e razionali rispetto ai ‘più che infiniti’ numeri ‘reali’.
Un altro aspirante al titolo supremo sottolinea che un secondo tipo di dimostrazione elementare (quale quello appuntato a mano dal Sommo Anonimo R.P. nello spazio laterale di una lettera dattiloscritta inviata al suo vice) non potrà che coinvolgere argomenti in qualche modo collegati, partendo eventualmente dal fatto che ci si può sempre ridurre a una equazione in cui A, B e C non hanno fattori comuni e A e B devono essere uno pari e uno dispari.
Di sicuro, dalle precedenti incursioni emerge una indicazione molto ovvia e chiara: non ha senso ricercare contraddizioni in formule valide per i numeri reali, come, per esempio, cercare disuguaglianze tra pari o dispari investigando la parità o disparità dei membri dell’equazione facendo analisi sulla parità o disparità di A rispetto a L – M (parità o disparità che coincidono necessariamente per i membri dell’equazione come per A e L – M).
Vedremo: i nostri esperti ovvero tutti i pretendenti in lizza stanno attivamente elucubrando.
Dall’ultimo teorema di Fermat passiamo ora al taglio della testa dei bambini.
Si pregano le Sacre Inquisizioni, prima di tagliarci simbolicamente la testa, di mettere da parte l’orrore istintivo che suscita la frase precedente e meditare invece su quanto segue.
Fotografie di bambini con la testa tagliata provocano disgusto e orrore, un palazzo di sei piani che crolla su se stesso dopo essere stato bombardato invece no (perlomeno non nella stessa esorbitante misura), nemmeno se la voce di sottofondo dice che all’interno del palazzo c’erano bambini.
Se nei bombardamenti di una città muoiono centinaia di bambini, qualche bambino in qualche palazzo doveva pur esserci.
Preferiresti morire (sto parlando a te, individuo x, un DNA specifico che, in quanto tale, non appartiene ad alcun clan o partito o casta o popolazione o il gruppo sociale che vuoi) a causa di un taglio netto della testa o dopo ore di agonia sotto quintali di macerie che ti hanno maciullato solo in parte, lasciando un pertugio sufficiente a farti respirare ancora per qualche lasso di tempo?
Ovviamente, certe persone moralmente integre e responsabili (sedicenti) considerano indegno e ripugnante occuparsi della consistenza materiale dell’orrore invece di rivolgersi a motivi ideali e fondanti: per costoro l’orrore va mostrato o, molto meglio, suggerito soltanto quando serve a condannare senza se e senza ma i mandanti e gli esecutori dell’orrore, salvo poi scegliere gli orrori da mostrare (o, molto meglio, suggerire) in base ai mandanti o agli esecutori che si vuole condannare.
Da un certo punto di vista, tali persone si comportano nella fattispecie in modo irreprensibile.
Tagliare la testa a un bambino è molto diverso che schiacciare un bottone e ammazzarne anche centinaia di migliaia come a Hiroshima: tu, individuo x con un tuo specifico DNA, essendo stato ben educato e nutrito, potresti andare a pranzo o in vacanza senza turbamento di sorta con chi ha schiacciato il bottone dai tragicissimi esiti indefiniti, molto meno, per quanto quello possa nascondere la sua vera natura o i suoi veri comportamenti, con chi ha deliberatamente decapitato un singolo bambino.
Purtroppo tutto ciò, per poter essere tradotto in termini morali fattivi e producenti, presuppone la contestazione di una tesi mai provata e mai sicura in un senso o nell’altro: che qualsiasi individuo / DNA possa essere sottoposto a una esperienza di vita per la quale si possa trovare a decapitare volontariamente un singolo bambino.
Anche supponendo che esistano DNA talmente puri e innocenti da non poter essere corretti in senso malvagio da alcuna esperienza di vita, esattamente come anime immortali pure e innocenti per diritto di nascita, la questione rimane comunque problematica: basta supporre una certa percentuale di degenerazione su un ammontare complessivo di individui / anime / DNA ed ecco che qualsiasi insieme di contingenze estreme come inevitabilmente si rivela essere un conflitto in armi produrrà una certa percentuale di efferati orrori da parte di individui che, in una certa misura percentuale, degenerano inevitabilmente secondo meccanismi eventuali che, a questo punto, possiamo tranquillamente equiparare a fatti catastrofici come una alluvione, una frana o una eruzione vulcanica.
E’ più importante e produttivo discutere sui responsabili degli orrori (a prescindere che, nell’ipotesi che sia possibile identificarli, vadano necessariamente repressi e condannati seguendo distinzioni tassativamente individuali) o ricercare alla base l’origine degli orrori?
Se sparisce la percentuale di degenerati che decapita un bambino, sparisce anche la necessità di schiacciare i bottoni che possono uccidere decine di bambini da parte di persone irreprensibili o piuttosto vale il viceversa?
Dov’è l’uovo e dov’è la gallina?
Se non si decide tra uovo e gallina metaforici e soprattutto su come farne sparire gli equivalenti in ogni caso specifico, rimane (come già affermato a chiare lettere) non solo giustificato, ma assolutamente dovuto e obbligatorio, reprimere gli specifici e noti degenerati responsabili degli orrori gratuiti, però forse conviene girare lontano dagli specchi per non ritrovarsi davanti a qualche forma per quanto parziale, incipiente e confusa di quella stessa degenerazione.
Quella forma provoca nemici, essa rimane incerta per noi, ma molto precisa per i nemici che genera.
I nemici generano prima o poi percentuali di orrore criminale.
Noi siamo i nemici dei nostri nemici.
Quando si va in guerra, bisogna vincerla.
Se si va in guerra, distribuire torti e ragioni tra le parti genera vulnerabilità e disfattismi.
Qualsiasi dispotismo alla fine si risolve nella creazione più o meno artificiale o effettiva di uno stato di guerra in senso lato e nel conseguente obbligo di reprimere il pensiero indebolente.
Non si può condannare ‘senza se e senza ma’ i nemici e rimanere nel frattempo democratico.
In realtà un metodo c’è: basta equiparare i nemici a despoti e considerare se stessi campioni della ‘vera’ democrazia.
Non vorremmo che voi, Sacri Inquisitori o aspiranti tali, equivocaste a tal punto il nostro messaggio da considerarci avversari da reprimere e condannare.
Noi redattori ci sentiamo sinceramente molto orgogliosi di appartenere al modello democratico occidentale.
Chi è mai riuscito in tutto il resto del mondo e della storia a valorizzare ragioni di parte con tale abilità propagandistica, a proiettare le sottigliezze del marketing a tali vertiginose altezze morali, a disciogliere inequivocabili orrori in altrettanto inequivocabili essenze di squisita umanità?
10 ottobre 2023
PRECISAZIONI DEL NUOVO COMITATO DI REDAZIONE
I conflitti troppo aspri fanno del male a tutti.
Il presente comitato ha avuto l’incarico di riesaminare le appendici ed emendare errori e imprecisioni in esse contenute.
Accanto a spunti e osservazioni molto interessanti, abbiamo riscontrato nelle argomentazioni logico-matematiche alcune carenze e perfino grossolani errori.
L – M, per esempio, varia nella stessa direzione di A e non in senso inverso, come è ovvio se solo si considera che le formule esibite devono rimanere valide per i numeri ‘reali’.
Una proposta interessante ci è pervenuta da un giovanissimo candidato al ruolo di Sommo Anonimo dopo la recente scomparsa dell’ultimo incaricato (R.P.).
Questa mente dinamica e fresca raccoglie indizi qui e là nelle precedenti ultime trattazioni e ipotizza che la fantomatica seconda dimostrazione dell’ultimo teorema di Fermat addotta dal vecchio R.P. fosse di tutt’altro genere rispetto a quelle proposte, addirittura molto più semplice e del tipo che segue.
Supponiamo che:
pn + qn = 1
ammetta una soluzione con numeri razionali
ovvero
((ad)n + (cb)n) / (bd)n = 1
con a, b, c, d numeri interi positivi contenenti un numero grande a piacere di fattori comuni rispetto al nucleo originario composto da fattori tutti diversi.
Se esistesse una soluzione razionale, si potrebbero spostare i fattori comuni tra a e d o tra c e b in modo da contraddire la diseguaglianza fondamentale (indispensabile per ammettere l’equazione di base An + Bn = Cn):
n(L – M) < A
(Per una interpretazione corretta dei termini vedere le appendici precedenti)
Vedremo: gli esperti sono all’opera.
Nel frattempo cogliamo l’occasione per rimarcare il pericolo che avvenga con i leader israeliani ciò che è già avvenuto nei confronti dei leader ucraini: la nobilitazione spropositata per confronto con una brutalità deteriore.
Comunque, di fronte agli orrori, importa veramente poco discutere di carriere.
Interessano molto di più le seguenti domande.
A quali orrori si potrà mai pervenire se una situazione genera frange abnormi di scontento e queste frange arrivano alla convinzione che senza orrori non si possa modificare mai niente?
Quanto conta, in presenza di alti gradi di scontento, che le predette convinzioni siano oggettivamente fondate?
Se le convinzioni degli scontenti (dal loro punto di vista, non da quello dei felicioni o degli accomodanti) sono fondate, quando l’orrore dilaga contribuisce più a rimediarvi l’esecrazione dell’orrore o l’analisi dello scontento?
Ovviamente Ucraina e Israele sono casi molto diversi: nel caso dell’Ucraina, la scontentezza riguarda una nazione considerata potenza solo per ciò che concerne l’esclusione da un club egemone di alleanze rivali e non più considerata potenza quando entra in gioco il rispetto delle aree di influenza che in geopolitica si considera implicito nel concetto stesso di potenza militare.
Nella situazione israeliana lo scontento concerne invece le masse di ‘diseredati’ di una nazione fantasma ammessa in teoria, ma umiliata e annichilita nella pratica.
4 ottobre 2023
SINTESI CONCLUSIVA, MORALE DELLA FAVOLA, ANTIFONA DA CAPIRE, SILLOGE BASILARE, CANOVACCIO CAPITALE O COME C****…. CIOE’ CORBEZZOLI VI PIACEREBBE CHIAMARE QUESTO GRUMO DI ESSENZIALI VERITA’ CHE MAGARI, INTERESSATAMENTE O MENO, VI SEMBRERANNO EMERITE STRONZ***…. CIOE’ CORBELLERIE.
Con questo compendio finale, scritto (come tutto il resto e per usare una metafora) in latino e non in volgare (in modo che le sacre inquisizioni moderne possano esimersi dal mettermi alla gogna) intendo riassumere le parti salienti del presente testo in due sezioni: una scientifico-matematica e una generalmente politico-filosofica. Cercherò in ambo i casi di basarmi su poche formule generali accompagnate da altrettanto stringati commenti interpretativi.
In seguito potranno arrivare precisazioni e aggiunte, ma spero proprio di no.
Se quanto segue, tra breve e in breve, è interessante e fondato, il fatto che non venga considerato nelle premesse primarie e fondamentali di ogni discorso scientifico o filosofico, già a livello scolastico e molto oltre, denuncia, secondo me, l’ideologia diffusa e sovrana di quell’ottimismo dogmatico e quella partigianeria megalomane a favore della propria specie (e soprattutto delle parti in essa che possono auto-giudicarsi le più meritevoli) che un essere umano deve forzatamente sottoscrivere per non subire ostracismi morali.
Tale ultima affermazione sembra molto azzardata e di fatto fino a qualche decennio fa lo era assolutamente, ma oggi, purtroppo, la filosofia della scienza di base, almeno a me, non appare più un optional per azzeccagarbugli vogliosi di fughe nell’astrazione che, all’atto pratico, ovvero politico ed economico, si prospettano inutili e perfino dannose; oggi non è più possibile evadere domande sulla natura fondamentale del mondo, dato che l’umanità sta sconvolgendo primari e cruciali equilibri climatici e ambientali di un intero pianeta, riguardo ai quali diventa irrinunciabile rispondere alla seguente domanda: l’umanità vi rappresenta una qualità ontologica indipendente e superiore, una modalità di esistenza potenzialmente capace di conoscenza illimitata, incondizionata autonomia e autonoma capacità condizionante (il risultato ottimale di una creatività divina) oppure vi partecipa in modo contingente, episodico, subalterno e subordinato (una creazione tra le altre in una globalità sistematica enormemente più vasta), soggiacendo a leggi inappellabili e inderogabili e quindi a limiti e incompatibilità che si devono assolutamente rispettare?
L’umanità può permettersi tutto ciò che le conviene (o conviene ai suoi capi e condottieri) oppure è obbligata a prendere coscienza che costituirebbe, con tali sfrenate e disinibite licenze benedette dall’alto, una epidemia da sesta estinzione, un cancro planetario che sarà represso solo da opportune catastrofi? (Tra queste possiamo tranquillamente annoverare capi e condottieri capaci di ridurla per la maggior parte a un corpo amorfo e inoffensivo, ammesso e non concesso che sia materialmente possibile senza una guerra nucleare).
Se valesse la prima delle coppie di alternative, la potenza cerebrale umana dovrebbe apparire tale da dominare una complessità degli eventi effettivi praticamente illimitata su qualsiasi livello della realtà mondana.
Se viceversa, indipendentemente da tale realtà, le possibilità conoscitive umane ricadono entro vincoli di concepibilità molto stretti, proprio tali ineluttabili difetti di concezione, a prescindere, ripeto, da quale sia la ‘vera realtà’, rimandano a un quadro di riferimenti oggettivi nel quale l’umanità e tutti i suoi annessi e connessi si rivelano parte integrata di una rete enormemente più vasta e intricata, tale insomma da consigliare, non azzardi avveniristici, bensì autolimitazioni molto ben disciplinate.
Qui di seguito, allora, in poche righe, intendo delineare quei limiti della concepibilità umana di cui si è appena detto, sottolineando che un simile tentativo non è abnorme e velleitario proprio perché in questione non vi è la natura dell’essere (accessibile soltanto a una spiritualità sovrannaturale e interdetta invece a qualcosa che ne faccia parte alla stregua di semplice emergenza episodica nello sconfinato oceano di cause ed effetti intrecciati), ma la natura del pensare dell’uomo davanti all’essere concreto del mondo, natura del pensare che, se fosse inaccessibile all’uomo stesso (come, almeno in parte, è plausibile che sia), denuncerebbe limitazioni ancora più drastiche di quelle che intendo rintracciare.
SEZIONE SCIENTIFICO-MATEMATICA
Fase 1 (seconda dimostrazione sintetica ed elementare dell’ultimo teorema di Fermat tale da mettere in discussione la congruità e quindi l’esistenza dei numeri ‘reali’ ovvero irrazionali)
A + B = C . . .1)
C > B > A
A, B e C qualunque, razionali o irrazionali
C = A + L
B = A + M
(pC)n + (qC)n = Cn
dove
pn + qn = 1
A p (o a q) si può assegnare un qualsiasi valore minore di 0,: il valore corrispondente di q (o di p) sarà:
p = (1 – qn)1/n
q = (1 – pn)1/n
Teniamo ora ben presente l’equazione:
An = P2(L – M)An-1 + P3 (L2 – M2)An-2 + ….. Ln – Mn . . .2)
Pi rappresenta l’iesimo coefficiente della riga n + 1 del triangolo di Pascal (numero di sottoinsiemi, a meno di permutazioni, di i – 1 elementi in un insieme di n elementi) (formula del binomio).
Per provare l’ultimo teorema di Fermat è sufficiente notare che quando varia A in seguito alla modifica di p e conseguente modifica di q, (L – M) varia in direzione opposta: sia A che (L – M) tendono insomma a trasformare in modo concordante il segno di uguaglianza in un segno di maggiore e minore (se A scende rispetto ai valori che garantiscono l’uguaglianza, L si avvantaggia rispetto a M e il secondo membro della 2 diventa maggiore del primo, viceversa se A sale). Passando quindi dal caso irrazionale a quello razionale, l’equazione 2) non può conservarsi sia che A scenda e (L – M) aumenti (variando p o q), sia che A salga e (L – M) diminuisca.
Nel caso che p e q siano razionali, se esistesse una soluzione razionale, lo stesso ragionamento dovrebbe valere per il passaggio ai numeri reali: se esistessero quindi soluzione razionali, non esisterebbero soluzioni reali.
Ma… pensiamoci un momento: se il ragionamento è corretto, che senso ha ritenere che esistono soluzioni reali per ogni spostamento di p o di q se non esistono soluzioni razionali?
Che cosa significa variare di certi infinitesimi una quantità, sistemare l’altra di altrettanti infinitesimi e confermare così una equazione che risulta incompatibile con qualsiasi coordinato spostamento di segmenti unitari di base per quanto illimitatamente ristretti?
Fase 2 (inesistenza di leggi fisiche esatte in presenza di un infinito attuale quale quello implicitamente presunto dall’analisi matematica che si insegna a scuola).
Qualsiasi modellizzazione scientifica astratta di complessi sistematici sottoposti a indagine da agenti razionali collega i valori di determinate quantità fisiche (che numeriamo da 1 a n) in modo da poter essere illimitatamente approssimata attraverso una espressione del tipo:
F (P1, P2, ……..Pn) = 0
dove i P sono polinomi a coefficienti razionali che esprimono lo sviluppo dei valori delle varie entità e la funzione F può essere complicata quanto si vuole.
Se nella realtà fisica del mondo non esistessero unità minimali invalicabili e ogni unità di qualsiasi ente fisico potesse essere resa piccola a piacere, esisterebbe sempre una discrepanza di misure (espresse in una base numerica totalmente arbitraria, ma inevitabile) e quindi un limite di precisione varcato il quale la legge fisica, all’atto pratico (teorie del caos) sarebbe inesorabilmente invalidata a meno (forse) che le potenze siano tutte minori o uguali a 2 (chi al riguardo evocasse il principio olografico forse qualche giustificazione la avrebbe).
Tale situazione può essere evitata soltanto se esistono combinazioni adimensionali ovvero numeri puri che condizionano in modo assoluto, categorico, tassativo, le dinamiche di sistema.
Uno di tali numeri puri risulta la cosiddetta costante di struttura fine desunta da una formula in cui le dimensioni si elidono per una combinazione opportuna della velocità della luce, della costante di Planck e della carica dell’elettrone.
La presenza di tali numeri puri corrisponde all’esistenza di unità di misura minimali adottando le quali vari coefficienti possono ridursi all’unità in modo che alla fine la F diventa una relazione tra potenze pure, coefficienti adimensionali e coefficienti matematici standard come pi greco o la costante di Nepero.
Coefficienti di tipo diverso, i quali non potessero essere eliminati secondo le modalità predette, risulterebbero inspiegabili, dato che ogni formula dovrebbe agire in modo deterministico, ma tali coefficienti varierebbero con le unità di misura e quindi la loro azione concreta in connessioni di tipo deterministico (con univocità di sviluppo temporale valida in entrambi le direzioni in modo che da Y segua Z e data Z, si possa risalire senza alternative ad Y) risulterebbe assolutamente enigmatica: quale unità di misura la Natura sceglierebbe per agire, se tali unità risultano infinite e quindi, di fatto, inesistenti (sostituibili da pezzi di realtà assolutamente misteriosi come gli infinitesimi)?
Il problema rimane se le costanti pure e adimensionali (come per esempio il rapporto tra due valori fissi di ben precise entità come, per esempio, quello tra massa del protone e massa dell’elettrone) fossero numeri ‘reali’ (ovvero irrazionali) o anche razionali infiniti: dove si fermerebbe la natura per effettuare quel calcolo che si traduce in eventi concreti esterni e indipendenti rispetto alla mente dell’uomo?
Come può una qualsiasi legge fisica agire concentrando nell’ambito limitato del proprio svolgimento una quantità d’informazione infinita?
Concepire per davvero e non per finta una nozione concreta e realistica di legge fisica esige una definizione precisa del concetto di calcolo e qui entrano in scena tutti quei limiti invalicabili di concepibilità delineati da discipline come l’informatica teorica e la teoria algoritmica dell’informazione, considerati i quali rimane aperta la sola visione generale del mondo che non sfumi in nebbie fitte e indissipabili: quella del computer universale replicabile localmente in strutture come le reti neurali o gli automi cellulari.
Attenzione: non sto dicendo che l’universo è qualcosa come un computer o una rete neurale o un automa cellulare; a me, come a chiunque altro, è preclusa definitivamente qualsiasi certezza intorno a che cosa sia l’universo o la materia o lo spirito (lo sdoppiamento della realtà empirica, proprio degli animali superiori, in soggetto e oggetto) o Dio o ‘Dio’: sto dicendo che qualsiasi ‘Teoria del Tutto’ forgiata secondo le forme di concepibilità a cui l’umanità può accedere non potrà che pervenire a un determinato tipo di formule e quindi di calcolo, a prescindere che alcune linee di ricerca, come le teorie delle stringhe, tendano a dissimulare la cosa, mentre altre, come le gravità quantistiche a loop, la affrontino, secondo me, con molta più concretezza e realismo.
SEZIONE POLITICO-FILOSOFICA REDATTA DA UN NEO-COMUNISTA LIBERALE O ESTREMISTA DI CENTRO
La legge ferrea dell’oligarchia domina la vita sociale e politica attraverso meccanismi analoghi a quelli relativi alle cosiddette reti ‘scale free’ (per esempio il ‘World Wide Web’) dove il diagramma dei nodi (hubs) (x = numero dei rappresentanti di categoria, y = numero dei collegamenti medi in una opportuna unità di tempi) riflette leggi di potenza simili a quelle della legge di Zipf o similari.
Valutazioni circa l’intelligenza e la moralità di una persona non possono prescindere dall’ambiente sociale in cui quella si muove, dato che obiettivi di successo o di sopravvivenza si combinano in modi qualitativi e quantitativi molto diversi a seconda delle fasce sociali e i mezzi e gli strumenti per conseguire scampoli di successo o, all’opposto, di sopravvivenza presentano una variabilità molto maggiore.
Parlare di ‘populismo’ in senso dispregiativo rappresenta una spia inequivocabile di deteriore classismo e il classismo è la matrice essenziale e fondante di qualsiasi razzismo che non sia riducibile a un puro rigurgito fisiologico di istinti reattivi animali.
L’umanità si rivela il cancro della Terra, un prodotto della ‘Evoluzione’ che si prospetta una ‘involuzione’ come ce ne sono state molte altre, ma in effetti molto più grave di tutte le altre, se è vero che i tassi di estinzione provocati dall’umanità nei confronti di tutte le altre specie viventi sono in assoluto i più alti mai registrati se si escludono eventi catastrofici indipendenti dalle dinamiche della biosfera, come le cadute di asteroidi.
Qualsiasi tipo di moralità antropocentrica religiosamente fondata si rivela poi, alla fine, un paradosso assurdo per evidenziare il quale basta tenere conto della inverosimile quantità di sofferenza animale provocata dall’umanità anche all’interno di se stessa al punto di moltiplicare per un valore incredibile il volume di sofferenza presente nella biosfera dalla nascita dei primi microorganismi (pensiamo, per esempio, alla sofferenza presente al momento attuale nella totalità degli allevamenti produttrici di carne, di latte o di uova o negli ospedali che ospitano le migliaia di feriti di qualcuna delle tante guerre che si stanno svolgendo nel mondo).
La sofferenza è sofferenza a prescindere dal tipo di sistema nervoso e se Dio esiste e, nei confronti delle altre specie viventi, non è nazista come si dimostra di esserlo oggettivamente la specie umana, non mi sentirei del tutto tranquillo su quello che potrà succedere nell’aldilà.
I lussi e i consumi sofisticati delle classi elevate di ogni parte del mondo inducono cause di degrado che, benché numericamente inferiori, eguagliano o addirittura superano le conseguenze degli espedienti messi in opera dalle molto più numerose classi inferiori di ogni parte del mondo per conseguire una sopravvivenza il più possibile dignitosa.
Comprimere gli uni a favore degli altri, a lungo andare, non serve dal punto di vista climatico-ambientale, ma, se servisse, per non creare pericolose ingiustizie e non seminare instabilità da scontento, si dovrebbe tener conto di un concetto di utilità marginale per cui una operazione giusta e concretamente fattibile dovrebbe ridurre lussi e privilegi in misura molto maggiore dei proventi più strettamente legati alla sopravvivenza e purtroppo il ceto medio si è già trasformato in un sociologico marasma dove spesso la distinzione tra ciò che è superfluo e ciò che è essenziale si rivela improba.
Un ‘populista’, a volte, è semplicemente qualcuno che ritiene essenziale per sé ciò che l’oligarca (piccolo, medio o grande), che in genere dà per scontati e sacrosanti i propri lussi e privilegi, ritiene superfluo per lui (per il ‘populista’).
Invece di cianciare a vanvera di ‘populismo’ (autentica manna del cielo per i partiti finto-’populisti’) sarebbe bene realizzare una volta per sempre che nessun dispotismo può stabilmente generarsi senza un fenomeno semplice e inequivocabile come l’impoverimento del ceto medio.
Per garantire in Europa il governo delle destre anche estreme è sufficiente che i geni europei di centro sinistra (i geni non sono mai di destra o di sinistra e nemmeno, a parte Berlusconi, di centro-destra: sono sempre rigorosamente europei e di centro-sinistra) si inventino la coibentazione obbligatoria delle abitazioni invece di assecondare la salita delle temperature medie con lo sviluppo delle aree verdi e la progettazione di microclimi interni da fruire con gli abiti giusti: qualsiasi governo contrario (e qualsiasi governo contrario ai sacri dogmi dell’ecologismo elitario, tecnocratico e non progettuale, sarà sempre, per il gioco delle parti inscenato dalle oligarchie al fine di preservare se stesse, un governo di destra) farà man bassa di voti dichiarando un programma diverso a prescindere che tra il programmare e il fare ci sia di mezzo il mare.
E comunque, coibentazioni o no, migrazioni o meno, la scienza e la tecnologia, impegnate, oltre che nell’edificazione di luminose e lucrose carriere, anche nella ricerca di promozioni e miglioramenti diffusi nella qualità della vita umana in generale, hanno prodotto finora soltanto palliativi o attenuazioni di trend inesorabili, denunciando l’assenza di piani sufficientemente estesi, tassativi e generali a causa probabilmente di una dominante idolatria per una competitività di mercato che in realtà, dopo pochi o tanti effetti positivi, si sta auto-estinguendo per meccanismi inesorabili.
Progetti e pianificazioni possono essere proposti e architettati soltanto da una oligarchia motivata a ristrutturare le proprie motivazioni e convenienze: consegue ancora una volta da quella legge ferrea dell’oligarchia che contiene sempre e comunque in una camicia di forza qualsiasi modello di democrazia reale, il quale, del resto, come certi vetero-comunisti (e cioè la maggioranza degli intellettuali vissuti prima che il pensiero diventasse una merce come un’altra), ben sapevano, potrebbe consistere in un modello astratto non realizzabile in modi desiderabili e non antitetici.
Qualsiasi gruppo umano, a qualsiasi livello della scala sociale, consta di individui che le dinamiche di gruppo trasformano secondo modalità imprevedibili sulla base di dati separati relativi a individui, da una parte, e gruppi umani di appartenenza, di contiguità o di interazione temporanea, dall’altra.
Moralità, convinzioni, pragmatismi, propositi eccetera contano poco o niente in assenza di una progettualità razionale adeguatamente condivisa.
La legge ferrea dell’oligarchia domina la politica e la sociologia, ma nessuna oligarchia, di qualsiasi ordine e tipo, ha mai capito (finora o forse perché è impossibile) fino a che punto ci si può spingere e a che punto ci si deve fermare: per poterlo fare dovrebbe essere possibile immedesimarsi nella specifica realtà di entità aliene, quali un essere umano ridotto in povertà o un habitat che vede soccombere il proprio humus vitale, ovvero la complessità, per la dominanza di una sola specie.
Mentre l’umanità si interroga intorno a che cosa sia bene o male, giustizia e ingiustizia, intelligenza e stupidità, realtà e sogno, ragione e sentimento eccetera eccetera il pianeta ne subisce l’azione e vi reagisce chiamando a raccolta una miriade di risposte non lineari ed effetti di soglia che tutti assieme, anche se da molto lontano, sussurrano all’orecchio di esseri umani vessati da una ricettività eccessiva qualcosa come: ogni fazione può discutere in eterno con ogni altra su chi sia il migliore e abbia più diritto, ma una cosa è certa: l’anti-catastrofismo è una cazzata.
Appendice n.3
30 settembre 2023
L’ALTRA DIMOSTRAZIONE ELEMENTARE DELL’ULTIMO TEOREMA DI FERMAT E’ ADIBITA IN MODO DA FUNGERE ANCHE DA DIMOSTRAZIONE DI QUANTO SIA ILLUSORIA NON SOLO LA PRECISIONE UMANAMENTE OTTENIBILE, MA ADDIRITTURA LA SEMPLICE POSSIBILITA’ DI LEGGI FISICO-MATEMATICHE ESATTE A PRESCINDERE DAL FATTO INCONFUTABILE CHE ESSE RAPPRESENTINO L’UNICA POSSIBILITA’ CONCESSA ALL’UOMO DI SCRUTARE QUALCHE INDIZIO DEL VOLTO DI DIO OVVERO DI ‘DIO’.
Prima però ci teniamo a sottolineare come i milioni di lettori della Bibbia Kolibiana si siano dimostrati nel frattempo il popolo più intelligente della Terra.
Sono bastati infatti i pochi accenni slegati della precedente appendice affinché una percentuale inverosimile e perfino assurda dei nostri più affezionati tifosi si rivelasse in grado di delineare una seconda corretta dimostrazione elementare dell’ultimo teorema di Fermat e questo nonostante le sottili ambiguità da superare per non incorrere in quella sequela di equivoci che per secoli hanno distratto, confuso e trattenuto i migliori matematici del mondo.
Alcuni dei nostri meravigliosi proseliti si sono fermati alla superficie del teorema, altri si sono spinti fino al punto di dedurne le conseguenze più spinose e cruciali, quelle che trasformano i ragionamenti matematici in ferite aperte dell’ortodossia corrente.
Con l’intento di fornire una esemplificazione il più possibile diretta di tali conseguenze e ferite, più semplice della dimostrazione del teorema eppure capace di fornire un’analogia valida al fine di una comprensione intuitiva della stessa, consideriamo prima di tutto che qualsiasi legge fisica esprimibile in forma di una singola funzione binaria può essere illimitatamente approssimata da una equazione polinomiale del tipo
Y = a0 Xn + a1 Xn-1 + a2 Xn-2 …….. + an-1 X + an
dove a0 è diverso da 0 e gli ai sono numeri razionali positivi, negativi o nulli.
Apparentemente non ci sono problemi a ritenere che tale equazione descriva il comportamento di una certa quantità fisica Y in funzione di un’altra entità collegata.
Invece no, problemi ce ne sono, almeno finché si ritiene, come appare del tutto naturale e obbligatorio, che, nel caso predetto, i valori dipendano appunto da una particolare unità di misura.
Possiamo infatti unificare il denominatore e ottenere a numeratore un polinomio con coefficienti interi: se allora adottiamo una unità di misura molto piccola e consideriamo valori interi di X multipli di tale unità, possiamo rendere arbitrariamente X maggiore di tutti gli ai.
Y allora non potrà mai essere uguagliato a zero, dato che il membro del polinomio con l’esponente più alto sarà sempre maggiore o minore del resto a seconda che a0 sia maggiore o minore di 0. (basta intendere il polinomio alla stregua di un numero espresso in base X > ai).
Ciò fa perlomeno sospettare una giustificazione semplicissima del perché in meccanica quantistica non possa esistere spazio vuoto in cui, per la famosa indeterminazione, non sorgano e spariscano di continuo particelle virtuali: perché (forse o probabilmente) le unità di misura adottate, per quanto molto più piccole delle misure adottate nella vita ordinaria, non sono unità di misura terminali e sono ulteriormente divisibili in proporzione paragonabile e anche maggiore.
Del resto, se il processo di riduzione delle unità di misura non avesse fine, prima o poi, non si comprende proprio come possano esistere leggi di qualsiasi natura.
Per altri versi basta la semplice considerazione di una base qualsiasi per pervenire ad analoghe limitazioni insuperabili circa la calcolabilità effettiva dei risultati attinenti a qualsiasi legge fisica: qualsiasi base scelta, infatti (e la calcolabilità o anche la semplice ‘denotabilità’ impongono di sceglierne una) condurrà a espressioni infinite (che, all’atto pratico, devono essere necessariamente troncate) ogni qualvolta, a denominatore, appaia un numero composto da numeri primi non compresi nella formulazione della base stessa (per esempio, nel caso della comune base 10, ogni qualvolta il numero a denominatore comprenda numeri primi che non sono né 2 né 5)
Bastano pochi e semplici rilievi così scandalosi e anti-utopici per fondare assiomaticamente enigmatici riscontri come la sensibilità estrema alle condizioni iniziali (teorie del caos) e l’incompatibilità tra meccanica quantistica e relatività generale.
In realtà tali riscontri derivano dall’impossibilità, matematicamente dimostrabile, di una descrizione matematica, nel senso tradizionale di una resa mediante equazioni, di un mondo fisico che non sia vincolato da unità minimali inviolabili come quelle di Planck.
Se non conosciamo in dettaglio tali limiti e il modo di organizzarsi dei rapporti locali tra celle elementari (se tali rapporti non sono puramente locali, per quanto illimitatamente transitivi, amen e kaput: non potranno mai essere replicati nella cognizione di un singolo cervello di pochi decimetri quadrati), non le equazioni di qualsiasi genere, ma simulazioni di processi effettivi come le reti neurali o gli automi cellulari, ci consentiranno mai di raccogliere indizi non superficiali e fortuiti circa la natura di Dio ovvero di ‘Dio’ e se tali indizi risulteranno plausibili lo si dovrà unicamente alla caratteristica più specifica delle espressioni algebriche con esponente non incognito, ovvero l’autosimilarità.
Forse, prima di buttarsi in certe velleitarie iniziative come i computer quantistici o anche (forse o probabilmente) le avventure spaziali e la fusione nucleare, non avrebbe guastato dare un’occhiata a confini della conoscenza già in sostanza delineati a un livello meramente linguistico dalle teorie computazionali (Turing, Church, Wolfram, Chaitin eccetera per dare riferimenti tecnici che non presumono affatto che tali personaggi condividano o avrebbero condiviso le interpretazioni che sono date qui): è infatti ragionevole supporre che ciò che è impossibile esprimere con la necessaria esattezza inderogabile non si possa realizzare con i margini di sicurezza che certe ambiziose imprese richiedono per non tramutarsi in azzardi.
Del resto, la stupefacente tecnologia umana non sarebbe in grado di costruire ex novo (senza utilizzare parte di quello che ha già costruito la Natura) un singolo virus.
Forse anche la spinta verso la globalità economica avrebbe dovuto essere trattenuta davanti ad avvertenze del genere, tutto sommato molto elementari: la globalità sarà anche una bellissima cosa, ma sensi e significati che rispettino quel tipo di univocità bidirezionale indispensabile a qualsiasi discorso scientifico (quella univocità che anche la meccanica quantistica possiede alla faccia di un presunto (e assurdo) indeterminismo puramente inventato o ideologico) nascono da singole mosse rigide e predeterminate relative a enti specifici e individuali, mentre ogni spontanea lingua naturale, come ogni metafisica della totalità (inerente a mentalità scientifiche più religiose di quelle religiose), sguinzaglia una foresta inestricabile di ambiguità polisemiche.
Non è certo un caso che tali ambiguità piacciano un sacco e un casino a quei poteri sovrani che possono permettersi di risolvere facilmente ogni problematica attraverso i mirabili tagli gordiani di chi possiede spade opportune ed efficaci (e pazienza se a volte e anche spesso subentrano crisi come guerre e inflazioni: per gli uomini di buona volontà, come i veri intelligenti sanno bene, più che guai, esse rappresentano succose opportunità).
Considerazioni simili acquistano un rilievo quasi sinistro (ed è questo in sostanza il motivo per cui non diventano popolari a prescindere dal vero e dal falso) in rapporto ai rimedi contro le crisi ambientali e climatiche: una specie animale che ricerca strategie di sopravvivenza in armonia con le limitazioni che ha saputo imporre a se stessa (dopo un’adeguata valutazione delle proprie capacità distruttive) molto probabilmente possiede qualche chance di salvezza in più rispetto a una specie che non può rinunciare a sogni di sfrenata onnipotenza… però, signori cari, lo vedete bene anche voi: come tale tipo di rimedi apparirebbe banale alla luce di quei fertili pandemoni prossimi e venturi che faranno risplendere la Provvidenza dei Rappresentanti di Dio!
Tornando alla partecipazione entusiasta di moltissimi dei nostri moltissimi corrispondenti, ci sembra comunque opportuno e assolutamente doveroso riportare il più significativo dei commenti che hanno accompagnato le varie missive, riservandoci per il proseguo, dopo esplicita approvazione dello stesso, una adeguata valorizzazione dell’autore, il cui pregio non si limita per noi all’incredibile acutezza delle sue osservazioni, ma brilla altresì in forza dell’assunzione di responsabilità per le stesse osservazioni che egli implicitamente si assume consentendoci di sconfinare dall’ambito del saggio autorevole (per il quale non siamo autorizzati) a quello della fiction.
Questo passaggio apre prospettive grandiose al fine della radicalità dei messaggi che la libera opinione pubblica eterodiretta consente all’intellettuale qualunque: mentre infatti i seri analisti autorizzati non possono eccedere determinati limiti pena la compromissione di certe probabilità di prestigio e di carriera, gli autori di apologhi e opere di fantasia possono spingersi molto oltre nella severità della critica politica e sociale implicita nelle loro creazioni, concessione che durerà almeno finché a fruire di tali creazioni resterà una minoranza e la maggioranza di tale minoranza continuerà a svalutare, se non il prodotto stesso, almeno gli aspetti più problematici, considerati secondari rispetto a componenti perlopiù formali ed emotive.
“Amici e sodali di dottrina (cari cicciolini, mi verrebbe da dire per celia), grazie e ancora grazie per avermi finalmente aperto gli occhi (e questa volta in modo definitivo) nei riguardi delle sabbie mobili su cui si fondano tuttora le scienze in generale e soprattutto quelle più supportate da metodi fisici e matematici, il tutto senza in alcun modo squalificare l’esercizio della razionalità e anzi rendendolo irrinunciabile e addirittura sacro di contro a ogni equivoca, velleitaria e auto-celebrativa appropriazione di sacralità dei suoi monopolisti auto-autorizzati.
Per me, adesso, ogni cosa acquista un senso più vero e più giusto in direzione di una effettiva politica e una effettiva religione, finalmente ogni megalomane eccesso dei commercianti di valori, autarchici o umanitari che siano (e comunque commensali che discutono bellicosamente di questioni supreme, in sontuose divise impeccabili, alla tavola bene imbandita degli interessi condivisi), drasticamente si ridimensiona nella prospettiva illimitata e ineffabile di un Dio e un ‘Dio’ ricondotti a un’essenza comune molto al di là delle false e ipocrite conciliazioni tra scienza istituzionale e religione istituzionale celebrate dai sensali interessati o prezzolati del potere oligarchico finto-democratico (o democratico finché lo consentono, e lo consentono sempre di meno, gli anonimi e de-personalizzati dispotismi di sistema)
Già da molto tempo, anche grazie a voi, avevo capito che tutto consisteva, se non nel contrario, di sicuro in qualcosa di molto diverso da quello che proclamava di essere o era proclamato essere, non fosse altro che per una ragione semplicissima ignorata dai più e cioè che quello che esiste non proclama di essere e quello che proclama di essere esiste solo come ipotesi o finzione.
Un progetto non proclama di essere, bensì guida la realizzazione del suo scopo e se quello che realizza funziona, il suo funzionamento non è proclamato: esiste perlomeno come vissuto di quella specie animale che si è sempre illusa di proclamare il proprio essere (e imporlo su quello che esiste) come una preghiera a Dio o ‘Dio’ , preghiera che in realtà consiste perlopiù in un involontario, antropocentrico sberleffo allo stesso Dio o ‘Dio’ (basta guardare alle condizioni generali del pianeta per rendersene conto).
Partendo da tale cognizione generale mi è stato facile procedere nell’opera di svelamento affrontando più in dettaglio dissimulazioni, malintesi e paralogie dei singoli settori.
Prendiamo per esempio la religione: forse non esiste niente altro, nella storia come nel presente, che abbia dato più sostegno e conforto al medio essere umano, molto più, purtroppo, sono obbligato a credere, di amore, affetto e sensualità.
In che modo un generico potere, al fine di consolidare se stesso, ha sfruttato, distorto e reso antinomico (nel senso di produttore di sofferenze e supplizi invece che sollievi) questo formidabile toccasana? Traducendolo in una nozione sociale e politica di sacralità (ovvero intoccabilità dei massimi poteri) che di fatto corrisponde alla quintessenza del classismo e quindi del razzismo puro.
Dio o ‘Dio’ è infinito o meglio illimitato come la sequenza dei numeri naturali (ogni libro come la bibbia cristiana o quella kolibiana, in termini metafisici, è solo un numero), qualcosa su infinito dà zero, di Dio o ‘Dio’ non possiamo quindi comprendere niente al di là dei nostri consolanti deliri e invece ci sono persone sulla Terra burocraticamente legittimate a comprenderne tutto.
Come si giustifica ai propri occhi e a quelli degli altri la confraternita dei geni assoluti? Razionalmente non può farlo, deve quindi rivendicare un intuito appunto divino, una qualità umana enormemente (in realtà infinitamente) superiore rispetto a quella del suddito ordinario, soprattutto quando costui si dichiara agnostico o addirittura ateo.
Se questo non è puro razzismo ovvero classismo, che cos’è?
Un razzismo a cui ovviamente non servono individui disparati, disomogenei, irriducibili a un’essenza unitaria, ma piuttosto masse che facciano da humus o da compost alla propria santità.
L’allucinante paradosso che anche la mia razionalità non riesce a evitare potrei allora esprimerlo così: in assenza di un grande Progetto (‘p’ maiuscola) generalmente fruibile, la strategia religiosa, per qualsiasi potere, rappresenta forse o probabilmente la tipologia più stabile e meno esposta a degenerazioni insidiose (per cui si spiega l’attrazione, l’invidia e il rispetto di moltissimi vetero-comunisti nei confronti di istituzioni come quella vaticana accanto al sottile disprezzo dell’autocrate duro e puro nei confronti dell’ipocrisia che ineluttabilmente vi alberga).
Parliamo invece di Economia. E’ ovvio che la base del benessere materiale dei popoli occidentali non ha niente a che vedere con i sancta sanctorum dei sommi esperti o dei consigli di amministrazione più influenti: questi costituiscono, nell’ipotesi più favorevole, ingranaggi di continuità e in quella peggiore strumenti di prelievo dai piani bassi e concentrazione verso i piani alti (nessuno ha mai messo sufficientemente in rilievo, per esempio, che un circolo chiuso di grandi dirigenti, a volte anche proprietari in quota e a volte no, decide al suo interno una quantità dell’emolumento base dei propri membri che è indipendente dagli sforzi adibiti e dai risultati gestionali: se esistesse un minimo di democrazia effettiva e giustizia sociale non solo teorica, ciò dovrebbe valere a qualsiasi livello della scala o, ipotesi assai di molto preferibile, non valere affatto).
La base del benessere materiale è la tecnologia, ma anche qui bisogna porre molta, ma molta attenzione: non l’alta tecnologia celebrata dai tromboni di sistema come l’autentico nerbo della scienza (mentre si rivela tutt’altro quando, per i soliti grandi interessi, volta le spalle a ineluttabili generalità dai responsi sgraditi): la tenuta del benessere materiale dipende dall’incredibile e quasi surreale perizia applicativa che si è evoluta nelle sequenze di invenzioni e accorgimenti produttivi che spartanamente supportano, dopo anni e anni di sperimentazioni instancabili, sottili calibrazioni e gravose, come talvolta rischiose, messe a punto, i processi, le catene e le filiere delle industrie utili e serie.
Quanto la concorrenza tra aziende dipende prevalentemente da tali riscontri concreti e tangibili e quanto invece tali condizioni generali di competitività diventano sempre più secondarie rispetto a catastrofiche disgrazie come l’immagine, la comunicazione, il carisma oppure la pura quantità energetica di potere e di denaro?
Come si spiega il costante declino degli indici di produttività del lavoro nonostante i raffinamenti tecnici incessanti e i sacrifici crescenti delle persone non appartenenti ai vari livelli di un’aristocrazia privilegiata la cui gerarchia tende a dissolvere la proponibilità anche solo concettuale di quel fantomatico ceto medio che alla fine, con il senno di poi, si rivela, pur nelle sue enormi incongruenze e perfino nequizie o addirittura proprio per quelle, l’unico garante di una fantomatica libertà dell’occidente?
Senza tutele giuridiche e garanzie inconfutabili relative al posto di lavoro, il ceto medio scompare, ma tutele e garanzie, costituzionali o meno, diventano incongrue rispetto a un mercato del lavoro che si rivela l’unico autentico mercato rimasto nelle società occidentali di libero mercato (a parte forse le fiere rionali del bestiame).
Nel profluvio di collusioni, clientelismi politico-economici o economico-politici, cricche e comitati occulti, mafie, monopoli travestiti da oligopoli travestiti da prodigi di concorrenza eccetera insieme a corruzione più o corruzione meno, l’assolutamente libero e autentico e pressoché esclusivo mercato del lavoro tratta di una merce sempre più scarsa e sempre più ri-acconciata, per triste o allegra necessità, nel segno di partite IVA contrarie, obtorto o diritto collo, a ogni tutela o garanzia del lavoro dipendente, costituzionale o meno, tutele e garanzie sempre più improponibili nell’allucinante, criminogeno, mefitico imbuto gerarchico di appalti intersecati in cui si sagoma la mitica e sacra ‘Competizione Internazionale’ spartita come bene privato tra i massimi autocrati internazionali invece che arbitrata e regolata da holding-nazioni.
Ovviamente, come da voi giustamente sottolineato, salario minimo, reddito di cittadinanza e così via rimangono agevolazioni puramente nominali o una tantum in assenza di tali tutele e garanzie effettive e stringenti (costituzionali o meno): queste, come già accennato, azzopperebbero le imprese impegnate nelle sfide globali e intanto spirali inflazionistiche e migratorie gonfiano artificialmente indici di PIL connessi ai reni e ai polmoni artificiali della crescita demografica mentre nei loro esangui corpicini trionfalmente rientrano sporte e sacconi di lussi inutili oltre ad altre varie scemenze e regolarmente scompaiono sporte e sacconi di perdite reali relative alle condizioni climatico-ambientali, al consumo scellerato di suolo e ad assurdità concorrenziali che favoriscono sempre e comunque i fanatici del perfezionismo e del duro lavoro (fanatici per necessità, se il lavoro è il proprio, per diritto divino se il lavoro è degli altri) rispetto ai progettisti seri e ai fautori di una produttività oculatamente essenziale.
Se almeno le punte di diamante della Sacra Competitività Internazionale, ovvero i consigli delle multinazionali, si assumessero compiti direttivi e responsabilità morali nei confronti del benessere pubblico pagando il fio di ogni mancato realizzo!!! Macché, preferiscono (ed è perfino ovvio) celare le loro mosse da burattinai e nascondersi dietro amministratori-fantoccio chiamati a gestire maggioranze sempre più minoritarie e sempre meno invitate a partecipare alle feste di imprenditori-fantoccio decorati dalla medaglia di legno marcio della propria partita IVA.
Quanto alla situazione climatico-ambientale, se il PIL rimane legato agli indici demografici e inflazionistici e quindi all’incremento costante del consumo di energia, solo un pazzo può dichiararsi ottimista oppure qualcuno che non ha ancora capito il vincolo ineluttabile tra temperatura ed entropia, che con schematica semplicità senza semplicismi potremmo formulare così: la temperatura rappresenta l’energia media delle unità minimali del sistema termodinamico, l’entropia la quantità di tali unità minimali: un sistema che si agita o si complica oltre i propri limiti invalicabili o finisce bruciato o finisce nel caos.
Tra parentesi è forse utile notare che temperatura ed entropia hanno valori complementari (TE = costante provvisoria) proprio perché l’energia si suddivide in modo alternativo tra energia accelerante (di quelle unità minimali che, a temperatura ambiente, sono una cosa alla temperatura del sole tutt’altra) ed energia dissolvente (dell’energia potenziale delle strutture più complesse esistenti alla temperatura ambientale).
Le entropie diverse si diffondono tra le fasi di sistema e di ambiente in modo analogo alle temperature diverse, ma le loro dinamiche risultano più complesse di quelle del calore (vedi le mediazioni complicate di vapore acqueo che in atmosfera si concentra in quantità del 6% maggiore per ogni grado di temperatura aggiuntiva tra acque terrestri e atmosfera)
La maggior parte dei modelli climatici attualmente più in voga sono insufficienti e troppo ottimisti (altrimenti non vengono abilitati dalle commissioni di controllo politico) e ciò che è meglio compreso, come le dinamiche temperatura-entropia legate ai gas serra prodotti da combustibili fossili, è abbondantemente divulgato, mentre ciò che rimane di difficile interpretazione, come le dinamiche temperatura-entropia relative al vapore acqueo prodotto da qualsiasi energia (e, più in generale, relative agli scambi gassosi connessi all’uso di qualsiasi energia, ‘pulita e rinnovabile’ o meno) viene cautamente aggirato.
In tale quadro quale atteggiamento il cittadino medio dovrebbe temere di più? Secondo me quello che viene raccomandato dai più seri e responsabili gestori e comunicatori dell’informazione più corretta e responsabile ovvero quello di sottoporre i dati a una valutazione primaria e irrinunciabile per stabilire la loro verità e importanza: la condizione che non creino ‘allarmismo’.
Purtroppo, evitare il catastrofismo e il complottismo risulta il metodo migliore per promuovere in incognito catastrofi e complotti quando la probabilità (la certezza, nelle questioni cruciali e complesse, si determina solo quando ormai non può aiutare nessuno) di catastrofi e complotti è molto consistente, laddove la valutazione di consistenza deve dipendere dalla gravità dei rischi (la statistica professionale considera scientificamente accettabile un indice d’incertezza del 5%, ma vorrei vedere chi si sveglierebbe al mattino contento di sapere che la sua probabilità di morire nel giorno stesso è ‘solo’ di uno su venti o più o meno la stessa quella di incorrere in una guerra nucleare entro l’anno).
Ovviamente anche qui, guarda caso, insorge una montagna di equivoci: si dà per scontato (soprattutto da chi ha interesse a farlo) che le persone ossessionate da catastrofi e complotti imputino sempre a persone perfide e malvagie di intessere oscure trame e diaboliche congiure: in realtà chi parla a ragion veduta di catastrofi e complotti (che sono il pane quotidiano della Storia seria e della Cronaca seria) si riferisce consapevolmente, nella maggior parte dei casi, a persone avvedute, intelligenti e anche abbastanza integre dal punto di vista morale, le quali, però, non possono evadere dalle logiche di sistema che li hanno resi ascoltati e influenti.
Guerre e tempeste inflazionistiche non vengono espressamente architettate da subdoli cospiratori, sono di fatto avallate da persone serie e rispettabili che giudicano indispensabili per la sopravvivenza di sistemi organizzativi ritenuti ottimali e insostituibili meccanismi che generano, episodicamente, saltuariamente, regolarmente o a scadenze inesorabili, sciagure come guerre e inflazioni.
…………………………”
DIMOSTRAZIONE
Dobbiamo dimostrare l’impossibilità, per n > 2, dell’equazione
an + bn = cn
c > b > a (numeri interi)
e quindi di:
(ka)n + (kb)n = (kc)n
che formuleremo come:
AKn + BKn = CKn 1)
Poniamo:
CK = AK + LK
BK = AK + MK
Se
LK – MK > AK
allora si ha necessariamente:
(AK + LK)n – Akn > (AK + MK)n
Ci basta allora considerare l’equazione:
LK – MK = AK – DK
per cercare di pervenire comunque a stabilire la disuguaglianza necessaria:
Ckn – Akn > Bkn
Allo scopo, si considera la formula derivata
(n - 1)Akn + P3Lk2Akn-2 + TP > nDKAKn-1 + P3MK2AKn-2
o più semplicemente:
(n - 1)Akn + TP > nDKAKn-1
che verrebbe provata dalla sussistenza necessaria della disuguaglianza:
(n – 1) Ak > nDk
ovvero (ricordando che Dk = Ak + Mk – Lk):
n(LK – MK) > Ak 2)
Questa disuguaglianza, comunque, per la presenza di TP (termine necessariamente positivo), rappresenta una condizione in eccesso, un limite a cui tendere.
Se dimostriamo che c’è una condizione limite per la validità della 1) da cui non è possibile scostarsi senza avvicinarsi alla 2), nel caso dei numeri ‘reali’, e senza ricadervi inesorabilmente nel caso dei numeri razionali, si è dimostrato il teorema.
Per trovare questa condizione limite, prescindiamo ora dalla distinzione tra numeri interi (o razionali) e numeri ‘reali’ e consideriamo l’equazione:
(pCK)n + (qCk)n = Ckn
nella forma particolare in cui p = q e quindi p = 1 / 21/n
Considerando, in via provvisoria, gli L, M e A quali numeri reali (irrazionali) avremmo:
MK = 0
(LK – MK) = CK – AK
per cui la 2) diventa :
nCK > (n + 1) Ak
ovvero
CK > ((n + 1) / n) (1 / 21/n) Ck 3)
Questa è la condizione limite cercata, condizione che, ovviamente non è rispettata nel caso specifico, altrimenti la 1) non varrebbe.
Se però, per formulare gli A e i B, adottiamo ora numeri razionali abbastanza vicini a 1 / 21/n e, tramite essi, traduciamo la 1) in numeri interi, considerando lo scostamento delle unità da 1 / 21/n come una scansione di tempi, l’accelerazione ‘in salita’ è maggiore della decelerazione ‘in discesa’ .
Lk quindi cresce mentre Ak scende di altrettanto, mentre Mk sale meno di quanto Ak non scenda.
L’equazione 2) diventa inevitabilmente:
CK – j1 > ((n + 1) / n) (1 / 21/n) Ck – j2
con j2 > j1
e diventa una disuguaglianza vera già al primissimo passo del passaggio ai numeri razionali.
L’equazione in termini reali viene confermata soltanto in astratto, supponendo che j1 e j2, restando ‘infinitesimi’, si contengano in limiti in cui la 2) non vale.
Nota in calce relativa a tutta la presente opera:
le idee proposte non si accompagnano ad alcuna rivendicazione di esclusiva o primalità: moltissimi altri possono avere sviluppato idee simili in qualsiasi parte del mondo a prescindere dal fatto irrisorio che io non ne sia venuto a conoscenza e abbia semplicemente ripresentato in altre forme un tipo di lavoro già svolto benché generalmente ignorato o sottaciuto fuori da un circolo di esperti.
Mi limito semplicemente a constatare che, se personaggi autorevoli (o almeno non privi di credibilità come il sottoscritto) hanno proposto idee simili alle mie e la cognizione comune le ha bellamente ignorate, ciò significa che o tali idee sono semplicemente sbagliate (il che andrebbe anche dimostrato) o la pubblica opinione e la cultura dominante desiderano soprattutto rimanere all’oscuro di nozioni sgradevolmente rivoluzionarie (non nel senso di mettere a ferro e fuoco il sistema sobillando le masse, ma nel senso di abbattere certezze e consigliare soluzioni ostiche e inaccettabili quale unico mezzo per recuperare quei livelli di quieto vivere e relativa sicurezza che attualmente si fondano soltanto su illusioni e falsità).
Per quanto sia legittimo ritenere che qui vengano caldeggiate prospettive utopistiche fondamentalmente irrealizzabili, a me, del tutto interessatamente, sembra comunque assolutamente abnorme, assurdo e incomprensibile che nessuno parli di progetto di stato stazionario quasi si trattasse di un pensiero o una locuzione mostruosamente oscena e irripetibile.
Renato Pezzotta (ovvero il classico signor Nessuno (o Sommo Anonimo))
Appendice n.2
23 settembre 2023
VERGOGNA! GLI ALTER-EGO ULTIMAMENTE DEPUTATI ALLA STESURA DELLA BIBBIA KOLIBIANA HANNO SEMINATO VOLUTAMENTE STRAFALCIONI PER CONQUISTARSI ALIBI E CREDITI PRESSO L’ORTODOSSIA DOMINANTE COMPROMETTENDO L’IMMAGINE DI RENATO PEZZOTTA, UNICO AUTENTICO RAPPRESENTANTE IN CARICA DEL SOMMO ANONIMO.
Nel frattempo l’identità reale e autentica del sommo anomimo v.c. (versione corrente), il suo ego più intimo e vero, si è dissolta (come spesso capita a una certa età) lasciando libero il campo alle infinite beghe e bisticci tra alter-ego e contro-alter-ego.
Gli alter ego in corso non rinnegano affatto la figura del loro capo e maestro, ma, dopo il suo decesso, hanno dovuto faticosamente ricostruire la dimostrazione elementare che egli aveva comunicato a voce a un pubblico selezionato di adepti, accennandovi altresì tramite una notazione a mano graffita entro una colonna laterale del testo in una lettera spedita all’alter-ego vice sommo anonimo.
Tale procedura comporterà se non altro il vantaggio di tenere incollati, nell’attesa della rivelazione finale, i milioni di fan e di follower che seguono costantemente le aggiunte di questo sito come gli episodi di una serie televisiva di enorme successo.
Ci teniamo a sottolineare che obbiettivo finale dell’excursus matematico non sarà tanto di fornire un’altra dimostrazione elementare dell’ultimo teorema di Fermat (una basta e avanza secondo l’opinione dei più) quanto di dimostrare l’inesistenza dei numeri ‘reali’ e dell’infinito attuale.
Prima di proseguire, comunque, intendiamo anteporre al discorso matematico una dimostrazione di altro genere, ovvero uno stringente e disincantato argomentare politico-sociologico tale da costituire un doveroso omaggio, a pochi giorni dalla sua scomparsa, allo spirito di chi reputava incongrua e riprovevole una distinzione tra discipline scientifiche e discipline ‘umanistiche’, ritenendo che la loro separazione poteva solo servire a rinforzare quei tragici equivoci su libero arbitrio e libertà personale di cui i vari poteri si servono per abbindolare le onnipresenti individualità antropologiche disperse e soffocate in quelle creazioni metafisiche che vengono denominate ‘masse’.
La dimostrazione prende a pretesto i nuovi sviluppi e tende a comprovare l’affermazione della precedente appendice circa la non convenienza di qualsiasi classe dirigente a mettere in cantiere le ristrutturazioni indispensabili a conservare gli equilibri ambientali insieme alla qualità delle singole vite, ovvero (come si è tentato di dimostrare con la presente opera) la progettazione dello stato stazionario.
Non convenienza o incapacità? I due termini (che prescindono da qualsiasi valutazione intorno alle doti individuali) rimangono all’atto pratico assolutamente inscindibili se non in via schematica e sommariamente episodica, esattamente come la distinzione tra fattori genetici e fattori ambientali: chi ritiene possibile dirimerne univocamente gli intrecci in genere crede in un ordine di processi e valori soprannaturali e quindi si convince che, in un tribunale, il giudice sia buono ab aeterno e il criminale cattivo ab aeterno, dato che si contraddirebbe se ammettesse che gli stessi DNA possano trovarsi in un’aula simile a parti invertite semplicemente modificando la storia delle rispettive vite fin dal primo vagito.
Pensate che enorme grattacapo per Dio, quante vite diverse dovrà mettere in funzione per assegnare inferni e paradisi in modo non puramente casuale! E’ ragionevole presumere (per quello che si può capire effettivamente di Dio, vale a dire niente) che Egli non si disponga a farlo materialmente, ma piuttosto in modo virtuale nello sconfinato palcoscenico della sua mente, onde per cui è chiaro che noi non esistiamo davvero, siamo solo simulazioni di un universo spirituale (o, il che è lo stesso, materiale). Del resto, anche la distinzione assoluta tra virtuale e reale è una impresa impossibile o una causa irrimediabilmente persa.
Fine della divagazione e inizio della dimostrazione (politico sociologica).
Che cosa piace della destra politica all’effettivo potere economico-finanziario? Praticamente tutto, tranne una anacronistica franchezza, a volte brutale, estranea alle sofisticate astuzie del marketing e la vocazione passatista a coltivare inclinazioni demagogiche verso una obsoleta retorica elettorale che si rifiuta di considerare l’esercizio del voto pura igiene formalistica nutrita di illusionismo manipolatorio.
Va esclusa anche una certa tendenza ad amoreggiare con certe partite IVA senza valutare, caso per caso, di quanto alcune siano infettate ormai da un evidente stato di riottosa proletarizzazione.
Che cosa piace della sinistra politica all’effettivo potere economico finanziario? Quasi niente e soprattutto non piace lo spiritualismo umanitario estraneo alle sofisticate astuzie del marketing e la vocazione passatista a coltivare inclinazioni demagogiche verso una obsoleta retorica elettorale che si rifiuta di considerare l’esercizio del voto pura igiene formalistica nutrita di illusionismo manipolatorio.
C’è però un aspetto della sinistra prezioso e irrinunciabile che piace all’effettivo potere economico-finanziario: la disponibilità ad accogliere i migranti.
Basta tale disponibilità, allo stato attuale delle cose, a disinnescare pericolosi retaggi del passato favorevoli a garanzie generalizzate relative al lavoro dipendente: il salario minimo è un non senso in assenza di tutele giuridiche del posto di lavoro, la tutela del posto di lavoro è un non senso se si intende avvalersi della forza d’urto di ceti e figure provenienti da vite dure e disagiate e il progresso stesso è un non senso se toglie posti di lavoro appetibili tramite l’intelligenza artificiale ed esige incrementi percentuali di lavoro duro se si intende preservare la crescita di un PIL, il che a sua volta è un puro non senso (in una fantasmagorica democrazia effettiva) se provoca incidenze inflazionistiche superiori al suo valore nominale (la famosa tassa sui poveri che azzoppa le maggioranze e svincola la spirale vorticosa dei profitti che inebria le minoranze).
Della sinistra, all’effettivo potere economico finanziario, piace anche una maggiore e più convinta adesione alle logiche globaliste fondate sull’imperialismo economico dei Chicago Boys.
Non è affatto vero, alla fine, che all’effettivo potere economico e finanziario non piacciono le sinistre: piacciono molto quando non possono fare le sinistre (dove andrebbe a finire la maggior parte dei loro finanziamenti, se no?) e portano voti di sinistra alla destra per la politica moralistica di un’accoglienza irreggimentata nel delirio di una società di uomini duri e puri, sempre grandi lavoratori almeno finché non possono limitarsi a fingere di esserlo, la cui azione a lungo andare sull’ambiente è abbastanza facile da immaginare a prescindere da come si coibentano le case e le si rendono intolleranti verso il caldo montante a meno di non azionare l’aria condizionata.
Va bene, ma l’enunciato del teorema qual era?
Eccolo: nel futuro, senza modifiche del presente andazzo, governeranno sempre le destre educate dalle sinistre a far sopravvivere in modo umano le masse di non individui (gli individui distruggono la biosfera e rendono la società un manicomio criminale se si evita per convenienza un’accurata ristrutturazione di sistema in direzione dello stato stazionario).
Alleluia!
Smettiamo ora di annoiare i milioni di affezionati lettori che ci seguono e diamo loro la chicca di cui rimangono in trepidante attesa: un’altra dimostrazione elementare dell’ultimo teorema di Fermat.
Per procrastinare al massimo gli elementi di thrilling e suspense, non vi daremo qui la dimostrazione definitiva, ma ci limiteremo a fornirvi una serie di formule (per la cui delucidazione sarà utile riferirsi all’appendice precedente ignorandone i difetti) che i più arditi potranno utilizzare per cercare di pervenire da soli al risultato finale.
Eccole:
(n-1)Akn + P3Lk2Akn-2 + TP = nDKAKn-1 + P3MK2AKn-2 1)
(n-1)Akn + P3(LK + MK)AKn-1+ TP = nDKAKn-1 + P3 Dk (LK + MK)AKn-2 2)
n(LK – MK) = Ak 3)
(condizione che, se non è rispettata, traduce il segno di uguaglianza (nelle formule precedenti) in un simbolo di disuguaglianza (maggiore o minore))
a = (cn – bn)-1/n
2pn = 1 (p = 21/n)
condizioni per definire i rapporti tra le variabili nella 3) una volta posto c = a + l e b = a + m, dove l e m sono l’analogo di LK e Mk.
15 settembre 2023
Appendice.
IL SOLITO KOLIBIANO ANNUNCIA UN NUOVA DIMOSTRAZIONE ELEMENTARE, PIU’ SEMPLICE ANCORA DI QUELLA GIA’ TROVATA, DELL’ULTIMO TEOREMA DI FERMAT : VE LA RIPORTIAMO DOPO UN COMMENTO OBBLIGATO PROBABILMENTE INOPPORTUNO.
Il kolibiano è il solito ultra (in mesi) settantenne Renato Pezzotta.
Contravvenendo a una delle regole fondamentali del Movimento, più volte argomentata nel corso del presente testo, esplicitiamo ancora una volta il tristo nominativo in quanto siamo ovviamente scettici sulla presente soluzione come su quella precedente, le quali insieme dimostrerebbero o che tale signor Pezzotta appartiene ai geni di prima categoria (la qual cosa, noi che lo conosciamo bene, ci sentiremmo propensi a escludere nel modo più assoluto) o che il mondo della creazione e della comunicazione culturale, per certe ineluttabilità meccaniche indipendenti dalle capacità intellettuali dei singoli, trabocca di circoli viziosi, riflessi condizionati e conformismi mitologici considerati quasi doverosi: se questo può accadere in settori come la matematica, quali distorsioni inevitabili potremmo riscontrare in qualsiasi altro campo?
Come siamo costretti ancora una volta a mostrarvi e a constatare, entra in scena il Pezzotta e già immediatamente ricadiamo nella condotta viziosa di atteggiamenti polemici e ‘divisivi’, il che diventa inevitabile se costui ci autorizza a diffondere i frutti preziosi del suo nobile cervello soltanto se accompagnati da considerazioni di cui avremmo fatto volentieri a meno soprattutto nell’appendice tutto sommato superflua di un’opera praticamente conclusa.
Speriamo che qualcuno si accorga di qualche svarione e lo denunci aiutandoci a depotenziare questo fastidioso oppositore interno prima che guadagni proseliti e riesca a condizionare la composizione dell’organo collegiale attualmente incaricato della scrittura.
D’altra parte, il Pezzotta ci dice (e noi siamo costretti a pubblicarlo) che è impossibile per lui non mostrarsi polemico e ‘divisivo’ se l’unico modo per coagulare consenso richiede, oggi come sempre, di intendersi sulla cosa meno sbagliata da fare, dato che la cosa giusta, nelle normali condizioni di cronica incertezza, non converrà mai alla minoranza (compattata da pochi grandi interessi) che può, mentre la maggioranza (divisa da tanti piccoli interessi) che non può (nei più svariati sensi) non è mai in grado d’imporla (la cosa giusta) anche nel caso assurdo che la conoscesse (nei più svariati sensi).
Ovviamente, le incertezze storiche e naturali di norma si dissolvono solo a tempo scaduto e cioè quando riaggiustare il sistema delle convenienze ormai serve a poco o nulla.
In conclusione, il Pezzotta ritiene che (ma noi non condividiamo assolutamente questa sua posizione oltranzista!!!) polemicità e ‘divisività’ rientrino semplicemente nei caratteri propri di ogni analisi culturale non pre-sterilizzata e pre-burocratizzata. Secondo lui, spetta al comunicatore sociale e politico riadattare il prodotto culturale ai vari scopi meritevoli o perversi, mentre chi produce arte o pensiero in cerca di approvazioni e consensi (anche e soprattutto economici) si riduce a mero banditore da società dello spettacolo o mero funzionario di un sistema educativo rigidamente inquadrato.
Noi redattori della Bibbia Kolibiana rappresenteremmo dunque, secondo il Pezzotta, impiegati un po’ galoppini di un sistema dell’informazione vincolato e addomesticato.
Per evidenziare la nostra pochezza, il Pezzotta paragona la Bibbia Kolibiana al best seller del vetero comunista Vannacci (avendo espressamente depennato dalla pratica politica i metodi coercitivi e violenti, i fascisti non esistono più: ogni loro impuntatura autoritaria aspira a una società immaginata da loro, ma voluta da Dio, esattamente come avviene per i vetero comunisti se si trascura il fatto che quelli non credevano in Dio, ma in ‘Dio’, dettaglio da poco se ‘Dio’ risulta comunque un prodotto dell’immaginazione).
Il best seller di Vannacci, a differenza della Bibbia Kolibiana, secondo il Pezzotta (che, visti il successo di pubblico del libro in questione, avanza così la propria candidatura a entrare nel ristretto novero dei maestri di comunicazione) rappresenterebbe un’autentica opera culturale proprio perché spezza pregiudizi innati della cultura dominante; l’unica (lieve e secondaria) obiezione che si potrebbe muovere (e che invece non rientra affatto tra quelle mosse dalle varie élite culturali) riguarda il rifiuto di una volgare consistenza oggettiva e materiale delle idee proposte (per fare un solo esempio: la stragrande maggioranza percentuale (non in valore assoluto, quindi, il che sarebbe ovvio) di famiglie mefitiche e disfunzionali riguarda proprio quelle d’impianto rispettosamente ordinario), ma considerare tale obbiezione importante porterebbe a conseguenze surreali come quella di mettere in discussione la totalità delle religioni istituzionali.
No comment, passiamo alla dimostrazione.
Dobbiamo dimostrare l’impossibilità, per n > 2, dell’equazione
an + bn = cn c > b > a
e quindi di:
(ka)n + (kb)n = (kc)n
che formuleremo come:
AKn + BKn = CKn 1)
Poniamo:
CK = AK + LK
BK = AK + MK
Se
LK – MK > AK
allora nell’equazione
(AK + MK)n = (AK + LK)n – AKn 2)
la parte a sinistra del segno di uguaglianza è necessariamente maggiore della destra come si dedurrà facilmente seguendo la logica delle mosse seguenti.
Dimostriamo quindi il caso in cui
LK – MK < AK
e quindi esiste un Dk < AK tale che
LK – MK = AK – DK
Tornando alla 2) dopo una serie di facili manipolazioni, otteniamo l’equazione:
(n-1)Akn + P3Lk2Akn-2 + TP = nDKAKn-1 + P3MK2AKn-2
dove
P3 è il terzo coefficiente della linea n del triangolo di Pascal (numero dei sottoinsiemi di 3 elementi, senza permutazioni, in un insieme di n elementi (n(n-1) / 2)) e TP è un termine necessariamente positivo.
Il primo termine a sinistra non è necessariamente maggiore del primo termine a destra, ma il secondo termine a sinistra, rispetto al secondo termine a destra, invece sì (è necessariamente maggiore) e inoltre, variando k, incrementa la propria differenza rispetto al secondo termine a destra di un coefficiente moltiplicativo pari a k2, assicurando così, da un certo k in poi, che il termine di sinistra diventi inevitabilmente maggiore di quello di destra.
10 NOVEMBRE 2022
DICHIARAZIONI FINALI DI UN TESTO MULTIDISCIPLINARE, NON RISERVATO A SPECIALISTI DI ALCUN GENERE, IN CUI LA SEMPLICITA’ DELLE SOLUZIONI PROPOSTE PUO’ ESSERE TESTATA TESTANDO (CON L’AIUTO DI ESPERTI, SE SERVE) LA SEMPLICITA’ DELLE DIMOSTRAZIONI RELATIVE AD ANNOSE QUESTIONI CHE HANNO ELUSO PER SECOLI I TENTATIVI DEI MIGLIORI MATEMATICI DEL MONDO (NEL SENSO CHE, SE LE DIMOSTRAZIONI SONO GIUSTE, ANCHE IN ASSENZA DI TITOLI O QUALIFICHE UFFICIALMENTE RICONOSCIUTI SI DOVREBBE CONCEDERE UN MINIMO DI UDIENZA AL TRATTAMENTO DI ALTRE PROBLEMATICHE CHE SI TROVANO QUI; SE SONO SBAGLIATE, E’ POSSIBILE APPROFITTARNE PER SPERNACCHIARE PROPOSIZIONI SGRADITE CHE MAGARI SONO AZZECCATE A PRESCINDERE), IL TUTTO ALL’INSEGNA DI UNA GRANDE NOSTALGIA PER INDIPENDENZE E AUTONOMIE INTELLETTUALI CHE AGLI ALBORI DI INTERNET, MOLTO INGENUAMENTE, SI RITENEVA DOVESSERO ESSERE PROPIZIATE DALL’ESPANSIONE DELLE NUOVE TECNOLOGIE ANCHE SE CONSEGNATE ALLE CAPITALIZZAZIONI PRIVATE SENZA TUTTE LE CAUTELE INDISPENSABILI PER UN BENE PUBBLICO DI PRIMA NECESSITA’.
E’ abbastanza ovvio che i temi matematici affrontati qui (a parte l’ipotesi di Riemann per cui si è arrivati a offrire un premio di un milione di dollari per la sua soluzione) non rivestono più alcuno specifico interesse per i matematici che lavorano attualmente nei campi della ricerca professionale, ma è altrettanto ovvio che non è questo il punto cruciale di tutta la questione.
I TRATTAMENTI MATEMATICI, IN EFFETTI, SCONFINANO AL DI FUORI DEI TEMI SPECIFICI PER COINVOLGERE (TEMERARIAMENTE, ARROGANTEMENTE E PRESUNTUOSAMENTE) LE BASI CONCETTUALI DI QUALSIASI PRASSI MATEMATICA E SCIENTIFICA, OVVERO LA DISTINZIONE TRA CONTINUO E DISCRETO E IL RAPPORTO TRA UNITA’ DI MISURA, FUNZIONI CONTINUE E LA SUCCESSIONE DEI NUMERI INTERI.
AL FINE DI FORNIRE UNA IDEA DELL’IMPORTANZA O MENO DI QUESTA IMPOSTAZIONE, ELENCO POCHE FRASI BREVI E TASSATIVE: 1) LE FUNZIONI POLINOMIALI NON GARANTISCONO LIVELLI ADEGUATI DI PERTINENZA E PRECISIONE SE NON SI PROCEDE PRELIMINARMENTE A FISSARE SPECIFICHE UNITA’ DI MISURA ; 2) QUALSIASI FUNZIONE CONTINUA E’ ILLIMITATAMENTE APPROSSIMABILE DA FUNZIONI POLINOMIALI (IL CHE SIGNIFICA CHE IL CAOS FISICO NON RAPPRESENTA UNA DOMINANZA STATISTICA, MA UN ASSOLUTO MATEMATICO); 3) SCIENZE CHE NON FISSANO UNITA’ DI MISURA ONTOLOGICAMENTE FONDATE (E LE SCIENZE UMANE E IN PARTICOLARE QUELLE ECONOMICHE NON SONO IN GRADO DI FARLO) POSSONO DI SICURO AVVALORARSI IN QUALITA’ DI SCIENZE LOGICHE, DESCRITTIVE E REGOLATIVE, MA ALTRETTANTO DI SICURO NON POSSONO PROPORSI, NEMMENO IN LINEA DI PRINCIPIO, IN QUALITA’ DI SCIENZE ESATTE DI CONTENUTO NOETICO E RIFERIRSI IN MODO PRECISO E CONSEGUENTE A ENTITA’ OGGETTIVE NON CONVENZIONALI; 4) LE UNITA’ DI MISURA MINIMALI INDIVIDUATE DALLA FISICA FONDAMENTALE IN COERENZA CON LA FORMULAZIONE DELLE LEGGI PIU’ GENERALI SI SITUANO CIRCA 40 ORDINI DI GRANDEZZA (SU BASE 10, OVVERO NUMERI USUALI DI 40 CIFRE GROSSO MODO) SOTTO LE DIMENSIONI DELLA PERCEZIONE BIOLOGICA ORDINARIA E CIRCA ALLA META’ PER QUANTO RIGUARDA L’IMPOSSIBILITA’ ASSOLUTA DI ACCESSO DA PARTE DI QUALSIASI AZIONE UMANA SCIENTIFICAMENTE PLAUSIBILE.
QUANTO DETTO, SI TRADUCE AUTOMATICAMENTE IN UNA DEMOLIZIONE TOTALE E CONCLUSIVA DI OGNI FORMA DI MEGALOMANIA ANTROPOCENTRICA, SQUALIFICANDO QUELLE SCIENZE E QUELLE RELIGIONI CHE SCELLERATAMENTE VI SI APPIATTISCONO IN TOTALE DISPREGIO DI QUELLA CHE E’ L’OPERA DI DIO O DI ‘DIO’, OVVERO LA REALTA’ NATURALE DEL PIANETA E DELLA BIOSFERA.
ALLA FINE (TEMERARIAMENTE, ARROGANTEMENTE E PRESUNTUOSAMENTE) E’ MIA FERMA INTENZIONE PROCEDERE VERSO UNA SINTESI INNOVATIVA DI TESI E PROGRAMMI CHE, PER LORO NATURA, RIFIUTANO FIDUCIE E OTTIMISMI COMANDATI E COMUNQUE OBBLIGATORI NELLA TENAGLIA DI DUE DISPOTISMI FATTUALI: LA SOTTOCULTURA DI MASSA MOLTIPLICATA DA NECESSITA’ DI SOPRAVVIVENZA E FONDATA SULLA FORZA QUANTITATIVA DEL NUMERO, DA UNA PARTE, E IL MACHIAVELLISMO DI ELITE FONDATO SULLE ARTI MANIPOLATORIE DEL MARKETING COMPRATE DALLA FORZA QUANTITATIVA DEL DENARO, DALL’ALTRA.
Ci tengo a sottolineare che la temerarietà, arroganza e presunzione che vengono esercitate in questa sede sono connaturate fisiologicamente ai temi trattati e sarebbe da falsari assumere gli atteggiamenti timidi del subalterno o fingere l’umiltà ipocrita di chi, quando si arroga i diritti di cui dispone (che nel mio caso non esistono nemmeno), tranquillizza i guardiani del sistema con la garanzia che a quelli si limiterà e mai e poi mai oserà sconfinare.
Quando una individualità intellettuale si cimenta in quei temi di vasta portata che qualsiasi forma di potere tende a rinchiudere in recinti sacrali per limitarne l’accesso (e le necessità di controllo) a figure formalmente o ritualmente autorizzate, la stessa impresa denuncia i propri eccessi e le proprie ambizioni e quindi proclama a voce spiegata i presupposti di libertà culturale da cui muove e quindi il fondamentale liberalismo che la anima: sono tali presupposti e tale autentico liberalismo, non i modi e le sfumature stilistiche che rivestono i messaggi, a irritare il conformismo velenoso che non ha neppure il coraggio di proclamarsi tale in base a esigenze puramente funzionali, ma deve vilmente nascondersi dietro un fumo di mistificazioni difensive.
Le presenti dichiarazioni finali si articolano, modulano e diffondono nei punti seguenti.
1) Al fine di non lasciare alibi di sorta a chi punta a negare certi risultati per le tesi sgradevoli che vi si accompagnano (o, per altri versi, al generoso fine di concedere un appiglio significativo a chi quelle tesi vuole rifiutare), vengono dettagliate sinteticamente le dimostrazioni matematiche elementari dell’ultimo teorema di Fermat, del teorema dei quattro colori e della congettura di Goldbach, oltre a una dimostrazione qualitativa dell’ipotesi di Riemann, ciò al fine di fornire metri di giudizio obbiettivi (tenuto nel debito conto che tali dimostrazioni elementari sono state ricercate invano per secoli dai migliori matematici del mondo) sia sulla dabbenaggine o meno dello scrivente, sia, soprattutto, sulla relatività di concetti come genialità, intelligenza, merito, valenze concettuali in genere e certezze culturali, tenendo ancora una volta nel debito conto che la dimostrazione elementare dell’ultimo teorema di Fermat, se valida, di fatto inficia e relativizza la matematica di base insegnata nei licei e nelle università, mentre le altre tre dimostrazioni, essendo di carattere più qualitativo, filosofico e dunque opinabile, invitano a un confronto serio tra la generalità delle impostazioni concettuali e i tecnicismi di dettaglio.
Si sottolinea e motiva il disprezzo totale nutrito dallo scrivente nei riguardi di concezioni che sanciscono una netta divisione ideologica (ideologica, non pratica e funzionale) tra aree culturali di tipo artistico e letterario e aree di pertinenza logica e scientifica, divisione quasi sempre accentuata, da una parte e dall’altra, spesso in modo sottaciuto, per privilegiare il proprio campo di azione a scapito dell’altro.
Anche se indispensabili a fini funzionali e di approfondimento concreto, divisioni di tale natura, se elevate a concezioni di discriminazione socio-esistenziale, finiscono per svilire qualsiasi incisiva visione di ordine filosofico e, senza filosofia ovvero senza ciò che oggi si tende ad assolutizzare e assolutamente banalizzare come religione (banalizzando sia la filosofia che una religione grottescamente fideista e sproblematizzata) ovvero senza una interpretazione basilare della realtà sia intuitivo-emozionale che logico-razionale, esplicita o latente, non esiste cultura in un senso più vasto di quello puramente congiunturale o tecnico-produttivo: solo virtuosismi da società dello spettacolo o sentenze calate dagli specialistici interessi più o meno anarchici e partigiani delle varie e diverse autorità.
Così si arriva a una situazione in cui, mentre un quadro coerente e concreto della realtà mondana richiede gli strumenti inscindibilmente sperimentali e teoretici della scienze effettive, le riviste di scienza, controllate dai soliti capitali insospettabili e neutrali, racchiudono ogni acquisizione nella cornice ottimista ed edificante di una favola per bambini e intanto ricostruzioni metaforiche profonde della realtà umana rimangono esclusivo appannaggio di opere inquietanti (letterarie, artistiche, cinematografiche o televisive) il cui contenuto eversivo viene passato al vaglio dei giudici incaricati in modo da essere sapientemente relegato a un limbo di innocua stravaganza astrattamente iconoclasta e provocatoria.
Senza culture soggettive diverse, razionalmente comunicabili e componibili (una comunicazione, se non è razionale, si configura come niente altro che uno scambio simbolico tra appartenenti a una stessa setta o casta o conventicola o simili) qualsiasi liberalismo soggiace al pensiero sostanzialmente unico di un ceto dominante che non può rinunciare a una fondamentale rigidezza di prerogative a prescindere da quanto il loro valore funzionale e antropologico decada progressivamente e inesorabilmente nel tempo.
2) Sempre nell’ambito di arroganze e presunzioni di cui mi vanto in quanto inevitabilmente insite, ahimè, nell’indipendenza intellettuale (che non dovrebbe essere giudicata in base a simpatie e antipatie (il marketing è sempre ‘simpatico’ ma a me ripugna proprio per questo, come il carceriere che racconta barzellette al carcerato) ma con criteri puramente razionali), si argomenta sul significato politico e sociale del totale silenzio riscontrato sul www intorno a questi clamorosi risultati, clamorosi per quanto siano facili o per quanto io sia stato stupido nel ritenerli giusti, non per quanto siano geniali: per arrivarci, nel bene o nel male, non è servita alcuna genialità, bensì la testardaggine o il puntiglio di verificare i fatti in diversi settori dello scibile umano, perfino laddove in partenza il semplice buon senso sembrava poter escludere qualsiasi atteggiamento revisionista e dove, proprio per questo, qualsiasi risultato ‘eretico’ appare o apparirebbe particolarmente significativo, come, appunto, si verifica o si verificherebbe in relazione alle basi della matematica ortodossa e istituzionale.
3) Con estrema temerarietà intellettuale (mirabilmente arrogante e presuntuosa proprio in quanto auto-remunerativa nel suo totale prescindere dagli obblighi anche o soprattutto economici di riconoscimenti oligarchici o infatuazioni popolari) si dilatano le precedenti considerazioni fino a revocare nel dubbio qualsiasi gerarchia culturale e di valore attualmente in maggiore spolvero, il tutto nell’ambito di una analisi liberal-marxiana che punta a evidenziare le palesi contraddizioni dei sistemi di potere vigenti sia da un punto di vista individuale ed esistenziale (ricordo che siamo tutti animali, ma prima di essere umani come una zecca è una zecca o una zebra una zebra, siamo entità psicologiche individuali), sia dal punto di vista logico e scientifico e quindi, inevitabilmente, anche da quello ecologico, climatico e ambientale.
Analisi liberal-marxiana non significa analisi di sinistra dato che né un liberale né Marx sono mai stati di sinistra nella moderna accezione occidentale: Marx ha rilevato le ottocentesche brutture dell’industrialismo galoppante (produttrici di un volume complessivo di sofferenze che probabilmente risulta superiore a quello di qualsiasi altro periodo storico in qualsiasi altro luogo del pianeta, se non altro per la lunga durata a partire dall’inizio dell’era industriale) e vi ha visto insostenibilità che ha ritenuto erroneamente dovessero confluire automaticamente in sviluppi distruttivi del sistema che in effetti si sono a volte verificati, ma con esiti eufemisticamente molto discutibili.
Il termine marxiano va riferito dunque alla metodologia critica negativa dell’opera di Marx, non in quanto sia la migliore, ma in quanto è stata, in buona sostanza, la prima.
Lo scrivente non teme l’accusa di nichilismo: essa si rivela nient’altro che una ipocrita idiozia se scienza e tecnologia, attraverso una visione progettuale dimentica, almeno in prospettiva, dei privilegi esistenti, possono salvare, insieme al pianeta, la qualità delle vite umane e se, invece, scienza e tecnologia, per preservare i privilegi esistenti rinunciando alla costruzione progettuale dello stato stazionario, si voteranno a soverchianti pacchianerie come i computer quantistici (distruttori dell’e-business diffuso), le auto elettriche iper-costose e i viaggi spaziali, schiantando il pianeta e la qualità delle vite umane sotto il pugno di ferro di autarchi prepotenti e mitomani.
Quanto a un’altra facile accusa, quella di massimalismo, lo scrivente ci tiene a precisare di essere indenne da un moralismo becero che pone l’accento sui privilegi e non sul progetto: se, attraverso la via progettuale di stato stazionario, risultasse possibile salvaguardare ambiente naturale e medio benessere individuale anche in presenza di differenze economiche molto accentuate, a me andrebbe bene lo stesso, anzi meglio: si potrebbero evitare, almeno in teoria, reazioni letali da parte di tutti quegli imbecilli senza virgolette (e sono tantissimi) che fanno confusione tra condizioni economiche e condizioni etiche, intellettuali ed esistenziali.
4) Si procede all’evocazione di tristi presagi collegati al quasi irrimediabile divorzio tra i requisiti di oggettiva tolleranza fondamentale e le ineluttabilità autoreferenziali di una classe dirigente intenzionata a rimanere tale non attraverso la costruzione del progetto di stato stazionario, bensì tramite l’invenzione megalomane di una assistenza divina o comunque metafisica e categoriale (la divinizzazione delle specificità biologiche umane) rimasta da sola a supplire a limiti e labilità che ormai fissano tempi di scadenza molto stretti alla sussistenza dei sistemi di gestione attuali e, più in generale, al dominio indisturbato della specie umana su un pianeta disastrato per la sesta estinzione.
5) Si procede a una esemplificazione delle impasse culturali appena menzionate illustrando sic et simpliciter una proposta (sintetica e razionale quanto le dimostrazioni matematiche proposte al punto 1) di quali premesse concettuali potrebbero ben predisporre le parti a una soluzione pacifica della crisi ucraina.
Si evidenzia, peraltro, come l’autentico liberalismo, relativista e analitico, che dovrebbe porsi alla base di qualsiasi serio concetto di democrazia, stia degenerando a velocità folle in una mentalità da classe privilegiata di dominatori planetari che vanifica ogni proposta di composizione razionale del conflitto elevando alle stelle il rischio di una terza guerra mondiale.
PUNTO 1
(La parte matematica può essere tranquillamente saltata da parte di chi non dispone dei tecnicismi necessari a comprenderla: ci si può sempre informare sulla pertinenza o meno di quanto scritto ricorrendo al giudizio di persone che dispongono di quelle competenze)
ULTIMO TEOREMA DI FERMAT (riproposta invariata di una sezione precedente, a parte le righe sottolineate)
an + bn = cn
a > b n > 2
non ha soluzioni per numeri interi.
Questo perché
1) (ka)n + (kb)n = (kc)n
risulta impossibile ((se alfa allora beta) allora (se non beta allora non alfa))
(ka)n + (kb)n = (ka + kb ((mdkb) / (mdkj)))n
dove
(mdkb) = ( 0kb-1Ʃi ((i + 1)n – in) ) / kb
e
(mdkj) = ( kakc-1 Ʃi ((i + 1)n – in) ) / k(c – a))
La 1) è possibile solamente se
3) b ((mdkb) / (mdkj))
rappresenta una costante.
La 3) può essere costante solo per numeri irrazionali e nel continuo (il che però rappresenta una grave lacuna concettuale su cui altrove in questo testo ci siamo già diffusi), questo perché, nel discreto:
(x+1)n – xn – nxn-1
rappresenta un polinomio di grado n – 2 con tutti i coefficienti positivi, una funzione che cresce se x cresce.
La 3) quindi diminuisce con il crescere di ka, kb e kc.
TEOREMA DEI 4 COLORI (sezione precedente modificata solo nell’ultimo paragrafo)
Scelta una regione di base qualsiasi, si divide la carta geografica in gruppi di aree Gn, dove n rappresenta il numero minimo di spostamenti da un’area a un’altra che è necessario eseguire per raggiungere, partendo da una qualsiasi altra area, l’area di base.
Si procede a una ulteriore suddivisione in strati S (g, d), dove g è il gruppo di appartenenza delle aree di strato e d la distanza (ovvero il numero minimo di spostamenti) che da ogni singola area è necessario eseguire per raggiungere il gruppo Gg+1 (essendo ovviamente 1 la distanza dal gruppo Gg-1)
Non è difficile constatare (anche se il dettaglio può essere abbastanza lungo e farraginoso) che 6 coppie di 4 colori (12 se consideriamo la possibilità di permutare) sono sufficienti per evitare coincidenze di colore in qualsiasi disposizione di strati circolari di spessore 1 (sequenze circolari di singole celle legate in catena), mentre gli strati lineari rappresentano soltanto casi semplificati rispetto alle disposizioni ad anello.
CONGETTURA DI GOLDBACH
Dato il numero dispari D = 2N + 1, è dimostrato che esso si può scrivere sempre come somma di almeno una triade di numeri primi, in sostanza perché (non si tratta, beninteso, della dimostrazione effettiva) le combinazioni di tre numeri primi inferiori a N o compatibili con due numeri primi inferiori a N creano tra N e 2n + 1 un intreccio di numeri proibiti (al fine di designare un numero dispari che non sia somma di alcuna combinazione di tre numeri primi) tale da rendere impossibili le probabilità di un controesempio in concomitanza con lo sviluppo di N.
Nel caso di un numero pari uguale a 2N, le caselle proibite che seguono N, disposte secondo una differenza media che tende a log(N), si situano simmetricamente rispetto a N in corrispondenza a tutti i numeri primi che precedono N. Le circa N / log(n) file di caselle a cui devono accedere in via esclusiva i numeri primi da N a 2N per costituire un controesempio alla congettura di Goldbach risultano dunque, mediamente, di lunghezza log(n) – 1.
Detto prolissamente e per maggiore chiarezza: un controesempio della congettura dovrebbe fissare N in modo tale che tutti i numeri primi successivi cadano negli spazi di caselle che separano due caselle proibite (simmetriche rispetto a un qualche numero primo inferiore a N), spazi che, con il progredire di N tendono in lunghezza a logN -1 e in numero a N / log(N).
In seguito a quanto appena esposto, ritengo di poter definire una buona stima della probabilità di un singolo controesempio della congettura di Goldbach, almeno da un certo N in poi, attraverso la formula:
(1 – (log(N))-1)N/log(N)
Poiché la probabilità varia con N senza mai decelerare al punto di diventare irrilevante rispetto a N medesimo, sottintendendo così schemi variabili non esauribili da assiomi e regole fissate una volta per tutte, la congettura di Goldbach è indecidibile, il che significa che non esiste un sistema di assiomi indipendente dalla congettura stessa dal quale si possa dedurre la congettura stessa: solo una mappa di dettagli estesa quanto quello che si vuole dettagliare può dirci qualcosa di significativo in merito.
L’esistenza di uno schema che riduca quella probabilità a zero contrasterebbe del resto con il teorema di incompletezza di Goedel condizionando la distribuzione dei numeri primi in un modo che renderebbe la teoria dei numeri quello che non è, ovvero un mondo ideale chiuso e finito.
Ipotesi di Riemann
La schiera infinita di zeri complessi della funzione zeta di Riemann determinano in tutti i dettagli la relativa superficie esattamente come la funzione esponenziale di Eulero ridotta al caso reale.
Se la superficie è olomorfa come tutte le funzioni analitiche complesse (condizione indotta dall’equazione di Cauchy-Riemann delle derivate incrociate, che garantisce la continuità in funzioni complesse che equivalgono a un’applicazione unitaria di ogni punto del piano complesso in un valore reale corrispondente all’altezza della superficie sopra il piano complesso), i valori su qualsiasi retta del piano complesso di base determinano l’intera superficie, il che non potrebbe accadere per valori che rimangono disciplinatamente su una retta per poi deviarne a capriccio.
Non conosco i dettagli dell’estensione della superficie complessa a sinistra della retta x = 1, ma ritengo, forse a torto, che tale estensione debba rispettare la condizione di olomorfismo (ovvero conservare l’allineamento dei punti sul piano complesso di base con modifica coordinata delle loro distanze) e ritengo quindi che il passaggio al caso complesso non possa aggiungere (attenzione: ho detto aggiungere, non chiarire!) proprietà dei numeri primi che già non siano comprese nella formula di Eulero così tradotta:
Ʃi Fi ) = ¶iMi
essendo:
Fi = Ʃi (Pi-1 +1)-x + (Pi-1 + 2)-x …. + Pi-x
(P0 = 1)
e
Mi = Pix / ( Pix – 1)
Pi = i-esimo numero primo, x reale e non complesso.
La lettera F è stata scelta come iniziale di ‘Frequenza’.
Le Fi e le Mi mettono in gioco il rapporto tra numeri primi, unità e frequenze, ovvero i fondamenti dell’intero sistema aritmetico insieme alle operazioni aritmetiche elementari.
Precisazioni relative al punto 1
‘Indecidibile’ non significa qui ‘vero, ma indimostrabile’: significa che, se controesempi esistono, potrebbero rappresentare accidenti e non regole di sistema, fatti possibili, ma apparentemente irrelati, esattamente come accade nella realtà proprio perché la realtà è matematica.
Si vuole sottolineare, in sostanza, a carico di qualsiasi attività teoretica che si situi abbastanza in profondità nella natura interna dei meccanismi complessi, l’impossibilità di separare determinismo e casualità, il noetico dal pratico-effettivo, la spiegazione dall’evento.
Certe deleterie illusioni schematicamente assunte, in un verso o nell’altro, dalle culture ufficiali e trasmesse poi alla figura tipica dell’amministratore politico ordinario (ottimista e volitivo per obbligo etico-religioso), comportano alla lunga, estremizzando tendenze implicite secondo l’estremismo tipico di ogni potere veramente invaghito alla fine solo di se stesso, da un lato lo svilimento della riflessione critica in puro tecnicismo o specialismo aziendalmente quotato, dall’altro il declassamento della razionalità a cavalier servente di sacri principi inviolabili.
Un Progetto serio riconosce semplicemente la complessità ingovernabile e agisce in modo da rendersi compatibile con quella complessità e da rendere quella complessità tollerabile a se stesso.
Purtroppo, per certe ineluttabilità che gravano sulle forme sociali esistenti per eredità storiche e impostazioni antropologiche di base, un qualsiasi partito politico, invece di identificarsi in un Progetto di tale natura, tende a configurarsi come entità aziendale sui generis, distanziandosi da qualsiasi identità ideologica e culturale che non sia legata a specifici interessi e ai loro fidi compari: i sacri principi inviolabili (cioè i valori che splendono in alto di denaro riflesso e quindi, poiché il sole denaro resta prudentemente nascosto sotto l’orizzonte, rimangono gli oggetti più luminosi dello scenario parlamentare).
PUNTO 2
Nell’ipotesi che i risultati di cui al punto 1) siano validi o almeno, almeno in parte, sensati e fecondi, sarebbe forse il caso di riflettere sui rapporti tra principi generali e complicazioni specialistiche.
Poiché queste ultime rappresentano sempre, nelle fasi di realizzazione concreta, delle necessità ineluttabili, sarebbe forse il caso di selezionare le realizzazioni concrete in modo che, prima di tutto, interroghino rispettosamente i principi generali e ciò prima di buttarsi a corpo morto in un groviglio di complicazioni che obnubilano tali principi.
Anche se lo spunto per questa riflessione ha qui assunto una forma matematica, non è certo in questa disciplina generale che il problema si pone con una qualsiasi urgenza, dato che le complicazioni matematiche sono fonte comunque di nuovi e interessanti principi e ben difficilmente questi, per la natura stessa della disciplina, si pongono in radicale conflitto tra di loro.
Se però, dalla matematica, che qui è servita ad accendere una spia il meno possibile aleatoria e opinabile su certe problematiche, ci rivolgiamo alle scienze umane, prima tra tutte l’economia, la spinosità di questioni siffatte si rivela molto meno anodina e opinabile.
La matematica e la fisica sono scienze assolute, valide in tutti i mondi possibili almeno per quello che ne possiamo capire (sia della matematica o della fisica che dei mondi possibili): l’economia no.
L’economia non è una scienza assoluta, dipende dai criteri organizzativi e strutturali di una società, i quali dipendono a loro volta da una visione generale della biosfera e da giudizi di priorità legati alla natura biologica e mentale dell’essere umano, siano essi di carattere scientifico o metafisico-religioso.
Spacciare l’economia per una scienza assoluta e non per una tecnica di regolazione subordinata a premesse procedurali secondo tipologie politiche di ordine superiore o comunque anteriore, significa dare il via a equivoci o addirittura abusi senza fine: per evidenziare il tutto basta considerare che la ‘scienza’ economica (si sta parlando, per intenderci bene, di pertinenze politiche e non puramente aziendali) fissa, in via preliminare e arbitraria, priorità e interessi di ordine economico e, a seconda di come tali interessi e priorità vengono fissati in via pressoché assiomatica, affida la gestione degli stessi a specifici portatori di quelle priorità e di quegli interessi e non ad altri.
Come implicitamente dimostra (se valida) la mia dimostrazione dell’ultimo teorema di Fermat nonché l’analisi del concetto di infinito condotta altrove in questo testo, non può esistere fisica matematica (e quindi scienza razionale al contempo astratta e oggettiva) al di fuori della fissazione in senso assoluto di specifiche unità di misura: in economia il valore fondamentale resta inevitabilmente il potere di acquisto della moneta e quindi basta affidare la sua determinazione a enti finanziariamente esenti da un controllo politico efficace e conseguente (come è avvenuto per la creazione secondo ideologie reaganiane e thatcheriane della moneta unica europea) per congelare definitivamente la politica europea in un ambito esclusivamente iper-economicista e quindi oligarchico.
A questo punto basta aggiungere la considerazione di come a essere internazionalisti ed europeisti (e non ‘sovranisti’ o ‘populisti’) risultano i partiti di sinistra e non di destra per constatare chiaramente in quale cul de sac di contraddizioni inestricabili sia stata abilmente infilata dai nobili padri e custodi della saggezza occidentale quella ‘volontà popolare’ che dovrebbe porsi alla base di qualsiasi democrazia che meriti quel nome.
Naturalmente analisi del genere rischiano di essere accusate (appunto!) di ‘populismo’, parola che viene usata soprattutto per far vergognare di se stesso il popolo (ovvero le classi meno facoltose e per ciò stesso più numerose) e ciò grazie alla complicità del popolo (un popolo è infatti formato da individui e ogni individuo umano (oggettivamente e realisticamente), molto prima di essere una unità organica, consiste in un centro di universo mai perfettamente sommabile ad altri centri di universo, almeno fino al momento in cui non si trova fortemente ostacolato a reperire le risorse indispensabili alla propria sopravvivenza).
PUNTO 3
Le contraddizioni di cui al punto 2 non possono limitarsi agli aspetti politici di democrazie occidentali che diventano sempre meno liberali in funzione della concentrazione delle ricchezze nonché della penuria di ricchezze pubbliche da spartire in presenza di un incremento della popolazione mondiale di cui in occidente ci si dimentica perché sembra non riguardare nazioni in cui l’incremento si è arrestato e invece le riguarda moltissimo dal momento che la ricchezza da distribuire nei paesi demograficamente più statici dipende in non piccola parte da paesi in cui l’incremento non solo esiste, ma sta diventando insostenibile.
Una contraddizione politica rappresenta un problema solo per la veridicità democratica, non per poteri oligarchici che, con avvisaglie prudenziali che decadono o regrediscono nel tempo, agisce perlopiù mediante tagli di nodi gordiani da parte di partiti che perdono così consensi e consegnano il potere a partiti che tagliano allo stesso modo gli stessi nodi.
Le contraddizioni diventano sempre più industriali, finanziarie e tecnologiche proprio in concomitanza con lo strapotere di finanzieri, industriali e tecnologi rispetto alla politica ordinaria.
Gli aspetti tecnologici dell’economia stanno evidenziando, rispetto all’economia, eccessi di separatismo e autonomia simili a quelli che l’economia manifesta ormai da decenni nei confronti della politica.
Per farsi qualche significativa idea al riguardo basta considerare come molte delle ultime raffinatezze economiche cozzino contro esigenze capitali poste insindacabilmente da questioni energetiche e funzionali, per esempio il modo in cui eventuali successi nell’informatica quantistica (sposati entusiasticamente da amministratori europei la cui forma mentis rimane per me un assoluto mistero) danneggerebbe il commercio elettronico (che, come lo smart working, consente significativi risparmi in vari campi) per l’impossibilità di utilizzare chiavi di cifratura sicure; o, sempre per esempio, il sovraccarico in termini di sforzo energetico e/o di consumo di materia prima esotica e di difficile reperimento comportato dal passaggio a moltissime sofisticazioni tecnologiche legate a un perfezionismo che diventa sempre meno indispensabile rispetto alle esigenze concrete della gente comune, come l’alta definizione o le acrobatiche frenesie di videogiochi, palmari o telefoni cellulari che incantano giovanissimi virtuosi destinati nel futuro a non raggiungere mai una pensione decente.
La sofisticazione tecnologica si rivela inoltre sempre più responsabile delle forme più dissimulate e ipocrite di obsolescenza programmata, quelle alla base di alcuni esasperati aspetti del turn-over di apparecchi elettronici che già soffrono in media di un sottoutilizzo gigantesco o, più propriamente, di un dimensionamento eccessivo rispetto a esigenze medie non drogate da esibizionismi maniacali.
Considerando questi aspetti si capisce bene del perché mai e poi mai, quando si impongono transizioni tecnologiche di natura epocale come il passaggio dalle auto a benzina alle auto elettriche, i signori produttori non si preoccupino di mettere a punto modelli minimali che compensino i costi aggiuntivi della nuova tecnologia con riduzioni di lussi non strettamente funzionali: una diffusione allargata delle nuove tecnologie rappresenterebbe un danno ecologico, climatico e ambientale ancora più marcato ed è quindi evidente che non saranno le nuove tecnologie a salvare il pianeta, ma la restrizione del loro utilizzo a élite privilegiate.
Quanto gioverà di fatto tutto ciò all’ambiente e all’autentica democrazia, tenuto presente che i populisti anti-ecologisti non sono scemi, ma, appunto e legittimamente, populisti anti-ecologisti, disponibili perfino a sprofondare il pianeta sotto strati di cemento pur di non languire nella miseria da precarietà e sotto-occupazione, non vale la pena di insistervi tanto appare scontato.
Una buona notizia per il pianeta: le élite sono poco numerose, è dunque probabile che, a processi miracolosamente conclusi senza inconvenienti e sorprese (se, cioè, nel frattempo tutto non salterà in aria per varie e diverse ragioni, prima tra tutte la scarsa versatilità dei partiti finto-populisti nel fare fessi i populisti veri), avanzi una quota di alleggerimento e mitigazione da spendere con gli interessi in viaggi spaziali e altre raffinate amenità.
PUNTO 4
Tutto quello che è stato argomentato finora non nasce, almeno nelle intenzioni, da presupposti ideologici non individuali ovvero da interessi socialmente coordinati, bensì da un tentativo, forse o probabilmente incongruo o scellerato, di interpretare la realtà dell’esistente secondo un punto di vista il più possibile scientifico e il meno possibile antropocentrico (anche se pur sempre antropomorfo, dato che dall’antropomorfismo, purtroppo, a un umano è impossibile evadere).
Se la realtà esiste, assolutamente e divinamente non correlata rispetto a tutti gli imbonimenti, i traffici, le manovre, gli allettamenti, le scaramanzie, gli scongiuri architettati dalle fertili menti umane, i 70 milioni di esseri umani in più ogni anno insieme alla concentrazione delle ricchezze sottratte al godimento diffuso e sequestrate in aree di privilegio spingono e spingeranno i consumi energetici necessari a evitare violente sollevazioni popolari molto oltre le soglie di qualsiasi tolleranza ambientale.
Con i sistemi attuali, salvezza del pianeta e autentica democrazia rimangono incompatibili a prescindere dai palliativi adottati, come prova ampiamente l’interazione stretta tra stagnazione demografica e stagnazione economica.
I pretesti per giri di vite da parte di governi autoritari saranno uno dei prodotti più ricercati da parte degli attuali politici e tra tutte queste ambite disponibilità le tensioni di una nuova guerra fredda non appaiono certo le più disprezzabili.
Veniamo così al punto seguente.
PUNTO 5
Se una potenza planetaria come gli Stati Uniti e tutte le nazioni disciplinatamente allineate sotto il loro ombrello militare in una dignitosa sudditanza decidono che le potenze devono essere dispari e tre sono troppe, i casi sono due: o rappresentano ormai dittature in incipit che hanno optato scientemente per quel prelibato instrumentum regni che è la strategia della tensione internazionale o considerano tutti i rivali geo-politici potenze regionali senza importanza che si possono andare tranquillamente a tampinare a casa loro o nelle vicinanze sapendo che useranno le armi nucleari di cui dispongono solo per minacce puramente verbali e senza conseguenze pratiche e durature.
Una terza ipotesi, che cioè si voglia effettivamente arrivare al confronto armato per decidere chi veramente merita il titolo di unica vera potenza planetaria, per il momento la escluderei, dato che proprio le considerazioni relative alle armi nucleari inducono a ritenere la fattispecie un’assurdità da horror fantascientifico. Resta il fatto, comunque, almeno per gli eventi storici d’importanza capitale, che la volontà espressa dagli agenti umani, soprattutto quelli più in rilievo, conta molto meno di quanto le dottrine umaniste in genere ritengano necessario credere svalutando in concomitanza il moto inarrestabile dei principali ingranaggi di sistemi sempre, in qualche misura, dispoticamente autoreferenziali.
Basta comunque l’alternativa proposta per ridicolizzare tutte le pretese atlantiste ed europeiste di lottare dalla parte dei buoni e dei giusti in difesa dei diritti di un popolo ingiustamente invaso: il motivo è semplicemente che non si può ritenere nel giusto i governanti di un popolo invaso se hanno giocato alla guerra fredda opprimendo minoranze ritenute ostili e affini allo sgradito vicino e operando fattivamente e concretamente nel frattempo per aderire a un’alleanza militare a cui la nazione vicina, in quanto potenza considerata avversa anche se squalificata e di serie B, non ha alcuna possibilità di accedere.
Non si può infatti affidare a confinanti stretti in una alleanza militare il giudizio riguardo ai limiti da rispettare affinché la nazione circondata e bollata del titolo spregiativo di potenza di serie B non si consideri seriamente minacciata e quindi spinta a reagire con mezzi che, data la situazione generale, non potranno non configurarsi come anomali e criticabili, dato che qualsiasi guerra o azione speciale (simile alle azioni speciali condotte nei decenni addietro (dalla NATO targata ONU o dalla Nato e basta) in Afghanistan, in Iraq, in Serbia, in Kossovo, in centro e sud America, al largo dell’Argentina eccetera) non potranno che risultare anomali e criticabili.
Perfino la pace diventa una opzione ipocrita e non realista se la Nato continua a marcantoneggiare in giro per il mondo sollevando il suo pugno di ferro, difensore dei Giusti, sotto il quale si possono riparare tutti, a patto che non siano potenze di serie B da isolare dentro cordoni sanitari di valenza geo-politica, economica e militare.
Può darsi però che a queste potenze supposte di serie B convenga la strategia della tensione internazionale né più e né meno di come sembra convenire all’Unica Grande e Vera Potenza, nel qual caso, l’unica strategia di pace possibile a stretto rigore di logica, ovvero la costituzione di una unica Nato mondiale concepita nei termini di un patto generale che vincoli ciascuna nazione al rispetto assoluto di qualsiasi altra, risulterà molto più impraticabile di quanto già non lo sia per i sogni egemonici dell’Unica Grande e Vera Potenza, vessillifera, senza se e senza ma, dei diritti sacrosanti e inviolabili dei Buoni e dei Giusti.
Non si può insomma pretendere la pace se si conservano fratture e diseguaglianze militari a favore o contro nazioni che ritengono di poter fissare a propria discrezione la scala dei valori per un mondo intero diviso in due (la Russia che i telegiornali democratici e internazionalisti italiani danno come isolata è sostenuta da metà circa della popolazione mondiale), come non si può salvare il pianeta se i ceti medi e bassi non ridisegnano il concetto di una vita qualitativamente e non quantitativamente gradevole e gratificante e i ceti medio-alti non rinunciano ad almeno una parte dei propri lussi e privilegi, legando strettamente la parte meno dannosa all’efficienza nel dirigere modelli organizzativi stabili e duraturi.
Questo sarà anche utopismo, ma il resto che cos’è se non imbecillità?
Ops, scusatemi, ho sbagliato: ‘imbecillità’.
Epilogo: critica dell’antropocentrismo come illiberale contraddizione interna, ipocritamente atea, di qualsiasi religiosità superficiale.
La Bibbia Kolibiana, come si è, un po’ provocatoriamente, autodefinita, rappresenta un religiosissimo testo contrario, non tanto a tutte le religioni istituzionali, quanto alla loro utilizzazione politica in spregio a ogni sano principio di realtà relativo a un mondo creato da Dio o da ‘Dio’ e di sicuro non da quei poteri umani i quali, quando scoprono fenomeni forieri di ricchi sviluppi come, per esempio, le onde elettromagnetiche, non magnificano l’esistenza delle onde elettromagnetiche accanto a moltissime altre meraviglie del cosmo creato da Dio o da ‘Dio’, tra cui possiamo tranquillamente includere il cervello umano, ma adorano e incensano una genialità considerata indipendente dai poteri biologici del cervello umano, la quale genialità è stata capace di scoprire e utilizzare le onde elettromagnetiche nonostante i limiti biologici del cervello umano.
Ovviamente la realtà di cui si è appena parlato non riguarda una normale routine amministrativa nel disbrigo delle faccende quotidiane (in rapporto alle quali la religiosità, se non viene limitata a un ambito strettamente soggettivo, si rivela poco più di una pura e semplice convenzionalità di tipo burocratico), concerne bensì, per un verso non antropologico, la realtà planetaria coinvolta dalle degenerazioni ambientali e, per versi più specificamente umani, politici e sociali, la irriducibilità, per la ricchezza creativa di Dio o di ‘Dio’, delle condizioni esistenziali a un solo modello universale, pretendere il quale ha costituito quel difetto capitale dei dispotismi storici ereditato dal liberismo puramente economico e da democrazie occidentali che si rivelano sempre più formali e illusorie.
Lo scrivente, accanto ad auto-definizioni come quella di ‘estremista di centro’ (che vede i sedicenti ‘moderati’ come ipocrite ancelle di qualsiasi potere, autarchi per vocazione costretti a nascondersi sotto boccoli e crinoline), in altre parti del presente testo, per qualificare la propria collocazione politica, ha usato la frase (una specie di slogan) ‘cuore a destra e cervello a sinistra’, precisando in concomitanza il concetto di ‘destra culturale’ e di ‘sinistra progettuale’. Volendo proprio ricorrere ancora una volta a sintesi di sicuro un po’ o molto azzardate e però in qualche modo significative, parlerei di ‘laicità a destra e di religiosità a sinistra’ come atteggiamento consono alla mia visuale del mondo.
La spiegazione è che un qualsiasi potere, il quale sempre, in un modo o nell’altro, dovrà essere fondato e costruito ai fini di far rispettare ben determinati e ineluttabili vincoli di collegamento operativo e coordinamento funzionale (il rispetto delle leggi, in buona sostanza), per evitare soprusi dovrà legare a considerazioni puramente oggettive, scientifiche e razionali le inevitabili limitazioni alle libertà personali, mentre, al tempo stesso, la vocazione alla libertà personale dovrà consolidarsi attraverso la ricerca di oggettività di ordine superiore rispetto all’arbitrio anarchico, distinguendo quanto più e possibile le aree di effettiva agibilità psicologica, dove ciascuno rimane padrone di se stesso, da quelle che richiedono mutui rispetti e debiti riconoscimenti di una oggettività fattuale che ciascuno potrà porre sotto la giurisdizione di Dio o di ‘Dio’ a propria esclusiva discrezione (ricordo che per ‘Dio’ si intende tutto ciò che procede dagli automatismi delle leggi cosmiche, come il Dio di Spinoza e di molti altri).
Per concludere, al fine di fornire una esemplificazione paradossale, ma (mi auguro) efficace, del mio concetto di religiosità, ripropongo un apologo già presente in un altro punto del presente testo.
…..
Non si può d’altra parte negare con certezza assoluta che un kolibiano, dopo essere morto, potrebbe rimanere sorpreso.
Potrebbe avere tante smentite diverse del suo scetticismo, potrebbe per esempio risvegliarsi al cospetto di un signor Dio che gli si rivolge parlando più o meno così: “Ah, ecco un kolibiano! Complimenti! Come quel ricco che si finge povero per incontrare un’anima gemella che ami lui e non i suoi soldi, ho fatto di tutto per dissimulare il mio coinvolgimento nel mondo e lasciare da solo il mondo (ovvero il prodotto del mio genio e della mia creatività) a parlare di se stesso. Niente da fare! L’unica specie che poteva apprezzare in pieno la mia opera e giustificarla per quello che appare ha finito per arrogarsene tutti i diritti. Dei suoi membri, i più non hanno amato l’opera di cui sono stato capace, ma piuttosto quel potere invisibile che, secondo loro, da qualche parte doveva saltare fuori per forza anche se io l’avevo dissimulato in tutto e per tutto. L’umanità non ha amato il mondo, ma quel potere sul mondo che ha attribuito a me al solo scopo di potersene fare interprete e depositaria assoluta. Per quanto sembra incredibile a dirsi, vista e considerata la media dei comportamenti, l’umanità ha amato soltanto se stessa! ...
ULTIMA NOTA: N.10 (19 settembre 2022)
APPENDICI, POSTILLE, RILIEVI OCCASIONALI, COMMENTI, LIBERE DIVAGAZIONI (ECCETERA) DA INTENDERSI COME MODESTI COMPLEMENTI FACOLTATIVI ALLA CHIUSURA TRIONFALE DELLA BIBBIA KOLIB
di Renato Pezzotta (scopritore delle dimostrazioni elementari dell’ultimo teorema di Fermat, del teorema dei 4 colori e della congettura di Goldbach)
(Dopo tanti secoli in cui la Bibbia Kolib è riuscita a consolidare inarrivabili apprezzamenti in qualità di testo fondamentale per la decifrazione o non decifrazione di qualsiasi futuro, il problema della natura e identità di tale figura rimane tuttora irrisolto. Alcuni lo identificano con un personaggio storico nato a Milano il 26 giugno 1953 e disperso in Nagorno Karabash durante un’escursione solitaria iniziata nel maggio del 2077. Altri lo considerano una mera sigla simbolica di istanze sociali e azioni collettive, un nominativo fittizio utilizzato dagli organi collegiali del movimento come firma sotto le opinioni più condivise, un mero pretesto, a volte, per spunti narrativi in grado di caratterizzare i tratti comuni più rilevanti).
NOTA N.10
19 SETTEMBRE 2022
DIMOSTRAZIONE LOGICA ASSOLUTAMENTE RIGOROSA BENCHE’ INFORMALE (QUINDI INFORMALE, MA ASSIOMATIZZABILE) DI COME, PERSISTENDO GLI ATTUALI SISTEMI SOCIO-ECONOMICI, GLI IMBECILLI CON LE VIRGOLETTE, PER CONSERVARE LE VIRGOLETTE, NON DISPONGONO DI ALTRA SCELTA CHE TRASFORMARSI IN IMBECILLI PURI E SEMPLICI (OSSIMORO O ANTINOMIA CHE, COME UNA FAMOSA FORMULA DIMOSTRANTE LA PROPRIA INDIMOSTRABILITA’, DIMOSTRA LA VIGENTE CONTRADDIZIONE DEL RAPPORTO UOMO-NATURA)
Lo scrivente chiede in via preliminare comprensione e perdono per un uso del termine ‘imbecille’ che si trova letteralmente costretto a usare per ragioni di efficacia tecnica e retorica.
Come risulterà chiaro nel prosieguo, ma è bene sottolineare da subito, togliere le virgolette a ’’imbecille’’ (doppie virgolette) per rappresentare un radicale passaggio (nell’ambito di quella inamovibile visione teo-tecnocratica o tecno-teocratica che lo scrivente avversa) da inclinazioni più ‘tecno’ a inclinazioni più ‘teo’, non tassa di imbecillità personale quei promotori della scelta ai quali non fatico proprio a riconoscere maggiore coerenza e meno ipocrisia rispetto al passato nell’ambito di quella inamovibile visione teo-tecnocratica o tecno-teocratica che lo scrivente avversa.
Si vuole (semplicemente) rimarcare quel ‘più coerenza e meno ipocrisia’ che porta (semplicemente) a dichiararsi succubi e imbelli (e dunque imbecilli) di fronte a Dio (nel qual caso ‘imbecille’ è una accettabilissima qualifica religiosa) e quindi succubi e imbelli (e dunque imbecilli) davanti a ‘Dio’ (nel qual caso il termine può essere visto come un insulto, ma risulta scientificamente ineccepibile).
Se il governo del pianeta effettuato finora dall’umanità risulta drammaticamente distruttivo, ma si ritiene di non poterlo cambiare, non rimane che negare quella distruttività appellandosi a Dio.
La logica per ora segreta di tale scelta, in effetti, al di là di aspetti autenticamente religiosi che le democrazie occidentali non sono stati in grado di riservare a una sfera esclusivamente privata, potrebbe risiedere, non nel fatalismo adottato come ultima ratio, ma nel ‘progetto’ in base al quale integralismi di tipo religioso, riducendo le mandrie umane a schieramenti di bravi soldatini, siano in grado di disinnescare il potenziale di devastazione insito nel liberismo e nella ebefrenica avidità indotta nei suoi cultori: ciò avverrebbe nell’unico modo realistico ritenuto percorribile, ragione per cui, da ora in avanti, insieme a ogni illusione di libertà, possiamo pure buttare alle ortiche, definitivamente, lo stesso concetto di realismo.
Il termine ‘imbecille’, per altri versi (squisitamente religiosi e quindi individualisti e personali) non deve essere visto come un insulto ai leader e ai potenti, ma come venerazione verso quel Dio o ‘Dio’ nel cui giudizio non potrebbe connotarsi molto diversamente la responsabilità di quelli che, magari a dispetto di qualsiasi loro autentica volontà, sovrintendono in prima linea alla distruzione del pianeta: se non li si considerasse ‘imbecilli’ in una prospettiva non psicologica, sociale o politica, bensì puramente ontologica e metafisica oltre che storica, ci si macchierebbe di una grave svalutazione dell’opera di Dio o ‘Dio’, un peccato gravissimo anche se non grave come quello di chi, distruggendo in (pochi, pochissimi) secoli un’opera di centinaia di milioni di anni, si sentisse mandatario del creatore dell’opera stessa.
Per altri versi ancora, il termine ‘imbecille’ può considerarsi quasi un titolo onorario se inteso come sigillo simbolico o segno di autentica significanza attribuibile a chi si rivela degno di rappresentare ai più alti livelli la specie animale più ‘imbecille’ del pianeta. Che l’umanità, se si segue la logica oggettiva delle leggi e dei verdetti naturali, sia la specie più ‘imbecille’ del pianeta, risulta assolutamente lapalissiano confrontando, per esempio, l’uomo e il coccodrillo: il coccodrillo vive più o meno allo stesso modo da circa cento milioni di anni, l’uomo, persistendo gli attuali sistemi organizzativi, riuscirà a vivere un po’ meglio e non un po’ peggio degli altri animali (non buttando i liquami delle deiezioni sulle pubbliche vie e non dipendendo quasi per intero dalle mutazioni di virus e batteri che là ci sguazzano) per un periodo complessivo di pochi, pochissimi secoli: il rapporto, scusate se è poco, sfiora l’ordine del milione a favore del coccodrillo.
Un punto invece a favore dell’umanità, rispetto al coccodrillo e alle altre specie animali, richiama la constatazione che l’umanità esprime una natura piuttosto immateriale essendo costituita da individui ovvero da fantasmi e, come per un individuo, l’umanità a) non conoscerà mai le sue vere intenzioni; b) nutre verso se stessa un amore impossibile; c) la maggior parte della sua esistenza non esiste.
Se l’umanità riuscisse a trasformarsi effettivamente in quello che è, ovvero una collezione effettiva di individui fantasma, magari accudendo tali individui in modo che, soddisfatte le proprie necessità animali con relativa facilità, possano dedicarsi effettivamente a essere individui, cioè mondi irreali, dal grande fascino mentale o spirituale, che non producono sfracelli solo nella misura in cui rimangono fittizi, forse le élite, che rivendicano in via esclusiva il diritto all’individualità rispetto a masse beneficiate, grazie a loro, come di un santo Graal, del dono della pura sopravvivenza nella moria generalizzata della sesta estinzione, si rivelerebbero meno imbecilli o ‘imbecilli’ e perfino degne di Dio o di ‘Dio’.
QUESTA NOTA E’ DEDICATA A QUEI LEADER CHE, ESSENDO INTELLIGENTI COME LA MAGGIOR PARTE DEI LORO PARI, A DIFFERENZA DELLA MAGGIOR PARTE DEI LORO PARI, INVECE DI CONSIDERARSI NOMINATI DA DIO SENZA VIRGOLETTE PER PORTARE AVANTI IMPORTANTI ASPETTI DELLA SUA MISSIONE, SAREBBERO DISPOSTI A TOLLERARE LA DEFINIZIONE DI ‘IMBECILLI’ IN QUANTO IMPOSTA SENZA SCAMPO DALLA RIGOGLIOSA MUNIFICENZA DI DIO O DI ‘DIO’ E NONOSTANTE CIO’ O PROPRIO PER QUESTO, NON SOLO CI TERREBBERO A NON SMARRIRE LE VIRGOLETTE PER STRADA, MA VORREBBERO PERFINO SUPERARE LA QUALIFICA DI ‘IMBECILLE’, PER QUANTO ELEVATA, ATTRAVERSO L’UNICA METODOLOGIA POSSIBILE, OVVERO LA PRASSI ESPLICITAMENTE PROGETTUALE DEL NON SVILUPPO SOSTENIBILE OVVERO DELLO STATO STAZIONARIO.
(La rigogliosa munificenza di Dio o di ‘Dio’ condanna inesorabilmente l’hybris del leader semplicemente perché, in proporzione alla dimensione e alla profondità dei compiti, nel momento stesso in cui Essa espande esponenzialmente e in parallelo quella ricchezza sostanziale dei fenomeni che, in regimi globalisti, acquista molto presto trascendenze astrali, consente alle fioriture terrestri di qualsiasi capacità, anche la più eccelsa, di svilupparsi (quando si sviluppano) soltanto in progressione aritmetica e seriale: è impossibile pertanto che, dopo una disamina oggettiva e spassionata, un Biden o un Putin o addirittura un Berlusconi non risultino (relativamente) più imbecilli di un panettiere o un impiegato di banca, se solo si prescinde dalle sontuosità e dai valori (come anche dalle diaboliche perversioni) delle anime eterne e delle coscienze universali e ci si limita a confrontare le potenzialità pratiche di azione e comprensione con le conoscenze che, nei riguardi delle contestualità affrontate, sarebbe indispensabile possedere per non diventare zimbelli del caso e del caos)
DIMOSTRAZIONE.
Nell’ambiente planetario in cui si ritrova, l’umanità produce di anno in anno sempre più disordine e distruzione.
Quanto più, nel generale consesso umano, si diffonde il proposito di arginare disordine e distruzione, tanto più si aumenta l’accelerazione del disordine e della distruzione, il che, più che una eterogenesi dei fini, rappresenta il destino inevitabile di una entità che, usando sempre di più strumenti sbagliati, si rende consapevole dell’effetto di tali strumenti, ma non può o non intende cambiarli e quindi nega che tali strumenti siano la causa dei mali, adottando nel frattempo soltanto dei palliativi.
L’entropia, tradotta nei termini della teoria dell’informazione, aumenta sempre di più il divario di ‘imbecillità’ tra il leader accorto e sagace, la cui mente si spalanca su un incommensurabile scenario, e l’opaco e ordinario mortale costretto, per necessità di pura sopravvivenza, ad aggrapparsi con le unghie e con i denti a scampoli di realtà sempre più ridotti, concentrati e quindi decifrabili.
Quanto più il leader ‘imbecille’ si libra sopra i vasti orizzonti delle grandi idealità di cui afferra poco o nulla al di là dei propri deliri, quanto più il popolo bue tocca con mano la scabra superficie dei limiti.
Mi sembra ovvio e sarà dato qui per assiomatico che il divario non può crescere illimitatamente: prima o poi il leader realista che non può cambiare il sistema deve volare più vicino a terra e la maggioranza dei sudditi aspirare almeno un vago sentore di volatile immensità, almeno fino a quando il potere costituito deve comprare voti in seguito alla persistenza di vetusti formalismi elettorali.
Accantonata la via del Progetto, perché è utopista e irrealizzabile in quanto prevederebbe il disciplinamento, oltre che della maggioranza comandata, anche della minoranza che comanda (una impossibilità evidente per qualsiasi autentica democrazia, un po’ meno per un governo oligarchico o dispotico sotto minaccia di rivoluzione violenta (situazione da cui ci divide qualche anno ancora)), la Storia ci indica una sola via alternativa per conseguire quanto sopra: quella del potere teocratico, del leader convinto, almeno in apparenza, di essere stato designato da Dio.
La crisi ambientale favorisce enormemente questo tipo di sviluppi: solo Dio può infatti autorizzare l’uso di strumenti che devastano l’opera di Dio e contemporaneamente rassicurare circa la tollerabilità del loro uso.
In assenza di Progetti seri, il leader idealista e ’imbecille’, avversato per la sua impotenza o per gli effetti anti-democratici della sua fine dottrina democratica, deve per forza di cosa tramutarsi in leader imbecille che spartisce la sua imbecillità con un popolo grato per una imbecillità che, fino a quando i nodi non verranno definitivamente al pettine, consente di dissanguare il pianeta senza affamare il popolo .
CVD
Riassumendo e schematizzando, la storia della democrazia si svolge sostanzialmente attraverso tre passaggi principali: a) società sufficientemente ristrette da tollerare leader normali normalmente eletti; b) società dai condizionamenti sempre più ampi e intricati in proporzione al successo della società, con leader sempre più potenti e geniali (ovvero ‘imbecilli’); c) società tanto più tecnicamente involute quanto più inevitabilmente oligarchiche, gestite da leader investiti di poteri teocratici conferiti da masse che sono diventate rimbambite e sotto acculturate in seguito all’azione insistita delle elementari esigenze di sbarcare (dinamicamente!) il lunario.
Naturalmente, all’inizio della fase c), occorre il consenso delle masse a procedure di assoggettamento delle masse che non devono apparire tali, ma piuttosto l’esatto contrario.
Poiché ingraziarsi i ricchi rimane esigenza capitale (dato che in un modo o nell’altro essi comandano sempre una democratica società di mercato e si incazzano di brutto quando intervengono finanziatori esterni al sistema come può essere solo qualche orco alla Putin), ma flat tax e altre amenità sedicenti ‘propulsive di investimenti e lavoro’ rincoglioniscono le masse sempre meno ogni anno che passa, ai rappresentanti di Dio (testimoniati dall’abbondanza di portafogli che possono gonfiarsi solo con la benedizione del Signore) non rimane che intervenire con abbondanti sussidi da spargere a pioggia.
La loro adozione risulta doppiamente consigliabile.
Primo: tengono a freno il malcontento dando il tempo di mettere mano alla manomissione dei cardini di una democrazia, ovvero l’esistenza di una costituzione stilata, almeno nelle intenzioni, dal punto di vista del singolo cittadino e la divisione dei poteri, soprattutto quella tra potere politico e magistratura, estremamente sgradita ai potentati economici (già rassicurati, comunque, dal costo degli avvocati rinomati e dalle manine furtive dei lobbisti che assecondano i principi del foro) soprattutto perché la corruzione senza costituire illecito è quasi una sinecura nel caso dei politici, quasi impossibile invece nel caso dei magistrati. Finché i presidenti della Repubblica rispetteranno un certo modello (quasi inevitabile con le forme di elezione attuali) peserà molto meno (a quelli che possono far valere quel peso) la divisione tra potere legislativo e potere esecutivo.
Secondo: la proiezione del debito pubblico oltre ogni limite di sopportabilità procurerà ampie motivazioni per il giro di vite successivo, quello che sarà stato facilitato dalla manomissione dei cardini democratici e si accorderà con l’unica seria politica di sostenibilità ambientale che i padroni del sistema reputano concretamente attuabile nel caso in cui la situazione diventasse davvero seria: sviluppo sostenibile per una parte minoritaria e ingessamento preventivo della parte restante nei confini di una mera sopravvivenza attentamente sorvegliata da cani da guardia (nel frattempo addestrati) in modo che si mantenga utile, o almeno non dannosa, al sistema. Insomma, cari signori: il paradiso per pochi eletti e il limbo (o eventualmente l’inferno, poi si vedrà) per tanti mediocri dotati di spirito nella maniera sbagliata.
E’ chiaro a questo punto che, da un punto di vista non antropocentrico e prospetticamente ampio e profondo, gli ‘imbecilli’ possono essere considerati ‘imbecilli’ solo se sinceri, quando invece perdono le virgolette, potrebbero essere chiamati semplicemente despoti, i quali despoti, però, ridiventano imbecilli quando creano devastazioni tali da essere chiamati a renderne concretamente conto, il che, in sostanza, rimette in gioco l’ignoranza rispetto ai decorsi naturali e la qualifica di imbecille con le virgolette: un guazzabuglio con impressi i marchi della propria insolubilità.
Forse ai leader e ai padroni del sistema converrebbe rivolgersi rapidamente a un Progetto né più e né meno di quanto converrebbe ai poveri mortali.
Quanto detto, lo ribadisco ancora, acquista senso e valore soltanto se il singolo individuo è un curioso e interessante fantasma e non l’anima immortale in cui qualcuno ritiene indispensabile consistere per non disperdersi in una nebulosità triste e angosciante.
Esistono però seri indizi che possono orientarci verso la presa in seria considerazione dell’anima immortale.
Consideriamo l’intervista di un conduttore della RAI molto rinomato a una ‘testa d’uovo’ di sufficiente e corretto rilievo spettacolare, una testa coronata della telegenicità politica appartenente allo stesso partito trasversale del conduttore televisivo (quello degli intelligenti, spiritosi e democratici per definizione).
Immaginate, per immedesimarvi meglio nella situazione, che la loro pelle sia trasparente e i tutti gli impulsi nervosi visibili come minuscole scintille.
Mentre la conversazione si svolge nell’arco, poniamo, di trenta minuti, le teste dei due protagonisti, contenenti le loro lingue e i cervelli a cui si suppone siano collegate, se ci poniamo al grado minimo di miniaturizzazione concepibile in omaggio alla fisica di base, subiscono qualcosa come 1050 passaggi di stato riguardanti una progressione relativa a un sistema che assomma complessivamente (alla fine del gonfiarsi dell’orizzonte causale legato alla velocità della luce) 10100 componenti (le cifre sono gettate lì un po’ a caso tanto per fare cifra tonda e fornire una idea degli ordini di grandezza in gioco).
Vi pare che inezie del genere possano dare conto dei raffinatissimi concetti diffusi nel frattempo dallo schermo televisivo e spiegare per esempio una dotta tautologia pervasa inesplicabilmente da quel senso di mirabile acume che spetta di diritto a persone convintissime del proprio mirabile acume, grazie al successo sociale ed economico e a prescindere dai circuiti logici effettivamente avviati nella conversazione indicata e anche prima o in seguito, nell’esistenza ordinaria (rapporti interpersonali, etologie antropologiche e coltivazioni sociologiche a parte)?
Come può una qualsiasi combinatoria, per quanto immane e intricatissima, rendere il senso autoreferenziale della pienezza di sé che sperimenta e comunica un’anima veramente superiore?
Una precisazione si impone comunque: il conduttore televisivo e l’ospite illustre che chiacchierano amabilmente diffondendo via etere le proprie squisite e molto impalpabili fragranze intellettuali non potrebbero raggiungere tali vette di sublime immaterialità se ossa, muscoli, tessuti e nervi facciali e cerebrali non fossero stati forgiati da miliardi di anni di processi evolutivi accelerati soprattutto a partire dall’ultimo mezzo miliardo.
L’accelerazione potrebbe essere dipesa dal lavorio incessante dei microrganismi primitivi nel senso che finalmente quelle stakanoviste insulsaggini, la cui massa complessiva supera quella di tutti gli altri esseri viventi messi assieme e che, almeno in parte, sopravviveranno a qualsiasi catastrofico evento che non sia una esplosione solare, a un certo punto si sono decise a costruire le basi della vita più complessa, ovvero quel novero non proprio sparuto di geni che, con varianti compatibili nell’ordine delle centinaia e non di più, sono identificabili a qualsiasi livello della scala organica, dagli invertebrati all’auto-nominato semidio dell’universo.
Ciascuno di tali geni, se fosse stato estratto per caso, avrebbe rappresentato una coincidenza dalla probabilità quantificabile in circa uno su 41000, ovvero più di 10500 ovvero (più o meno, tanto per dare una idea) un singolo biglietto della lotteria su un totale di biglietti numeroso come tutti gli atomi dell’universo aggiunti al mazzo tante volte quanti sono gli attuali esseri umani, il tutto moltiplicato per se stesso almeno 5 volte.
Quanti tentativi sono stati fatti dai microrganismi primordiali per estrarre a sorte quelle meraviglie?
Se i conti non tornassero, rimangono comunque aperte altre possibilità: 1) Dio ci ha messo lo zampino; 2) non bisogna considerare i tentativi portati a termine soltanto in quel determinato periodo della storia terrestre, ma i tentativi avvenuti in tutti i tempi potenzialmente illimitati di un multiverso potenzialmente illimitato (dico ‘potenzialmente illimitato’ perché l’infinito non si può concepire, men che meno secondo un’azione causale); 3) si devono considerare tutte le combinazioni di geni comuni tra specie, qualunque siano i geni e le specie i cui incroci siano compatibili tra di loro, nel qual caso la storia evolutiva effettivamente realizzatasi sulla Terra (con la scelta puramente deterministica e casuale di un solo tipo di combinazioni o con l’aggiunta di selezioni competitive anch’esse esposte alle casualità naturalmente connesse a ogni forma di determinismo) sarebbe solo una tra innumerevoli altre e l’umanità un prodigio tra innumerevoli altri, magari più prodigiosi e durevoli.
Il punto 2) mostra implicitamente che il principio antropico debole (l’affermazione che gli esseri umani vivono in un mondo configurato in modo tale da consentire la comparsa degli esseri umani), come altre ovvietà quasi tautologiche, non rappresenta soltanto un’ovvietà quasi tautologica, ma sottintende un principio esplicativo di generalissima portata così formulabile: nel multiverso potenzialmente illimitato accade ogni cosa possibile a prescindere da quanto enormemente piccola sia la sua probabilità di accadere e quando l’accadimento accade la sua improbabilità incomprensibile non svuota di senso quei meccanismi causali in base ai quali quell’improbabilità può essere considerata eccessiva.
Quello che conta, insomma, è che certi meccanismi causali implicanti l’auto-organizzazione e la conservazione dell’informazione all’interno delle forme auto-organizzate consentano forme improbabili e che praticamente tutte le forme effettivamente realizzate, nessuna esclusa, risultino alla prova dei fatti, per la debita considerazione dei determinismi basilari, estremamente improbabili e casuali.
Lo scrivente ritiene le proposizioni usate nella dimostrazione desumibili dai risultati della prassi scientifica nell’ottica di un realismo ontologico in assenza del quale ogni tipo di scienza equivarrebbe a una sorta di esercizio magico propiziato dall’intervento ad hoc di un supremo gestore di illusioni, le quali illusioni, in quanto illusioni, potrebbero ricomporsi in un quadro unitario e coerente solo grazie ai virtuosismi del medesimo Mago Supremo.
Per non lasciare il minimo adito a equivoci e a costo di rivangare la solita solfa, ribadisco che le premesse qui riportate vanno considerate ovvietà a meno di non considerare come venerazione o dovuto omaggio offerti al Dio creatore di tutta la biosfera l’atto di considerare tale creatore non tanto il creatore della biosfera, quanto il creatore di anime umane a cui la biosfera appare nient’altro che un gioco di illusioni di secondaria importanza ontologica rispetto alla mirabile sostanza (esemplificabile da tutti gli eventi storici di cui si trova traccia nei libri nonché da tutti i programmi televisivi) delle stesse anime umane.
Se io fossi Dio, mi incazzerei non poco per certi insulti dei miei adoratori, ma per la fortuna di tali adoratori e a differenza loro, io non ho proprio nulla di divino, anche se, in fondo in fondo, a Lui potrei piacere proprio per questo.
Altre considerazioni di tipo scientifico
La biosfera contiene l’umanità come una sua parte perfettamente omogenea, anche se quantitativamente e materialmente irrisoria.
La parte quantitativamente e materialmente irrisoria dell’umanità condiziona al presente gli equilibri e le modificazioni della biosfera più di qualsiasi altra parte della biosfera, nel senso di accelerare decorsi e durate di assetti e complessi che, in assenza dell’umanità, mostrerebbero tempistiche molto più rilassate.
Si può quindi ritenere l’umanità una causa scatenante di eventi catastrofici (per esempio, la sesta estinzione), dato che soltanto gli eventi catastrofici (come una ipotetica mega eruzione del super-vulcano latente incentrato su Yellowstone o l’asteroide di fine Cretaceo) possono arrivare a turbare le disposizioni strutturali della biosfera con la stessa forsennata rapidità e travolgente efficacia.
Un sotto-sistema quantitativamente e materialmente irrisorio può arrivare a condizionare il sistema maggiore di cui fa parte soltanto promuovendo fenomeni energetici in una misura aggiuntiva tale da accelerare enormemente i processi di scambio tra parte irrisoria e parte complessiva e infatti l’impulso energetico inferto dall’umanità al pianeta è paragonabile alla quantità di energia solare effettivamente assorbita da tutti gli altri esseri viventi (la restante parte controlla la temperatura del pianeta a prescindere dall’umanità e dagli altri viventi o viene in qualche modo riflessa senza comportare effetti sensibili).
La parte di stabilità della biosfera che riguarda le specie viventi di cui l’umanità fa parte viene quindi pesantemente coinvolta da scambi tra umanità e biosfera in un ordine di misura paragonabile o addirittura superiore al volume di scambi che concernono complessivamente le altre specie viventi umanità esclusa.
Che questo volume di scambi risulti molto inferiore alla quantità di energia solare che, nelle varie forme, coinvolge atmosfera e superfici terracquee, non tranquillizza: se per miliardi di anni le specie viventi hanno utilizzato al massimo pochi millesimi dell’energia solare disponibile, ciò implica limitazioni alquanto strette al carico entropico che la vita può scaricare sul pianeta e porta a considerare con grande preoccupazione il raddoppio in tempi brevissimi di quel carico e l’incredibile appesantimento con plastiche e altri inquinanti di atmosfera e oceani.
Un brusco (non reversibile) apporto esterno di energia in un sistema in equilibrio prima isolato comporta la creazione di processi che degradano tutte o in parte le energie potenziali del sistema (energia ‘libera’ o ‘ordinata’) in aumenti di temperatura e di entropia combinati in modo tale che il prodotto delle loro quantità non solo eguagli, ma addirittura superi l’energia aggiunta.
Ciò significa in sostanza che il degrado dell’energia potenziale per impulsi aggiuntivi si traduce in calore e disordine e il calore e il disordine generati danno vita a un nuovo equilibrio del sistema nuovamente isolato, riformando oppure no riserve inferiori di energia potenziale all’interno di un assetto strutturale più o meno variato.
In un sistema in stato stazionario, l’apporto costante e uniforme di energia e i processi da esso favoriti raggiungono un equilibrio mobile in cui la produzione di entropia si fissa a livelli inferiori rispetto a qualsiasi altro stato mobile che sia instabile e perturbato.
Sistema isolato in equilibrio e sistema in stato stazionario rappresentano ovviamente idealizzazioni concettuali mai perfettamente realizzate in natura, le quali tuttavia servono bene a comprendere e interpretare i fenomeni ambientali.
Una corretta valutazione di tali fenomeni porta rapidamente a concludere che il riscaldamento da gas serra rappresenta una componente importante del degrado climatico, ma non è la sola e forse non è neppure la più importante.
Veramente importante, alla luce delle problematiche complessive, risulta il raggiungimento di uno stato stazionario adeguato che aiuti a porre la questione dei gas serra nella giusta prospettiva.
I gas serra rappresentano infatti sia un apporto inquinante che un apporto fertilizzante.
Una diminuzione eccessiva danneggerebbe gravemente una produzione di cibo che ‘si nutre’ in ultima istanza di carbonio e inoltre provocherebbe un aumento almeno provvisorio di temperatura se collegato all’assottigliamento di qualche schermo inquinante; una produzione eccessiva spedisce direttamente il pianeta nell’inferno di escursioni termiche assolutamente intollerabili dalle specie viventi anche per i tempi veloci in cui si realizzerebbero.
L’effetto inquinante e l’effetto fertilizzante dei gas serra si combinano in modi pressoché imperscrutabili anche o soprattutto perché le rispettive gravità e i modi in cui si possono compensare o aggravare reciprocamente variano moltissimo da zona a zona del pianeta, da latitudine a latitudine e anche da longitudine a longitudine (data la disposizione delle masse terracquee) e le variazioni delle varie zone climatiche si influenzano a vicenda.
Un sistema isolato e in equilibrio non può realizzare forme organizzative più complesse di quelle previste dalle proprie variabili di stato termodinamico: se realizza queste forme più complesse (e può sempre farlo, ma con probabilità tanto più piccola quanto è maggiore la loro complessità) non può mantenerle se non per periodi commisurati a quelle probabilità: per mantenere relativamente a lungo forme organizzative complesse ha bisogno di apporti continui di energia esterna.
Anche un sistema in stato stazionario può mantenersi in forme organizzative complesse al di là di certi equilibri termodinamici solo se aumenta il flusso di apporti energetici dall’esterno esportando disordine nell’ambiente più vasto a cui appartiene in misura superiore all’ordine introitato.
Un sistema in stato stazionario che volesse diminuire e non aumentare il flusso energetico dall’ambiente che lo contiene e quindi diminuirne il disordine deve semplicemente mantenere uno stato termodinamico compatibile.
Una economia automatizzata risulta quindi produttrice di ordine nell’ambiente che la contiene (sia esso inteso come ambiente sociale o ambiente naturale) soltanto se diminuisce le proprie componenti in una proporzione pertinente alla sofisticazione dei propri meccanismi, altrimenti, da un punto di vista allargato (che non è certo quello delle élite che detengono la maggioranza di priorità, diritti ed esclusive sull’automazione) produce soltanto sconquassi.
Da un punto di vista strettamente termodinamico, una economia automatizzata che non riduce il numero di esseri umani a quella quantità strettamente necessaria a mantenere stabili i processi automatizzati produce molta più entropia ambientale che una società arretrata anche perché sostituisce un ceto medio che potrebbe godere ordinatamente di un moderato benessere gestibile, almeno sulla carta, dal punto di vista della sostenibilità, con masse informi di disoccupati e precari la cui sopravvivenza dipende da un iper-attivismo magari encomiabile dal punto di vista di un certo moralismo dogmatico e autoritario, ma di sicuro nocivo per la salute ambientale e climatica del pianeta.
Il dinamismo prometeico del sistema unico liberista, che non ruba il fuoco agli dei, ma lo ottiene da Dio con meriti da primo della classe, ci propina appunto il bel capolavoro di masse assatanate di piccoli borghesi assatanati al posto delle masse tradizionali tradizionalmente organizzate, il tutto ben esemplificato da una tipica metropoli da ‘paese emergente’ con un nucleo ristretto di grattacieli svettanti e immense periferie che degenerano gradualmente in baraccopoli pervase dal sacro fuoco dell’imprenditoria naif e fai da te, molto meglio se un po’ criminalizzata (senza esagerare, anche perché la criminalità raffinata alla fine preferisce i grattacieli alle baracche).
Così la destra rude e vitalista, che abita vicino alle periferie super affollate e odia, senza conoscerne veramente il senso, parole come ‘aborto’ e ‘cultura’, si rimbocca le maniche e acquista punti presso i vari trafelati abitanti, la sinistra raffinata che abita i piani più alti del centro quando guarda dalla finestra confonde tutto in una nebbia inquinata, mentre la sinistra vera, che non è più di moda e forse non è mai esistita se non in rigide forme de-soggettivate e marxiste, non può manifestarsi più di tanto se non vuole qualche pugno sui denti.
E i liberali?
Fanno la cosa più inutile: predicare ovvietà razionali che giustamente annoiano per la loro ingenua astrattezza tutti i benemeriti fecondatori di un mondo ribollente ed esplosivo abbagliato da colorite panzane fideiste.
I liberali (mutatis mutandis) dovrebbero professarsi progettuali come gli antichi marxisti o magari certi reazionari iper-idealisti, ma come si fa ad abbinare Progetto e Libertà? Andiamo signori, siamo un po’ realisti! Il vero liberale analitico e fattivo deve limitarsi a sognare concretamente libertà che nell’attuale sistema risultano generalmente impossibili e rarissime perfino nelle fasce privilegiate più diffuse: dopo averle confezionate in prodotti intellettuali contrassegnati da quell’alta ingegneria di cui le élite liberiste e quindi illiberali detengono l’esclusiva assoluta, gonfia il petto orgoglioso di sé e giudica senz’altro utopistici e assurdi progetti che, in cerca delle stesse libertà fondamentali, ridisegnino il sistema delle soddisfazioni corporali e ‘spirituali’ in modo sostenibile, in un modo, cioè, che un tipo o l’altro di sviluppo oggi concepibile senza Progetto non potrà mai soddisfare, dato che qualsiasi sviluppo secondo i canoni attuali diventerà o socialmente o climaticamente insostenibile nel volgere di pochi, pochissimi secoli, come tutte le persone intelligenti sanno bene, con probabilità di rischio inferiori, ma sempre elevatissime (se commisurate ai costi e alle sofferenze implicate), che riguardano la singola decina di anni.
NOTA N.09 (5 agosto 2022)
RIASSUNTO SINTETICO ED ESSENZIALE Di ALCUNE PUNTATE SCIENTIFICHE E MATEMATICHE PRECEDENTI INTESO A DIMOSTRARE SCIENTIFICAMENTE E MATEMATICAMENTE CHE LA PUREZZA DELL’ORDINE SCIENTIFICO E MATEMATICO E’ PURA ILLUSIONE E L’UNICA POSSIBILITA’ CHE L’UMANITA’ CONSERVA ANCORA (FORSE) DI NON PRECIPITARE IN UN ABISSO ENTROPICO IMPLICA UNA RESA SCIENTIFICA E MATEMATICA DELLA POMPOSA MEGALOMANIA TEO-TECNOCRATICA O TECNO-TEOCRATICA AL DIVINO O ‘DIVINO’ DISORDINE DI MADRE NATURA.
E’ ferma opinione di chi scrive che l’ultimo teorema di Fermat avrebbe potuto e dovuto rappresentare per i moderni uno scandalo metafisico analogo a quello della scoperta dell’incommensurabilità da parte dei pitagorici, ma in realtà ciò non è avvenuto per due motivi principali: il primo è che i ‘moderni’ , ovvero i protagonisti dell’era industriale, non si scandalizzano più di niente salvo del fatto, come testimonia il caso Wikileaks, che esistano ancora figure infide, losche e spregevoli (come, per esempio, Assange) così oscenamente tracotanti da adibire concetti desueti come le verità fattuali per bestemmiare contro i diritti teologici dei poteri forti; il secondo è che, appunto, le verità fattuali sono trite e anacronistiche e, al contrario di quanto avveniva nell’antica civiltà greca, l’equivoco epistemologico moderno che domina la scena a ogni livello sociale e professionale non ha mai ritenuto che matematica e scienza potessero servire a descrivere autonomamente qualsiasi realtà effettiva: esse, se dimenticano la propria, peraltro mirabile, funzione di servizio e ambiscono a un minimo di probabilità di successo in questioni di alta conoscenza, necessitano del complemento insostituibile e fondamentale concesso dalle istituzioni religiose nel pacchetto premio o regalo di quelle fantasiose metafore che solo le persone ‘veramente’ intelligenti sanno tradurre e interpretare in qualità di ‘autentica’ erudizione esistenziale e intellettuale.
Tutto ciò comporta conseguenze alquanto curiose: per esempio, il terzo di popolazione in fase di calo sempre più veloce che può definirsi in senso lato benestante e che controlla in buona sostanza i gangli vitali di una società, può tranquillamente e in perfetta buona fede non accorgersi che il dominio di un terzo (valutazione già molto generosa) non rappresenta il dominio di una maggioranza (il che, beninteso, non significa necessariamente e automaticamente governi peggiori) e quindi la democrazia di un terzo in fase di calo sempre più veloce non rappresenta una democrazia, bensì una dittatura giovinetta in florida e prosperosa maturazione; in un altro esempio, i super-specialisti competitivi impegnati a eccellere nella propria particolare disciplina non possono permettersi di perdere tempo e chiacchiere in lambiccate ispezioni delle basi concettuali che fondano le proprie nozioni disciplinari a prescindere dal loro livello di elaborazione e raffinamento e così, ogni volta che quelle nozioni esorbitano dal proprio ambito settoriale per coinvolgersi in dinamiche più vaste e generali dove le basi concettuali non si limitano a servire, ma agiscono secondo la logica ormai screditata dei fatti, costoro (i super specialisti competitivi) pensano ancora di essere i primi della classe e si rivelano invece (nel contesto molto più allargato rispetto alle loro specificità professionali) dei pierino somari con il naso e le orecchie lunghe che però non stanno dietro la lavagna, ma davanti e con la riga in mano.
Imbecilli, somari…: forse il giovinetto impulsivo e presuntuoso che scrive, rigurgitante di energie incontenibili quanto privo di severa ponderazione e solida disciplina, meriterebbe di calmarsi grazie a una buona strigliata.
In realtà, di fronte alle modeste e ordinarie evenienze dei semplici decorsi vitali, siamo tutti succubi, imbranati e ignoranti, al punto che l’invenzione di un nume tutelare risulta a tutt’oggi uno degli espedienti darwiniani più efficaci tra quelli ‘inventati’ dalla specie umana.
Le problematiche spinose e perfino esiziali non riguardano le singole esistenze e le singole intelligenze, riguardano appunto i meccanismi darwiniani che si innescano allargando il contesto dall’ambito individuale a quello famigliare, poi a quello sociale e poi cittadino e poi regionale e poi nazionale e poi europeo e poi mondiale, passando da tutti i gradi intermedi o combinati.
La domanda cruciale rimane: quali sono le eccellenze che assegnano migliori probabilità di riuscita nelle varie tenzoni darwiniane per attribuirsi posizioni di influenza e rilievo ai vari livelli?
La mia risposta è: quelle eccellenze darwiniane che badano al sodo delle congiunture specifiche ignorando quegli aspetti astratti, morali e filosofici dei problemi che hanno parte importante comunque nel macchinario diplomatico indispensabile per spianarsi la strada tra coadiutori o concorrenti e vengono quindi attentamente coltivati a livello comunicativo e ornamentale.
Proprio qui emerge il difetto fondamentale nelle modalità di quella amministrazione planetaria che l’umanità, volente o nolente, si è assunta: non esiste differenza alcuna tra qualità astratte, morali e filosofiche e qualità concrete, sostanziali e operative e questo avviene perché tra principi base elementari ed eventi effettivi complicati esiste un solo tipo di processo mediatore e questo è, detto in soldoni, l’esplosione combinatoria generatrice di entropia.
Ecco perché io parlo di imbecilli e di somari in relazione a persone che, almeno per certi e non trascurabili riguardi, non possono non essere più abili e perspicaci della media: perché tra i meccanismi darwiniani che ne facilitano i successi figura in primo piano la concezione che considera i principi base come una impalcatura metafisica che domina e regola comunque le situazioni anche quando gli attori sono costretti, per motivi pratici e congiunturali, a prescinderne, concezione che ignora o deliberatamente oblitera quelle esplosioni combinatorie generatrici di entropia la cui adeguata considerazione costituirebbe un intralcio invalidante sulla strada già tortuosa di una faticosa carriera.
Una filosofia è sempre, in qualche misura, una epistemologia ovvero un tipo di analisi che, in estrema sintesi, confronta la visione complessiva che si ha di un certo ambiente di riferimento con le manipolazioni specifiche che vi vengono effettuate.
La mia filosofia mi dice semplicemente che la visione generale del mondo che il grosso dell’umanità ha nutrito e sviluppato per secoli (fondata soprattutto sulla preminenza ontologica e la trascendenza mentale o spirituale dell’umanità rispetto al resto della natura) è semplicemente falsa e, detto con estrema semplicità, assolve indiscriminatamente l’umanità per comportamenti distruttivi verso quello che l’umanità non ritiene fondamentale e da cui invece dipende la sopravvivenza dell’umanità.
L’umanità, insomma, si assolve da sola mentre compromette le risorse che la tengono in vita e si giustifica davanti a se stessa adducendo la propria eccezionalità categoriale rispetto alle risorse medesime.
Però, come vedete, io mi rivelo inguaribilmente ottimista.
Un vero pessimista potrebbe esprimere in altro modo lo stesso concetto generale, ovvero così: l’umanità non vede oltre l’orizzonte temporale delle vite presenti e lo ritiene abbastanza ristretto da evitare spiacevoli sorprese almeno per le ristrette minoranze che rappresentano a pieno diritto metafisico il volere dell’umanità.
Ogni funzione matematica concretamente calcolabile può essere illimitatamente approssimata da una funzione polinomiale (vedi, a supporto almeno intuitivo di tale affermazione: interpolazione lagrangiana, sviluppi in serie delle funzioni analitiche, automi universali o macchine di Turing esprimibili attraverso equazioni diofantee).
Funzioni polinomiali manifestano la cosiddetta autosimilarità passando da una unità di misura all’altra e ciò in base alla semplice formula
1) f(kx) = f(k)f(x)
La formula 1) dimostra anche che ogni legge polinomiale, pur replicandosi in modo formalmente identico su scale diverse, vale soltanto in una specifica dimensione determinata dalla scelta dell’unità di misura e deve essere riadattata cambiando unità di misura (23 metri equivalgono a 80 decimetri mentre 20 decimetri elevato a 3 fa 8.000)
Questo aspetto non è colto dall’analisi differenziale e impedisce, come sarebbe perfettamente logico e razionale se la matematica riflettesse il funzionamento del mondo reale, che la formula
2) f(x+1) -f(x)
approssimi una derivata semplicemente adottando unità di misura sempre più piccole (come avviene nel caso di esponente intero positivo minore o uguale a 2 e per le altre funzioni analitiche, in modo analogo a quanto avviene in geometria solida per i volumi di coni e piramidi studiati in precedenza nel continuo e nel discreto)
In effetti, per equazioni polinomiali con qualche esponente maggiore di 2 e coefficienti positivi da entrambe le parti del segno di uguaglianza, la formula 2) si discosta sempre di più dalla formula di derivazione e ciò riflette la specificità dimensionale delle funzioni di potenza.
La mancata approssimazione della 2) a una formula di derivata attraverso una riduzione progressiva delle unità di base (il significato fisico del valore 1) rivela uno degli aspetti perversi dell’infinito attuale reso evidente dalla constatazione che la formula di derivata
3) D(xn) = nxn-1
non è ottenuta tramite avvicinamento illimitato di una successione (come avviene invece nel caso delle funzioni esponenziali e circolari) bensì tramite un vero e proprio atto di magia che presuppone quel superamento di un infinito in atto in cui in effetti consiste l’adozione per i calcoli di una particolare variabile ai fini di ottenere un risultato che in effetti viene raggiunto, ma solo dopo avere azzerato il medesimo valore utilizzato per i calcoli (clamorosa riabilitazione delle critiche di Berkeley e perfino di Hobbes)
La formula di derivazione per le funzioni di potenza si ottiene calcolando il polinomio quoziente ( xn – x0n) / (x – x0) e azzerando poi x - x0, mentre nel caso delle funzioni esponenziali e circolari la formula deriva trattando un termine separato che non contiene la x tramite una riduzione al limite perfettamente lecita nella prospettiva di un infinito solo potenziale.
La verità dell’ultimo teorema di Fermat, dopo poche e semplici manipolazioni algebriche, si desume dalle precedenti constatazioni e risulta intuitivamente evidente se consideriamo che mentre le accelerazioni delle accelerazioni delle accelerazioni (eccetera) delle differenze
4) (x+1)n – xn
crescendo x sono evidenti nel caso discreto, esse vengono completamente obnubilate dalla formula di derivazione.
L’equazione §0b nxn-1 dx = §ac nxn-1 dx conserva la proporzionalità passando da x a kx, il che non avviene nel caso discreto.
L’ultimo teorema di Fermat adombra insomma il seme di contraddizioni insanabili insite nel concetto di infinito attuale e quindi nell’inferno di Cantor, la malignità del quale inferno, già implicita nei teoremi logici di Loewenheim / Skolem e di Goedel / Cohen, viene definitivamente asseverata dall’appiattimento della famosa scala di infiniti di Cantor a cui dà luogo proprio l’accettazione supina da parte di Cantor dell’esistenza di un infinito attuale.
Se infatti accettiamo la famosa argomentazione diagonale di Cantor, dobbiamo operare la trasformazione degli elementi sulla diagonale fino alla fine di una sequenza infinita (se ci fermiamo prima della fine dell’infinito basta operare un trasferimento analogo a quello degli ospiti nella classica metafora dell’albergo infinito per ripristinare il collegamento uno a uno con i numeri interi).
L’argomento diagonale di Cantor (che presuppone di arrivare alla fine di un infinito) funziona anche perché le cifre dei numeri messi in sequenza non realizzano una matrice quadrata, ma una matrice le cui colonne sono infinitamente superiori alle righe: questo avviene perché lo dice Cantor e Cantor ha ragione perché infatti, se non ce l’avesse, l’argomento diagonale non funzionerebbe (Cantor ha ragione anche perché è un santo mentre Kronecker si è rivelato un mastino rabbioso con la bava alla bocca)
L’argomento diagonale di Cantor, ovvero l’esistenza di un infinito attuale che si può scavalcare con un singolo atto mentale, come del resto tutta la schiera degli infiniti successivi, in realtà è molto più potente di quello che sembra: infatti non dimostra soltanto che quella schiera di infiniti esiste, ma anche che sono tutti sia infinitamente più infiniti dell’infinito dei numeri interi (vedi dimostrazione di Cantor) che infiniti esattamente come la sequenza dei numeri interi (vedi dimostrazione che segue).
Consideriamo infatti l’abbinamento uno a uno tra numeri determinato dalla corrispondenza
5) n > n (1 con 1, 2 con 2 ecc.)
Rivendicando i clamorosi privilegi del metodo diagonale ossia la facoltà di superare con un solo salto mentale la fine della fila infinita dei numeri interi, tale complicatissima relazione dimostra che la potenza di infinito dei numeri interi uguaglia la potenza di infinito dei numeri reali senza parte frazionaria.
Consideriamo ora la corrispondenza addirittura più complicata:
6) n > 1 / n
Rivendicando le stesse prerogative magiche e divine di cui sopra, essa dimostra che la potenza di infinito dei numeri interi uguaglia quella delle frazioni con numeratore 1.
Ora per provare che il metodo diagonale di Cantor è così potente da provare tutto e il contrario di tutto, è sufficiente seguire ancora Cantor quando dimostra che la sequenza dei numeri interi può essere messa in corrispondenza biunivoca con la sequenza di tutte le coppie (o gruppi di 3 o 10 o 1000 o quello che volete) degli stessi numeri.
Cantor è un vero mago, anche se mi chiedo, a volte, quando mi coglie l’uzzolo di perverse trasgressioni, se l’atto di magia che porta da un infinito solo potenziale a un infinito attuale superabile con un acrobatico salto mentale alla fine non consista in un gigantesco fraintendimento relativo alla calcolabilità o meno delle sequenze ovvero alla loro riducibilità nei termini delineati, per esempio, dalla teoria algoritmica dell’informazione.
Se l’infinito attuale non esiste o comunque si trova al di fuori di ogni possibilità di ragionamento rigoroso e coerente, Dio ovviamente non esiste o non è accessibile alla mente umana e la realtà del l’universo (e quindi, per quanto ci interessa di più, della natura del pianeta Terra e della biosfera) rimane sostanzialmente imprevedibile e incontrollabile al punto che l’unico comportamento scientifico e razionale compatibile con la sopravvivenza dell’umanità nell’arco di (pochi, pochissimi) secoli rimane il coordinamento di tutte le organizzazioni umane ai fini di conseguire elementari esigenze di qualità relative a ogni esistenza individuale insieme all’assenza totale di turbative e squilibri in grado di incidere pesantemente sugli equilibri ambientali.
E’ chiaro che, per pervenire a questo tipo di visione progettuale, bisogna liberarsi delle zavorre di una quantità allucinante di illusioni e mitologie teo-tecnocratiche o tecno-teocratiche, il che significa buttare a mare le religioni degli atei, dei falsari e dei fasulli senza al contrario abbandonare l’autentica e sola religione possibile ovvero quella di una scienza e una tecnologia rispettose delle impostazioni e dei canoni predisposti da Dio o da ‘Dio’ ai fini di poter condurre ragionamenti corretti e confrontabili.
Non si tratta di deliri utopistici, si tratta di ritornare senza pregiudizi ai presupposti originari del liberalismo correggendo errori, degenerazioni e devianti abnormità, tutto il contrario, insomma, almeno in linea tendenziale, rispetto a quello che si sta tuttora facendo in qualsiasi parte del mondo, comprese quelle che vorrebbero insegnare alle altre ideali di libertà che, ridotti alla sola valenza economica, diventano, appena oltre certe soglie di tollerabilità, l’esatto contrario di quello che fingono di proclamare.
NOTA N.08 (14 giugno 2022)
RICOGNIZIONE , IN PARTE LOGICO-SCIENTIFICA E IN PARTE STORICO-LETTERARIA (CARATTERIZZATA DA UN GRADO DI RIGORE INFERIORE ALLA DIMOSTRAZIONE ELEMENTARE DELL’ULTIMO TEOREMA DI FERMAT E PIU’ SIMILE ALLE ALTRE TRE DIMOSTRAZIONI ELEMENTARI) DEL COME E DEL PERCHE’ (CON UNA TRANSIZIONE TRA LA FANTASIOSA METAFORA E LA NUDA OGGETTIVITA’ INVERSA RISPETTO A QUELLA QUASI SCONTATA CHE COINVOLGE NIENTEMENO CHE DIO, DA UNA PARTE, E ‘DIO’ DALL’ALTRA) GLI ‘IMBECILLI’ DELLA VECCHIA EUROPA POTREBBERO RIVELARSI, IN UN PROSPETTO COMPLESSIVO INDIPENDENTE DALLE INTELLIGENZE INDIVIDUALI, PURI E SEMPLICI IMBECILLI E INTANTO BIDEN E PUTIN SCALEREBBERO LA GERARCHIA IMPERIALISTA PERVENENDO AL GRADO MASSIMO DI IMBECILLE SUPREMO (CON TORREGGIANTI MAIUSCOLE) SOLO DOPO LA DISTRUZIONE DI UN INTERO PIANETA.
Questa prolusione, risultando puramente culturale e teorica, pessimista solo nel nobile senso di preavvisare i veri aristocratici dello spirito (e chi, se no? La mente disincarnata del Popolo? I progressisti o populisti su mandato dei re?) circa i pericoli bestiali che incombono oggettivamente su un immediato futuro, non è passibile di inserimento in una qualsiasi lista di proscrizione, neppure in quella, molto generosa perché allontana qualsiasi ipotesi di carcerazione e tortura, dei miserabili mentecatti senza arte né parte, dei pittoreschi tontoloni d’accatto, almeno non prima di aver dimostrato, cosa plausibilissima, ma proibitiva per i proscrittori di provato talento, l’improponibilità della parte scientifica e matematica.
Dato il carattere particolare della propria intelligenza, garante di un minimo di successo e quindi storicamente ed etnicamente connotata al punto di apparire, una volta prese le dovute distanze, ‘bizzarra’ come gli uomini con le ghette e i baffi a manubrio, un abile proscrittore dovrebbe possedere la prudenza di proscrivere solo i comprovati malandrini in malafede mossi da deliberati intenti delinquenziali: se proscrivesse liberi pensatori (che, come tali, politicamente hanno sempre contato poco e sociologicamente anche meno) per adempiere a compiti di responsabilità sociale dovrebbe proscrivere anche se stesso, in quanto rappresentante di pericoli che qualsiasi governo intelligente dovrebbe temere grandemente, come la malafede o la stupidità.
Si obbietterà che le nozioni di intelligenza e onestà (sociali o meno) non sono state fissate in termini artificiali e ultimativi neppure in regimi dittatoriali, figurarsi in una democrazia con o senza le virgolette, al che io posso solo ribadire: appunto!!!!!
Cionondimeno, nel giugno del 2022, per farsi mettere una croce sopra anche senza entrare in qualche lista di proscrizione, ai mentecatti tontoloni seguaci di Monsieur de La Palisse, come me, basta ripetere le cose più ovvie e scontate, tanto ovvie e scontate da irritare a sangue i formalisti e interessati custodi di dogmi e convenzioni, pragmatici o assolutisti che siano.
Per esempio: parlare dell’esistenza di qualcosa che non possiamo comprendere non ha senso e quindi non ha senso parlare di Dio; fare finta di comprendere qualcosa di incomprensibile comporta mistificazioni narcotizzanti accanto a volgarizzazioni e declassamenti pericolosi di materie delicate e cruciali; la tecnologia umana, che non comprende veramente l’universo, ma solo il proprio ombelico, finora si è inserita nel mondo naturale come un elefante in un immenso negozio di cristallerie; il negozio di cristallerie della Natura esiste ancora soltanto perché è immenso nella prospettiva di decenni di età industriale; il negozio di cristallerie della Natura si rivelerebbe però l’equivalente di un asfittico bugigattolo nella prospettiva di millenni (di età industriale) e intanto l’elefante della tecnologia continua a gonfiarsi migliorando gli impatti ecologici e ambientali in misura gravemente insufficiente rispetto alla dilatazione; nel negozio di cristalleria, l’elefante della tecnologia evita, se possibile, i movimenti bruschi, ma quando certi insetti lo mordono negli occhi, all’interno della proboscide o nell’ano perde facilmente il controllo; l’atlantismo e l’europeismo sono costruiti su quei principi reaganiani e thatcheriani che hanno scientemente e metodicamente demolito i diritti e le protezioni del lavoro insieme all’autodeterminazione dei popoli, soprattutto di quelli poveri; l’atlantismo e l’europeismo, allentando fino allo scioglimento i controlli politici dal basso, hanno creato gerarchie autonome di rappresentanti che fingono di rappresentare gli elettori, ma in effetti rappresentano soltanto la classe dei rappresentanti; l’economia non è una scienza, ma una tecnica di gestione più o meno rigorosa nella cornice di ben precisi modelli produttivi; scegliendo un diverso modello produttivo, gli assunti e i manuali della ‘scienza’ economica cambierebbero radicalmente, stravolgendo interi sistemi di equazioni (come quelli, per esempio, che legano tassi di interesse, debiti pubblici e debiti privati) e interi sistemi di concetti (come quelli di interesse e di debito); i tassi d’interesse attuali penalizzano i debiti pubblici mentre assolvono o addirittura incoraggiano i debiti privati, ma, in uno stato che non fosse una colonia priva di autonomie sostanziali, il deflagrare dei debiti privati nei confronti degli altri indici economici dovrebbe essere considerato molto più pericoloso, a meno di non tenere in riserva inflazioni a due cifre per sistemare le cose nel modo più conveniente ai grandi interessi; il fallimento del comunismo reale non comprova niente di decisivo nell’ottica di un effettivo confronto di modelli: basta pensare che i computer che sovrintendevano ai piani centralizzati di programmazione economica erano molto meno potenti di un qualsiasi telefonino cellulare di oggi; se il particolare modello cinese fallisse (per un osservatore alieno, neutrale, ma dotato di humour, sarebbe però più divertente se prima fallissero gli USA o l’Europa), ciò potrebbe imputarsi a una sbagliata combinazione di modelli o al mancato sviluppo del modello comunista originale; l’ottimismo internazionalista delle sinistre ‘radical chic’ ha reso il liberismo illiberale molto più ipocrita, ma non meno distruttivo, astenendosi da incisive compromissioni intorno all’economia reale e cinguettando soprattutto su quelle rivendicazioni delle minoranze che non interessano veramente a nessuno e men che meno, se guardiamo a fondo, alle stesse minoranze; le minoranze legate ai fenomeni migratori appartengono a un altro genere di discorso, riguardo al quale il compito affidato alle ‘sinistre’ riguarda l’incoraggiamento e l’accoglienza, mentre quello affidato alle ‘destre’ il monito e la messa in riga, atteggiamenti complementari ai fini di garantire l’aumento di un Pil che (a testimonianza che, per le fasce basse, si tratta sempre più di un giro del fumo) frana quando franano gli indici demografici; quando i problemi delle minoranze diventano concreti e pregnanti, come nel caso dell’eutanasia (problema relativo ad anni su anni di lancinante sofferenza per singoli individui scarsi e irrilevanti) la sinistra scompare, perché i trasversali instrumenta regni della religione sono questione troppo delicata e l’addestramento al dolore attenua gli individualismi delle masse e sostiene la governabilità; il comunismo sovietico è crollato soprattutto perché i problemi strutturali rendevano ormai insostenibile per la classe dirigente un certo tipo di aggiustamenti, lubrificazioni e licenze (eufemismo); quegli eufemistici aggiustamenti, lubrificazioni e licenze rappresentano un grosso problema per la legittimità di un regime dittatoriale che non può evitare un certo tipo di imputazioni, diventano invece un fatto scontato e irrilevante laddove le cittadinanze se ne assumono buona parte del peso grazie a un regime di ‘libertà’; il crollo del comunismo sovietico ha imposto ai partiti di sinistra europei, per ragioni di pura sopravvivenza economica, modelli di gestione che in pratica li rendevano tutto fuorché partiti di sinistra; partiti di sinistra effettivi che concordino con l’attuale sistema rappresentano una pura e semplice contraddizione; partiti di sinistra effettivi, se esistessero, si troverebbero davanti a enormi difficoltà gestionali e già ora i falsi partiti di sinistra che contano qualcosa devono adattarsi al gioco sporco di coprire sotto le apparenze di un progressismo fasullo ogni chirurgica mutilazione del welfare assistenziale; se una opposizione vera non esiste e la politica si riduce a un gioco di puri trasformismi, parlare di democrazia e libertà, anche quando non è puro non senso, sguinzaglia comunque la fiera dei qui pro quo, i teatrini dell’assurdo, le commedie degli equivoci, i dialoghi tra sordi, un polverio di confusioni semantiche a cui sfuggono solo banchieri e industriali che sanno quello che vogliono e lo comunicano a pubblicisti che ridicolizzano la politica dei partiti continuando a parlare di democrazia e libertà; un sistema che, all’atto pratico, non dispone di alcuna contromisura nei confronti della crescita continua della ricchezza privata di punta a discapito del benessere pubblico di fatto merita molto più l’appellativo di dittatura che quello di democrazia e ciò a prescindere che si conceda oppure no ai mentecatti che non contano un tubazzo di niente di fare chiasso con strumenti che non contano un tubazzo di niente; finché, in una sorta di lotta tra poveri che stende una sorta di cordone sanitario a tutela delle classi benestanti che ne sono esenti, le cosiddette partite IVA terminali, al contempo proletarizzate e vincolate al liberismo per meri interessi di sopravvivenza, costituiranno i picconatori del welfare assistenziale su commissione di appaltatori a loro volta inseriti in rapporti similari all’interno di un imbuto gerarchico, la falsa democrazia della dittatura oligarchica non necessiterà di alcun tipo di escalation autoritaria, tolleranze ambientali permettendo; purtroppo queste tolleranze stanno cedendo a un ritmo impressionante e ormai gli effetti acceleratori del degrado previsto dagli ambientalisti degli anni 70 del secolo scorso proprio intorno agli anni 20 del 2000 si manifestano inequivocabilmente a tutti quelli che prendano ogni tanto contatti con il mondo naturale; eccetera eccetera (niente nuove pessime nuove)
N.B.: ‘malandrino in malafede’ non equivale a: ‘finanziato da nazioni ostili’. La buona fede consiste nel coltivare sinceramente delle idee, non nel rifiutare finanziamenti da parte di chi è sinceramente ritenuto promotore, per quanto insufficiente e difettoso, di quelle stesse idee. Se, come si è appena osservato, qualsiasi organizzazione anti-sistema è praticamente impossibilitata a sopravvivere appena oltre i nobili dilettantismi del volontariato, risulta perlomeno sospetta la caccia ai finanziamenti ostili da parte di ‘democratici autentici’. Chiunque può mettere in dubbio la sincerità di chiunque, ma non mi sembra proprio il caso di farne motivo di vanto se l’arguzia del fustigatore è destinata a trasformarsi in cauta deferenza nei confronti di sostenitori del sistema rinomati, influenti e... ben pagati: da quando in qua rinomanza e ricchezza (ormai inseparabili) e soprattutto il sostegno a un sistema dominante costituiscono garanzie di sincerità? Di sicuro, anche se non necessariamente, introducono al club esclusivo che rilascia diritti polizieschi di critica invalidante, ma quella può colpire il bersaglio al presente per poi ritornare di rimbalzo sul tiratore in futuro.
Comunque, signori cari ed esimie ciccioline, credetemi se vi dico che mi spiace davvero dirlo sinceramente, eppure a me, chissà come mai, nonostante tutte le mie spossanti cautele (per esempio le virgolette di ‘imbecilli’) e le mie rispettose attenzioni verso l’Unica Santa e Vera Religione, non mi finanzia proprio nessuno (se però qualcuno dei servizi segreti in cerca della canna fumante volesse sganciare, sotto mentite spoglie, qualche sostanzioso migliaio di euro (non fate i tirchi, se l’importo è piccolo che prova del cavolo sarebbe?) lo faccia pure, basta che poi non pretenda di averli indietro).
Esaminiamo sinteticamente e in sequenza (al fine di contribuire a una equa collocazione del presente scritto sulla linea che congiunge le farneticazione di uno scriteriato all’analisi non banale) il grado di rigore e l’importanza concettuale (non trascurabile, a mio modestissimo e interessatissimo parere) delle quattro dimostrazioni relative a: 1) ultimo teorema di Fermat, 2) teorema dei 4 colori, 3) congettura di Goldbach, 4) congettura o ipotesi di Riemann.
Non si tratta di sottolineare la mia intelligenza o la mia stupidità, quanto di sondare in modo semplice, chiaro e inequivocabile i capisaldi scientifici elementari (appunto!) che costituiscono le fondamenta e la rete di nutrimento capillare della mia visione del mondo.
La elementarità di simili rilievi si rivela in effetti assai ingannevole: basti considerare il collegamento tra la cosiddetta autosimilarità dei frattali e delle figure caotiche studiate da Poincaré per primo con le leggi di potenza a struttura polinomiale che, in un mondo di elementi finiti e discreti, finiscono con l’assorbire in sé esaustivamente ogni possibilità di espressione analitica.
Lascio alla moltitudine enorme dei miei followers il compito di riflettere intorno alla questione se avvertenze o non avvertenze del genere possano contribuire a spiegare la differenza nei gradi di successo delle varie iniziative.
1) La dimostrazione che trovate nelle pagine precedentii, a mio modesto avviso (intercalazione ovvia che non sarà più ripetuta), è rigorosa e definitiva, però, se valida, dimostrerebbe anche che tutto l’edificio dell’analisi matematica tradizionale si fonda sulla sabbia: il concetto di limite e di derivata ossia il valore a cui tende
(f(x2) – f(x1)) / (x2 – x1)
quando x2 tende a x1
costituisce un fondamento assoluto nel caso di funzioni che, come i polinomi, possono simulare con un grado di precisione illimitato qualsiasi altra funzione analitica, ma purtroppo fornisce valori diversi per polinomi di grado maggiore di 2 rispetto a quando (x2 – x1) rimane 1 e f(x1) tende all’infinito: dovrebbe invece coincidere, dato che per un rapporto di quantità rimane indifferente se si incrementa il numeratore o si decrementa proporzionalmente il denominatore o viceversa mentre proprio la presunzione del continuo dovrebbe consentire, per ogni tappa di avvicinamento al valore limite, la scelta di una unità di misura che consenta di appaiare i rapporti della progressione con il denominatore che tende a zero con quelli della progressione in cui rimane fisso a 1, mentre una derivata, in quanto rapporto, deve restare indipendente dalle unità di misura (è, come per esempio la cosiddetta costante di struttura fine, adimensionale).
Tutta la matematica fondata sui numeri ‘reali’ è insomma irreale.
Ogni tipo di scienza dovrebbe quindi limitarsi, per non perdere in rigore, a un mondo finito e discreto ma, se il mondo è finito e discreto, frana qualsiasi conciliazione tra religione e scienza.
Interazioni tra unità discrete proiettano al di là di ogni limite di comprensibilità e governabilità gli avvenimenti mondani: questo accade già in sistemi quasi elementari indagati al computer dalla cosiddetta informatica sperimentale, figuriamoci quello che può accadere a un universo intero polverizzato secondo la scala di Planck.
Gli ambiti della scienza artificiale umana contribuiscono a dare una visione completamente distorta della realtà extra-umana: basti pensare che i tecnici della NASA, per tutto il corso delle missioni lunari, hanno potuto ignorare le correzioni relativistiche alla gravità newtoniana grazie a fattori di approssimazione (dell’ordine di 1 / 105 che, applicati in meteorologia, rendono le previsioni imprecise nel termine di poche ore e assolutamente inaffidabili nel termine di pochi giorni.
Dopo una vacanza favorita da fantasiose interpretazioni della meccanica quantistica, il determinismo assoluto ritorna potentemente in campo saldandosi indissolubilmente a una imprevedibilità altrettanto assoluta, il che determina la volontà imperscrutabile di un ‘Dio’ a cui non si può evitare di soggiacere se non attraverso fortunose licenze sulla cui durata nessun teo-tecnocrate o tecno-teocrate può garantire alcunché.
Finalmente Dio sfugge alla politica e acquista caratteri effettivamente religiosi: è quella parte di ‘Dio’ che non possiamo assolutamente comprendere e su cui è quindi assolutamente inutile sproloquiare cercando di farsene interpreti sulle deliranti onde di una megalomania che villanamente contraddice ogni ipocrita professione di umiltà.
Rimettersi alla Sua volontà può scientificamente significare un solo tipo di scelte per la devastatrice e peccaminosa umanità: quelle che ricercano una convivenza stabile e armoniosa con la Natura (creata da Dio o da ‘Dio’ come la stessa umanità), scelte che implicano senza ombra di dubbio e in via definitiva un coordinamento pacifico dei vari interessi nazionali nel rispetto e nella salvaguardia degli interessi puramente individuali di esseri biologici intimamente liberi e raziocinanti, i quali siano in grado di ricercare la qualità della vita proprio nel rapporto con la Natura e comunque al di fuori di un fanatismo deteriore sempre in cerca di modelli costrittivi per tutti gli altri e di distinzioni ideali per se stessi (il diritto divino a una carriera di riconoscimenti e successi oppure di sacrifici garanti di eterna felicità).
Ovviamente, nelle tipologie sociali oggi più diffuse, una particolare classe di pericolosissimi fanatici, ovvero quelli più abili nelle arti della manipolazione psicologica e dell’inquinamento diplomatico, possono contare su notevoli e decisive agevolazioni del più puro stampo darwiniano.
2) Scelta una regione di base qualsiasi, si divide la carta geografica in gruppi di aree Gn, dove n rappresenta il numero minimo di spostamenti da un’area a un’altra che è necessario eseguire per raggiungere, partendo da una qualsiasi altra area, l’area di base.
Si procede a una ulteriore suddivisione in strati S (g, d), dove g è il gruppo di appartenenza delle aree di strato e d la distanza (ovvero il numero minimo di spostamenti) che da ogni singola area è necessario eseguire per raggiungere il gruppo Gg+1 (essendo ovviamente 1 la distanza dal gruppo Gn-1)
In base a considerazioni logiche abbastanza semplici pare di poter affermare che utilizzando solo due coppie di tre colori (delle sei di quattro a disposizione) per la colorazione di ogni singolo strato, quattro colori sono sufficienti per la colorazione di ogni carta senza ambiguità: ci troviamo però davanti a un rapporto molto più complesso rispetto al caso 1) tra logica generale e strutturazione di dettaglio, per cui un controesempio che contraddica la logica generale rimane impossibile da escludere come del resto rimane impossibile da escludere che la famosa dimostrazione al computer non mostri in futuro qualche pecca imprevista.
3) La dimostrazione di Hadamard e altri dell’ipotesi di Gauss dimostra che i numeri primi sono distribuiti lungo la sequenza infinita dei numeri interi secondo criteri non riassumibili in una legge specifica: se tale legge esistesse fisserebbe un valore di probabilità valido per tutti i numeri primi (un valore di probabilità, che implica un atto aleatorio, non ha senso senza uno schema fisso di realtà a cui quell’atto si applica) e invaliderebbe i teoremi di incompletezza di Goedel.
Una dimostrazione della congettura di Goldbach comporterebbe una legge di distribuzione per i numeri primi.
La congettura è indimostrabile, il che però non significa che sia vera.
Si confonde in genere la indimostrabilità (indecidibilità) logica con la indimostrabilità effettiva: trovare un esempio che inficia la congettura invalida la indimostrabilità effettiva nel senso che invalida la congettura, ma non invalida la indimostrabilità logica, in quanto non dice niente circa l’esistenza o meno di altri esempi e nemmeno se questi siano finiti o infiniti).
Un solo esempio o un numero limitato di esempi in tutta l’infinità dei numeri può essere concepito anche in assenza di alcuna dimostrabilità logica e concettuale: il rapporto tra l’esistente e il possibile è certo, ma il rapporto tra esistenza e necessità in presenza di schemi mutabili e infiniti rimane di ardua definizione.
Quasi certamente, nel rispetto dei teoremi limitativi della logica (Goedel in testa), tale rapporto esige, per essere esaustivo di ogni evenienza, un numero di assunzioni che alla fine tendono a coincidere con l’esistente stesso (una mappa grande quasi come il territorio che si intende mappare), una considerazione che l’idealismo implicito in ogni astrattismo tende scelleratamente a sottovalutare, ma che fisici e informatici hanno da tempo cercato di formalizzare, per esempio nel principio del bootstrap sotteso a molti tentativi di grande unificazione come la teoria delle stringhe.
4) Il passaggio da una funzione reale di numeri reali a una funzione complessa di numeri complessi può aggiungere perspicuità e rivelare nessi difficili da vedere nella versione più limitata, non può però aggiungere relazioni e complessità nei rapporti esclusivi tra numeri reali, traducendo al massimo quelle già esistenti nella versione piana in strutturazioni corrispondenti della superficie bidimensionale dislocata nello spazio tridimensionale.
Poiché una funzione complessa agisce tramite olomorfismi (quindi con particolari trasformazioni matriciali) nei confronti delle corrispondenti figure piane, mi sembra inevitabile che se una linea circolare sul piano delle variabili indipendenti produce oscillazioni altrettanto regolari (in senso verticale) del valore delle variabili indipendenti e l’essere numero primo (per come è costruita la funzione reale e poi quella complessa) induce certe risultanze geometriche (in questo caso la rettilineità degli zeri calcolati in corrispondenza del valore reale di 1/2), tali risultanze dovrebbero conservarsi all’infinito: tutto questo però, se anche fosse tutt’altro che una baggianata, non rappresenta una dimostrazione tecnicamente valida e sono troppo vecchio per farmi una pallida idea di come tradurlo in una dimostrazione degna di vincere un premio da un milione di dollari (salvo magari scoprire tra breve che in effetti bastava ben poco e quindi impiccarmi a un lampione non prima però di aver convocato Maurizio Cattelan ad assistere alla realizzazione dell’opera d’arte che ha sempre sognato)
Cerchiamo ora di dimostrare senza venir meno al rigore logico fin qui dimostrato (oppure con lo stesso grado di scriteriata follia se tale rigore si dimostrasse millantato e fasullo) (oppure in modo assolutamente opinabile se qualsiasi tipo di rigore, anche quello scientifico o addirittura matematico, finisse alla fine per dimostrarsi, se applicato alle evenienze concrete della realtà umana, qualcosa come una sconsolante illusione ridicolizzata dallo strapotere di altre illusioni e altri interessi) come Biden e Putin potrebbero avere entrambi ragione o entrambi torto rimanendo comunque compagni e sodali dalla stessa parte della ragione o del torto e tutto questo mentre i leader europei, continuando a comportarsi così, farebbero in entrambi i casi la figura di ‘imbecilli’ (notate le virgolette) o peggio (virgolette sbiadite o addirittura dissolte).
La dimostrazione in atto si pone in una specie di iperuranio in cui gli echi delle miserie terrene come la tragedia dei morti nella guerra in Ucraina si detergono da ogni spessore drammatico e diventano quasi simboli astratti, come nei libri di storia.
Una persona accorta e sensibile sa che questo non è cinismo minimizzatore, ma il contrario: serietà analitica opposta a chi utilizza cinicamente effetti emotivi per appoggiare tesi che non è assolutamente lecito rafforzare con quelli se non si vuole scadere nell’ipocrisia disgustosa di chi osanna la sofferenza di un popolo per propagandare atti e decisioni che apparentemente sostengono quel popolo, ma di fatto ne prolungano a oltranza le sofferenze.
A differenza degli specchiati difensori della ‘vera’ ‘democrazia’ o della ‘vera’ ‘libertà’ (dette anche, in versioni più rozze e semplificate, ‘vera democrazia’ e ‘vera libertà’) che narrano la propria storia a partire dall’invasione di un invasore punto e basta, ma a differenza anche di modestissimi facchini che (bersaglio dei lanci da ogni parte dei pesci dei valori diretti alla loro faccia) si sobbarcano (poveretti!) il peso soverchiante di un minimo di razionalità (sempre, politicamente, poco remunerativo e anzi controproducente) e ci raccontano, dilungandosi troppo e stancando la gente desiderosa di bianchi e di neri purissimi, un prologo di sinistri antecedenti sotto il governo Zelenskyj, io, che non temo di stancare l’oceanico schieramento delle mie fedelissime ciccioline, partirò da più lontano ancora, ovvero dai governi ucraini filo-russi precedenti (se non addirittura, almeno implicitamente, dallo sterminio stalinista di milioni (eh, sì: milioni!) di contadini ucraini che, agendo come memoria collettiva, può rendere esplosivo un carico tutto sommato non abnorme di ordinaria corruzione se considerata, in modo più o meno veritiero, di matrice russa o russofona).
Governi come quello di Janukovyc avrebbero potuto assicurare il soporifero e arrendevole ordine europeo, nutrito di convulsa esagitazione teo-tecnocratica (o tecno-teocratica), fino al brusco e irrimediabile risveglio (persistendo gli attuali sistemi) per devastante tracollo ambientale: purtroppo si dà il caso che fosse molto, ma molto corrotto, secondo un metro autoctono ucraino, e per una ragione semplicissima: il Putin non anti-occidentale e non guerrafondaio non ha mai controllato veramente i propri oligarchi e le proprie mafie in modo che questi e quelle anteponessero ai propri ingordi particolarismi (o almeno si sforzassero di salvaguardare) obbiettivi strategici nazionali.
Gli oligarchi o le mafie di Putin, insieme agli oligarchi e alle mafie occidentali che appartengono solo a se stessi, hanno spolpato a man bassa un intero paese governato da politicanti corrotti (congiuntura non certo rara nella storia umana del pianeta), ma purtroppo per Putin gli oligarchi e le mafie occidentali, che sono indipendenti e non appartenevano e non appartengono certo a Trump o a Biden o alla CIA o a vattelapesca, sanno condurre meglio, senza intralci, i loro calcoli e intuiscono al volo quando gli conviene collaborare con Trump o con Biden o con la NATO o con la Cia (esempi scelti evidentemente a caso).
Gli oligarchi e le mafie occidentali non prediligono governi duri e puri che siano emanazione di certe egemonie geografiche e imperiali: dovendo fare lavori molto più concreti, succinti e sbrigativi, prediligono alleati o fantocci che siano più presentabili per la gente comune e capaci di fare accettare ai minus habens sempre più o meno populisti che ne costituiscono le fila ciò che è inevitabile per la legge divina del prosaico ‘magna magna’ universale: un comico televisivo di grande successo, se coraggioso e intelligente, può fungere molto meglio allo scopo di emissari nominati (ma non pagati!) dal potere imperiale.
Dopo la salita al potere di Zelenskyj, sia Biden che Putin hanno compreso più o meno gradualmente la situazione: Biden, con il dente avvelenato per le intrusioni e le interferenze elettorali pro Trump (che forse o probabilmente aveva garantito in cambio un allentamento della pressione Nato o CIA in Ucraina (tradimento o toccasana per i popoli Usa ed europei?)), ha pensato bene di vendicarsi e Putin ha capito che, per non uscirne con le ossa rotte, avrebbe dovuto cambiare le regole del gioco rimettendo in auge la vecchia concezione della guerra in quanto prolungamento di una politica senza speranza attraverso mezzi in grado di scombinare le regole di un gioco sfavorevole.
Queste sono le ragioni evidenti di entrambi.
Veniamo ai torti o perlomeno alle ragioni e ai torti ambigui e sovrapposti
Biden (l’amministrazione Biden) avrebbe dovuto decidere in via preliminare fino a che punto tirare la corda, il che dipendeva da una scelta nella seguente alternativa:
a) la Russia di Putin, in disarmo o meno, doveva comunque considerarsi una super-potenza mondiale e comunque nucleare.
b) Si poteva invece considerare una semplice nazione in crisi destinata, in base a ferrei determinismi economicisti (vedi le famose sanzioni boomerang che comunque sarebbero state boomerang solo per le colonie europee e, anche in quelle, solo per gli sfigati), a capitolare di fronte alla prorompente anarchia degli egoismi occidentali sempre più astutamente coordinati e coesi.
Putin (l’amministrazione Putin) avrebbe dovuto parimenti decidere in via preliminare fino a che punto tirare la corda, il che dipendeva da una scelta nella seguente alternativa:
a) l’Occidente si basava almeno in parte (comunque una parte sostanziale e decisiva) su un’autentica democrazia in modo che, come è inevitabile e perfino giusto per le autentiche democrazie, l’indebolimento della decisionalità oltranzista e di principio in seguito ai disagi e al malcontento delle popolazioni sarebbe stato inevitabile.
b) Le oligarchie coordinate che non appartengono a nessuno e a cui appartiene, per pure ragioni economiche che coincidono solo in parte con pratiche illegittime e corruttive, la maggior parte del personale politico, erano ormai in grado di decidere prescindendo da vili interessi populisti e si sarebbero incazzate come iene davanti a oligarchi fratelli (detti polemicamente ‘di Putin’ solo per confondere le carte) orridamente suicidati quasi si potessero considerare alla stregua di migliaia di persone qualunque.
Torti e ragioni, a parte le apparenti cantonate commesse da entrambi i partecipanti al quiz nel dirimere le rispettive alternative, saranno attribuiti dalla storia in base ai verdetti sui vincitori o ai compromessi che saranno eventualmente raggiunti (e non per ragioni morali come vorrebbe la signora von der Leyen), tuttavia, se si vuole fare esercizio accademico in base a possibili sviluppi futuri, non sembra del tutto peregrino desumere l’emergenza di un possibile interesse comune tra la libera democrazia degli oligarchi rappresentata al momento soprattutto da Biden e l’imperialismo regionale dell’amministrazione Putin: creare un nuovo ordine mondiale in cui i popoli populisti, così difficili da governare per le proprie inesauribili pretese, toccati con mano i pericoli, i disagi e le sofferenze a cui conduce indifferentemente l’immolarsi a quelle pretese da parte delle classi dirigenti di ogni nazione terrestre, si assoggetteranno volentieri a limitazioni e discipline più rigide: detti popoli populisti, insomma, piegheranno religiosamente il capo davanti a quelle esigenze di ordine superiore che vedranno élite provvidenziali (che nelle retrovie si scanneranno tra di loro con poca o tanta discrezione, ma ciò per adesso non conta) schierarsi fieramente in prima linea su fronti di guerra permanenti: questi resteranno congelati in puro stile guerra fredda ed equilibrio del terrore grazie alla determinazione, ma anche alla prudenza e alla saggezza, dei massimi capi.
Anche i popoli populisti di occidente non meritano di meglio se insistono cocciuti a prestare fede al ventre, alla pancia o al culo di una vocazione autonoma invece di ascoltare i suggerimenti della stampa ben capitalizzata, limitarsi a rendere popolari le imbeccate piovute dall’alto e votare compatti per il rappresentante oligarchico senza disperdere almeno il 70% dei voti su partiti creati ad arte per far squagliare la volontà popolare come neve al sole d’estate, partiti gestiti da funzionari a paga sindacale che almeno in ciò si distinguono da grandi leader accuditi anche, prima o poi e famigliare più o famigliare meno, da fondazioni no-profit e altre qualifiche e prebende nobili e illustri (leader che, vedi Berlusconi, Monti, Renzi, Salvini eccetera vengono ispezionati, promossi, radiografati di nuovo e poi buttati a ritmi che stanno diventando proibitivi perfino per gli eroi di ‘Fast and furious’).
Ecco di seguito sintomi e indicazioni che concordano con i tipi di ‘evoluzione’ appena delineati
La stampa ben capitalizzata (ampollosa corifea della anti-scientifica tecno-teocrazia (o teo-tecnocrazia) dominante) magnifica in modo totalmente assurdo l’opera di propri emissari al governo e li considera sempre geni ed eroi per come affrontano le emergenze nei modi obbligatori che le emergenze comandano, mentre non si sogna nemmeno di considerarli ‘imbecilli’ per l’incapacità di evitare le stesse emergenze, il che dà una testimonianza ulteriore di come l’economia di mercato capitalistica, da quando esiste, abbia proceduto trionfalmente di emergenza in emergenza e di come, in via più accentuata proprio dopo ogni emergenza, a parte trascurabili deviazioni dai canoni, la forbice delle ricchezze e delle povertà si sia divaricata sempre di più dissimulando i preoccupanti effetti sociali solo attraverso le compensazioni dovute al devastante, demenziale sfruttamento della Natura soprattutto presso le regioni più povere considerate come appartenenti a un altro pianeta (ma anche, ormai, delle regioni più ricche, visto le scempio della natura per opere assurde e cretine e per ragioni assurde e cretine come le olimpiadi invernali, per esempio nel caso della Pedemontana Lombarda, a cui si sono trovati finanziamenti proprio mentre tratti della metropolitana dell’hinterland milanese sono stati abbandonati per l’assenza di finanziamenti: pensate quanto i Papaveroni delle Grandi Occasioni sono più importanti dei pendolarini senza quattrini e quante inesistenti energie pulite e rinnovabili dovrebbero esistere per compensare il disastro ambientale dell’una e dell’altra scelta (Cingolani, se ci sei, batti un colpo!).
Per la stampa ben capitalizzata è un gioco da ragazzi ridicolizzare i no vax, però poi non si pone neppure uno straccio di domanda su come mai metodologie innovative nelle prassi di vaccinazione siano rimaste congelate per decenni in attesa di autorizzazioni cruciali e poi, in pochi mesi, queste autorizzazioni siano arrivate consentendo alle ditte farmaceutiche di realizzare in un solo anno utili di decine di miliardi di dollari (la maggior parte dei quali sono confluiti negli Stati Uniti (accusati oltretutto di una gestione molto mediocre se non addirittura pessima dei portati della pandemia, di sicuro una miserabile occupazione rispetto alla colonizzazione dell’Ucraina).
Magari tra qualche anno si scopre che tutti i vaccinati hanno subito irreversibilmente alterazioni fisiologiche, epigenetiche e perfino antropologiche (coinvolgimento della psiche), nel qual caso si diffonderà l’ennesima ondata di fake news, dato che l’omissione orchestrata e comandata di simili notizie sarà imposta per legge non scritta e quindi, come al solito, nei fantasmi delle sparizioni profilattiche, si inseriranno le claudicanti, stentate, imprecise, incomplete e difettose illazioni di coloro che tali omissioni cercheranno di violare senza possedere né le informazioni top secret né, in molti casi, le capacità culturali che materie ambigue e complesse richiedono ai fini di adeguati trattamenti e divulgazioni.
La campagna RAI contro il dilagare delle fake news acquista bagliori sinistri appena si cerca di quantificare il volume di fake news che sparirebbero dalla circolazione se il potere ufficiale non stimolasse il complottismo dei peones di Internet (i pittoreschi mentecatti come me) con l’assordante silenzio di gigantesche omissioni sostituite dalle solite tirate proprio contro il complottismo, tirate che, tanto per cambiare, omettono un fatto fondamentale e cioè che cronaca e Storia brulicano di complotti piccoli, medi e grandi.
La stampa ben capitalizzata si inventa i propri eroi e nasconde a fatica i propri orgasmi quando a tale nomina possono a ben diritto assurgere giornalisti della stampa ben capitalizzata, nella fattispecie i cronisti di guerra che inviano i servizi ‘dal fronte’. Quale fronte? Ovviamente quello che è permesso o suggerito da entrambi gli eserciti in guerra, per decisione specifica o distrazione.
Nessun cronista di guerra, suppongo, ha mai letto l’inizio de ‘La Certosa di Parma’ di Stendhal, altrimenti cambierebbe mestiere. Come lì viene riportato con estrema efficacia, quello che un testimone esterno o interno può comprendere circa gli sviluppi effettivi di una grossa battaglia nel corso del suo avvenire si può riassumere con un numero soltanto, zero, e probabilmente figure come Adolfo di Svezia, Wallenstein o addirittura Napoleone, nonostante fossero grandi strateghi, avrebbero potuto testimoniarlo efficacemente, se tale sincerità non fosse stata un po’ inopportuna.
Quanto alle atrocità e allo scempio di civili, nonché alla classificazione in base a una più o meno accentuata efferatezza, non solo non esiste nemmeno il concetto di una seria battaglia condotta in zone abitate che potrebbe evitarli: non è mai esistito nemmeno un esercito che si fosse astenuto dallo scempio quando tale astensione avrebbe gravemente compromesso un esito favorevole degli scontri, neppure gli eserciti che hanno combattuto per la ‘libertà’ dell’occidente, magari usando il napalm per trasformare insediamenti abitati in una sola rapinosa tempesta di fuoco come una Dresda o una Hiroshima in scala 1 a x.
La differenza tra quando la propaganda di guerra occidentale dice che il nemico si è deliberatamente trincerato vicino a un ospedale e quando la propaganda di guerra dei nemici dell’Occidente dice che il nemico si è deliberatamente trincerato in un ospedale risulta che al report del primo caso in Occidente si tende a credere, a quello del secondo no, quando invece (probabilmente) nel primo caso si mente, nel secondo no: trincerarsi in un ospedale rappresenta una tattica brutalmente sensata, trincerarsi vicino a un ospedale molto meno, tuttavia i buoni non possono ammettere di aver deliberatamente colpito un ospedale (possono al massimo ammettere, davanti a prove inconfutabili, un danno per effetti collaterali incontrollabili), i cattivi invece sì, il che aiuta appunto a distinguere senza ombra di dubbio i buoni dai cattivi e a mandare in galera Assange che è senza dubbio cattivo.
La stampa ben capitalizzata dardeggia occhi di falco quando si tratta dei tassi finanziari gestiti dagli stessi capitalisti che gestiscono la stampa ben capitalizzata, ma poi non riesce neppure a vedere le problematiche dinamiche di ammortamento degli attuali impulsi energetici e soprattutto della dilatazione incrementale di una produzione energetica attuale rispetto al recupero futuro che tale produzione prevede, tasso di ‘interesse’ da valutarsi in termini di almeno due cifre, dato che la curva evolutiva dei processi di degrado ambientale, nonostante crisi economiche ripetute soprattutto negli ultimi tempi (solo un caso o una longa manus in azione diversa e opposta rispetto alla longa manus invisibile?), è sensibilmente diventata più ripida a partire dalle vicinanze degli anni 20 del 2000, come del resto aveva già preannunciato la catastrofista e complottista avanguardia ambientalista degli anni 70 del secolo scorso (Club di Roma eccetera)
La ‘libera’ stampa ben capitalizzata se ne sbatte le palle se il prezzo dei combustibili fossili getta sul lastrico la gente comune e le imprese destinate a fallire, però si lamenta che i prezzi in salita finanzino la guerra di Putin impedendo il tracollo finanziario della Russia e quindi preme perché a buttare sul lastrico i nerds più sprovveduti sia la transizione energetica in assenza di Progetto Kolibiano. Non avrebbero tutti i torti, se non tacessero un dettaglio fondamentale: a far salire i prezzi dei combustibili fossili, decollati mesi prima dell’inizio della guerra, sono stati soprattutto quelli di Wall Street e ad averci enormemente guadagnato, almeno nei primi tempi, sono soprattutto le aziende che hanno lucrato sulle riserve vendute a prezzi esorbitanti rispetto al costo di acquisto, aziende molto ben rappresentate nell’azionariato della grande stampa.
Di qualsiasi questione si tratti, è comunque indispensabile, ovviamente, almeno finché non si sarà affermato un solo tipo vincente, necessariamente ristretto, di grandi oligarchi, che il gioco non sfugga di mano (come è sfuggito di mano il gioco in prossimità della prima e seconda guerra mondiale, molto al di là delle intenzioni di tutti (e dico tutti) i protagonisti principali), sviluppo tutt’altro che certo e le cui probabilità negative sono già salite quasi di sicuro al punto di rendere imbecilli gli ‘imbecilli’ (l’unica cosa certa riguardo alle probabilità storiche ci dice che dovrebbero essere tanto più basse quanto più nefaste si rivelano le conseguenze, considerazione più che sufficiente a far ritenere le probabilità attuali di una guerra nucleare abnormemente e scelleratamente elevate).
Comunque, gli artefici del governo Letta-Meloni, se sopravviveranno, possono stare tranquilli: gli oligarchi autentici (finora) hanno sempre vinto e i populisti, nei rari casi in cui erano autentici, hanno sempre perso (salvo qualche rara ed effimera eccezione): gli ‘imbecilli’ diventati imbecilli in un modo o nell’altro saranno giudicati dalle opinioni dominanti come ‘imbecilli’ venduti ai populisti.
Se qualche preoccupazione gli autentici oligarchi democratici e liberali, ormai stufi della mano invisibile di Smith e del malcostume che essa favorisce presso gli atleti darwiniani dei piani bassi, possono ancora nutrire, si tratta di questo: nelle nuove divisioni del mondo che si prospettano (salutari nel senso che costringeranno i biechi populisti a schierarsi senza se e senza ma, in presenza di cruciali alternative planetarie, dalla parte del solo Valore Vero che esiste alla faccia delle pretese nemiche e di tutte le populiste sciocchezze di infimi, mediocri, tediosi aspiranti populisti a un infimo, mediocre, tedioso benessere populista), quelli che agli oligarchi ubbidiscono riusciranno effettivamente a contenere quelli che gli oligarchi disubbidienti li suicidano?
Considerati simili dubbi, forse non è lontano il momento in cui alla libera stampa oligarchica saranno amabilmente consigliati atteggiamenti più concilianti.
NOTA N.07 (26 aprile 2022)
DIVAGAZIONI SCIENTIFICHE INTORNO ALLO STRANO FENOMENO (ANALOGO PER CERTI VERSI ALLA MULTI SECOLARE CECITA’ DEI MIGLIORI MATEMATICI DEL MONDO NEI CONFRONTI DELLA DIMOSTRAZIONE ELEMENTARE DELL’ULTIMO TEOREMA DI FERMAT) PER CUI LE MIGLIORI MENTI FILO-GOVERNATIVE STATUNITENSI, OCCUPANDOSI DI PANDEMIE, DELLA GUERRA D’INVASIONE PUTINIANA O DI ANALOGHE ABNORMITA’, RIESCONO, CON GRANDE E CONSUMATA PERIZIA, A TRAVISARNE NESSI E SIGNIFICATI INTESSENDO QUELLA RETE FONDAMENTALE DI CONTRADDIZIONI CHE ALLA FINE DENUNCIA O UNA POCO PROBABILE OTTUSITA’ O UNA INTESA AL VERTICE CON GLI INTENTI STRATEGICI DI CONTROPARTI SOLO APPARENTEMENTE NEMICHE QUALI PUTIN, I VIRUS O I DIFFUSORI (VOLONTARI O MENO) DEI VIRUS.
A scanso di equivoci tengo a precisare in via preliminare e a chiare lettere che lo scrivente non soffre di cosiddetto anti-americanismo, tutt’altro: di anti-americanismo nel senso di rinnegamento dei nerbi più autentici della cultura americana soffrirebbe piuttosto, se si trattasse qui di vibrazioni culturali profonde e non di scelleratezze da mega-interessi imperiali, l’amministrazione Biden.
In qualche parte del presente scritto, si parla di ‘cuore a destra e cervello a sinistra’ come dell’atteggiamento esistenziale più idoneo a indirizzare le genti sulla via del Progetto di Stato Stazionario.
Il progetto è definito qui liberale e comunista (parola, questa ultima, semanticamente ambigua come la parola ‘libertà’ e come tutte le locuzioni ingaggiate da politiche e ideologie), almeno gradualmente e in prospettiva, dato che una costruzione artificiale non può sottomettersi a verdetti storici o congiunturali e quindi differenze di potere e ricchezza, che non potranno mai essere completamente abolite, non possono sottostare supinamente a situazioni ereditate da prassi pre-progettuali.
Allo scrivente non importa un fico che tale visione sia considerata non realistica o perfino utopistica: veramente importante rimane la questione se si possa salvare il pianeta (e quindi l’umanità) conservando un’accettabile qualità di vita media individuale senza avvicinarsi a concezioni del genere e la mia risposta (razionale o da pazzo, fate voi) è: assolutamente no!
Secondo voi, il cuore a destra di cui si sta parlando rivela un trasporto affettivo indomabile verso le destre politiche tradizionali, i rigidi perbenismi e i conservatorismi inamidati? Un fervore intimo ed emotivo per la santa religione nazionale decorata di sontuosi rituali e dogmi altisonanti?
So che perdo così l’ultima carrozza dell’ultimo treno di qualche linea del costume nazionale, ma purtroppo non è così: il cuore a destra si riferisce alla mia formazione culturale che, a parte studi e letture di altro genere, integra come precoce imprimatur fondamentale il cinema e, come genere di cinema prediletto, la vena off-hollywood e indipendente del cinema americano dell’epoca, quella non solo dei b-movies diventati ‘chicche per cinefili’ prima di essere dimenticati del tutto o quasi, non solo dei maledetti come Siegel o Peckinpah o magari anche (su un piano più dotto ed europeizzante) Losey o Kubrick (considerati tutti perlopiù di destra dal borioso confessionalismo dei chierici ‘impegnati’ (impegnati a fare cosa si vede ora considerando il grande successo sociale conseguito dalla ‘terza via’ italiana soprattutto sul fronte del lavoro)), ma anche dei capolavori quasi ignoti ai profani come ‘La caccia’ di Arthur Penn o i primi due film del signor Spielberg.
E’ anti-americano chi (metaforicamente parlando) considera Indiana Jones un tradimento della vena più autentica di Spielberg (che del resto ha prodotto in continuazione pezzi di film capolavoro deturpati (non tutti) da un complessivo buonismo ideologico hollywoodianamente falso e integralista) o in effetti lo è (se si confronta con lo spirito più vero della cultura americana) chi considera spregevole il ribellismo anarchico e ingenuamente ‘western’ degli individualisti sempre un po’ troppo romantici e nostalgici di una natura libera da soffocanti antropomorfismi puritani (la natura degli indigeni sterminati da quella pittoresca serie di genocidi che fa apparire il peggior Putin un patetico dilettante)?
Rilevo qui (non tra parantesi) la circostanza assai significativa (secondo il mio modestissimo parere) di come la dimostrazione del teorema citato nel titolo, come le altre dimostrazioni elementari di classici e sintomatici problemi di facile formulazione, sia stata condotta o tentata da addetti seri e non dilettanteschi tramite l’utilizzo di mezzi estremamente sofisticati, nonostante i problemi siano risolvibili con considerazioni banali o quasi: ritengo che, almeno in tre casi su quattro, un tale modo d’impostare le cose si debba al poco rispetto che tali considerazioni banali riservano alla sicumera tecno-teocratica e al mito di quella spropositata trascendenza che menti di presunta ispirazione divina tendono ad attribuire all’intelligenza umana (vedi, tra l’altro, le spocchiose e trionfalistiche sottovalutazioni dei teoremi fondamentali di Goedel nonché del secondo principio della termodinamica da parte della maggioranza (finora) dei massimi ‘esperti scientifici’ militanti sul campo).
Tutto ciò rappresenta (sempre secondo me e non necessariamente secondo un altro) una conferma della predisposizione fisiologica da parte delle figure istituzionali più addestrate all’uso della ragione ad aggirare o dissimulare questioni importanti quando la dovuta sottolineatura metterebbe in pericolo una intera incastellatura di assunti e presunzioni considerati vitali e irrinunciabili.
Che il concetto di limite e di infinitesimo sia generalmente accettato dalla scienza ufficiale quando invece risulta campato sul nulla e sostanzialmente irrazionale è un fatto, un fatto abbastanza irrilevante per il funzionamento dei comuni macchinari (che si basano già sul passaggio da sistemi di equazioni differenziali a processi computerizzati alle differenze finite), ma tutt’altro che trascurabile per il funzionamento di una foresta, un mare, un pianeta, una galassia e insomma tutto l’universo: per confermare l’assunto, è più che sufficiente valutare che in quasi tutta la fisica del caos (il 99 virgola molti nove per cento della fisica dei funzionamenti effettivi al di fuori di fabbriche e laboratori), equazioni differenziali ed equazioni alle differenze finite danno risultati sostanzialmente dissimili.
Al cospetto effettivamente divino o almeno ‘divino’ di simili circostanze, la cultura dominante, invece di rimettere in gioco lo scienziato filosofo delle età auree e la sua ricerca di un compromesso effettivo tra schemi descrittivi e ontologia in azione, sbuffa insofferente e sbrigativa, si ritaglia con l’accetta i suoi pressapochismi preferiti e spiana alla fine la strada al tecnocrate funzionalista nutrito di religiosità strumentale e sociologica (noi italiani siamo specialisti nel generarne prototipi senza se e senza ma, stile yankee in formato latino), il quale si barcamena passabilmente in un più o meno decente tran tran di blandi privilegi, parche ingiustizie e pudiche oscenità finché non compaiono sulla scena strani personaggi come il covid o Putin.
Costui (intendo il tecnocrate, non Putin o il virus) può maneggiare disinvoltamente il mondo a nome di tutti gli altri esseri umani fino a che il mondo (molto più grande e potente di lui) non sfugge dalla sua gigantesca, ma purtroppo inventata e onirica, mano, dopo di che egli cercherà con scarso successo di allearsi al mondo per manovrare tutti gli altri esseri umani (comincia un Putin qualsiasi e poi tutti gli altri che gridano al lupo nemico prima o poi si accodano cercando un posto nel nuovo ordine annunciato con grande disordine).
Altre prove, sia scientifiche che sociologiche, di quanto appena affermato esistono a iosa, ma purtroppo l’elettore medio viene ancora escluso dalla possibilità di una comprensione effettiva per non comprometterne la fiducia in quei governanti che però, se non dispongono di qualche progetto, sono ‘imbecilli’ e, se ne dispongono senza esplicitarlo, sono anti-democratici e perfino truffaldini.
Cito qui alla rinfusa questioni che sono già state trattate nel presente testo e che possono essere approfondite in testi opportuni: leggi fisiche galileiane limitate a polinomi di secondo grado, principio olografico, matrice dei rapporti tra gli enne al quadrato elementi in una rete neurale, automa cellulare come unico modello accessibile alla poco divina intelligenza umana per delineare una legge fisica universale di grande unificazione, riduzione delle ‘stranezze’ quantistiche (come entanglement, apparente non località, violazione della disuguaglianza di Bell) a statistiche di storie alternative generate da interventi causali diversi su complessi di elementi discreti e finiti correlabili a livelli di miniaturizzazione estrema analoghi alla scala di Planck, trasformazione dei cammini aleatori (curve a campana sempre più appiattite nel piano x = numero dei rappresentanti e y = quantità relative) nelle curve ripide e a coda lunga (e ‘grassa’) delle diffusioni dendritiche modulate dalle dinamiche delle pressioni selettive su ogni livello e tra un livello e l’altro (socialmente parlando, il ricambio e l’interscambio continuo tra abilità (per esempio la bellezza fisica) che si distribuiscono a caso e le fortune che rappresentano il caso), l’apparire inesorabile delle distribuzioni ‘scale free’ quando si passa dalla teologia del continuo a dinamiche del discreto statisticamente trattabili, eccetera eccetera)
Solo scienziati che aiutino a tracciare concretamente e correttamente, nel quadro generale di un autentico determinismo imprescindibile, i caratteri di una complessità essenziale e i limiti della prevedibilità razionale possono svolgere un ruolo salutare nella culture politiche, economiche e generali, armonizzandole con i vincoli non aggirabili di un’autentica ‘trascendenza’ di tipo ambientale e planetario e contribuendo a demolire così quella deteriore mitologia dell’onnipotenza umana che accomuna teocrati e tecnocrati, quei condizionamenti diabolici, smerciati per precetti divini, che collegano in deprimenti circoli viziosi i sempiterni desideri di illusione delle masse con il delirio demiurgico dei dispotismi continuamente risorgenti.
Tra le prerogative necessarie a un buon oligarca, non metterei di sicuro in secondo piano la capacità di fingere di sapere tutto ciò che è utile finché le cose vanno bene e fingere di non capirci un tubo, virando con vela a tutta verso valori sempiterni e consacrazioni etiche e morali, quando le cose vanno male.
Come per il termine ‘’imbecilli’’ (virgolette dentro virgolette), ‘non capire un tubo’, se appare locuzione assurda, esecrabile e perfino demente in una particolare visione del mondo, assume connotati legittimi, plausibili e perfino obbiettivamente scientifici nella visione opposta, entrambe le visioni conservando una discrezionalità insindacabile dal punto di vista puramente culturale insieme a una ineluttabile incompatibilità di sostanza non appena ci si confronta con la fattualità di un universo inclusivo del fenomeno umano e rispetto a detto fenomeno incontestabilmente superiore e perfino trascendente.
Per evidenziare esplicitamente i contrasti tra le concezioni di base, ecco qua: o Dio esiste oppure è solo una comoda etichetta scaramantica e apotropaica per significare ‘Dio’; mentre di Dio ciascuno si appropria in un modo particolare, esclusivo e prevaricatore in proporzione al potere di cui dispone, di ‘Dio’ non ci si può appropriare e si può al massimo rassegnarsi a convivere; mentre Dio lo possono bestemmiare tutti pensando di ingraziarselo con assurde moine, soprattutto gli autori delle peggiori nefandezze condotte in suo nome, ‘Dio’ esiste inviolabile e inattaccabile molto al di là di ogni miserabile bestemmia umana e di ogni tentativo di approccio che non possa essere definito, in qualche specifico modo, scientifico e razionale (definizione indispensabile a un minimo di saggezza non puramente soggettiva e individuale anche se mai e poi mai garante di infallibilità o buona riuscita).
Per un kolibiano qualcuno è ‘imbecille’ (o atleta darwiniano) se si butta a capofitto nella mischia elevando a valori indiscutibili e strumenti ottimali premesse antropologiche, etnologiche e culturali che rappresentano pure concrezioni storiche e oggettuali, elementi causali e casuali della partita fissati soprattutto da automatismi ereditari ed effettività in azione, non giudicabili a priori al pari di tutti gli altri, alleati, neutrali o avversari che siano, anche in caso di misfatti obbrobriosi, dato che, come dimostrano i bombardamenti di Dresda e le bombe di Nagasaki e Hiroshima, questi possono avere effetti terrificanti, ma essere pianificati a fin di bene, inquadramento o cognizione che, dando tempo al tempo, potrà essere stabilita del tutto arbitrariamente soltanto da chi vincerà la guerra, se ci sarà un vincitore e non saranno tutti perdenti.
Ovviamente, molto, al riguardo, dipende dalla quantità di anime arruolate da una parte e dall’altra, conteggio che allo stato attuale, per quanto riguarda la guerra in Ukraina, si chiude più o meno in pareggio, anche se l’illuminato e canonico Occidente che giudica Putin ‘isolato’ può farlo solo perché ritiene che dal conteggio debbano essere esclusi miliardi di individui considerati pecore schiavizzate e prive del dono eucaristico di ogni libera informazione (molte virgolette) e quindi incapaci di ragionare con la propria testa ovvero con la testa dei capitali che mettono in moto le macchine di stampa.
Attenzione, amici giornalisti che lavorate per la libera stampa oligarchica: non sto dicendo che siete dei venduti, non metto assolutamente in dubbio che le vostre idee e i vostri scritti siano conformi a concetti sinceri e profondi di libertà e dignità personale che giustamente ritenete insindacabili.
Sto semplicemente dicendo che se voi pensaste in modo radicalmente diverso da come la pensano i detentori di quei capitali che può essere disturbante definire ‘datori di lavoro’ (e che nonostante ciò sono datori di lavoro) non sareste stati assunti o sareste allontanati o messi in riga (perlomeno una larga percentuale di voi, restando comunque concepibile che una piccola parte funga da foglia di fico a patto di non infrangere i limiti tracciati da un giusto e sacrosanto galateo fissato, guarda caso, dai giusti e sacrosanti datori di lavoro).
Riguardo alla vostra specchiata e indubitabile integrità e coerenza avrei solo un piccolo appunto da muovere: la sfumatura (lievissima!) di classismo e quindi razzismo che informa il giudizio che riservate alle idee effettivamente contestatarie e anti-sistema, sempre in qualche modo gravate, secondo voi, da una sfumatura (lievissima!) di psico-patologia orribilmente degenere, frutto di una fisiologia alterata da un manipolo di geni (pochissimi!) che farebbero addirittura pensare a terrificanti morbi ancestrali come populismo o addirittura liberal-comunismo.
Sono peraltro sicuro che tale vostra inclinazione deriva da una giusta e salutare intransigenza verso modalità di pensiero che mettono in discussione i diritti costituzionali alla libertà di parola e le più fondamentali libertà democratiche, come purtroppo accade a qualsiasi opinione che si discosti dalle vostre in una misura che voi e i vostri datori di lavoro avete così correttamente definito proprio in base all’eccezionale sensibilità etica e morale che vi contraddistingue.
Ovviamente, amici giornalisti della libera stampa oligarchica, per i datori di lavoro della pubblicistica nutrita di valenze politiche (dirette o per vie traverse) l’intransigenza verso gli avversari, altra caratteristica di cui siete felicemente dotati per vocazione autonoma e intrinseca, è molto più quotata, sui listini del libero mercato oligarchico, dell’affinità verso gli amici e l’intransigenza più pregiata se la prende meritevolmente con i mediocri e ipocriti disfattisti che professano una teorica equidistanza tra populismo e tecnocrazia (e magari, ludibrio nel ludibrio, un disprezzo equamente condiviso), mirando a dissimulare le bassezze sovraniste o il sussiego radical-chic dietro integrità e presentabilità assolutamente fasulle e abusate, al punto che qualche elettore della parte più insospettabile e decorosa potrebbe perfino cadere nella trappola e ipotizzare addirittura una terza via esiziale per tutti (ma soprattutto per i più bisognosi!) tra oligarchi camuffati da populisti e oligarchi camuffati da progressisti.
Scusate la digressione.
Per un non kolibiano, un ‘imbecille’ (o atleta darwiniano) può apparire, a parte errori e imperfezioni inevitabili che però ci rendono ‘umani’, persona ispirata e apostolo del bene: è sufficiente che le stesse premesse antropologiche, etnologiche e culturali siano considerate peculiarità e competenze avvalorate da un’autorità metafisica indiscussa, di solito soggettivata e personalizzata nonostante le evidenti difficoltà e aporie che quella concezione comporta a prescindere dal livello fenomenologico in cui la si considera.
Per un kolibiano, i non kolibiani (per il momento maggioranza assoluta di ogni popolazione in qualsiasi parte del mondo, il che non è una novità dato che i liberali e i religiosi autentici si sono sempre rivelati (finora) una esigua minoranza) si limitano a stare al gioco, il che è coesivo e propositivo nei periodi di prosperità e di fondamentale concordia nei quali le dinamiche degli assetti correnti in una pertinente e congrua area di riferimenti (che dalla fine del secolo scorso in poi ha assunto estensioni planetarie) diffondono attese e promesse di miglioramento economico ed esistenziale.
Stare al gioco può invece diventare sintomo di una prassi pericolosissima in fasi di declino dei modelli di civiltà immancabilmente accompagnate dall’accentuarsi di tensioni nazionalistiche o imperiali e contrapposizioni ideologiche.
In quelle fasi disgraziate le torri dei dogmi elevati a valori e dei valori elevati a dogmi svettano ad altezze sublimi sopra individui meschini chiamati finalmente a riscattarsi dai propri egoistici interessi (quelli che la Mano Invisibile considerava fino a poco prima la squisita benedizione delle tavole e il beatificante sale della terra) per assumersi il peso di un interesse comune immensamente più nobile attraverso le nobili arti della rinuncia e del sacrificio.
Le torri in realtà sorgono molto prima dei venti di guerra, ma rimangono in un primo tempo appannaggio di castellani in combutta tra loro, uguali più uguali degli altri che sanno sobbarcarsi oneri e sacrifici molto più pregiati e meritevoli di altri.
Nel passaggio critico successivo, le torri si diradano sopra territori in via di desertificazione, quelle rimaste si elevano sempre di più e intanto cominciano a delinearsi segnali di difettosa concordia e di aperta rivalità tra una torre e l’altra, ciascuna favorita da come i possessori sanno essere più uguali degli altri e fare sacrifici di qualità molto più sopraffina.
L’andazzo generale prosegue insomma con altri mezzi l’evoluzione tipica dei mercati maturi (evoluzione tra virgolette) in regimi di quella sana concorrenza che non deve assolutamente impedire agli attori più forti di diventare sempre più forti, altrimenti che razza di concorrenza sarebbe?
Porre dei limiti ai poteri in essere affinché non si avvantaggino sempre di più sarebbe come quantificare la mole di finanziamenti devoluta alla gestione di ogni squadra di calcio per penalizzarla con handicap direttamente proporzionali, il che comporterebbe la noia indistinta di una democratica alternanza di outsider invece dell’avvicendarsi sul palco d’onore di un piccolo manipolo di semidei che folle festanti e dunque innocue possano adorare con ragionevole costanza ottenendo così di evadere con metodo e salutare assiduità dalle secche di vite tribolate.
Il buon politico, per studio o per istinto, sa bene da che parte stare e quindi cerca palchi d’onore sorretti da finanziamenti opportuni per comprare i voti di quelle folle adoranti che detestano i comuni outsider e il loro affannarsi così prosaicamente simile ai trambusti mediocri che assillano le esperienze quotidiane più diffuse.
Talvolta, per un accavallarsi di congiunture particolari, i palchi d’onore, per la loro stessa sopravvivenza, non possono più accontentarsi di adorazioni passive, lasciando che la Mano Invisibile, come il lavorio del mare sui precursori delle ambre grige, elabori i sentori fecali fino a svilupparne le essenze profumiere che aleggiano in ogni olimpo.
Talvolta, insomma, la folla adorante non può esimersi dal riscattare attivamente le proprie bassezze partecipando senza se e senza ma (come non mancherà di ricordare qualche figura simbolica eccezionalmente quotata) alla lotta del bene e del male (dalla parte del bene secondo il bene della sua parte oppure dalla parte del male secondo il male dell’altra parte).
A ogni buon conto, anche se certe situazioni critiche possono degenerare, esiste una panacea universale che può risolvere o almeno attutire anche gli sviluppi più inammissibili e si tratta della solidarietà: la solidarietà dei tapini verso i tapini, dei popoli intermedi verso i popoli intermedi e degli oligarchi verso gli oligarchi.
Anche la solidarietà efficace ed effettiva (non quella meritevolissima, ma forzatamente sporadica e quantitativamente esigua delle opere di carità), se proprio vogliamo spaccare il capello in quattro, rappresenta un costo e quindi un sacrificio aggiuntivo, soprattutto per le fasce più deboli, ma il costo è subissato dal corrispettivo di nobiltà e dal valore di scambio che comporta e inoltre la solidarietà (che può proficuamente azionarsi solo tra caratteri sufficientemente simili se non si vuole farla diventare, prima o poi, fonte di inneschi esplosivi) inietta l’adrenalina di quei legami di gruppo che sempre, in condizioni drammatiche, evolvono a fanatismi eroicamente combattivi.
Purtroppo il sale della terra, insieme a qualsiasi ordine insieme ricco, vitale e (relativamente) stabile, non consegue né dalla fantasmagorica mano invisibile né dalla somiglianza tra le creature (il sigillo archetipale impresso dal creatore in ogni singola anima); si rapporta invece a una coppia di tipologie fenomenologiche opposta o almeno non coincidente rispetto alla coppia solidarietà e uguaglianza: diversità e complessità.
Qualsiasi concetto serio di libertà umana può esistere solo entro una equilibrata e razionale dialettica tra le esigenze pratico-etiche di una coppia e quelle scientifiche e ontologiche dell’altra: qualsiasi prevaricazione di una coppia sull’altra porta solo ad alternanze e variazioni sul tema all’interno di modelli sostanzialmente monotoni di tirannide e/o di anarchia.
Un problema veramente grosso, per non dire gigantesco, nasce se consideriamo (schematizzando, ma in fondo neanche tanto) che finora (secondo il mio modestissimo parere), in occidente, si è clamorosamente equivocato su come assegnare peculiarità e preponderanze in funzione delle due coppie contrapposte: 1) uguaglianza e solidarietà ovvero conformismo e protezione e 2) diversità e complessità ovvero libertà e creatività.
Secondo modalità (a mio modestissimo parere) assolutamente assurde, le concezioni occidentali dominanti (discorso non estendibile passivamente ad altre culture come quelle orientali) hanno privilegiato la coppia 1) per quando riguarda gli ambiti psicologici e personali, mentre hanno sviluppato acriticamente la 2) in dimensioni pubbliche e sociali, situazione ovviamente favorevole a una caricatura di democrazia popolare che, per vocazione innata, propende continuamente verso una oligarchia molto ipocrita.
Secondo il mio modestissimo parere, la coppia 1) dovrebbe essere resa obbligatoria e cogente in ambito giuridico e istituzionale con opportuni dispositivi legali mentre la coppia 2) dovrebbe costituire principio assiologico fondamentale in ogni valutazione di individui sottoposti alla coppia 1) soltanto per quanto riguarda l’ovvia necessità di non nuocere gli uni agli altri e di non nuocere al sistema.
Io però sono pazzo.
La solidarietà tra classi si manifesta come una pura e semplice assurdità.
Il classismo rappresenta infatti la premessa fondamentale e il nucleo sorgivo di ogni razzismo, sia che, visto dall’alto, debba per forza apparire, per necessità di buona coscienza e di quieto vivere, l’ipostasi di superiorità costituzionali in grado di giustificare moralmente le fortune, sia che, visto dal basso, comporti umiliazioni da compensare con analoghi disprezzi verso popolazioni da considerarsi inferiori per motivi perlopiù etnici e comunque diversi da quelli economici (razzismo deteriore condannato dal razzismo elegante delle culture privilegiate che adibiscono tale ulteriore disprezzo per lavarsi la coscienza e fondare più solidamente motivi di oggettiva superiorità).
La solidarietà tra classi, per essere autentica e non trasformarsi in gratificazione nobilitante, da una parte, ed elemosina umiliante, dall’altra, dovrebbe mettere in discussione, in via preliminare, proprio quei motivi di legittimazione fattuale su cui si basano democrazie elettorali nell’ambito delle quali nessuna stima o metro di valutazione può prescindere da popolarità, successi e disponibilità economiche.
In tale prospettiva, il cristianesimo appare una forma di induismo corretta in modo da fare apparire percorribile la via di un’attenuazione dei conflitti sociali attraverso quella contraddizione in termini che fu, è e sempre rimarrà la solidarietà tra classi, una finzione che piace agli oligarchi e funziona piuttosto bene nelle fasi ascendenti di una civiltà, ma mostra le corde nelle fasi di declino e nei periodi di recessione, in cui solitamente la religione occidentale tenta di trasformarsi in autentica sinistra sociale, ma poi finisce inesorabilmente nel passare dai formalismi ipocriti utili in una società dinamica e libertina ai rigorismi bigotti e liberticidi (stile Concilio di Trento) usati come armi poliziesche di ricatto morale dalle classi dirigenti in crisi.
Veniamo alle contraddizioni a cui si accennava nel titolo: sono talmente eclatanti e palesi che non ci sarà bisogno di soffermarvisi più di tanto.
Sanzioni economiche che penalizzano soprattutto il versante dei sanzionatori (ovviamente, nei limiti del possibile, parti specifiche e circoscritte in modo che le indignazioni morali sollevate ad arte, alimentate e vitaminizzate da morti sul campo, prevalgano su trite e volgari questioni di spregevole interesse) (la situazione ricorda la penalizzazione dei giovani durante la pandemia di covid a opera della gerontocrazia dominante sul piano politico e ancor più su quello economico) non possono semplicemente derivare da quella demenza pura che emergerebbe considerando che la scelta di Putin di dividere il pianeta in due (testimoniata dagli incontri pre-invasione e dalle reazioni successive) e impegnare quindi le dotazioni e potenzialità economiche del proprio paese verso una sola delle due parti ha già considerato probabilmente gli effetti boomerang di dette sanzioni e la formidabile spinta da esse impresse a indirizzare le opinioni pubbliche interne verso radicali dualismi strategici.
Quelle opinioni pubbliche saranno pure imbavagliate e vessate da auricolari assordanti, ma ben difficilmente, anche nelle migliori condizioni, guarderebbero con tenerezza alla vicinanza di missili di una diversa coalizione di nazioni militarmente alleate se a tale coalizione fosse impedito alla loro nazione (ma non ai paesi confinanti) di aderire e magari anche con modi sprezzanti.
C’è quasi da augurarsi che questi dualismi nascano o rinascano da nostalgie di un’epoca in cui le giustapposizioni geopolitiche erano in grado di animare una effettiva dialettica democratica in cui governi e opposizioni non fossero inganni madornali.
Prove di quanto siano ingannevoli le alternanze governo opposizione in molte, se non tutte, le nazioni occidentali (a sistema maggioritario o proporzionale poco importa) si rivelano analizzando adeguatamente sondaggi di opinioni che, su questioni sensibili e significative, forniscono distribuzioni percentuali quasi sempre analoghe in parti schierate su fronti diversi e diverse in parti della stessa coalizione: è ben difficile che le affinità o disomogeneità di fondo che così emergono non rivelino un filtro e un condizionamento dei tratti caratteriali e ideali degli elettori da parte di pressioni puramente economiche gestite da quei soliti gnomi che alla fine vincono sempre, a prescindere dall’esito delle elezioni, il più figo dei quali gnomi, o uno dei più fighi, a intermittenza, è sempre libero e disponibile a diventare il deus ex machina di qualche governo tecnico eletto da nessuno e quindi di sicura qualità, visto e considerato l’impotenza e lo sfascio dei partiti che i mandanti dei soliti gnomi finanziano e consigliano amabilmente in cambio dei soldi profusi.
Il mio timore o quasi certezza, però, riguardo al risorgere delle fratture geopolitiche, indica motivazioni diverse dal desiderio di democrazia effettiva e prima di tutto un tentativo condiviso dai potenti e quindi autenticamente globalista di distrarre i popoli bruti dall’insostenibilità del mercato globale e da un avvenire di imprevedibilità e incertezze segnate da stenti obbligatori per larghe fasce di popolazione, la cui attenzione deve quindi essere deviata su questioni di natura etnica, ideologica, religiosa e dogmatica, preservando i sistemi darwiniani e oligarchici da accuse di inadempienza che andranno invece focalizzate sui nemici di qualche nazione ostile.
Le varie nazioni, amiche od ostili, tenderanno contestualmente a caratterizzarsi secondo modalità abbastanza antitetiche (ma in fondo non tanto) i cui estremi potremmo così sintetizzare: sistemi autoritari a partito unico e politica forte che si servono di oligarchi economici come mandanti, da una parte; sistemi ‘liberi’ a politica debole in apparenza multilaterale in cui gli oligarchi fanno il bello e il cattivo tempo tenendo i politici al guinzaglio.
Ovviamente il termine ‘’libero’’ (virgolette dentro virgolette) andrà di volta in volta adeguatamente commentato e puntualizzato in agoni politici e culturali dove ogni discussione tenderà a diventare una pantomima teatrale del grottesco o dell’assurdo (qualcuno ricorda per caso Pinter o Ionesco?), questo perché la semantica dei termini più significativi e pregnanti tenderà, molto ‘liberamente’, a ballare e travestirsi durante la stessa scena o da una scena all’altra: il termine ‘Libero’, per esempio, potrebbe campeggiare alle spalle di un distinto signore mentre predica che un popolo dovrebbe assolvere disciplinatamente ai temi dei riarmo e della militarizzazione se vogliamo che una benevola potenza imperiale ci dia un buon voto in pagella e consenta quindi ai più bravi tra di noi di prosperare attraverso le donazioni e i finanziamenti riservati agli amici strategici.
Dietro le quinte di queste commedie o tragedie dell’assurdo (tragi-commedia è il termine più indicato oppure dark comedy) si prepara anche un ruolo per gli ambientalisti più accorti e responsabili: essi aiuteranno a imputare parte dell’impoverimento e delle difficoltà alla necessaria transizione energetica, indispensabile non solo per penalizzare l’orco cattivo, ma anche per non distruggere quel pianeta che l’orco cattivo vuole invece mettere in crisi per liberare dai ghiacci immense distese di acqua e di terra sotto i cui strati superficiali giacciono immense ricchezze minerarie.
Quando i ghiacci avranno mollato la presa, le analoghe ricchezze statunitensi saranno vicine all’esaurimento e allora, forse, la furbissima Europa (o qualcuno dei suoi infidi membri già da ora guardato con sospetto dai fiduciari dell’impero statunitense) sarà pronta a rivedere le proprie alleanze strategiche per rifornirsi delle materie prime necessarie a tenere in piedi un mercato delle energie pulite che nel frattempo avrà contribuito a ridurre (anche se in misura insufficiente) l’emissione del carbonio atmosferico sostituendovi gas serra più radi, ma anche molto più potenti in un senso o nell’altro (dato che da qualche parte l’entropia deve andare e non può limitarsi a continenti e oceani) e inoltre l’energia aggiuntiva dovuta a rendimenti più bassi qualche sconquasso lo avrà di sicuro prodotto (dato che altrimenti non si spiega il bassissimo utilizzo di energia solare a cui la biosfera si è limitata per miliardi di anni prima che apparisse quella specie assolutamente geniale che l’umanità ha chiamato umanità).
Le contraddizioni evidenziate, per una certa sottigliezza di fondo, potrebbero perfino apparire involontarie anche da parte di figure diabolicamente intelligenti (come chi compra quote di Twitter lamentandone la scarsa ‘libertà’ e poi coglie occasione dal crollo azionario di Netflix per accusarla di essere troppo ‘woke’, vendicandosi così della satira di ‘Don’t look up’ e altri inammissibili sgarbi e indicando la strada ideologica per il futuro a chi non vuole rischiare scalate ostili).
Altre contraddizioni appaiono però così evidenti che non possono essere stata adottate per caso, prima fra tutte la penalizzazione di operatori economici e atleti sportivi solo perché russi.
Si blatera tanto di libertà opposta alla barbarie oscurantista e dispotica e poi si fa passare un principio teologicamente razzista e schiavista (molto di più dell’antico disposto giuridico secondo cui la colpa dei padri ricadeva sui figli) per testimoniare la forza di reazione del ‘libero’ occidente.
Evidentemente è giunta l’ora che la libera iniziativa individuale e la Longa Manus Invisibile che vi si connette almeno dai tempi di Adam Smith si sottomettano alla volontà degli olimpi o dei walhalla consacrati a principi di ben altra superiore valenza, ma come si può farlo in una economia di libero mercato?
Si può farlo perché il mercato, anche nelle nazioni occidentali, non è libero: è oligarchico.
E’ assolutamente vero che nelle nazioni occidentali il mercato comanda, il che nelle nazioni autoritarie non accade, ma da quando in qua la caratteristica di comandare è associata a quella di essere libero?
Risposta facile: da quando un mercato non risponde più alle esigenze dei comandati, ma alle esigenze di chi comanda.
Purtroppo per la nostra astuta classe dirigente, se la ragione fa spesso cilecca e indica quasi sempre percorsi ostici e per certi versi inopportuni, gli interessi sono almeno altrettanto ambigui e spesso bugiardi, mentre i valori messi disciplinatamente al loro servizio fungono in modo concretamente pragmatico soltanto in condizioni di assetti stabili e largamente condivisi.
Gli interessi e i valori eterni e universali che fanno loro da stampella scricchiolano sinistramente quando punti di svolta fondamentali si annunciano per la buona novella di qualche santone o per lo stridore satanico di qualche despota: il tipo di annuncio può sembrare importante, ma lo sono molto di più le incognite legate a un cambiamento radicale riguardo a cui promesse radiose o foschi presagi forniscono indicazioni molto poco affidabili su quello che effettivamente si prepara (basti pensare all’euforia di capodanno degli anni 1900 e 2000 e a quello che è avvenuto poco dopo o sta avvenendo).
Per attenuare il solido rispetto che anch’io nutro nei confronti di instrumenta regni e pragmatismi calcolatori che ogni giorno vengono adibiti più per automatismi intrinseci che per deliberata volontà, mi soffermerei sulla duplice efficacia che la richiesta di sacrifici generalizzati realizza ai fini di una sana e oligarchica governabilità: la duplice efficacia, morale e materiale insieme, di rispetto e prestigio guadagnati insieme a nuove opzioni di manovrabilità, richiede ovviamente una opportuna cornice di impersonale fatalismo, di eroismo ‘obtorto collo’, tale da donare dignità e perfino sacralità ai capi che sanno diffondere la sensazione di subire le conseguenze negative come tutti gli altri
Che i sacrifici risultino alla prova dei fatti e almeno nel lungo periodo distribuiti in modi estremamente diseguali potrebbe sembrare un punto cruciale e invece, dato che ciascuno si confronta con il prossimo suo e non con i membri di categorie lontane e perfino ‘trascendenti’ rispetto al proprio ambito vitale (spiegazione quasi banale della persistenza paradossale di aristocrazie in qualsiasi società che sappia creare le giuste distanze usando bene alibi morali e intellettuali) ben difficilmente diventa il fattore primario.
Questo fattore primario resta la dinamica tra sacrifici presenti e prospettive future: nei periodi effettivamente critici il battere il tasto dell’immolazione sacrificale, se rende i popoli docili abbassando il livello di aspettative e pretese da ripagare con i crismi di qualche santità, può d’altra parte rendere opzionabili scelte che un semplice rapporto tra costi e benefici tendeva a escludere in economie considerate generalmente in sviluppo a prescindere da molteplici storture e intoppi passeggeri.
Se ci si deve tanto sacrificare perché non farlo sperimentando pericolose quanto elettrizzanti avventure nel campo delle rivoluzioni sociali con tutto il loro bel codazzo di disagi immediati e sogni futuribili e con l’olimpo buono e caritatevole della nuova aristocrazia aperto ai trasformisti più abili, ma anche a qualche escluso di oggi?
Oppure: se ci attendono inferni di fatiche invece di egocentrici successi perché non soffrire da guerriero invece che da larva e puntare alla sottomissione di quelle genti amorfe e snervate per cui sottomettersi è un destino mentre altri sono stati ingiustamente privati del diritto di crescere e rinforzarsi a causa del sabotaggio subdolo e strisciante di nemici perversi?
Attenzione, signori della corte ed esimi giurati! L’intelligenza delle folle, più che maturare e trasmettersi tra singoli cervelli pensanti, si dilata o prolifera come fenomeni meteorologici o popolazioni di organismi pandemici.
Ecco qua, insomma, l’arcano segreto circa la sopravvivenza delle democrazie parlamentari legate ai mercati oligarchici: a) promesse o biforcute garanzie di miglioramenti futuri, b) un bilancio non terrorizzante tra benefici e disagi, c) il costo mediamente improponibile se commisurato ai punti a) e b) di scelte catalogate perciò come ‘utopistiche’.
Ovviamente, l’essere ‘utopistico’ o ‘concreto’ può dipendere da come situazioni considerate ‘irreali’ diventano semplicemente reali.
Un estremista di centro (trasfigurato in (quasi) moderato dalle circostanze) potrebbe allora domandarsi: di quali utopie sarebbe meglio fare scorta? Di comunismi asiatici e fascismi prussiani riverniciati (utopistici perché di fatto non funzionano mai come vorrebbero i promotori, ma finiscono sempre con il convergere in una medesima area grigia di banale dispotismo) o del Progetto Kolibiano, adeguatamente registrato e riadattato?
Va ai posteri l’ardua sentenza?
NOTA N.06 (3 marzo 2022)
PREMESSO CHE LE VIRGOLETTE RIMANDANO A UNA DEFINIZIONE ESPLICITA DI TERMINI CHE POTREBBERO APPARIRE ABNORMI O ECCESSIVI, SI TENTA QUI UNA SPIEGAZIONE SCIENTIFICA E OBBIETTIVA, SEMPLICE E INCONFUTABILE COME LA MEZZA PAGINETTA DI DIMOSTRAZIONE DELL’ULTIMO TEOREMA DI FERMAT, DEL PERCHE’ QUASI TUTTE LE NAZIONI DEL MONDO SIANO GOVERNATE DA ‘IMBECILLI’ MENTRE LE MAGGIORANZE DEI POPOLI DELLA TERRA SONO COMPOSTE DA ‘IMBECILLI’ CHE NON SOSPETTANO NEMMENO DI ESSERE GOVERNATI DA ‘IMBECILLI’.
(Rilevo tra parentesi come la dimostrazione del teorema a cui si accenna nel titolo si sia trasformata nel frattempo in una dimostrazione sociologica clamorosa della stretta e soffocante dipendenza del concetto stesso di cultura dalla opportunistica e settaria discrezionalità in forza ai soli interessi che possono ormai aspirare all’unico tipo di legittimazione efficace: la promozione cinicamente ipocrita e classista a PSEUDO-VALORE codificato e rubricato per puri fini di controllo oligarchico)
Il termine ‘‘imbecille’’ (virgolette interne a virgolette) va inteso ovviamente in un ampio contesto di riferimenti sistemici sovra-personali e, per connotarsi in qualità di nozione precisa e neutrale che contraddice ogni apparenza di banale insulto, deve radicalmente prescindere dalle doti personali, siano esse fisiche, caratteriali, cognitive o intellettive, delle persone a cui il termine viene applicato.
E’ possibile e anzi probabile e anzi quasi certo che tali doti risultino, per singoli aspetti o nel loro dispiegamento totale, poco o tanto superiori a quelle di chi scrive e non solo per quanto riguarda le potenzialità di riconoscimento sociale e successo economico al cospetto delle quali costui (chi scrive), se si tiene conto del rapporto costo-risultato delle di lui fatiche, rappresenta probabilmente un record di imbecillità difficilmente battibile.
La qualifica di ‘‘imbecille’’ usata in questa sede risulta senza dubbio assurda, insostenibile e alla fine, come ho appena ammesso, controproducente e auto-denigratoria se si insiste a vedere il mondo per quello che non è, ovvero una creazione di anime dotate di facoltà di giudizio e di azione indipendenti dall’effettività dei meccanismi automatici: risulta al contrario naturale e irrefutabile se si vede il mondo per quello che è, ovvero un groviglio di processi ontologici in cui le sedicenti anime illuse da un libero arbitrio inesistente al punto di rifiutare qualsiasi soluzione progettuale ‘in grande’, rappresentano una effimera e fallimentare parentesi zoologica giostrata da burattinai imperscrutabili che non sanno di esserlo e neanche, se potessero reputare qualcosa, reputerebbero importante sapere di esserlo.
I cosiddetti ‘imbecilli’ ai quali mi riferisco tollererebbero altrettanto bene definizioni in apparenza molto più confortevoli: ‘atleta darwiniano’, per esempio, potrebbe fungere da sinonimo.
Al fine di cogliere la relazione, occorre però considerare che la competizione darwiniana che si attaglia perfettamente a tutte le altre specie viventi in qualità di principio base che sostanzia in ogni tempo e luogo le leggi degli sviluppi naturali, rappresenta una pura e semplice mostruosità quando agisce all’interno di quell’anomalia assoluta che l’umanità ha chiamato umanità (il superdotato campione planetario e forse universale (tra tutte le specie viventi) nella produzione di nefandezze generatrici di autentica e piena sofferenza, duratura e intenzionale) e non serve a molto che la schizzinosa umanità, nelle situazioni più ordinarie e meno drammatiche, consideri le prerogative che consentono il successo di specie o il successo individuale all’interno della specie alla stregua di tavole dei valori e decaloghi di tipo più o meno religioso: prima o poi le relatività e gli opportunismi degli schemi emergeranno da sotto le labili croste delle varie finzioni e questo, di solito, nei momenti meno propizi, come nel caso di pandemie o di guerre, quando cioè ci sarebbe bisogno urgente di una razionalità semplificante e condivisa, di autentici criteri di mediazione organizzativa al posto dei soliti deliri da impostori che si caricano a testa bassa millantando verità assolute l’una contro l’altra armate, del solito nauseante schifo degli imbecilli detti anche atleti darwiniani che indossano le corazze più adatte alla battaglia: quelle degli interessi imbottiti di ragioni parziali indurite dalla partigianeria del solito ‘Dio’ sotto mentite spoglie la cui volontà purtroppo si potrà chiarire solo se e quando sarà designato un vincitore o magari la sconfitta definitiva di tutti contro tutti, dopo la quale gli ‘imbecilli’ meriteranno l’appellativo di imbecilli punto e basta.
Non c’è niente di più incredibile, inconcepibile, assurdo del falso uomo di fede civile o religiosa (gli autentici uomini di fede civile o religiosa restando sempre e comunque una esigua minoranza) il quale con il suo cervello di atleta del successo o della sopravvivenza darwiniani s’inventa un principio fondativo dell’universo intero (come se una varietà illimitata possa mai ridursi a un Uno senza banalizzarsi atrocemente) e poi arriva a credere che tale essenza divina possa aderire a sogni e credenze che già tra mezzo secolo, se l’umanità non si sarà estinta, appariranno quasi a tutti delle emerite cazzate, senza contare che ogni individuo umano (assolutamente tutti, nessuno escluso), se considerato come portatore di senso e di valori e non come puro fenomeno esistenziale irriducibilmente originale, in una prospettiva storica molto prima che metafisica e cosmica, si rivela poco più (o poco meno) di una ridicola macchietta che solo una vocazione innata alla bestemmia inerente alla ridicola macchietta può fare ritenere degna di attenzioni divine.
Cinquanta anni fa, benché i difetti consustanziali dell’umanità si palesassero più o meno gli stessi, le opinioni pubbliche erano strutturate e configurate in modo radicalmente diverso e il ritmo dei cambiamenti sta ancora salendo in modo esponenziale: vale proprio la pena di mettere il pianeta a ferro e fuoco in nome di ideali che se fossero privati di orpelli mitizzanti ed enucleati nella sostanza della propria natura ci lascerebbero freddi e interdetti, se non proprio rabbrividenti di orrore!
Ecco l’imbecillità fondamentale dei governanti e dei popoli che ancora perdono tempo a votarli: sostituire alla progettualità razionale di stato stazionario il vaneggiamento continuo di quegli ideali che rendono schiavo ogni individuo promettendo il paradiso di un mondo astratto da inalare, sorseggiare o delibare rigorosamente in un inferno concreto.
Tutto ciò richiede chiaramente un gioco delle parti in cerca di quel risultato netto a cui ogni crisi, costruita ad arte o aperta da casi provvidenziali, deve immettere: la restrizione del ceto medio invaso da ogni lato dalle moltitudini confinate a regimi di pura sopravvivenza e la contestuale dilatazione inarrestabile delle grandi ricchezze, esiti fondamentali ai fini di arginare l’anarchia di una libertà sociale e di una democrazia reale sempre più risicate e teoriche e sempre più simili al vetero-comunismo tradizionale corretto dalla generosissima ancorché unica libertà sostanziale di intraprendere a proprio rischio e pericolo: ogni massa di profughi per ragioni belliche o ambientali si prospetta infatti per l’avvenire ossigeno puro per le molte aziende scalcagnate e oro colato per le poche aziende sane che attendono la morte delle aziende concorrenti o la discesa ulteriore del loro prezzo di vendita, aziende che intanto vedono abbassarsi sempre di più le quotazioni dell’offerta sancite dal libero, liberissimo mercato del lavoro (l’unico mercato rimasto libero e anzi liberissimo per la mancata avversione e anzi il sollecito aiuto delle forze economiche dominanti) e intanto l’inflazione che è salita vertiginosamente per l’aumento di determinate categorie di costo legate alle crisi, quando tali costi si ridimensioneranno, non si ridimensionerà se non in percentuale molto più lieve rispetto alla loro discesa (unica autentica politica ambientale mai attuata dagli ‘imbecilli’ o atleti darwiniani del successo a favore degli ‘imbecilli’ o atleti della sopravvivenza che così eviteranno forse di estinguersi per stravolgimenti climatici, anche se per farlo potranno sempre approfittare di qualche ideale da sbandierare in presenza di qualche esplosione bellica o pandemica fuori dal comune).
Beninteso, nonostante la cautela e lo spirito diplomatico adibiti ad attutire le asperità del termine ‘imbecille’, questo scritto potrebbe sollevare fiere esecrazioni da parte di quegli ‘imbecilli’ altolocati o atleti darwiniani del successo che si sentono ingiustamente associati alla categoria degli ‘imbecilli’ dopo essere stati declassati da quella di anime immortali o comunque da qualche posizione di analoga dignità.
Comprendo sinceramente la loro stizza e il loro rammarico per cui ora cercherò di rabbonirli: non è giusto in effetti definirli ‘’imbecilli’’, solo perché il mondo, in cui essi a vari livelli delle sempre variegate gerarchie rappresentano esempi di classe dirigente, sta prendendo una brutta, bruttissima piega.
L’ho già espresso a chiare lettere: che percepiscano stipendi dirigenziali o ultra-dirigenziali, che siano ascoltati in ambienti che contano o possano anche modestamente influire su ambienti limitrofi di un certo peso, a tiro medio-lungo o magari anche breve, tutto ciò conta poco o niente se la realtà segue leggi che niente hanno che vedere con i loro deliri di uomini fattivi e volitivi: solo il progetto di stato stazionario (se attuato bene, il che non è certo facile) rappresenterebbe un passo decisivo verso la salvezza, ma non è colpa loro se l’imbecille senza virgolette che lo ha proposto non è in grado di renderlo digeribile alle caste di imbecilli (con le virgolette) che contano o se i veri ambientalisti (quelli che credono in una realtà indipendente da antropomorfismi e antropocentrismi) appaiono ancora agli imbecilli così atletici che più atletici non si può anime belle svolazzanti a mezz’aria in un mondo da sogno mentre detti atleticissimi imbecilli, che credono alla potenza dell’animo umano e alle leggi universali del profitto, sono fisicissimi e concretissimi ospiti ai convegni e ai convivi della gente di nerbo e qualità, dove aiutano a consacrare, da anime raffinate, i valori delle vivande raffinate.
Se il periodo fosse prospero, essi, con il loro mirabile esempio, potrebbero aizzare la gente a spendere e quindi a incrementare la prosperità del periodo con quell’eccesso di ciarpame consumistico che purtroppo è un costo inevitabile che non dipende certo da loro: si sa che i periodi prosperi li fanno brillare di pregi e meriti indiscutibili sopra un ineluttabile mucchio sempre più raffazzonato di fronzoli e scorie in cui molti di loro, non tutti, al contrario della gente comune, riescono a non sprofondare.
Nei periodi prosperi il secondo principio della termodinamica gioca a loro favore e solo a loro favore e di certo farebbero tutto il possibile, se potessero, affinché le cose potessero andare così anche nei periodi di magra. Ormai l’ho detto e come faccio a ritirarlo (avrei dovuto saperlo che i miei interlocutori sono cervelli finissimi): essi non hanno responsabilità in quello che accade di bene o di male, dovremmo quindi colpevolizzarli se il periodo si sta tingendo di nero e anzi di nerissimo?
Essi non sono veramente imbecilli con o senza virgolette: sono atleti darwiniani in armonia con dispositivi naturali alle cui scansioni l’umanità non ha saputo sottrarsi.
Dobbiamo solo sperare che i prezzi, le bombe e le temperature che volano non siano così potenti da spezzare i comuni ideali, nel qual caso a loro si dovrà senz’altro riconoscere il merito di averci trasformato tutti in eroi degni di lottare e morire ad altezze morali non molto lontane dai più fulgidi empirei, come il lato religioso del potere non mancherà di ricordarci a dispetto di costituzioni manchevoli che solo così possono agognare con qualche speranza ai più sommi e nobili traguardi.
Quindi, signore /i care /i ed esimie /i ciccioline /i, invece di fare tanto le frignette e gli imbecilli senza virgolette, come tutti popoli della Terra dovreste essere grati alle vostre classi dirigenti per ogni nuova crisi costruita ad arte, come covid o Putin, oppure arrivata per sollecitudine provvidenziale del caso, ammesso e non concesso che la distinzione abbia un minimo di senso: pensate al vuoto assoluto delle vostre esistenze in assenza di drammatiche congiunture in grado di mettere alla prova i vostri naturali aneliti verso l’abnegazione e l’eroismo.
Atleta darwiniano (ovvero della competizione darwiniana) in realtà è un truismo: ogni atleta compete e ogni competizione è darwiniana.
La differenza delle competizioni della generica vita sociale rispetto a quelle dello sport verte sulla fluidificazione delle regole e sulla figura non neutrale dei giudici arbitrali: in qualsiasi scenario di decorsi vitali, persino in ambiti ristretti, come un’azienda o un particolare settore produttivo, gli arbitri competono insieme ai giocatori e si distinguono sostanzialmente per la facoltà che detengono di cambiare le regole in misura cospicua durante la partita o almeno della facoltà di tentare di farlo, lucrando o tentando di lucrare potere, denaro e prestigio.
Ovviamente ciascuno, nella propria vita, relativamente a tempi luoghi e situazioni diversi, si trova a essere arbitro e giocatore insieme, secondo percentuali variabili che vanno dal cento allo zero e dallo zero al cento.
Un buon atleta darwiniano alterna saggiamente l’utilizzo dei muscoli da giocatore con la capacità di forgiare le regole adattandole alle proprie convenienze.
Sempre più ovviamente, in qualsiasi tipo di funzionalità sociale, le regole sono intricatissime, le maniglie per manovrarle e i punti di reciproca intersezione si celano in grovigli mimetici e ogni individuo umano, molto probabilmente, perde più tempo a confondere ed equivocare i piani diversi delle proprie variegate convenienze che a farsene una idea utile e chiara.
Inoltre, punto assolutamente cruciale, utilità individuale, utilità intermedie dei gruppi di individui variamente assortiti e organizzati e utilità complessiva del sistema configurano le proprie leggi e i propri meccanismi in ambiti solo parzialmente sovrapposti e (anche nelle aree dove la sovrapposizione è possibile) solo parzialmente coerenti.
Occorrono chiaramente principi unificatori, ovvero criteri tranchant (ideali forti da affilare ogni volta che serve il taglio del nodo gordiano) in grado di assicurare la governabilità ovvero le capacità di controllo di quel 20% circa della popolazione che, sui diversi piani della piramide gerarchica, partecipa a rendere effettiva la legge ferrea dell’oligarchia.
Oserei qui osservare, come nota divertita e divertente, che in una democrazia parlamentare di tipo occidentale si usa poco e male la parola oligarchia: il termine ‘oligarca’ non si adatta mai, chissà perché, al magnate a cui capita di risplendere sulle copertine delle riviste più rinomate (etichettato da un giornalismo servile come figura salvifica anche quando, rifatti i conti e dissipati gli artifici retorici, risulta uno dei principali affossatori della salute planetaria): si usa invece spesso e volentieri per catalogare figure assolutamente analoghe in nazioni rivali (gli oligarchi di Putin si meriteranno ancora la qualifica persa di geniale magnate o tycoon solo se contribuiranno a deporre il tiranno).
Comunque sia, gli oligarchi di ogni nazione non potranno mai contare sulla forza esclusiva del denaro per comprarsi gli ossequi e l’obbedienza dei popoli: necessiteranno dell’aggiustamento delle regole e quindi di quelle super-regole che sorvegliano e condizionano come angeli custodi in divisa poliziesca o militare la legittimità etica e l’autocoscienza morale dei cittadini eppure, così facendo, non si calano mai in dispositivi giuridici inequivocabili, tutto il contrario: questi dispositivi, da siffatti imperativi nebulosi, cangianti e quindi maneggevoli, ottengono sempre quella ambiguità polisemica che tanto conviene alla carriera di chi può ampiamente disporre di tutti gli avvocati che servono o a poteri trasversali come quelli vaticani, formidabili coadiutori della governabilità oligarchica.
Possiamo quindi trarre le prime conclusioni: ‘imbecille’ o ‘atleta darwiniano’ possono descrivere la stessa figura politica se ci spostiamo tra due contrapposte visioni o cognizioni dei Valori o Super-regole imposti da una gestione senza Progetto e quindi inevitabilmente oligarchica: nel primo caso fingiamo di prendere sul serio la forza di rappresentanza della democrazia liberista e globalista e quindi giudichiamo i possessori di mandati popolari in base alla capacità di curare e promuovere gli interessi effettivi del volonteroso popolo degli elettori (capacità, alla prova dei fatti, soprattutto negli ultimi tempi, pari quasi a zero); nel secondo caso, collochiamo i vari rappresentanti nel giusto quadro prospettico e quindi li vediamo impegnati in una tenzone che, da un lato, punta ad avvalorarne il tasso di funzionalità collaborativa nei confronti di attori economici influenti e quindi dei mandanti finanziatori (anche attraverso fondazioni e attività no profit foglie di fico guidate perlopiù da gestori molto ben pagati), dall’altro, attraverso particolari fisicità, eloqui e atteggiamenti recitativi, li configura come finzioni credibili di una effettiva dialettica democratica secondo professionalità e stilemi teatrali alla cui messa a punto nella testa della gente contribuiscono molto le televisioni, la società dello spettacolo in genere e naturalmente il festival di San Remo.
Beninteso, quanto appena affermato vale per gli ‘imbecilli’ o atleti darwiniani del successo: considerazioni analoghe, da differenziare in corrispondenza di una enorme quantità di ambienti diversi e quindi da limitare a tratti generici e tutto sommato banali, si possono adattare agli ‘imbecilli’ o atleti darwiniani della sopravvivenza, ossia a coloro che incarnano quell’ 80% che, ai fini delle evoluzioni sociali e storiche (ma non di quelle planetarie, purtroppo), almeno nella fase attuale, conta praticamente zero.
NOTA N.05 (8 novembre 2021, rivista il giorno dopo)
DOVE, IN CERCA DI QUEL MINIMO INDISPENSABILE DI PRESENTABILITA’ POLITICA E SOCIALE, IL KOLIBIANO, CONSCIO CHE LA SUA DISINCANTATA FRANCHEZZA NON INCANTA (LETTERALMENTE) NESSUNO, PER QUANTO GOFFO E INADATTO ALLO SCOPO SI SFORZERA’ DI ASSUMERE ELOQUI, MODI E PROPOSTE DA VENERABILE SANTONE, DI FATTO ASSAI SOLENNE, MA ANCHE, CON GRANDE NATURALEZZA, MOLTISSIMO SIMPATICO E ‘UMANO’.
SEGUONO, DOPO LA DIMOSTRAZIONE SUPER SINTETICA DELL’ULTIMO TEOREMA DI FERMAT ANNESSA ALLA NOTA N.04, DIMOSTRAZIONI SUPER SINTETICHE ELEMENTARI (CHE, E’ BENE RIBADIRLO, I MIGLIORI MATEMATICI DEL MONDO HANNO RICERCATO INVANO PER SECOLI) RELATIVE AL TEOREMA DEI QUATTO COLORI, ALLA CONGETTURA DI GOLDBACH E ALLA CONGETTURA (IPOTESI) DI RIEMANN, UN’OTTIMA OCCASIONE SPERIMENTALE, SOCIOLOGICAMENTE INTRIGANTE, PER VALUTARE LE MODULAZIONI E I GRADI DI DIFFERENZA CHE OPINIONI DIFFUSE E CULTURE CORRENTI SONO IN GRADO DI STABILIRE TRA UN CRETINO E UN GENIO O (PIU’ REALISTICAMENTE) TRA UN CIARLATANO E CHI SEMPLICEMENTE SI E’ TOLTO LE FETTE DI SALAME DAGLI OCCHI.
Benché meditassi da tempo un passo così impegnativo sulla via dell’autocritica e della redenzione, anche per essere figura degna della fama che spetta di diritto a chi offre soluzioni di problemi cruciali in modo semplice e ineluttabile (vedi Progetto Colib), sul punto della risoluzione finale mi ha sempre frenato una difficoltà in apparenza marginale: con che appellativi mi sarei rivolto al pubblico degli affezionati lettori sottolineando al medesimo tempo sia l’omogeneità quasi mistica della loro complessione sia l’irriducibile valenza di ogni costituzione individuale, naturalmente degna di cordialità e confidenze da delibarsi nel privato della singola mente nonostante l’aspetto collettivo e comunitario delle circostanze?
Amici... fedeli… colleghi... elettori... camerati... compagni…???
Quando finalmente ho deciso che vi avrei chiamato cicciolini / e (per non rinunciare al politically correct pur salvaguardando una pratica fluidità in seguito useremo solo ‘ciccioline’), mi sono sentito finalmente pronto.
Orbene, care ciccioline (cicciolini / e o, ancora meglio, ciccioline / i), ora possiamo partire per questa nuova avventura in comune.
Ahi (eccoci, lo sapevo)… un momento! Forse alla sterminata platea di giovani ciccioline che mi seguono assiduamente occorrerebbe chiarire il significato di un termine reso ostico dalla mancata partecipazione a un periodo della vita nazionale sproporzionatamente serio e ponderoso rispetto agli andazzi attuali (che ovviamente, traboccando di ecumenica e autoreferenziale santità, non necessitano di cose prosaiche come serietà e ponderatezza il cui volume, sempre molto scarso e inferiore alle necessità, i poveri disgraziati di una volta erano condannati a desiderare e auspicare invano nell’assenza di unti del Signore che facessero spalancare gli occhi di tutti per sempre).
Per ragioni di tempo e di spazio, sono costretto a rimandare le mie giovani ciccioline (/ i) alla sterminata letteratura in materia, limitandomi a rimarcare la motivazione profonda e il significato filosofico della scelta del termine: poiché, socialmente e politicamente parlando, da che mondo è mondo una idea o è stata chic o ha volato molto poco e basso (per ‘chic’ intendo qui ‘compatibile con la legge ferrea dell’oligarchia’) rinvengo in me una fortissima nostalgia di quando i radical chic (forse per un effetto di illusione prospettica determinato dalle distorsioni gravitazionali operate dalle (più o meno apparentemente) opposte masse dei democristiani e dei comunisti) manifestavano almeno qualche tratto di effettivo liberalismo, prima di diventare, per la logica elementare di quell’iper-razzismo abile ed elegante che risponde al nome di classismo, sacerdoti del liberismo globalista, ovvero di un colonialismo metafisico, territoriale e mentale, ancora intriso, secoli dopo i genocidi dei missionari spagnoli in Sudamerica, di alibi etico-religiosi.
Eh sì, amate ciccioline (qui sto già predicando) intendo manifestare con estrema chiarezza il mio pensiero al riguardo affinché le vostre anime pure non incorrano in dubbi ed equivoci venefici e inquinanti: per un liberale autentico, se tralasciamo degenerazioni assurde propiziate quasi sempre, a parte i casi espressamente patologici, da situazioni di grande sofferenza economica, il liberismo globalista non differisce sostanzialmente da, per esempio, fascismo nazionalista, comunismo asiatico, integralismo talebano, fondamentalismo puritano, moralismo monista, unipartitismo cinese eccetera (forme di cui, tra l’altro, il liberismo globalista rappresenta una orrida macedonia), se solo si trascura una grande quantità di fenomeni per concentrarsi sul grado di effettività dei processi di autodeterminazione democratica.
Ed ecco a voi, ciccioline e cicciolini, la ‘dimostrazione’.
Spostiamoci in una nazione ideale dove ognuno, a fronte di un impegno lavorativo equilibrato, non prevaricante né debilitante (quello che si propone il Progetto Kolibiano di stato stazionario e sottintendeva il sweet dream dell’american way of life agli antichi tempi liberali sgorbiati da maccartismi e codici Hayes) abbia accesso a un tenore di vita sufficiente, soddisfacente o perfino gratificante (la distinzione dipenderà sempre molto dal carattere delle persone). Supponiamo ora che quello stato di grazia dipenda anche dal rispetto di convenzioni più o meno vessatorie assunte come coadiutori simbolici e segnali mnemonici intesi a mantenere i decorsi comunitari nella giusta direzione.
Che cosa preferireste voi, magnifiche ciccioline? Inchinarvi formalmente ai diktat di un Hitler, uno Stalin o un Bin Laden, sterilizzati, edulcorati e caricati a molla per i discorsi di piazza e poi rimessi in deposito come un manichino inerte quando ognuno accede alla propria dignitosa sfera esclusiva e privata, oppure ricevere ovunque, in ogni momento, da ogni manifesto dei muri, dagli schermi e dagli amplificatori di ogni apparecchio elettronico, privato o meno, dalla viva voce o dalla penna di schiere onnipervasive di pubblicisti, propagandisti, show men e show women, l’invito gentilmente perentorio a essere sempre più ‘libero’, ovvero sempre più attivo, dinamico, spigliato, simpatico, sfolgorante, produttivo eccetera eccetera e quindi, in sostanza (se il tuo corpo non produce in processi spontanei abbastanza endorfine oppure decide di impiegarle in faccende non pubblicamente vendibili), drogato come una notevole e decisiva fetta della classe dirigente? Preferireste essere libero come esige un dittatore che svolge il suo burocratico compito di cane da guardia e se ne frega di quello che effettivamente e non per finta potete fare per i fatti (‘cazzi’) vostri grazie alle prerogative che vi conferisce il sistema o essere libero come vi comanda di essere il vincitore carismatico (che magari, per estrema disdetta, si è fatto da sé e si ritiene quindi un prediletto da Dio più ancora dei prediletti nati) il quale, in quanto è molto ma molto generoso, vi vuole tutti, nessuno escluso, vincitori come lui? Se foste un afghano mentre un talebano dotato del senso dell’umorismo in quanto abbastanza sicuro del suo potere beneficatore non fosse una contraddizione in termini, preferireste ubbidire formalmente alla legge tradizionale islamica e intanto aderire con tranquillità a modelli di ‘vita sostenibile’, oppure farvi tiranneggiare il tran tran familiare da quegli imperativi dell’eccellenza competitiva che, tra tante altre vessazioni, vi impongono di svenarvi per procurare ai vostri figli il lasciapassare aristocratico di un titolo di studio la cui reale importanza negli effettivi ambienti di lavoro, statisticamente parlando, si squaglia di fronte a molte altre urgenze, prima tra tutte la necessità di barcamenarvi per ottenere i contatti, gli appoggi e le ‘amicizie’ giuste?
E’ più dittatore chi vi impone determinati comportamenti pubblici dimenticandosi di una autonoma e idonea vita privata che, con un minimo di non soffocanti rispetti, possa svolgersi anche all’aria aperta insieme alle persone che preferite e che sia resa effettiva dal sistema attraverso opportuni meccanismi o chi vi invita gentilmente a condurre la vostra vita (pubblica e privata non fa differenza) nel modo che piace a lui altrimenti non c’è trippa per gatti?
Quelle problematiche ciccioline o problematici cicciolini che non rispondono a tono cogliendo i dovuti suggerimenti retorici sono pregate (/ i) di andarsene: ci sono molte altre platee e molti altri predicatori che, proprio in questo momento, esattamente come me, servono molto bene a configurare una idea totalmente fantasmagorica e illusoria di autentica libertà.
Consentitemi di tenere per me le risultanze analitiche di tale sfoltimento: sono più che certo, del resto, che cambierebbero sensibilmente da un anno all’altro e si stravolgerebbero da un decennio al successivo.
Ovviamente ai ragionamenti pregressi il signor Volpone può obbiettare che le caratteristiche e gli effetti di una dittatura dipendono moltissimo (come del resto ho già esplicitamente ribadito) dalla base economica e che quindi è la capacità di fondare e consolidare l’una o l’altra base economica che conta (il sig. Volpone è abilissimo nel trasfigurare argomenti marxisti in risultati pratici da Chicago Boys, come i ‘socialisti’ sostenitori di Draghi e della target inflation), per cui se un tipo di dittatura (tra diecimila virgolette) migliora la base economica, migliora se stessa e quindi si auto-assolve e acquista moltissimi punti nei confronti delle concezioni concorrenti (si può evocare qui qualche richiamo alla famosa definizione della democrazia di mercato come il sistema di governo peggiore a eccezione di tutti gli altri, nessuno escluso).
Certo, Sig.Volpone, il tuo ragionamento non fa una piega, diciamo pure che sarebbe inattaccabile e decisivo, se non trascurasse del tutto un punto di assoluta preponderanza e inevitabilità: l’armonia tutta da dimostrare tra una tollerabile (socialmente parlando) evoluzione dell’economia di mercato e una tollerabile (ontologicamente parlando) evoluzione degli assetti climatici e ambientali.
Prima di proseguire, impagabili ciccioline, mi tocca farvi presente una spinosa avvertenza che non vorrei venisse interpretata come excusatio non petita.
E’ arcinoto, anche se molto spesso sottaciuto, che un venerabile santone, nonostante le sue potenzialità intellettive praticamente illimitate (da dedicare però, quasi per intero (lo si capisce bene) alle capziosissime circonvoluzioni delle intricatissime strutturazioni di rapporti sociali foriere di preziosissimi consensi come di pericolosissime defezioni), non può eccedere in rilievi troppo penetranti, sconvolgendo le regole non scritte degli autentici democratici sani e moderati che scrivono i valori, secondo i quali, molto giustamente, una intelligenza che irrita o allarma non è intelligenza, ma depravazione da sociopatici (La formula magica che deve imparare ogni capino, capo o capone che si rispetti è: “Finché comando io e non tu, portami le soluzioni che voglio io e non i problemi che riscontri tu!” con l’aggiunta del retro-pensiero da tenere rigorosamente riservato: ‘se i problemi esistono e le soluzioni no, chissenefrega se la mia carriera non ne risente, ma anzi’)
Ben difficilmente si riuscirebbe a compilare anche solo un piccolo libretto di aforismi interessanti con le dichiarazioni pubbliche dei personaggi più stimati e glorificati (quelli che, almeno per un fuggevole periodo di tempo, riescono a spuntare nei sondaggi, a volte o spesso calibrati surrettiziamente per favorire certi esiti, percentuali di gradimento che sfiorano o addirittura superano il 50%). Ma ci pensate che rischio correrebbe il loro vasto e indifferenziato carisma se solo provassero a pronunciare proposizioni appena un poco incisive e compromettenti?!?
Va da sé che certe risultanze di gradimento, anche se emergessero da sondaggi corretti e integralmente disinteressati, non restituirebbero risultati veritieri sull’umore effettivo del corpo elettorale: per farlo, dovrebbero carpire dall’intervistato, insieme al grado di consenso, il grado di avversione, ma questo non è possibile, primo perché sembra sia un illecito penale professare pubblicamente e sinceramente il proprio odio, ma poi perché, se anche tale forma di illecito non esistesse, chi, individuato per nome e cognome, si esporrebbe con biasimi feroci nei confronti di qualcuno che detiene il massimo potere decisionale? Purtroppo non è garantito da nessuna parte che un assetto rivelatore, per esempio, di un 60% di tiepidi consensi e un 20% di avversione esasperata, sia più stabile di quello basato su un 40% di pudica tolleranza e un 60% di blando e rassegnato fastidio.
Di sicuro la prima complessione è più naturalmente esposta a escalation autoritarie come a spaccature e divisioni dei tipi più diversi, soprattutto quando buona parte degli elettori si rende conto che è perfettamente inutile votare in senso radicale se gli eletti faranno irrimediabilmente figure di cacca in virtù dell’astuta opposizione dei poteri che contano e continuano a rimanere ben saldi sulla loro sella dorata, così come è perfettamente inutile manifestare pacificamente se la manifestazione darà veramente fastidio ai poteri che contano e continuano a rimanere ben saldi sulla loro sella preziosa ed è quindi destinata a sfociare comunque in violenze a causa delle solite infiltrazioni orchestrate ad arte, magari per motivi ideologici opposti che convergono soltanto nell’immediato.
L’ultima clamorosa e divertentissima invenzione in materia riguarda il tentativo da parte di sobillatori eversivi di addossare la colpa dei disordini ai sobillatori istituzionali invertendo così lo schema solito in cui è il sobillatore istituzionale che riesce quasi sempre ad addossare la colpa ai sobillatori eversivi: una trovata politicamente ingegnosa che meriterebbe maggiore considerazione da parte di tutti, ma che purtroppo cozza contro il fastidio di maggioranze bulgare che, quando la faccenda si fa troppo complicata (e che diamine! perché le forze dell’ordine si chiamerebbero così se non fossero dalla parte dell’ordine?) si volta dall’altra parte per rilassare la testolina già un po’ dolorante.
In molte nazioni (Italia esclusa!), risulta perfino inutile qualsiasi seria politica di soccorso o sostegno sistematici alle condizioni più disagiate, dato che prima o poi la malavita diffusa od organizzata troverà manforte in vasti settori istituzionali per convertire ogni buona intenzione al riguardo in occasioni di sfruttamento truffaldino che offriranno immancabilmente il destro ad ambienti molto ‘dinamici e produttivi’ (sempre più compromessi e intrecciati con le medesime frange criminali) per denunciare lemmon principle e moral hazard come vizi connaturati alla pigrizia ancestrale di chi rifiuta sacrifici e lavoro per vivere da parassita nei marsupi troppo ricettivi dello stato
Non disperate del tutto, molto perspicaci ciccioline! Rimane la strategia più efficace di tutte: non andare a votare se non per partiti del Progetto o almeno di una bozza iniziale di Progetto e la riprova la riceverete molto presto da come, latitando i partiti del Progetto (quello da mettere in cantiere con la metodologia più opportuna, non quello oligarchico che a spizzichi e bocconi, con la baronale anarchia che possono vantare solo le disdette più sistematiche, procede inesorabilmente elezione dopo elezione) il non voto sarà colpevolizzato da liberissimi e indipendentissimi ‘organi ufficiali’.
Comunque, ciccioline non plus ultra, io solennemente proclamo levando alta la mia voce fino a rimbombare tra le infinite volte degli astri, che, dopo millenni di silenzio, sta tornando a farsi sentire sul pianeta una voce ben più potente e cioè quella di Dio o ‘Dio’ (la distinzione viene mantenuta a tutela dei fragili equilibri mentali di chi ritiene ancora che, quando si tratta di determinismi cosmici, tra coscienza e non coscienza, personificazione o automatismo impersonale, possa sussistere una qualche sensata differenza indipendente dalle distorsioni emotive e percettive di agenti antropomorfi).
Ebbene sì, sublimi ciccioline, noi Lo abbiamo invocato con ossessiva e incalzante paranoia e noi non potremo che sottostare a quell’azione che, senza gli opprimenti solleciti di una specie megalomane e tiranna, si sarebbe espletata in tempi di cui i limiti ristretti della vita animale non avrebbero consentito (eventi catastrofici a parte) un’adeguata percezione (un’azione che, se fosse personificata, non sarebbe poi così strano e inconcepibile se si dimostrasse più sensibile e sollecita verso il singolo esemplare di una specie a rischio che verso la singola anima desiderosa di felicità eterna)
Egli e solo Egli ci dirà molto presto se economia di mercato e salvaguardia del pianeta possono marciare d’intesa.
Io, rispettabilissime ciccioline, mi limiterò a elencare con quella sobria e dimessa essenzialità che, purtroppo, come è suo solito, contraddice villanamente l’aulica seduzione di ogni umano incantamento, qualche deludente motivo che mi induce a ritenere vani e dunque calamitosi, i presupposti e gli intendimenti del sogno (o incubo) teo-tecnocratico o tecno-teocratico.
Ahimè, una certa secchezza s’impone: questa è una predica da venerabile santone kolibiano, d’accordo, ma un kolibiano, soprattutto quando è un venerabile santone, non crea ricette mescolando alla rinfusa il dolce e il salato, l’acido e l’amaro: un kolibiano modula in sapienti accostamenti espressivi (anche se di non facile lettura) i piani diversi della fenomenologia esistenziale, non li manda a collidere e malamente confondersi per generare le capziose suggestioni di quei plagi autoritari che incartano in una luccicante logica di carta stagnola le caramelle avvelenate della seduzione emotiva.
Quindi, esimie ciccioline, beccatevi quello che segue e se non vi sta bene, cambiate pure comizio.
La dimostrazione più clamorosa che ‘Libero Mercato’ (definizione assurda quasi come quella di ‘numeri reali’) e salvaguardia ambientale non si potranno mai rendere compatibili ci è fornita dal governo Draghi e dal ‘Ministero della transizione ecologica’ (definizione assurda, in un governo traboccante di consumatori di suolo per le necessità di far circolare moneta, molto più di quella di ‘Libero Mercato’).
La rimessa in gioco del nucleare è una dimostrazione super sintetica, elementare e inconfutabile che le energie ‘pulite e rinnovabili’ (definizione abbastanza assurda anche se meno di quelle tassate prima di assurdità) non sono una soluzione accettabile per i teo-tecnocrati o tecno-teocrati (i maghi dell’onnipotenza tecnologica comandata dai Massimi Faraoni), il che, dopo una opportuna traduzione, significa: non sono una soluzione ‘sostenibile’ in una economia di ‘Libero Mercato’.
I motivi, evidenti e più volte ribaditi, risiedono soprattutto nella non gestibilità di carichi di energia aggiuntiva (‘pulita e rinnovabile’ quanto si vuole, ma a basso rendimento complessivo) esorbitanti rispetto ai livelli quantitativi attuali (considerando anche gli accumulatori indispensabili per superare il problema cruciale dell’aleatorietà delle fonti) e nell’impossibilità di un approvvigionamento adeguato di materia prima sofisticata (terre rare eccetera) in presenza di quel turn-over indispensabile per poter mantenere vivo e profittevole il fatturato delle ‘libere aziende’.
Il nucleare ovvia a certi inconvenienti e a che prezzo? Che vi ovvi è molto dubbio (il nucleare è non rinnovabile come il petrolio, non è mai ‘pulito’ come sarebbe auspicabile e i suoi prezzi possono schizzare alle stelle in qualsiasi momento), ma soprattutto il prezzo da pagare è quello che deriva dalle normali leggi della finanza sociale: in genere e salvo casi particolarissimi, se il gestore è onesto e capace, le probabilità di guadagno si commisurano esattamente alle probabilità di rischio meno la sua provvigione dichiarata.
Ovviamente il rischio maggiore deriva dal tasso di onestà del gestore, esattamente come il rischio maggiore della scelta nucleare non deriva da quello sempre ineluttabilmente troppo alto legato a incidenti e smaltibilità dei residui: deriva dalla fragilità del sistema d’impianti in regime di guerre latenti che, finché non scoppiano, si diluiscono in terrorismi e attentati: questi rimangono un problema trascurabile solo fino a che persiste globalmente quell’opera di ripianamento e ridistribuzione che il ‘Libero Mercato Oligarchico’ può anche sognare, ma che le varie crisi climatiche renderanno sempre più di difficile attuazione.
Vediamo allora perché, secondo il sottoscritto, Mercati e risanamenti ambientali permangono ineluttabilmente in contraddizione reciproca.
Un Mercato delle produzioni e degli scambi, unilaterale concetto economico implicitamente metafisico e religioso, non può essere libero e se anche, ragionando per assurdo, parte libero, si struttura progressivamente in senso sempre più dirigista e gerarchico.
Questa, più che una opinione, è una constatazione collegata al trattamento scientifico dei processi di diffusione a sviluppo dendritico, a quella casualità diffusa che genera rinforzi casuali isolati i quali poi tendono a differenziarsi sul primo livello per subire analoghe estrazioni a sorte su un secondo livello, dove una casualità diffusa applicata al campione ridotto genera rinforzi casuali i quali poi tendono a differenziarsi sul secondo livello per subire analoghe estrazioni a sorte su un terzo livello, eccetera eccetera, fino a un livello in cui la casualità non interviene più perché il campione si è ridotto e strutturato al punto che a farla da padrone non è più la statistica, ma il confronto darwiniano o collusivo tra i pochi attori rimasti.
Se anche è espresso in modo molto schematico, tutto ciò descrive fedelmente, almeno a un livello intuitivo, quello che accade davvero se si esclude la moltitudine di accidenti, sovrapposizioni e disturbi che al solito nasconde la logica di fondo a ogni sguardo troppo ravvicinato come quello di qualsiasi essere umano.
Per farsene una ragione basta considerare l’instaurarsi automatico in ambiti naturali come artificiali (per esempio nei rapporti numerici tra popolazioni di una stessa nicchia ecologica oppure tra i contatti che ogni nodo di Internet instaura con gli altri indirizzi www) delle reti cosiddette ‘scale free’, regolate da leggi di potenza contraddistinte da una scala o proporzione dei fenomeni che varia secondo una legge fissa e indipendente da livello a livello (fenomeno che, in termini tecnici, viene paradossalmente definito ‘invarianza di scala’)
Ciò, a mio avviso, è più che sufficiente a sottolineare l’incompatibilità di fondo tra democrazia e mercato oppure tra democrazia e mercato (insieme) e la salvaguardia ambientale.
La concentrazione della potenza finanziaria nell’ambito di una gerarchizzazione crescente, se solo si valuta realisticamente la forza preponderante del denaro nell’agone del ‘libero’ mercato, ostacola a ogni livello la libera competizione e i suoi effetti benefici: accade regolarmente, per esempio, che la collusione tra grandi interessi ritardi o addirittura sopprima l’introduzione di tecnologie e rimedi fortemente innovativi e forieri di benefici diffusi, ma purtroppo contrari a piani d’investimento debitamente esclusivi e remunerativi. Il prestigio e la remunerazione dei dirigenti di alto livello, inoltre, non dipende per niente o molto poco dalla funzionalità e congruità dei meccanismi di livello inferiore da cui dipende invece la prosperità degli strati sociali meno abbienti: si basa sulla fertilità di invenzioni ‘strategiche’ che non mandano mai una luce diffusa per decenni, ma bagliori pirotecnici che durano, se i calcoli sono fatti bene (e spesso non lo sono) il tempo necessario a lustrare le singole carriere e i singoli stili di vita.
Per quanto concerne invece le opzioni di regolazione e ridistribuzione a disposizione degli organi politici di amministrazione e controllo, quelle, invece di sottostare a vagli e selezioni di tipo etico e ideale, passano attraverso organismi collegiali e partitici impegnati in competizioni di tipo economico che riguardano sia i costi di apparato che le retribuzioni e le carriere di singoli soggetti i quali, se, coordinandosi tra di loro, possono decidere la propria retribuzione, non possono decidere a piacere la durata del proprio mandato e quindi devono pianificare il proprio percorso di vita con un occhio fisso a prospettive di carriera e sostegni concreti dipendenti da tante cose, ma soprattutto da una certa benevolenza da parte… di chi tiene in mano i cordoni di un grosso Borsone, e di chi, se no?
Vagli e selezioni di tipo etico e ideale sono invece ridicolizzati da una illeggibile ed esponenzialmente crescente complessità di situazioni e da come tale complessità finisce sempre per reclamare il taglio del nodo gordiano da parte di ‘uomini forti’ appartenenti sostanzialmente a due categorie: quelli culturalmente cretini perché presumono di sapere tutto quello che serve per istinto divino e quelli culturalmente cretini per la libera scelta di chi sa benissimo che la cultura è un bastone tra le gambe o addirittura una palla di ferro tra i piedi in un contesto darwiniano in cui serve solo una spada affilata per tagliare la corda spessa e nodosa sopra il nodo gordiano.
Che peccato per gli uomini forti (ma forse, anche se non probabilmente, solo per quelli futuri e non per quelli attualmente beneficiati dal dio Kulo) che Dio o ‘Dio’, la cui incarnazione più vicina all’uomo non è Gesù Cristo (che dava a Cesare quel che è di Cesare), ma l’equilibrio ecologico e ambientale planetario (che dei Cesari se ne frega e magari tiene più a un albero che al fiore all’occhiello dello smargiasso di turno), non possa apprezzare granché tale genuina manifestazione di acutissima e accortissima saggezza.
Forse (ma per carità, credetemi, non ne sono affatto sicuro!) l’unica vera democrazia rimasta nel mondo, se non sei simpatico per vocazioni e talenti innati a quelli che tengono la manina su qualche borsone di sufficiente capienza, rimane il partito unico cinese e questo nonostante tutti i suoi capitalistici e anticomunisti difetti.
Affinché possa assumere da parte mia una più decisa posizione al riguardo (nel frattempo, ciccioline adorate, il mondo intero sarà costretto a vivere in ansia, trepidazione e incertezza), sorveglierò la politica ambientale dei governanti cinesi.
Auspico che essi seguano con forza e decisione la sola linea d’azione che io ritengo effettivamente efficace, restando ogni altra aperta in via subordinata e in qualità di opportuno complemento e opportuno rinforzo: la restituzione al pianeta di distese terracquee sempre più vaste e l’arretramento della presenza umana in aree sempre più ristrette, sufficienti a ospitare più che dignitosamente esseri umani rinsaviti al punto di godere appieno di quelle aree restituite dal dio umanità a tutti gli individui animali, esseri umani compresi.
I cinesi e altri, come Putin o Erdogan, dovrebbero insomma guardare al governo Draghi (che ha riacquistato un prestigio internazionale che gli italiani si sognavano dai tempi di De Gasperi) e fare esattamente il contrario: non assegnare il ministero della transizione ecologica a un esperto di robotica patito per il nucleare e catalogare invece le Grandi Opere come la Pedemontana Lombarda (avallata dall’europeissimo governo Draghi in totale dispregio delle indicazioni europee contro il consumo di suolo) alla stregua di veri e propri crimini contro l’umanità (il dio umanità, che per farsi bello con i simulacri di una proiezione trascendente di sé, continua a martellarsi i coglioni da solo), misfatti che azzerano, colpo dopo colpo, l’assorbimento continuo di CO2 da parte della natura lasciata libera di operare a suo modo.
Naturalmente le emissioni da combustibili fossili vanno ridotte comunque, ma purtroppo sono tutt’altro che lesive per il sistema corrente di produzione agro-alimentare ed è semplicemente da fessi ritenere che se quello si incrementa senza corrispondenti aumenti dell’efficienza generativa e riduzione degli sprechi (sempre più teorici e velleitari) il tasso di gas serra atmosferici possa diminuire, ed è pure da fessi ritenere che l’equivalente, più o meno, di sette miliardi di cervi in più ogni anno (l’animale umano riparametrato in base al consumo energetico e alle devastazioni ambientali), vigendo gli attuali sistemi, possa essere sfamato senza incrementare le produzioni alimentari in genere e quindi i gas serra.
Dopo aver considerato altri fattori inquietanti, come, in concomitanza con la sostituzione dei combustibili fossili con energie alternative, la perdita economica del formidabile lavoro operato dalla natura che, in milioni di anni, ha sintetizzato legami chimici massimamente energetici, nonché la perdita di efficienza termodinamica dovuta alle basse temperature a cui operano mediamente le energie rinnovabili e i motori elettrici, direi proprio che è il caso di scegliere: o qualcosa come il Progetto Kolibiano o l’aumento inesorabile di probabilità delle Guerre Civili e della Terza Guerra Mondiale conseguente alla devastazione di habitat e risorse, a meno che i geni dell’oligarchia non siano in grado di ottenere la miracolosa omologazione delle masse umane a un acquiescente allevamento di placidi bovini masticatori muniti di mutandoni che sequestrano il metano (bovini da trasformarsi per il dovuto lasso di tempo in scimmie acrobatiche se e quando ingaggiati a basso costo in un posto di lavoro), mentre gli olimpi aristocratici cercano di prolungare il proprio tenore di vita corrente.
Si dà il caso, purtroppo o per fortuna, che, per elementari questioni numeriche, le leggi di potenza delle reti scale free che operano in ambiti e congiunture diversi mettono in continuata e crescente tensione l’efficienza verticista e autoritaria del sistema economico generale rispetto ai bisogni e le aspirazioni diffuse di una base di popolazione sempre più ampia e ciò con buona pace delle giuste e sacrosante aspirazioni di carriera che animano i rappresentanti politici delle maggioranze più ampie.
Si dà il caso anche, purtroppo o purtroppo, che qualsiasi mediazione effettuata finora abbia potuto funzionare soltanto in seguito a un gravissimo e potenzialmente catastrofico sfruttamento degli scenari naturali.
Al riguardo la scelta operata dal governo Draghi circa la figura professionale (non la persona specifica che non so neanche chi è) a cui affidare il ministero della transizione ecologica, rivela, da una parte, come lo stordimento del sogno teo-tecnocratico o tecno-teocratico obnubili la cognizione dei massimi responsabili governativi, denuncia invece, dall’altra parte, la ingenua sventatezza di chi ha ritenuto la semplice creazione del ministero chissà quale progresso epocale.
Ritenere che l’alta tecnologia di avanguardia possa rappresentare un passo avanti sulla via della sanificazione ambientale è tipico di chi non ha ancora capito che l’organizzazione tecnologica sofisticata può rappresentare un ottimo toccasana in un regime sorvegliato di stato stazionario a trasparente gestione comunitaria: comporta invece un aggravio incontrollabile di carico energetico ed entropico in una economia di mercato sbilanciata e oligarchica in cui gli amministratori politici non hanno né la capacità né le competenze e neppure gli interessi e la voglia per gestire le varie innovazioni e applicazioni, mentre queste sono giudicate secondo il metro esclusivo del profitto aziendale da parte dei promotori e controllori più direttamente coinvolti.
Ripeto (repetita iuvant o qualcosa del genere): finora non è mai esistito alcun modello di sviluppo economico e di correlata organizzazione sociale che, armonizzando, con un pragmatismo una tantum e alla giornata, collusioni e darwinismi economici diretti dai cittadini alfa con le esigenze e le aspirazioni di una base numericamente maggioritaria, non incidesse altresì, pesantemente e disastrosamente, sul contesto ambientale planetario.
Per far sopravvivere certe aziende secondo le leggi della competizione e del profitto e senza nemmeno tentare di rifonderne le strutture e le maestranze in un modello più armonico, bisogna consentire a quelle aziende di sfasciare il pianeta: i due termini della questione, ovvero ‘sano’ dinamismo aziendale e compromissione dei territori dove la gente vive, rimangono, in moltissimi casi, assolutamente inscindibili, come tutti gli economisti, che però non te lo vengono certo a dire, sanno benissimo.
La loro speranza massima e segreta, mentre in pubblico si sbracciano a dirigere l’orchestra di manager, pubblicitari e imbonitori vari che prorompono di note entusiastiche intorno al nuovo business dell’ambientalismo visto come target distintivo di immagine, poggia sulla fede nella fisica del caos e in tutti quegli imponderabili che, nei decenni vicini, potrebbero contribuire a contenere gli sviluppi catastrofici in limiti rispettosi e moderati almeno per le fasce più protette.
Io invece opto per l’alternativa del Progetto Kolibiano.
E voi, mie fedeli ciccioline?
Teorema dei quattro colori
Scegliamo come base una regione B qualsiasi e assegniamo a ogni altra un numero n pari al numero minimo di transizioni da una regione all’altra necessarie per raggiungere la regione B.
Questa procedura divide la carta in strati o anelli di regioni non necessariamente collegati, che comunque generano due tipi di linee di frontiera (continue o spezzate), una confinante con qualche regione n+1 (linea esterna), una con qualche regione (n-1) linea interna.
I confini n-n tra regioni dello stesso strato o anello possono essere di due tipi: semplice, quando una regione non terminale o di anello confina solo con due regioni situate in lati opposti della catena, o ‘composti’, quando una regione confina anche con regioni più lontane lungo la catena.
Lo strato privo di confini composti (catena semplice) e gli anelli composti da un numero pari di regioni possono essere colorati con l’alternanza di due colori e, se tutta la carta geografica fosse composta da queste fattispecie, la dimostrazione sarebbe completa, dato che basterebbe cominciare con le ‘catene + anelli’ che hanno il numero n più elevato, colorarli con alternanza dei colori A1 e A2 e procedere poi a colorare le regioni n – 1 con i colori B1 e B2, le n – 2 con A1 e A2, eccetera eccetera.
Per passare dal caso semplificato al caso generale, basta considerare che data una qualsiasi combinazione di strato o di anello provvisti di una frontiera esterna con meno regioni e una interna che allinea tutte le regioni, essa può essere colorata senza conflitti in modo che presenti sulle frontiere esterne le alternative di tre coppie di tre colori (schemi del tipo: A1, A2, A1, B2 e B1, B2, B1, A2) e, data qualsiasi giunzione di strati o di anelli colorati con tre coppie di tre colori, è sufficiente ripartire da una coppia diversa e opportuna ogni volta che si crea una incongruenza per armonizzare le coloriture.
Lasciamo all’allievo diligente, come esercizio, il dettaglio delle ultime affermazioni, a patto che, nell’ipotesi che fosse stato stabilito un premio per il risolutore, questo vada al sottoscritto e non all’allievo che non voglia essere bocciato.
Congettura di Goldbach
La probabilità che ogni numero pari a 2n non sia somma di una o più coppie di numeri primi è data, almeno approssimativamente, da:
1) k¶1n-1 (1 – (log(n – k))-1) (1 – (log(n + k))-1)
Che questa formula sia una buona approssimazione oppure no, paradossalmente non riveste grande importanza: qualsiasi perfezionamento analitico risulterebbe comunque problematico se si tiene conto che la nozione di infinitesimo su cui si fonda la sistemazione concettuale dell’analisi è basata su una cognizione di limite che risulta incompatibile con qualsiasi effettivo processo discreto: infatti l’unità, che, a paragone di numeri sempre più grandi, dovrebbe avvicinarsi a un infinitesimo, rimane invece una unità (vedi dimostrazione elementare dell’ultimo teorema di Fermat).
Il fatto rilevante è che la 1) varia con n e che quindi la sequenza illimitata dei numeri interi non prevede alcuna struttura formulabile in modo che la sua validità si estenda da 0 all’infinito (del resto, se lo prevedesse, il teorema di incompletezza di Goedel sarebbe contraddetto).
Una formula di probabilità presuppone un determinismo generativo: probabilità variabile lungo una progressione significa determinismo generativo non esprimibile una volta per tutte e avvicinabile solo attraverso un concetto di limite che però nel discreto, come già detto, non vale per la semplice ragione che una unità differisce concettualmente e definitivamente da un infinitesimo a prescindere dalla grandezza del numero incrementato.
Una dimostrazione della congettura implicherebbe questa struttura esaustiva e quindi falsificherebbe la 1) e il teorema dei numeri primi dimostrato da Hadamard e altri (la 1) può essere riformulata utilizzando i logaritmi integrali di Gauss).
Congettura di Riemann
La funzione zeta è una funzione olomorfa che quindi, detto in soldoni ricordando per analogia le proiezioni cartografiche sul tipo di quelle di Mercatore, traduce linee circolari sul piano complesso delle variabili indipendenti in fluttuazioni delle ordinate dei piani perpendicolari a questo piano e paralleli tra di loro, conservando gli angoli delle figure nel passaggio dalla superficie di base a quella che taglia il volume dei piani perpendicolari affiancati.
Le funzioni complesse, che rispettano la condizione di Cauchy- Riemann, solo in questo modo conservano una condizione di continuità compatibile con l’estensione delle funzioni dai numeri reali ai numeri complessi.
Se la successione degli zeri della funzione zeta riproduce la successione dei numeri primi interi sulla retta reale, gli zeri devono collocarsi sulle linee circolari che partono da ogni numero primo e comprendono tutti i numeri complessi aventi lo stesso modulo, la qual cosa deve avvenire nel rispetto di leggi angolari che estendono ai numeri complessi le leggi a cui sottosta la distribuzione dei numeri primi.
Se questa legge angolare esiste e non varia, la retta degli zeri deve essere unica.
D’altra parte, se questa legge fosse identificabile con assoluta certezza e comportasse elementi aggiuntivi rispetto a quello che è in sostanza un artefatto mentale (ovvero rispetto alla condizione di olomorfismo necessaria a estendere la continuità delle funzioni dal reale al complesso in rapporto alla natura di corpo additivo, moltiplicativo, associativo e commutativo che scaturisce dalla definizione di numero complesso e che estende l’analoga natura dei numeri reali) contraddirebbe il teorema di incompletezza di Goedel.
N.04 (8 ottobre 2021)
L’UMANITA’ E’ IMPOTENTE RIGUARDO A SE STESSA: COME UNA SORTA DI PLANETARIA DIVINITA’ PLURICEFALA, ATTRAVERSO UNA VOLONTA’ CHE NON PUO’ CONDIZIONARE, CONDIZIONA TUTTO CIO’ CHE CONDIZIONA LA SUA VOLONTA’ E, NON POTENDO CONDIZIONARE CIO’ CHE NON ESISTE, OVVERO CIO’ CHE NON CONDIZIONA LA SUA VOLONTA’, IMMAGINA UN LIVELLO DI DIVINITA’ SUPERIORE CHE LO FACCIA AL SUO POSTO.
Il principale handicap culturale dell’umanità, il baco mentale più dannoso e diffuso, concerne a mio avviso una incapacità quasi congenita di accorgersi quando una teoria molto panoramica, comprensiva e coinvolgente rientra nell’ambito della opinabilità ideologica oppure in quello della supposta e magari illusoria evidenza (o addirittura ovvietà) di tipo scientifico.
Passare da questioni di dettaglio a premesse basilari e inevitabili comporta inevitabilmente l’iscrizione in uno o l’altro di queste due diverse tipologie cognitive e in sostanza, con un grado di generalità poco o nulla superiore, richiama la distinzione tra filosofie dello spirito e filosofie della ragione, restando auspicabilmente le filosofie della creazione artistica e letteraria di pertinenza strettamente individuale e inter-individuale,
Questa pertinenza, essendo solo esistenziale e non politica (anche se mai politicamente inerte), in una società seria dovrebbe costituire elemento di apprezzamento tutt’altro che riduttivo, di giudizio libero dai servilismi di quella spettacolarità propagandistica che piace tanto a molti notabili tra quelli usi a esibirsi in pubblico: buona parte di costoro, inutile nascondercelo, considera invece con sospetto ogni forma libera e insubordinata di interazione individuale sociologicamente e culturalmente significativa, possibile origine di intese sotterranee tra persone non etero-dirette. (Sono lieto comunque, lo dico tra parantesi, di comunicare che i citati notabili non hanno bisogno di rodersi il fegato più di tanto: anche gli artisti, come i politici, devono mangiare).
Un problema spinoso e sempre accuratamente sottaciuto non deriva comunque da un confronto franco e perfino brutale tra, da una parte, un approccio emotivamente enfatico, sempre in qualche modo (in quanto valutativo ed educativo) settario, autoritario e dogmatico-religioso e, dall’altra, una metodologia programmaticamente e metodicamente razionale e impersonale, rispettosa delle individualità nella misura in cui debitamente rispetta le complessità.
Il problema vero detona quando una vocazione mitologica condivisa tra strati dirigenziali e sudditi culturalmente inermi si insinua come obbligo di deferenza e sottomissione nell’esercizio di discipline tecnico-scientifiche a cui si assegna il ruolo di coadiutore funzionale in limiti rigorosamente tracciati, limiti che ovviamente escludono qualsiasi accesso a visioni ineluttabilmente compromissorie sul piano sia politico che esistenziale.
Il risultato di tale impostazione griderebbe vendetta a un Dio o ‘Dio’ che fosse effettivamente costruttore di un mondo: i vari poteri scelgono l’una o l’altra religione (che restituisce inevitabilmente la caricatura di un Dio o ‘Dio’ subordinato alla felicità degli uomini che suppongono di poter decidere e alla consolazione degli uomini che suppongono di non poter decidere, categorie variabili, per tempi, circostanze e luoghi) accanto all’una o l’altra ideologia.
A religione e ideologia, questi poteri effettivi o aspiranti tali affidano concetti di etica e ragione che, almeno nelle intenzioni, dovrebbero essere resi esclusivi e cogenti: con quella scelta si procurano dunque gli strumenti principali e fondamentali utili alla decodifica di una realtà che, per quanto arbitraria, ogni disciplina scientifica deve solo accudire, rinforzare e proteggere attraverso le efficientissime protesi da utile idiot savant di una operatività esclusivamente pratica e funzionale.
Si è già osservato come tutto ciò rappresenti un radicale ribaltamento operato dalla civiltà attuale rispetto a civiltà più antiche in cui la religione era prescrittiva e la scienza (ovvero una filosofia della natura non ancora distinta dalla teologia) descrittiva. La spiegazione migliore che in merito riesco a trovare suona, tanto per cambiare, piuttosto denigratoria e pessimista: quando il metodo e la mentalità scientifica non esistevano, la natura insindacabile della realtà poteva essere modellata e imposta dall’alto secondo esigenze di ordine e disciplina che i tecnici del clero impartivano al buon gregge in maniera più o meno persuasiva e diplomatica; quando invece un certo tipo non antropomorfo di oggettività si è generalizzato attraverso i prodotti del progresso scientifico, è scaturita l’esigenza di controllare le verità sgradevoli attraverso i tribunali etici e spirituali di una superiore legittimazione insindacabile e quindi ai tecnici della scienza è stato imposto il dovere della positività pratica e dell’apporto fattivo, concreto e ottimista.
Il buono e bravo scienziato organico, abilitato da politici e pubblicisti a salire sui palchi davanti a estese platee, risulta allora quello che, incoraggiato dal successo, diffonde convinto messaggi illuminanti e incoraggianti quasi fossero farina del suo sacco e non suggerimenti dei ventriloqui che reggono e illuminano le sagome parlanti.
Certo: nelle migliori nazioni democratiche al tecnico o allo scienziato è ovviamente permesso esprimere visioni del mondo personali (se non sono troppo scandalose), ma deve essere chiaro che ciò rappresenta una curiosa occupazione del suo tempo libero e, pericoli per la sua carriera a parte, non impegna per nulla i politici seri a concentrarsi su complicati dettagli che esulano da ogni corretta integrità personale e da saggezze meritevoli di ben altri nutrimenti.
Quanto appena esposto potrebbe essere visto in una luce non totalmente negativa o addirittura positiva da chi vi ravvedesse i sintomi di un male minore e necessario legato a prerogative indispensabili per una classe politica degna di esercitare il proprio mandato: sto parlando di indipendenza e autonomia.
Purtroppo, ogni classe politica si libera ben volentieri e molto presto della propria indipendenza e autonomia quando si tratta di scaricare sugli opportuni esperti di settore la responsabilità delle scelte da intraprendere per fronteggiare eventi come le catastrofi naturali. Nel caso della recente pandemia, per esempio, i politici, dopo aver raccolto indicazioni per forza di cose non unanimi e, in certi altrettanto inevitabili risvolti, perfino ambigue, ha optato giustamente secondo un principio di precauzione e, in assenza di un bene inconfutabile, vertendo sul male indubbiamente minore, dopo di che non ha affidato le disposizioni a una legge da rispettare punto e basta, bensì a un principio morale che per non essere discriminante e lesivo delle discrezionalità garantite dalla Costituzione imponeva indebite forzature in senso assolutistico del parere degli esperti.
Un governo serio avrebbe dovuto prendersi la responsabilità di una legge che rendeva il vaccino obbligatorio presentandola appunto come una opzione malauguratamente drastica quanto razionalmente equilibrata, ma purtroppo è molto più comodo e nobilitante far valere principi morali che dispositivi legali: infatti i principi morali permettono di assolutizzare poteri e volontà facendo bianche o nere realtà che sono sempre di un grigio più o meno chiaro o scuro; inoltre, mentre chi non rispetta i principi morali è un reprobo che gode di diritti immeritati, chi rispetta una legge e poi ne riceve un danno per un concorso di circostanze molto particolari potrebbe esigere un risarcimento (magari con una class-action, se ne esistesse la possibilità) in base a una forma di garantismo populista che agli iper-garantisti pro domo mea che dominano i parlamenti del mondo di solito non piace per niente.
Comunque, non si deve disperare, infatti esiste un ministero scientifico che forse, a ben guardare, è anche il più importante di tutti: quello dell’economia.
Che l’economia non sia una scienza oggettiva (non dispone di unità di misura che non si possano fissare secondo il piacimento di chi può), ma, in buona sostanza, una metodologia tecnica e rigorosa per garantire (pacificamente o ‘pacificamente’) la direzione e il controllo dei più forti, non preoccupa politici sempre disposti a emendare indispensabili mollezze umanistiche immergendole nel contesto, ricolmo di nerbo muscolare e guizzante energia, di quella verità massimamente oggettiva e inconfutabile di cui sono testimoni ogni giorno, cioè che, prima e forse più di ogni altro essere umano, l’economia controlla e condiziona, attraverso i finanziamenti che consentono agli interessati di svolgere, degnamente e anche più che degnamente, il loro ben valutato mestiere, il personale politico.
Assange meriterebbe la galera a vita solo per aver messo in cattiva luce questa banale e salutare ineluttabilità. Lungi infatti dal limitarsi a svelare le trame per tacitare gli effetti collaterali dei bombardamenti a tappeto commissionati dagli esportatori di democrazia, ha molto più scelleratamente rivelato a un mondo per fortuna indifferente, sonnacchioso e distratto (a chi ascriverne il merito?) che quando alle elezioni vige il rischio che prevalga l’outsider radicale di un certo partito, i maggiorenti dello stesso partito preferiscono cedere la vittoria agli avversari addomesticando le primarie piuttosto che perdere i finanziamenti che il leader radicale comprometterebbe.
Se, grazie a un sobrio realismo e a un ponderato buon senso (obtorto collo e con dolente ed eroico spirito di sacrificio) colui che ha saputo saggiamente tradire così la volontà della maggioranza dei propri elettori può diventare presidente della repubblica, è chiaro che bisogna studiare gulag adattabili alla democrazia di mercato se non vogliamo che pazzoidi come gli Assange minino la fiducia nelle istituzioni brutalizzando il progetto oligarchico occidentale di armonizzare una solida architettura di stampo prussiano con un luminoso sogno dell’avvenire di impronta leninista e sovietica.
Ovviamente, i maggiorenti sono nel giusto e il radicale è un ottuso: è meglio vincere le elezioni e perdere i finanziamenti o tenere i finanziamenti e perdere le elezioni?
La risposta è ovvia (almeno finché i poteri forti e unici ritengono preferibile mantenere in piedi illusioni di democrazia parlamentare e tutta la fiera del gioco elettorale) a meno che il radicale, ottenuta la vittoria, riesca di fatto a cambiare il sistema, ma c’è qualcuno che ci crede veramente?
Per cambiare un sistema necessitano guerre e catastrofi, ma quelle, in genere, non spargono aneliti di libertà (il piano Marshall e i connessi obbiettivi e sviluppi rappresentano una irripetibile eccezione legata a una congiuntura più unica che rara) bensì addestrano le persone a sacrifici come lockdown e arresti domiciliari generalizzati in modo che siano pronte e preparate per i giri di vite futuri (se il covid non ci fosse stato, si sarebbe dovuto inventare). Un leader radicale, rispetto a certi ‘stimoli’ e ‘influenze’, appare una risibile marionetta, anche se, teoricamente, potrebbe dotarsi in via preliminare di un Progetto dettagliato da sottoporre esplicitamente al giudizio elettorale.
Quindi, amici radicali, dovete scegliere: o tentate di fare la rivoluzione oppure, siccome un Progetto serio non può seriamente essere sottoposto al parere di elettori che per la maggior parte non legge un libro intero da anni e in robusta percentuale non ne ha mai letto uno in alcun momento della vita, attendete che la percentuale dei votanti si porti stabilmente sotto il 50% e poi fondate un Partito del Progetto che prometterà ai propri elettori di appoggiare solo quei governi che nomineranno commissioni ufficiali incaricate della stesura ufficiale del Progetto, munendole di ogni obbligo e strumento necessari a un’adeguata divulgazione.
Dopo aver dimostrato al mondo che lo scrivente è nientemeno che l’ultimo rivoluzionario serio rimasto sulla faccia della Terra, potrei anche finirla qui… però… un momento!
Il titolo della presente nota come si combina con quello che ho scritto finora?
Mumble, mumble … mmh, dovrebbe avere a che fare perlomeno con le frasi di esordio e in effetti rimanda all’impossibilità del sogno teo-tecnocratico o tecno-teocratico (definizione adattabile secondo le priorità sociologiche e gli uditori a cui il sogno o l’incubo viene ammannito), poi ovviamente mi sono perso o disperso per strada.
Ora il tempo a mia disposizione sta per scadere, ma in fondo sono stato troppo duro con me stesso: anche se per vie traverse, il tema, che è poi il filo rosso o uno dei principali fili rossi sottesi a tutta la Bibbia Kolibiana, è stato trattato almeno in via metaforica.
L’umanità non è quello che è, ovvero una collezione di individui, uno più sciamannato dell’altro come si conviene a un coacervo interessante e fantasioso. No: l’umanità, dal punto di vista della causalità planetaria, è una divinità che, sognando se stessa, genera sogni diversi, assurdi e incompatibili che travolgono tutto nel proprio flusso vorticoso.
Se l’umanità avesse accettato fin dall’inizio della sua storia di essere quello che è, ovvero una collezione strampalata di strampalati individui umani, le civiltà e le tecnologie non si sarebbero mai sviluppate e pochi individui umani avrebbero vissuto una vita media più corta (ma non necessariamente più tribolata e noiosa), mentre il pianeta si troverebbe ancora in splendida salute, glaciazioni permettendo.
Gli olismi della causalità planetaria hanno fatto invece dell’umanità l’equivalente di un dio unico nell’olimpo terrestre.
Questo dio favoleggia dell’esistenza di tavole infinite, ma la semplice esistenza di queste tavole, se fosse effettiva, renderebbe contraddittorio oppure impronunciabile o indefinibile il contenuto delle tavole stesse e il significato di ogni dipendenza e causalità. Per esempio, l’elenco infinito, numerato secondo il numero in uscita, delle lunghezze dei programmi più brevi in grado di emettere rispettivamente ogni numero n costringerebbe Dio o ‘Dio’ a rivedere la lista all’infinito, il che appare una sciocchezza a chi dà per scontato che Dio non utilizzi programmi, ma….
Ma che cosa ??????
Se l’umanità accettasse con intelligenza e perspicacia di diventare quello che è, ovvero una collezione strampalata di strampalati individui umani, la tecnologia creata soprattutto grazie alle sue farneticazioni di divinità allucinata potrebbe rendere concreto e fattibile un Progetto devoluto al benessere e al rinsavimento in un genuino senso animale di pazzoidi la cui massa complessiva, confrontata con il resto della biosfera, risulta tutto sommato irrisoria.
Purtroppo o per fortuna e comunque molto probabilmente il dio umanità non accetterà mai di tornare a essere un campionario zoologico, si ridurrebbe piuttosto a una manciata di super-eroi rinchiusi nei cubicoli di un’astronave che abbandona un pianeta incenerito: che immensa soddisfazione sarebbe allora per il Creatore Eterno rivedere in un lampo il cammino glorioso percorso dall’umanità in un lasso di tempo incredibilmente lungo (quasi diecimila anni!!!!!).
Appendice: dimostrazione elementare dell’ultimo teorema di Fermat in forma sintetica e rigorosa.
Ovviamente le trattazioni matematiche affrontate nelle ultime sezioni del presente testo valgono in un senso prevalentemente metaforico e sottolineano l’impossibilità dell’elettore medio di affrontare questioni appena un po’ complesse e la difficoltà che anche figure scientificamente più esperte si trovano davanti quando si tratta di tradurre nozioni tecniche poco più che elementari in raffigurazioni concrete di un mondo effettivo.
Per quanto strano, improbabile e sorprendente possa apparire, ritengo che la mia dimostrazione elementare sia giusta e, anche se, alla mia età, certezze simili risultano molto pericolose, mentre dei riconoscimenti ufficiali, aspetto economico a parte, non mi importa granché (penso che una persona che non è rincitrullita con l’età dovrebbe aspirare, molto più che alla gloria, qualsiasi cosa questa parola significhi, a un kit self service (a uso discrezionale e non obbligatorio!) che aumenti le probabilità di una morte serena e indolore), non voglio rendere il compito facile a coloro fermamente intenzionati a negare il fatto per non compromettersi con opinioni imbarazzanti irrispettose dell’unica e vera religione.
an + bn = cn
a > b n > 2
non ha soluzioni per numeri interi.
Questo perché
1) (ka)n + (kb)n = (kc)n
risulta impossibile ((se alfa allora beta) allora (se non beta allora non alfa))
(ka)n + (kb)n = (ka + kb ((mdkb) / (mdkj)))n
dove
(mdkb) = ( 0kb-1Ʃi ((i + 1)n – in) ) / kb
e
(mdkj) = ( kakc-1 Ʃi ((i + 1)n – in) ) / k(c-a)
La 1) è possibile solamente se
3) b ((mdkb) / (mdkj))
rappresenta una costante.
La 3) può essere costante solo per numeri irrazionali e nel continuo, questo perché, nel discreto:
(x+1)n – xn – nxn-1
rappresenta un polinomio di grado n-2 con tutti i coefficienti positivi, una funzione che cresce se x cresce.
La 3) quindi diminuisce con il crescere di ka, kb e kc.
N.03 (23 agosto 2022, rivista il 26)
Qualcosa di molto simile alla famosa o famigerata sezione aurea viene adottato qui (dagli avversari del kolibiano) come clamorosa e infamante smentita della nota n. 02 e (dagli amici del kolibiano) come ulteriore prova elementare dell’ultimo teorema di Fermat.
Sembrerebbe di poter affermare, almeno al livello di ipotesi da sondare, che, data l’equazione
1) an + bn = cn dove b > a
se valesse la condizione:
2) (a / b)n = (b / c)n
si potrebbero confermare certe uniformità e congruenze nelle figure sottese dalla 1) in relazione a quanto deducibile dalla serie di eventuali soluzioni date da particolari ka, kb, kc = k(p)1/nc, k(q)1/nc, kc.
La 1) e la 2) corrispondono alle condizioni:
p = q2
q2 + q = 1
q = (-1 + 51/2) /2 (numero irrazionale)
In realtà nulla cambia in relazione alla vera questione fondamentale, ovvero il tipo diverso d’invarianza di scala relativo alla dimensione (che possiamo considerare dimensione di tipo frattale), passando da 1 a n > 2.
L’invarianza di scala risulta compatibile passando da 1 a 2 semplicemente perché N(L) / L , ovvero il numero di componenti ‘frattali’ per lunghezza lineare, non subisce accelerazioni dell’accelerazione con il progredire del fattore moltiplicativo k (i relativi incrementi sono omologabili a variazioni di superfici su un piano), il che non accade più a partire da n > 2, ragione per cui relazioni di similitudine planare non possono fondare alcuna soluzione congrua della 1).
Il testo descrittivo della presente nota, scaturito di botto dal medesimo lampo intuitivo di cui si diceva all’inizio, possiamo dunque considerarlo una sorta di burla.
In effetti anche la nota n. 02 può, almeno in parte, considerarsi una burla, o magari la penosa esibizione di un dilettante presuntuoso che si prodiga in capriole virtuosistiche e poi non si avvede che l’equazione
5) pn + qn = 1 (p e q < 1)
una volta scelto opportunamente p (o q) permette sempre una soluzione con numeri reali.
Tuttavia, da dilettante presuntuoso (che può permettersi a cuor leggero le verità più sgradevoli perché da un lato, in quanto dilettante, non subirà contraccolpi professionali negativi né se ci azzecca né se non ci azzecca (mai però sottovalutare la sottile perfidia degli avversari) e, in quanto verità sgradevoli eventualmente centrate, quelle saranno comunque ufficialmente ignorate in doveroso omaggio agli interessi che contano e quindi senza alcuna turbativa generale), io mi domando che cos’è più buffonesco, alla fine: una filosofia impotente che cerca di capire effettivamente qualcosa o automatismi tecnici funzionali arruolati in sistemi che tutti accettano senza sapere veramente bene perché lo si fa e soprattutto in che cosa essi consistano?
E se la burla, l’equivoco, il riferimento più sopravvalutato del mondo fosse proprio l’umanità e la sua grande cultura incapace di una visione globale realistica e di un progetto coerente ed esaustivo per salvaguardare nei limiti del possibile le cose più importanti del pianeta Terra, ovvero gli individui biologici?
Ciascun individuo biologico umano dovrebbe porsi il problema perlomeno in qualità di elettore, ma in realtà non può farlo sia perché gli esemplari dello zoo politico sono desolatamente limitati e stereotipati per filtri e selezioni che non dipendono in alcun modo dalla massa degli elettori, sia perché, in genere, risulta troppo occupato ad arrabattarsi per sopravvivere in modo dignitoso e tenere almeno il naso sopra il pelo delle acque paludose.
Tutto sommato, la forza e la ragione d’essere delle democrazie di tipo occidentale, nei decenni passati (ma già oggi sorgono molteplici perplessità al riguardo) non sono mai consistite in niente di diverso dalla vitalità anarchica di tutto quell’arrabattarsi e sgomitare in acque torbide, beninteso nel rispetto di leggi e di ordini che solo l’uno su mille che riesce a emergere e a consolidarsi sulle sponde asciutte contribuisce efficacemente a stilare e correggere.
Prendersela con la matematica (la più tetragona e inattaccabile delle scienze) o addirittura con i matematici in effetti ha proprio il sapore della burla (e in effetti lo è), ma forse una burla ben più paradossale e gigantesca riguarda la presunzione della mente umana di costruire architetture puramente mentali e pretendere poi che la natura (ovvero l’ontologia del mondo indipendente da ogni concezione umana) le rispetti.
La 5) può anche avere soluzioni reali, ma per un ‘filosofo naturale’, cioè per qualcuno interessato a conoscere lo stato delle cose a prescindere da interessi, emozioni e carriere, dovrebbe apparire molto più interessante capire, anche in relazione alle quantizzazioni energetiche e materiali operate dalla fisica di base, che cosa significa l’esistenza di soluzioni reali ma non razionali e fino a che punto abbiano senso soluzioni reali (l’aggettivo è quasi grottesco e ricorda la tecnica pubblicitaria che esalta doti immaginarie di un prodotto per negare implicitamente (in modo sub-liminale) i suoi difetti effettivi) che obliterano o addirittura falsificano le strutture e i dinamismi insiti in uno schema specifico.
Qualsiasi soluzione che chiama in causa tecniche basate su infinitesimi e infiniti attuali di fatto contraddice la natura frattale del mondo e le simmetrie legate a invarianze di scala che, se dovessero rivelarsi false, rivelerebbero la falsità di qualsiasi visione del mondo che non fosse di tipo religioso, abilitando la liceità di una pseudo-conoscenza che non si rivolge al mondo esterno, ma che sa o presume di sapere quello che in generale e in sostanza è e non potrebbe essere diverso da quello che è, con tutte le conseguenze ipocritamente integraliste (versante occidentale) o esplicitamente talebane (versante orientale) del caso.
Chi considera la questione frutto bacato di un polemico accademismo filosofico o di una anacronistica nostalgia libertaria o libertina, secondo me, non ha capito un tubo: stabilire se l’umanità possa disporre a piacimento di un pianeta oppure no (ovviamente no, anche se molti ancora si ritengono principini dell’universo intero) e fino a che punto possa spingersi nelle sue megalomani presunzioni si presentano allo stato attuale questioni della massima priorità e urgenza, mentre una alternativa cruciale, sul piano politico ed esistenziale, comporta il vedere nell’ambientalismo un elemento ulteriore di condizionamento vessatorio delle liberà oppure rinvenirvi finalmente l’occasione obbiettiva e non ideologica per riscattare gli individui dalla soffocante metafisica e dal delirante economicismo dell’umanità divinizzata.
N.02 (4 agosto 2021)revisionata al 23 agosto
Elementarissima dimostrazione filosofica dell’ultimo teorema di Fermat (e anche un’altra (azzarderei, ma non sono sicuro perché io stesso stento a credere qualcosa di tanto incredibile) della congettura di Riemann) a cui seguono variazioni sul tema e vari pretesti per sottolineare fraintendimenti anch’essi molto sorprendenti dei problematici concetti di continuità, infinitesimo e invarianza di scala.
Questa dimostrazione potrebbe non essere tanto interessante in sé e per sé, quanto per i problemi relativi alla sua validità e per le discussioni che potrebbe suscitare in merito.
Se il tipo di dimostrazione schematizzato qui viene accettato come modello pienamente legittimo in grado di avvalorare in tutto e per tutto fatti matematici inconfutabili, allora anche la (non) dimostrazione della congettura di Goldbach delineata in sezioni precedenti e basata in sostanza sul teorema di Goedel (perché basta questo teorema (in realtà basterebbe l’argomento della diagonale di Cantor trasposto al finito) per asseverare la non esauribilità degli schemi di combinazione dei numeri primi) vale anche come (non) dimostrazione della congettura di Riemann (per la ragione che specificheremo in seguito), per cui i signori del Clay Institute sono pregati di far pervenire al signor Renato Pezzotta il milione di dollari del premio stabilito.
La dimostrazione a cui si accenna nel titolo però non è solo questa, bensì anche quella che temo possa essere invece la cazzata con cui il dilettante si mette in buca da solo: infatti il dilettante non è abbastanza ferrato in materia e la sua sparata, se fosse azzeccata, lascerebbe allibito chiunque, ma il dilettante ha scritto e diffuso pubblicamente più di mille pagine senza ottenere la millesima parte dei riscontri Internet che spettano di diritto, per esempio, a un cantante di serie c, quindi il dilettante può orgogliosamente andare avanti a divertirsi con i propri azzardi e chissenefrega se stavolta gli andrà buca.
La dimostrazione è questa: gli zeri della funzione zeta sono tutti allineati sulla retta x = 1 / 2, perché uno qualsiasi di quelli già trovati da Riemann con il calcolo ‘bruto’ lo è; infatti la funzione zeta è una funzione olomorfa i cui vincoli di simmetria (per la condizione di Cauchy-Riemann) impediscono che la superficie corrispondente si torca per raggiungere una linea diversa degli zeri della parte complessa, tenuto nel debito conto che le linee degli zeri complessi, contribuendo a definire attraverso l’analisi di Fourier l’aspetto generale della superficie definita dalla funzione, devono rispettare vincoli di similitudine sulla superficie che attraversa la sequenza di piani dove si collocano le immagini (le variabili dipendenti), piani paralleli e perpendicolari al piano delle variabili complesse che costituisce il dominio di convergenza della stessa funzione zeta.
Dopo essermi così felicemente sputtanato in questioni di alta matematica correndo rischi bestiali per l’avidità di papparmi un milione di dollari, rientro in ambiti molto più malleabili sperando di incorrere in rischi minori.
Tralasciando per il momento dettagli esplicativi abbastanza noiosi (perché basati su una elaborazione ripetitiva, mutatis mutandis, di formule matematiche elementari) riassumiamo l’impianto logico della presente dimostrazione dell’ultimo teorema di Fermat, il che in fondo può valere come sostanza della dimostrazione medesima.
Una formula che individua una triade di numeri e le triadi dei loro multipli per uno stesso coefficiente, se connessa a opportuni vincoli angolari, individua un triangolo particolare e tutti i suoi triangoli simili.
Dati due segmenti non allineati connessi a un vertice, la chiusura a triangolo determina automaticamente la lunghezza del terzo lato e la coppia di angoli a esso adiacenti.
Il vincolo geometrico che lega la triade è quindi un vincolo inerente a un triangolo particolare e a tutti i suoi triangoli simili: è quindi un vincolo che concerne due dei suoi angoli (non retti), essendo il terzo automaticamente determinato.
Poiché l’elevamento a potenza rimanda a una variazione di scala relativa alla misura dei tre lati del triangolo e poiché la variazione di scala di ogni coppia è diversa dalle altre due (i tre lati iniziali devono essere tutti diversi), nessun doppio vincolo angolare può mantenersi inalterato, per cui la formula in seguito delineata come F) non può avere soluzioni estendibili a una intera serie di figure simili e perciò non può avere soluzioni (se alfa allora beta e se non beta allora non alfa).
Fattori di scala diversi tra tre coppie di numeri e conseguente assenza di vincoli angolari costanti significa che i tre numeri, con l’incremento dell’esponente n, dilatano i rapporti reciproci, mentre, fissato n > 2, una serie di coefficienti moltiplicativi, omologati per analogia a un parametro temporale, agisce dilatando le differenze come se le punte dei segmenti accelerassero in modo diverso.
Se i punti a) – e) non sono considerati una dimostrazione valida, c’è da stupirsi come mai la logica abbia un ruolo così marginale nella matematica dei professionisti, se invece sono considerati una prova valida, c’è da stupirsi per il fatto che sia stata ignorata per secoli.
Una spiegazione che attenua entrambi gli stupori potrebbe essere che la matematica è sempre stata considerata, dai matematici più che da qualsiasi altro, uno strumento di indagine del mondo ideale più che di quello reale, il regno statico e fatato dell’infinito attuale piuttosto che quello nevrotico e convulso della combinatoria sconfinata.
In questa visuale quasi religiosa a cui ci si attiene senza nemmeno accorgersene più, il teorema di Goedel si prospetta come un assaggio dell’indegnità umana rispetto all’onnipotenza divina e non per quello che invece ritengo che sia: l’ovvia constatazione della illimitata ma sempre circoscritta e congiunturale potenza della numerabilità potenziale.
Considerare l’insieme dei numeri interi come un infinito dato già presente in tutto e per tutto è ben diverso che vedervi rappresentata un’ascesa senza fine che però mette capo sempre, inevitabilmente, a un limite mobile e non esaustivo. Quel limite a volte si può abbattere, ma soltanto quando risulta incompatibile con la logica elementare, come nella dimostrazione che esistono infiniti numeri primi.
La congettura di Riemann, al contrario del teorema sull’infinità dei numeri primi, non è un’affermazione logica che afferra l’infinito, è bensì un’affermazione esistenziale sulla statistica dei numeri primi: usarla per comprendere una vastità illimitata di proprietà costitutive e regolarità strutturali (traducibili in numeri di probabilità) cercando di pervenire a certezze assolute pienamente realizzate solo attraverso la conoscenza di tale totalità infinita significa trasformarla in una tautologia inficiata da un difetto logico ambiguo e sottile e cioè che tale totalità non esiste e non esisterà mai, almeno come concetto esente da contraddizioni e accessibile all’intelletto umano.
Se una totalità infinita non esiste (nel senso indicato), ogni affermazione riguardo a essa, in assenza di vincoli logici assoluti (come potrebbero essere quelli relativi all’olomorfismo), riveste un carattere inevitabilmente probabilistico: come i doppi puntini nella precedente trattazione della congettura di Goldbach, tale affermazione ha una probabilità di essere vera che cresce scalando la progressione dei numeri, ma risulta parimenti compatibile con un numero finito qualsiasi di controesempi estremamente lontani dallo 0, anche o soprattutto perché gli schemi concepibili dati da due sequenze di N puntini contrapposte ammontano a molto più che a 2N e non possono escludere la parte sempre più minoritaria (con frequenza tendenziale (1 – (logN)-2)N ) data dalle combinazioni che non presentano doppi puntini.
Tutto ciò che riguarda la totalità dei numeri e non è afferrato da principi logici inconfutabili è esistenziale e, se può essere invalidato da casi contrari, magari difficilissimi o praticamente impossibili da trovare, non può essere provato con argomenti che ridurrebbero quella potenzialità infinita a una struttura finita esplorabile in tutto e per tutto.
Qualcuno a questo punto potrebbe affermare che in questo modo si vuole creare ad arte una fonte inesauribile di misteri facendo rientrare dalla finestra la teologia che si è buttata fuori dalla porta: secondo me, quel qualcuno (lui sì!) parlerebbe da teologo mascherato che contrabbanda sotto le vesti di una razionalità padrona del cosmo il mito dell’onnipotenza tecnologica umana.
L’osservazione di questo qualcuno cozzerebbe contro una verità ineluttabile, la vera padrona logica di tutto l’infinito essere (potenziale), cioè questa: nessun cosmo è padrone di se stesso perché le combinazioni dei suoi stati sono sempre, inevitabilmente, molto più numerose dei suoi stati e anche in presenza di vincoli logici e strutturali, i ‘semi’ (per esempio i numeri primi) sviluppano combinazioni più numerose di ciò che determinano, mentre la potenza delle procedure da avviare per ottenere qualsiasi sequenza di stati (il programma comprensivo di dati) va molto al di là di una qualsiasi enumerazione o compresenza di stati (i dati del programma) almeno finché non si arriva alla stasi assoluta (forse impossibile, visto e considerato che esiste qualcosa): potete allora figurarvi quali possano essere i poteri, in confronto, non del cosmo, ma di una sua piccolissima parte la quale, pur notevolissima per complessità e dotazioni particolari (chi lo può mettere in dubbio?) rimane una sua piccolissima parte.
L’infinito attuale dell’analisi, quando entra nella teoria dei numeri, vi porta strumenti molto potenti, ma anche un potentissimo equivoco: che il gioco dei numeri sia un gioco divino onnipresente, statico ed esaustivo, invece che un processo progressivo ed episodico di creazione infinita, potenzialmente già determinato, ma in pratica attuabile solo un passo alla volta e in circostanze particolari e limitate.
E ora vediamo la dimostrazione dell’ultimo teorema di Fermat più in dettaglio e secondo criteri e punti di vista analoghi, ma non perfettamente coincidenti.
Una formulazione con il calcolo integrale dell’equazione
a + b = c
ovvero
pc + qc = c
ovvero
pc + (1 – p)c = c
con p e q frazioni reali o razionali vincolate a dare somma unitaria, può essere:
0) §0c (2(x / c) p + 2(x / c) (1 – p)) dx = c
Passando ai quadrati:
a2 + b2 = c2
ovvero
(pc)2 + (qc)2 = c2
ovvero
(cosa^c)2 + (sena^c)2 = c2
otteniamo:
1) §0c ((3(x / c) p)2 + (3(x / c) q)2) dx = c2
dove p = cosâ , q = senâ e â è uno qualsiasi dei due angoli non retti di un qualsiasi triangolo rettangolo preliminarmente specificato, il cui seno e coseno rappresentano un caso particolare di più generali vincoli geometrici che legano i lati ra, rb, rc di triangoli simili. L’esistenza del vincolo (coincidente, nel caso specifico, con il teorema di Pitagora), non necessario ovvero automatico quando l’esponente è 1, diventa cruciale in una equazione del tipo considerato quando i termini sono elevati a potenze maggiori.
Se consideriamo infatti l’equazione
F) an + bn = cn
ovvero
(pc)n + (qc)n = cn
ovvero:
t(c)n + (1 – t)(c)n = cn
anche la F), se ammettesse soluzioni, rappresenterebbe particolari terne ra, rb e rc, le cui relazioni tra i lati troverebbero in p e q e nel loro collegamento con t vincoli geometrici analoghi ai rapporti trigonometrici già considerati per gli insiemi di triangoli rettangoli simili: infatti, per la F) vale una formulazione integrale analoga a quella espressa dalla formula 1) e cioè l’equazione:
2) §0c (((n + 1)(x / c)cosa^)n + (((n + 1)(x / c)senb^)n) dx = cn
dove a^ e b^ rappresentano angoli compresi tra 0 e π/2 il cui coseno e seno (rispettivamente) misurano i rapporti a / c e b / c (p e q) e (cosa^)n + (senb^)n = 1
La 2) non può essere valida, per numeri razionali come (in un senso che verrà meglio specificato in seguito) per numeri reali, per una ragione molto semplice: l’elevamento a una potenza superiore a 2... ‘rompe’ il triangolo, nessun triangolo infatti, retto o non retto, sopporta il conseguente distanziamento di scala tra i lati a, b e c del triangolo di partenza.
Quello che (forse) ha ulteriormente ingannato intere generazioni di matematici e ritardato la prova elementare (molto elementare!) del teorema, ritengo sia stato il presupposto implicito che non esistessero soluzioni razionali, ma esistessero invece soluzioni reali. Di fatto, come dimostrano le formule integrali, non esistono neppure soluzioni reali progressive interpretabili geometricamente in un contesto archimedeo completo o cinematicamente secondo la legge di conservazione dell’energia: esistono solo soluzioni abbastanza problematiche in cui la somma delle potenze di a e b rimane infinitamente vicino alla potenza di c, il che può avvenire solo se b e c rimangono infinitamente vicini tra di loro e in sostanza danno vita a un triangolo isoscele che differisce da un segmento a meno di infinitesimi.
In effetti, alla fine, sembra proprio che, come pensavano gli antichi geometri greci e come è ben esemplificato dal metodo delle corde di Diofanto (valido in buona sostanza, forse o presumibilmente, per qualsiasi curva algebrica), solo l’incastellatura di numeri razionali consente di concettualizzare un qualsiasi tipo di geometria in grado di supportare una ontologia effettiva: il ‘completamento’ fornito dai numeri reali, non fa che permeare tale rete x-dimensionale razionale di sibilline quanto comode e (spesso) concettualmente inevitabili sotto-reti la cui unità di misura è uno zero camuffato e truccato da… infinitesimo, ossia uno zero che non è zero pur non rispettando l’assioma di Archimede.
In verità, nessuno ha la minima idea di che cosa accada ‘realmente’ con i numeri reali e sappia formarsi una qualsiasi nozione, per esempio, di ‘quanto distino’ punti rappresentati da particolari coppie di numeri razionali finiti (che nell’insieme di punti del piano cartesiano conservano il carattere tecnico della cosiddetta densità) da una retta con coefficiente angolare irrazionale oppure dalla curva data dall’equazione y = (2x2)1/2 .
Sarebbe proprio buffo se intere generazioni di matematici, la maggior parte dei cui membri, molto probabilmente, si riteneva soprattutto un tecnico e nutriva un disprezzo istintivo nei confronti della filosofia, fossero inciampate qui in una visione metafisica del mondo pervasa di sofisticate infinità, non vedendo la foresta perché davanti c’erano gli alberi contorti e gli arbusti impenetrabili di sconfinate, ma pur sempre prosaiche, combinazioni atomistiche.
Oggi diventa ancora più difficile sottrarsi a certi incantamenti, quando, per esempio, trasformano il clinamen di Democrito o Epicuro (l’analogo della frazione di 1 / 1030 di cui si parlava nella nota 01) nell’anticamera del teletrasporto.
Infinitesimi e invarianze di scala sono concetti assolutamente fondamentali per le cosiddette GUT (teorie di grande unificazione) e anche per qualsiasi concezione fisica o ingegneristica che voglia confrontarsi con la realtà oggettiva del mondo: se tali e tanti fraintendimenti coinvolgono formule così elementari, ciò deriva, non da difetti intellettuali degli operatori (è statisticamente da escludere), ma piuttosto dall’ambiguità ed elusività di una filosofia della matematica che, se non è più difficile della stessa matematica, di sicuro è più ingannevole e sfuggente.
Oggi e a cominciare almeno dalla rivoluzione industriale si usa considerare quasi eroico e comunque encomiabile sottoporsi a fatiche improbe che contribuiscono alla fiera lussureggiante della tecnologia e questo può essere un bene: a me però sembra sbagliato l’atteggiamento quasi automaticamente complementare di considerare idiota sobbarcarsi impegni di simile gravosità per sguinzagliare le ambasce del ripensamento e del dubbio.
Purtroppo i dubbi, a volte e secondo certe visuali, appaiono non soltanto salutari, bensì quasi obbligatori. Se tali e tanti fraintendimenti coinvolgono formule di così disarmante semplicità, quante incomprensioni e insidie si nascondono in questioni d’importanza capitale come, per esempio, l’avvenire climatico?
Se qualche piccolo Hitler e qualche piccolo Stalin prima o poi si affacciano qui e là sulla faccia della Terra, forse dipende da difetti di visione molto più che da difetti morali: Hitler e Stalin, al di là di certe pecche non proprio venali, si sono proposti come semplificatori abnormi ed estremi in congiunture in cui a una percentuale di popolazione sufficientemente e complessivamente decisiva (a torto o a ragione non importa) dittatura radicale e dogmatismo di tipo confessionale (quasi sempre iniettati di darwinismi deteriori) rappresentavano la più semplice delle vie di semplificazione ideologica, politica e perfino economica, una via quasi inevitabile in assenza di progetti alternativi in grado di dirimere situazioni complicate o nell’incapacità pratica di attuarli.
Di sicuro non si riuscirà mai a mettere insieme progetti alternativi molto più raffinati se non si riuscirà mai nemmeno a intravederne la necessità prima che le circostanze concrete la rendano viva e drammatica, a prescindere che le semplificazioni a venire (come ci si augura in genere, ma la garanzia non esiste) non pervengano più a eccessi demenziali come quelli hitleriani o stalinisti.
N.01 (21 luglio 2021)
Dimostrazione matematica, elementare quanto definitiva e inconfutabile, dell’inadeguatezza della matematica a descrivere fondamenti della realtà universale che cionondimeno si palesano o ineluttabilmente matematici o ineluttabilmente incomprensibili (solo un ragionamento matematico (logico-scientifico) e niente altro può infatti provare l’inadeguatezza di un ragionamento matematico (logico-scientifico)).
Solo l’infinito attuale, che fa esplodere la logica dall’interno sguinzagliandovi contraddizioni insanabili, consentirebbe alla matematica di applicarsi alle cose del mondo in modo esatto e non alla stregua di una ingegnosa approssimazione.
Se però l’universo è discreto e impostato su unità di misura minimali, la geometria della realtà differisce matematicamente da quella delle astrazioni teoriche.
D’altro canto, l’esistenza di unità di misura minimali si configura ipotesi necessaria alla comprensione di qualsivoglia schema di funzionamento effettivo di qualsivoglia sistema, considerato che, in caso contrario, detto sistema, privo di parametri univoci e assoluti sul fronte dell’operatività concreta (che è ambito ben diverso da quello della ricostruzione mentale da parte di un soggetto convenzionalmente e artificialmente separato), si paleserebbe refrattario rispetto a qualsivoglia concezione della causalità e del determinismo: la dilagante casualità di un mondo impenetrabile si trasformerebbe quindi, ipso facto, nella purissima magia dell’auto-creazione illimitata.
Come già accennato all’inizio, poi, l’operatività concreta (ovvero il divenire ontologico, ovvero la causalità in azione) viene contraddetta dall’infinito attuale, che mina definitivamente qualsiasi nozione di processo che si sviluppi fase dopo fase secondo ordini di sequenza temporale, bloccandoci davanti a una sola alternativa: o contraddizioni irrimediabili o l’incantata immobilità di una statica e (appunto) infinita compresenza.
Un sistema attualmente infinito non può prescindere dal dato condizionante e non aggirabile della propria totalità infinita, gerarchicamente superiore a ogni influsso esteriore e quindi inconciliabile rispetto a qualsiasi legge di trasformazione della stessa totalità: o è Dio o è nulla.
E veniamo alla trattazione più propriamente matematica, fondata su una esemplificazione molto circoscritta che automaticamente coinvolge, sia per estensione analogica che per contaminazione diretta, tutto uno sconfinato ambito settoriale.
E’ risaputo che il volume di una piramide vale un terzo del parallelepipedo di uguale base e uguale altezza e, analogamente, il volume di un cono vale un terzo del cilindro corrispondente. La proposizione è estensibile a confronti similari effettuati tra figure solide aventi la stessa area di base e la stessa altezza e si può adattare, anche se qui noi ci limiteremo al caso tridimensionale, a spazi vettoriali di dimensione qualsiasi.
Dando per acquisite le opportune considerazioni concettuali e geometriche, la dimostrazione si riduce alla risoluzione dell’integrale:
a) §0h (x2 / h2) B dx = 1 / 3 (hB)
dove § sta per il segno di integrale, B è l’aria di base e h l’altezza.
Se passiamo però a un universo discreto la a) si trasforma e otteniamo:
b) kΣ1h (k2 / h2)B = ((2h3 + 3h2 + h) / 6h3) (hB)
Dove h e B sono date in unità di misura fondamentali. Assumendo come basi dimensionali le unità di Planck e considerando per semplicità esemplificativa figure geometriche alte circa 1 metro, applicando la formula della geometria canonica commetteremmo un errore di circa (in cifre tonde, giusto per dare l’idea) 1 / 1030.
Questo errore, se ci trasferiamo dal mondo delle astrazioni mentali a quello di qualsiasi quid di sostanza esistente, non è affatto trascurabile come sembra: nella realtà delle cose naturali (fuori dal laboratorio) è impossibile stabilire che margine di errore è rilevante oppure no, dato che è impossibile stabilire quante volte l’errore interviene a modificare gli eventi, se gli errori si compensano oppure si sommano o moltiplicano e che livelli di pertinenza vi intervengono.
Più questi livelli comportano quantificazioni e misure vicine alle unità di Planck e più il margine di errore aumenta, il che dovrebbe farci considerare scontate le insufficienze del nostro modo scientifico di ragionare quando ci interessiamo dell’ultra piccolo e indurci a ritenere ogni stranezza della meccanica quantistica non qualcosa di vertiginosamente esotico, bensì qualcosa di prevedibile e inevitabile, almeno a livello generale e qualitativo.
Nel modello dell’automa cellulare universale (che, più che un delirio kolibiano, rappresenta, in modo più o meno palese o sottaciuto, il paradigma base di tutte le speculazioni adottate nella fisica di unificazione totale o anche solo parziale (gravità quantistiche, teorie delle stringhe e così via)) ogni ambito dimensionale o livello quantitativo di riferimento contribuisce, a ogni singola scansione dell’orologio di Planck, alla modifica dei processi naturali, il che ci consente alcune interessanti valutazioni generali intorno ad alcune questioni cruciali del corrente dibattito culturale.
1) Ogni espansivismo tecnologico non inteso programmaticamente e progettualmente a una auto-limitazione dell’umanità stessa, metterà capo a proliferazioni entropiche impossibili da contenere e prevedere.
2) Una limitazione delle emissioni di carbonio perseguita aumentando e non diminuendo il carico totale di produzione energetica indifferenziata che l’umanità propina regolarmente al pianeta, aumenterà senza dubbio l’entropia atmosferica attraverso la diffusione di composti la cui dannosità complessiva sarà impossibile da ‘addomesticare’ in quanto dipendenti da procedure che il genio umano può scoprire e affinare, ma mai e poi mai determinare attraverso una libera scelta indipendente dalle leggi di natura.
3) La necessità di aumentare i livelli di produzione alimentare renderà impossibile non aumentare contestualmente i livelli di carbonio atmosferico, come si deduce da modelli elementari, ma credibili, in cui i flussi crescenti di carbonio coinvolgono una fase aerea (frammentata quanto si vuole, ma globalmente intercomunicante) che avvolge fasi materiali organiche e inorganiche frammentate quanto si vuole, ma ognuna in contatto con porzioni della fase aerea unificata.
4) Le ambizioni e le pretese del tecno-umanesimo si prospettano vanterie gratuite e quasi infantili se le giudichiamo dal punto di vista del controllo effettivo che l’umanità nel suo insieme potrà mai ragionevolmente accampare nei confronti della realtà planetaria nel suo insieme: alla fine, l’ ‘Internet delle cose’, anche per una predominante mentalità gregaria o le necessità di quieto vivere dei sudditi degli imperi, invece di proporre una virtualità sostitutiva di occupazioni energeticamente più onerose favorendo rinunce in cambio di compensazioni, non farà che rappresentare (per la maggioranza di utenti-cosa che lavorano gratis a produrre i nuovi eldoradi di cartapesta dei big data) l’ennesimo olismo di stampo teologico destinato a imbrigliare o addirittura imbozzolare il singolo individuo in una trama soffocante di rispetti, vincoli, doveri, condizionamenti e auto-censure veicolati sotto false lusinghe per ragioni di profitto e controllo dei profitti.
5) Il paradigma algoritmico e ‘informazionale’ non può prescindere da un antropocentrismo pregiudiziale inesorabilmente legato a uno schema soggetto – oggetto di sostanziale matrice idealista.
6) L’enfasi sulla onnipotenza algoritmica e la idolatria dell’informazione finisce sempre per privilegiare una rete incorporea di nessi interattivi trascurando la sostanzialità del supporto, ma la natura non distingue tra i flussi di comunicazione e i canali del substrato che sostiene gli scambi e anche se la rete degli scambi artificiali dell’ ‘Internet delle cose’ implementasse una enorme complessità, questa comporterebbe valori e attinenze molto diversi per gli esseri umani, da una parte, e una Natura, dall’altra, i cui dispositivi agiscono a livelli estremamente più miniaturizzati (per fattori di vari miliardi ulteriormente dilatati da interdipendenze e parallelismi strettissimi).
7) Valutato dalla prospettiva delle scienze biologiche, questo spiritualismo intrinseco in stile Silicon Valley assume caratteri quasi grotteschi quando affronta il tema della coscienza animale discutendone in rapporto con le modalità di funzionamento di dispositivi elettronici che, in quanto a potenza dei meccanismi causali, risultano irrisori perfino rispetto a un batterio.
8) Se si considera la sostanzialità del supporto evitando di sottacerla in modo sospetto e abbastanza mistificatorio, risulta che il raggiungimento di qualsiasi complessità sistemica richiede più che proporzionali apporti energetici e collegati sviluppi entropici, essendo l’organizzazione, come dimostra la formula dell’energia libera, fattore complementare dell’energia legato a vincoli termodinamici perfettamente compatibili con il modello dell’automa cellulare universale, vincoli per i quali l’energia non si crea né si distrugge, ma si trasforma e si degrada da forme ordinate sfruttabili a forme disordinate intrattabili o trattabili solo attraverso aggiunte di altra energia in quantità debitamente superiore al disordine (a parità di temperatura ambiente, l’entropia si misura in unità energetiche).
9) Come dimostra l’enorme consumo di energia legato alla moneta informatica (il bit coin) la condivisione e la pariteticità dei controlli e degli interventi non serve di sicuro a migliorare gli andazzi, ragione per cui gli aspetti anarchici e libertari di una certa vulgata da hacker antagonisti danno vita inesorabilmente a un luna park dei sogni e delle illusioni sorvegliato in tutto e per tutto dai Poteri Forti (ovvero Poteri Unici) che alla fine lasciano libero spazio solo alle libere e spensierate idiozie di chi vuole solo liberamente e spensieratamente cazzeggiare, sempre che, beninteso, costui accetti di farsi supinamente radiografare in tutti gli arcani risvolti della propria profonda ed enigmatica complessità.
10) Dal discorso ho deliberatamente omesso gli aspetti delinquenziali, anche per le crescenti difficoltà nel considerare tali aspetti non fisiologicamente connessi al normale funzionamento dell’attuale, cosiddetta, economia di mercato (crescita economica significa infatti crescita contestuale delle sperequazioni e dei debiti, nonché delle irregolarità e corruzioni adibite come perno di promozione o ancora di salvezza, quindi crescita economica significa crescita della delinquenza ineliminabile e fisiologica).
18 maggio 2021
IL LIETO FINE CHE TUTTI DESIDERAVANO E CHE INVOGLIERA’ I PRODUTTORI DI HOLLYWOOD A COMPRARE I DIRITTI DELLA BIBBIA KOLIB
I Kolibiani, dopo aver delineato nel silenzio e nell’indifferenza generali (interessante dimostrazione sociologica della coda di paglia dei manovratori ciechi che non vanno disturbati) quella che potrebbe essere stata la dimostrazione elementare accennata da Fermat (filosofo naturale non ancora accecato da eccessi di specialismo) in una famosa nota a margine di una pagina del suo trattato di Diofanto, risolsero anche il dilemma di Goldbach in merito alla spartizione di ogni numero pari in due numeri primi e da difformità e analogie concettuali tra le due soluzioni trassero spunto per un’analisi profonda e pressoché definitiva delle problematiche fondamentali legate ai concetti di razionalità e causalità come possono esseri intesi da intelligenze normali e non fraintesi da nebulosi intuiti sublimi.
Sull’onda di questi strepitosi successi si abbracciarono entusiasti, fiduciosi e positivi, accantonando meschine beghe caratteriali, psicologismi tattici o strategici nonché tutti i pidocchiosi bisticci d’interesse che affliggono ogni altro organismo associativo, pervenendo così a quello che i loro alter ego emblematicamente onirici, le controfigure partitiche a cui il vieto incubo dei vieti decorsi storici affidava il vieto governo della nazione, tentavano invano di realizzare per spartirsi con calma e con metodo le ricadute di una mole di stanziamenti così unica e colossale da imporre tassativamente la drastica riduzione a un giorno della discussione parlamentare pena l’ingolfamento progressivo del malloppo in un un buco senza fondo dal quale, dopo solo pochi altri giorni, non sarebbe stato più possibile districarlo.
La procedura risultò anche salutare ai fini di distogliere la pubblica attenzione dai soliti dettagli spinosi, come le vie traverse seguendo le quali i soldi fluivano a sufficienza nelle direzioni necessarie a tacitare il dissenso degli organi d’informazione (o, per meglio dire, dei controllori e dei mandanti degli organi d’informazione) e delle fondazioni benefiche non ostili ai grandi interessi costituiti, i quali grandi interessi costituiti dovevano oltretutto essere salvaguardati con tutte le opportune dosi di tatto e discrezione dai dilettantismi ambientalisti e, più in generale, dai catastrofismi intesi a limitare il consumo forsennato di risorse e territorio.
Le benedizioni dei supremi maestri di etica assoluta condita in tutte le salse possibili e immaginabili sollevarono provvidenzialmente la procedura da qualsiasi sospetto di antidemocratica manipolazione oligarchica e forzatura lobbistica.
I Kolibiani, grazie alle robuste e reiterate libagioni propiziate dai festeggiamenti per il loro stato di grazia di vaccinati da Dio, fecero buon viso a cattivo gioco e il loro rappresentante medio si acconciò a ragionare nel modo che segue.
Sia lode al Signore che sempre fornisce le mani giuste per ripulire il tavolo al momento giusto: solo grazie a tale provvidenziale Provvidenza velatamente presunta da tutte le costituzioni nazionali ed esplicitamente imposta in quella statunitense almeno, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale in poi i Massimi Valori (non importa quanto siano cangianti e ballerini se possono continuare a chiamarsi così e a esibire le iniziali maiuscole) hanno sempre rappresentato per i governi del libero, liberissimo mercato (niente è più libero di chi, come Dio, può decidere tutto compreso se stesso a prescindere da tutto compreso se stesso) un mezzo per acquietare e rendere docili le singole anime libere e anzi liberissime di intraprendere e auto-determinarsi a dispetto dei vertiginosi dislivelli nelle probabilità di successo assegnate in partenza (dettaglio chiaramente irrisorio).
Nessuno può seriamente dubitare che, grazie a una serie di eleganti e complesse ipocrisie che solo le civiltà più raffinate possono permettersi, le migliori democrazie occidentali (al momento attuale, poi si vedrà: l’importante è rispettare le consegne riguardo a una fiducia programmata e comandata) siano felicemente use a regolare ambizioni e pretese senza ricorrere alle laceranti divisioni e ai sanguinosi conflitti che la metafisica dei monoteismi più rozzi (vedi per esempio le recenti vicende mediorientali eccetera) scatena ogni volta che le varie dirigenze, per propria colpa o congiunture imprevedibili come una pandemia, si trovano davanti a nodi insolubili d’importanza capitale.
Tutto sommato, non sembra per niente fuori luogo una immensa, sterminata confidenza nella bontà e salubrità degli sviluppi a venire dopo l’ennesimo grave intoppo congiunturale: se consideriamo che l’umanità, schierata in piedi come un esercito molto compatto, sarebbe appena sufficiente a riempire una pianura vasta all’incirca come la regione Abruzzo, possiamo confidare, vista e considerata la sproporzione delle masse implicate, che risulti quasi una sinecura per la tecnologia attuale e il progresso generalizzato che garantisce provvedere a ogni individuo umano una qualità di vita apprezzabile senza disturbare più di tanto il contesto complessivo.
Valutazioni del genere non possono che indurre fiducia nella creatività indotta dal globalismo e nella grandezza dei suoi massimi rappresentanti: basti pensare che, grazie a un’alta quantità media di assiduo lavoro giornaliero (tanto da costituire una lontana chimera per secoli ormai lontani), indigenza e precarietà riguardano soltanto pochi miliardi di persone e la biosfera, a parte una verbosa pletora di preoccupanti indizi e segnali, non ha ancora subito un tracollo.
Quando tutti i barbari si saranno convertiti al libero, liberissimo mercato, un luminoso avvenire sarà garantito anche se (a causa di limiti intrinseci che fanno da modesto e trascurabile controcanto alle irrinunciabili mirabilia del libero, liberissimo mercato) ciò richiederà di caricare costantemente sul solido groppone del pianeta un carico energetico globale pari almeno a quello sviluppato da tutto il resto della biosfera, sollecitudine caldamente raccomandata sia perché le crescite economiche, come aitanti, muscolosissimi surfer, cavalcano inevitabilmente le onde di altre crescite (inflazionistiche, demografiche, delle sperequazioni eccetera), sia perché le corporazioni dei geni a ricchissimo libro paga imporranno invenzioni di mirabolanti palliativi in sostituzione dei rimedi ecologici e ambientali più ovvi e infallibili, come lo svincolo di percentuali adeguate di territorio dalla soffocante stretta dell’umanità al posto della sottomissione ogni anno di percentuali allucinanti di nuovo territorio alla soffocante stretta dell’umanità.
Del resto, l’umanità necessiterà di sempre nuove autostrade per far correre quelle automobili elettriche o a idrogeno che tra non molti anni o decenni, dopo il solito effimero boom e i frenetici applausi che lo festeggiano, solo pochi potranno permettersi per il costo delle materie prime e che tra un altro po’ non potranno essere più costruite in massa per la carenza delle stesse materie prime, i costi di smaltimento, il latitare degli acquirenti e altro.
Che le ‘Grandi Opere’ concepite al di fuori di un ‘Grande Progetto’ semplicemente per dare fatturato alle ‘Grandi Industrie’ e al loro indotto finiranno per costituire qualcosa come un macigno ingombrante e insidioso sul percorso di vita delle generazioni future, non rappresenta una opinione, ma un’ovvietà: il problema riguarda il quando ovvero tra quante generazioni: una, due, tre… ?
Non si può avere tutto e il contrario di tutto: per banali ineluttabilità termodinamiche si sa che una crescita, mitigando se stessa, può al massimo mitigare i danni e frenare le accelerazioni delle accelerazioni, speriamo quindi che continuino a esistere fette di popolazioni varie da mitigare per permettere ai condottieri più arditi di esibire la propria muscolatura acrobatica sulla cresta dell’onda della crescita e sulle meno auspicabili creste che la crescita si trascina dietro.
Un Progetto di tipo kolibiano (da realizzarsi nel volgere del giusto novero di anni, non al più presto e al massimo tra qualche mese perché il governo ha vinto le elezioni e i finanziatori della campagna elettorale, che, governo di larghe intese o no, sono poi gli stessi dei concorrenti principali, premono per i ragionevoli ritorni) ovvierebbe a tali laboriose ed epiche necessità, ma quanti magnifici e adorabilissimi idoli sarebbe costretto a far scendere dal piedistallo per ottenere i propri scopi e gli idoli, si sa, sorridono in cielo, ma ringhiano a terra.
Tutte quisquilie, ormai, per il kolibiano medio: a lui appariva ben più rimarchevole che la congiuntura salvifica fosse solennizzata dalla riammissione trionfale nelle file festose del movimento dell’enigmatica figura del Pezzotta, debitamente emendata da ogni ombra e fatta senz’altro oggetto di titoli e riconoscimenti adeguati, il che tuttavia non mancò, pur nel generale clima di grande conciliazione ed euforia e a rassegnata conferma che i guastafeste non mancano mai (perfino in solenni ricorrenze come quella degli Eroi Vaccinati e Vaccinanti), di generare qui e là qualche punzecchiatura sarcastica intorno al contrasto tra tanto abbagliante successo e il proverbiale pessimismo che il medesimo Pezzotta era uso sciorinare a piene mani.
Prima di affrontare la congettura di Goldbach e pervenire attraverso essa a quella soluzione dell’enigma di tutti gli enigmi che le più eccelse menti kolibiane seppero trarne, lasciateci tornare brevemente all’ultimo teorema di Fermat.
Secondo una delle numerose dichiarazioni in merito diffuse a piene mani dal Pezzotta (il quale, ora che è assurto a tutti gli onori, possiamo considerare testimone fedele e integerrimo e non più il millantatore subdolamente subodorato da qualche viscido calunniatore) il Padre Kolibiano Zampetta, benché spropositatamente saggio (era un Padre e non si diventa certo Padre soltanto attraverso palate di intuito tattico e astuta intelligenza sociale e diplomatica), non era né un fisico né un matematico e la prova da lui raggiunta si fondava su una felice intuizione maturata in colloqui tenuti con il Pezzotta medesimo.
Quest’ultimo (al quale ora, dopo gli attestati di benemerenza e le promozioni economiche e sociali possiamo senz’altro credere a occhi e orecchie chiusi e anzi sbarrati) rivendica dunque a sé la prova del teorema che limita a particolari terne pitagoriche la possibilità di soddisfare i principi fisici della conservazione dell’energia e della quantità di moto, entrambi legati alla persistenza per proiezione lineare di due intervalli di numeri dispari consecutivi (uno lungo che ne precede un altro debitamente distanziato) la somma dei cui termini conserva il rapporto tra le medie.
L’osservazione ci prepara altresì a quel sorprendente cortocircuito tra aritmetica e fisica fondamentale che ora meglio preciseremo affrontando le tematiche relative alla congettura di Goldbach.
La congettura di Goldbach equivale alla seguente proposizione (se alfa allora beta e se beta allora alfa): dato n qualsiasi, esiste un k tale che sia n-k che n+k sono numeri primi.
Se vale la congettura allora, presa una qualsiasi colonna di n + 1 quadratini numerati da 0 a n, vuoti se il numero corrispondente non è primo e puntati al centro se invece è primo, disposta quindi in corrispondenza uno a uno la sequenza da n a 2n ruotata di 180 gradi (corrispondenze estreme: in alto n con n, in basso 2n con 0), se vale la congettura, non esiste una siffatta doppia colonna di 2n quadratini per la quale nessuna coppia di quadratini presenti un doppio punto.
Crescendo n, la probabilità di avere un doppio quadratino tende a 1 / (log(n))2 mentre la probabilità di incontrare una doppia sequenza senza alcun doppio punto tende a zero.
Una dimostrazione non probabilistica della congettura non può esistere: se esistesse, date due sequenze di n quadratini, esisterebbe un criterio per decidere le mosse da intraprendere per togliere un numero m di quadratini da una sequenza e aggiungerlo all’altra in modo da generare due numeri primi e inoltre le mosse dovrebbero essere predefinite e indipendenti da n: ciò non avviene per algoritmi sul tipo del crivello di Eratostene o dei test di primalità, che sono applicabili a un n specifico e vengono condizionati specificamente da questo secondo modalità che potremmo definire addirittura empiriche.
Ovviamente non esiste nemmeno una dimostrazione probabilistica: la probabilità di non ottenere mai un doppio quadratino puntato tende rapidamente a zero con l’aumentare di n, ma non è mai zero e le prove sono infinite. Un numero finito di riscontri in un totale sufficientemente numeroso di prove è compatibile con una probabilità comunque bassa, anche se è difficile dare un senso definito alla cosa.
Inoltre qui si parla di processi probabilistici applicati a uno sviluppo di eventi rigidamente deterministico, il che comporta delle conseguenze curiose quanto inevitabili.
Elenchiamole un po’ alla rinfusa.
Senza processo deterministico non potremmo addivenire ad alcuna stima probabilistica.
Se il processo deterministico fosse conosciuto, non esisterebbero probabilità, ma solo risultanze di un calcolo algoritmico fissato una volta per tutte.
Se il processo potesse essere interamente conosciuto, l’infinità dei numeri interi sarebbe illusoria e, da un certo punto in poi, non genererebbe alcuna novità, ma solo una replica di schemi già fissati secondo combinazioni già fissate.
Se il processo potesse essere interamente conosciuto, tutta l’insiemistica cantoriana sarebbe un gioco di pure illusioni, ma se vale il contrario, ovvero se il processo produce novità infinite, la semplice sequenza dei numeri interi è capace di fornire qualsiasi modello ideale di realtà effettive illimitatamente complesse.
Come sosteneva l’ispido Kronecker, fiero avversario del beato Cantor, santo protettore della teo-tecnocrazia (tecno-teocrazia, secondo un genere diverso di priorità), Dio ha creato i numeri interi, tutto il resto è opera degli uomini.
Se non esistono unità fondamentali di misura, non esiste alcun modello di determinismo razionalmente comprensibile, ma, se deve esistere una unità fondamentale di misura per ogni grandezza fisicamente concepibile altrimenti non riusciamo a comprendere effettivamente e non per finta le dinamiche della realtà fisica, la commensurabilità è indispensabile alla comprensione del cosmo e la sequenza dei numeri interi si rivela sufficiente in linea di principio (comodità e maneggiabilità delle formule a parte) a crearne dei modelli dinamici.
Tali modelli, rimandando ad algoritmi discreti, immettono alla concezione dell’automa cellulare come generatore universale di eventi dipendenti da un cosmo composto da unità che agiscono simultaneamente influenzandosi a una velocità limitata attraverso una totalità di interazioni intrecciate su un numero x di dimensioni dinamicamente compresenti.
Lo schema è perfettamente compatibile con lo strano e meraviglioso florilegio di individualità organiche e inorganiche che riscontriamo sul pianeta Terra, lo è molto meno rispetto a pretese di stabilità eterna accampate da qualsiasi protagonista di quello scenario di mobilissime e transeunti interdipendenze formicolanti e multipolari.
Intorno alla riduzione di ogni specifico universo a uno specifico automa cellulare non disporremo mai di alcuna prova definitiva al di là della considerazione che è l’unico schema di funzionamento globale di cui saremo mai capaci di farci una cognizione effettiva senza ricorrere a quella ispirazione divina che di sicuro non tutti possono vantare e che ad alcuni (per esempio ai Kolibiani) difetta gravemente.
Se la commensurabilità è irrinunciabile ai fini di un’autentica comprensione, l’ultimo teorema di Fermat fa apparire rapporti tra potenze superiori alla seconda assai problematici.
Se la sequenza dei numeri interi, come sosteneva il Maestro Kolibiano (Post-Onorario) Leopold Kronecker, esprime tutte le complessità concepibili, il concetto stesso di complessità esprime valenze puramente quantitative.
Il determinismo è indispensabile per comprendere razionalmente la realtà, ma per assolvere allo scopo è sufficiente un determinismo puramente essenziale e quantitativo, non conoscibile nelle sue potenzialità infinite anche se indagabile e schematizzabile nelle sue concretizzazioni finite: il determinismo dei numeri primi.
E’ perfino inutile sottolineare che quello che un uomo ritiene veramente importante ai fini di trovare gratificante la propria esistenza esula completamente dal determinismo ‘povero’ dei numeri primi, ma quello che un uomo può razionalmente progettare per sfuggire all’irrazionalismo degli istinti ricade inevitabilmente nel determinismo ‘povero’ dei numeri primi.
Il determinismo ‘povero’ dei numeri primi, in effetti, è veramente ‘povero’ solo a uno sguardo distratto e sfugge con estrema facilità alle possibilità di controllo umano: basta soffermarci a pensare che ogni singolo libro non è che un numero scritto su una base di una trentina di cifre.
Non esiste alcuna possibilità di autentica conciliazione tra ragione e istinto diversa dal dividere nettamente la sfera materiale e sociale, debitamente semplificata al fine di configurare ipotesi non peregrine di controllo, da quella individuale, inter-individuale, esistenziale e privata, debitamente arricchita, questa ultima, di svolazzi arbitrari massimamente innocui ovvero con effetti causali sterilizzati in qualsiasi prospettiva sociale e naturale.
In sostanza esistono soltanto due tipi di semplificazione: autoritaria o progettuale.
La semplificazione autoritaria si esenta dal ragionare sul determinismo naturale perché si illude e vuole illudere intorno a zone franche spirituali oppure punta su determinismi impositivi di tipo puramente sociologico e gerarchico, rifiutandosi di fare i conti con le variabili non umane e assegnando quindi all’umanità, più o meno implicitamente, una indipendenza e una superiorità gerarchiche rispetto al resto della natura, secondo tipologie di spiritualismo e idealismo di fatto incontrovertibili anche se non sempre ammesse e dichiarate.
Gli uomini di successo, i leader nati e più in generale tutte le persone favorite da privilegi vari, patrimoniali o meno, tendono molto spesso ad assolutizzare questo tipo di concezioni e visioni attraverso quei meccanismi inevitabili di adattamento che valorizzano le relative specificità e che, nel caso specifico, si collegano a stimoli motivazionali, processi di auto-stima e auto-gratificazione, accentuazioni dell’importanza dei particolari riferimenti che facilitano le riuscite, filtri e schermi che agevolano l’azione mentre sfoltiscono gli impedimenti e così via.
La semplificazione autoritaria, che abbonda ovviamente di iperboli circa una non meglio specificata libertà di valenza puramente umana (una libertà antropocentrica a cui la natura dovrebbe considerarsi vincolata) ignora il problema della giustizia cosmica, quella Moira che per i Greci non era solo superiore agli uomini: era anche superiore agli dei.
Il libero cittadino greco, la cui libertà ed economia si fondava sulla schiavitù dei cosiddetti barbari, tendeva idealmente a identificarsi, come ogni libero elettore e al contrario del suddito senza diritti a cui il progresso tecnologico cerca di non succhiare il sangue ma sempre più spesso non ci riesce, non con figure di uomini schiavi e barbari, ma con figure di eroi, semidei e varie divinità; tuttavia, ignorando il concetto mitico di onnipotenza tecnologica (che divinizza l’umanità rispetto alla natura) senza ignorare invece almeno i primordi di una visione scientifica relativa a una natura con leggi e dispositivi estranei e autonomi rispetto ai desideri umani, non affidava la gestione del cosmo a un onnipotente protettore simbolico dell’umanità divinizzata, bensì a un enigmatico principio cosmico garante di quegli equilibri, di quei pesi e contrappesi, senza i quali si genererebbe il caos.
Secondo i Kolibiani la visione metafisica dei matematici, tragediografi e filosofi greci rappresenta un modello di sobrio realismo e di implacabile concretezza rispetto alle ingegnose costruzioni oniriche dei migliori campioni della teo-tecnocrazia o tecno-teocrazia.
Quanto ai tecnocrati atei, il consiglio dei Kolibiani per il loro bene è quello di di dimenticarsi il significato ontologico autentico della complessità limitandosi a smaneggiare con un analogo di mattoncini Lego in un analogo di laboratorio (probabilmente il loro inconscio è comunque già pieno di divinità in incognito), mentre i filo-teocrati ostili alla scienza dovrebbero vivere in una botte come Diogene per non contraddire se stessi almeno cento volte in un giorno.
Tutte le precedenti osservazioni, ovviamente, si applicano in ambito metafisico fondamentale (quello che vale per qualsiasi pianeta comprensivo di tutto, anche di anime, osservato da un punto sufficientemente elevato o da un altro corpo celeste): se si adotta invece il metro del successo sociale tutte le valutazioni e i giudizi vanno semplicemente rovesciati.
La domanda fondamentale è dunque: Dio o ‘Dio’ da che parte sta?
Togliere le virgolette a Dio facilita la risposta, ma ha senso una risposta che rinuncia a ogni logica razionale per fare a meno di un paio di virgolette?
Siamo poi sicuri che Dio sia sempre e comunque meglio di ‘Dio’?
Forse per quelli che danno per scontato di esserGli simpatici (nella migliore delle ipotesi in base a eudemonie e assiologie circa le quali è sempre molto insidioso cercare precisazioni, dettagli e applicazioni pratiche e incisive) o per quelli che credono ciecamente ai Suoi rappresentanti in Terra, i quali però pongono delle condizioni e richiamano le più diverse forme di ‘cui prodest’.
La semplificazione dogmatica e autoritaria ricerca una propria idea di giustizia (basta pensare a come non appena si parla di riforme la priorità, a prescindere dalla tinteggiatura politica del governo in carica, viene data alla riforma della giustizia quasi esclusivamente nel senso di una limitazione dei rispettivi poteri), ma la giustizia del potere teo-tecnocratico (o tecno-teocratico) si rivela sempre una giustizia collegata organicamente a priorità gestionali e di controllo, una giustizia impersonale solo per quanto riguarda la funzionalità dei meccanismi trasmissivi di comando e la fruibilità delle leve economiche.
La giustizia della semplificazione dogmatica e autoritaria non può ammettere automatismi indipendenti dai propri centri di emanazione sociologica, non prevede giustizie autonome come quelle di un pianeta che esiste da quattro miliardi di anni e mezzo e dispone di forme di vita complesse da almeno mezzo miliardo, un pianeta che forse mal sopporta di appartenere a una specie padrona che traffica a velocità esponenziale solo da qualche migliaio di anni e che ritiene di poter disporre liberamente di tutte le altre specie senza compromettere in tempi molto brevi l’avvenire di tutte le specie planetarie nessuna esclusa.
La semplificazione dogmatica e autoritaria non si illude circa le difficoltà che costelleranno il proprio cammino: semplicemente, mentre si spreca in fantasie prometeiche, è già programmata per ridurre progressivamente allo stato vegetativo o di manodopera pura porzioni crescenti di popolazione, ma la supposizione che tali stati possano considerarsi stabili e innocui anche solo dal punto di vista ambientale si rivelerà probabilmente irrazionale e arbitraria.
La stragrande maggioranza degli uomini pensa che questo genere di questioni dai riflessi politici, economici, sociologici, ecologici e ambientali attengano più a sentimenti e aspirazioni di tipo ideale, morale e religioso, che alla sequenza dei numeri primi, ma i filosofi e i tragediografi greci ritenevano che non fosse così.
I Kolibiani ritengono che il solo tipo di emozione che possa aiutare veramente l’umanità in questa fase storica consista in un desiderio profondo e incoercibile di ritorno a una condizione di armonica vicinanza al mondo naturale non umano, da perseguirsi però, in una contraddizione solo apparente (ricordatevi i numeri primi e la Moira), attraverso una razionalità progettuale nutrita di cultura scientifica e pragmatismo tecnologico.
Secondo i Kolibiani tutto il resto o non c’entra niente con le questioni affrontate nel presente testo o, in buona o cattiva fede, sparge solo confusione e rumore.
3 marzo 2021
ZIO TOBIA TRACCIA NEL 2041, A CONSUNTIVO E A POSTERIORI, UNA SINTESI RIEPILOGATIVA DI VALENZE E SIGNIFICATI INSITI NEL MESSAGGIO KOLIBIANO, MA PRIMA RIASSUME LE DIMOSTRAZIONI ELEMENTARI DELL’ULTIMO TEOREMA DI FERMAT E DEL TEOREMA DEI QUATTRO COLORI TROVATE NELL’ULTIMO ARCHIVIO ESPLORATO DI UNO DEI PADRI PIU’ ILLUSTRI DELLA CHIESA KOLIBIANA, QUEL REMOTO ZAMPETTA DALLE CUI CONFIDENZE (O MALAMENTE SCOPIAZZANDO IL QUALE) IL PESSIMO PEZZOTTA AVEVA PROBABILMENTE TRATTO ISPIRAZIONI E SPUNTI PER LE PROPRIE, INVERO ALQUANTO CONFUSIONARIE, PROPOSTE.
Eh, eh, eh, eh….. eh, eh………. eh, eh, eh, eh, eh,eh, eh…
(Ghigno scricchiolante e risatina catarrosa)
Beccatevi queste dimostrazioni, uomini (o donne) di poca fede.
Data l’equazione:
1) an + bn = cn
(a, b e c numeri interi o razionai, b < a < c) consideriamo le tre funzioni:
f(k) = (ka)n
g(k) = (kb)n
h(k) = (kc)n
Se vale la 1) vale anche l’equazione:
2) f(k) + g(k) = h(k)
per qualsiasi valore intero di k.
La 2) non può essere valida (per n > 2) perché i due termini dell’equazione dovrebbero poter esprimere il movimento di tre particelle di massa uguale che, per mantenere le opportune coordinazioni, devono sviluppare i giusti rapporti energetici: ciò non può avvenire per il motivo che, considerando f, g e h come movimenti su una traiettoria spaziale in funzione dei tempi k, le accelerazioni accumulate, al contrario di quanto accade per n = 2, non restano proporzionali alle distanze percorse.
Data invece l’equazione:
3) (ka)n + (kb)n = kn(a + jb (bn-1/ ((a + j)n – an)))n
dove j = c – a
essa vale se vale la 1), il che può sembrare una tautologia, ma se la riscriviamo come:
(ka)n + (kb)n = (ka + kb ((mdkb) / (mdkj)))n
dove
(mdkb) = ( 0kb-1Ʃi ((i + 1)n – in) ) / kb
e
(mdkj) = ( kakc-1 Ʃi ((i + 1)n – in) ) / k(c-a)
vediamo che il termine (mdkb) / (mdkj), crescendo k, decresce più che linearmente e quindi i due termini della 3) non possono mantenere la proporzionalità in k.
Io non so, eh, eh, eh, se le dimostrazioni sono valide o meno: sbrogliatevela voi… eh, eh, eh, eh, eh…
Quanto al teorema dei quattro colori, è facile vedere che, dato un anello circolare di regioni consecutive (con singoli tratti di confine su due lati di ciascuna regione alternati nel verso della catena) qualsiasi analoga catena disposta all’interno di essa (con ciascuna regione della catena interna in contatto su un lato solo con una o più regioni della catena esterna) si può colorare con quattro colori senza generare conflitti mantenendo lo stesso schema generale (salvo particolari eccezioni sempre rimediabili).
Accenniamo brevemente alla facile dimostrazione:
ogni catena può essere colorata o da un’alternanza di due colori più eventualmente un singolo terzo di separazione o da due tratti costituiti da una diversa coppia di colori alternati. Si parte dal terzo colore o dalle zone di confine tra i due tratti colorando opportunamente le regioni interne e si usano i colori rimanenti per generare alternanze lineari in modo da non generare conflitti con i colori della catena contenitrice, il che è sempre possibile.
Le modalità che permettono di avviare esaustivamente l’applicazione ricorsiva di tale possibilità sono state descritte nelle ultime sezioni della Bibbia Kolibiana.
Idem come sopra per quanto attiene alla validità (eh,eh,eh... eh,eh).
In fondo, secondo una testimonianza (da prendere ovviamente con le pinze) del solito Pezzotta, a Zampetta non importava tanto che le dimostrazioni fossero perfette e conclusive, quanto che fosse possibile partire dalle intuizioni in esse contenute per arrivare a dimostrazioni canoniche abbastanza elementari da testimoniare una cecità generale poco credibile eppure certa e indiscutibile.
Il suo obbiettivo non implicava propositi demitizzanti o canzonatori, egli piuttosto si proponeva (eh eh eh eh ih eh eh) di fornire un esempio semplice e poderoso di come eccessi di sicurezza e di confidenza dogmatica nelle proprie capacità da parte dei cultori di qualsiasi branca o settore della cultura ufficiale potessero manifestarsi infondati e soprattutto, in presenza di complessità crescenti a ritmo esponenziale, infidi ed estremamente pericolosi.
Se ciò si applica perfino alla matematica quasi elementare, figuriamoci (eh eh iiihihiii… eh eh, ih) quali imperfezioni e trabocchetti possono introdursi in qualsiasi tipo di disciplina scientifica o nelle scienze cosiddette umane.
La complessità non si può dominare, si può solo (forse, auguratevelo! eh eh eh) isolare, decurtare o ridurre e se, in sede sociale ed economica, non saprà agirvi il PKSSS, delle inevitabili semplificazioni si incaricherà prima o poi una forma o l’altra di dittatura più o meno brutale.
Non sappiamo perché lo Zampetta non divulgò personalmente le sue scoperte, forse non le riteneva abbastanza certe e fondate o forse non voleva apparire eccessivamente critico e distruttivo nei confronti di un metodo logico-matematico che riteneva irrinunciabile non solo, com’è ovvio, nelle scienze, ma, come ripeteva spesso, anche e soprattutto in politica.
Ai posteri (eh eh eh eh ih ih... eh eh eh eh, eh) l’ardua sentenza.
Negli ultimi anni, del resto, secondo molti confidenti con l’eccezione dello sbruffone Pezzotta) Zampetta (a differenza del medesimo Pezzotta) aveva deciso di mitigare la sua tipica vena satirica così spregiudicata e pungente, forse anche turbato e ferito per le accuse di scarsa serietà mosse da controparti particolarmente solenni e illuminate grazie a concezioni del mondo costruite intorno alla discesa dal cielo di un dio uno e trino partorito da una donna vergine per riscattare l’umanità da un peccato originale simbolizzato, come l’atto sessuale, da una mela e da un serpente.
In ricorrenti momenti di depressione il vecchio Zampetta deprecava ogni vocazione sarcastica come atteggiamento molto poco indicato per affrontare le emergenze che il suo infallibile spirito profetico (ehehe, heh eheh) già vedeva profilarsi all’orizzonte.
Una umanità incapace di PKSSS (Progetto Kolibiano Semplificante per lo Stato Stazionario), diceva spesso Zampetta, si troverà presto davanti alla catastrofe e allora le favolette consolatorie che l’umanità ha preferito in prevalenza raccontarsi non rappresenteranno più inganni e illusioni per mettersi nel sacco a vicenda, bensì mitologie indispensabili a sostenere un minimo di voglia di vivere e di fare.
“Allora spero proprio di non esserci!” sembra fosse la replica del bieco Pezzotta e dei suoi stolidi compari, i quali sono stati prontamente esauditi (eh eh, eh eh eh…. ih ih ih... eh, ihiiihi, eh eh eh…. ih).
Ed ecco che, puntualmente (anno più, anno meno), l’umanità è convenuta a nozze solenni con l’apocalisse e allora ditemi voi, cari amici Kolibiani (eh,eh… eh ehe eeeeh), a che cavolo serviranno mai le vostre fini analisi se adesso la cosa migliore che ogni individuo dotato di senno può sensatamente concepire e augurarsi, é… il medioevo prossimo venturo (eh eh eh eh… eh… eh… ih,ih).
Zampetta sapeva che, prima di addivenire alla soluzione semplice e ineluttabile del Progetto, le classi dirigenti del darwinismo sociale addobbato e ingioiellato con valori sempiterni e propagandistiche emozioni da società dello spettacolo incolto avrebbero profuso sforzi enormi in epopee, come quelle relative alle energie pulite e rinnovabili e alle esplorazioni spaziali, destinate a rivelarsi assolutamente fallimentari in assenza dell’incastellatura cruciale del Progetto: alla fine, quando il Progetto si fosse palesato l’unica opzione razionale plausibile, sarebbe stato ormai troppo tardi per una riconversione pacifica e funzionale, attraverso i giusti compromessi, di risorse ormai gravemente deteriorate al pari delle volontà, intelligenze e culture che meglio avrebbero potuto soccorrere e sostenere l’impresa, il tutto schiacciato ormai sotto una massa marcescente di dilazioni e diversivi utili solo a polarizzare fino allo squarcio irrimediabile le disomogeneità sociali esistenti.
Il darwinismo sociale si può edulcorare e abbellire fino allo sfinimento dando fondo alle riserve del marketing teo-tecnocratico, ma in ogni modo, quando le cose si mettono male (e bene non possono andare per caso perché nel caso domina l’entropia) l’esemplare alfa meglio adattato non può più celare (eh eh eh eh eh iiiiih) i peli e le zanne dell’incoscienza ferina.
Adesso può sembrare incredibile (eh, eh….. ehhehe… eh,eh,eh), ma ancora cinque anni fa, nonostante la caterva di eventi estremi che già si andavano manifestando, c’era ancora chi pensava di risolvere tutto riducendo le emissioni di combustibili fossili e questo nella latitanza del Progetto e in presenza invece di esigenze e imperativi di crescita (anche demografica), indispensabili a evitare rotture traumatiche, rispetto ai quali i livelli di anidride carbonica nell’aria erano perfino troppo scarsi al fine di mantenere una efficienza di produzione alimentare che il solito ottimismo futurista attribuiva ai progressi nelle tecniche di cultura anche per la notevole parte che spettava invece agli effetti collaterali di fecondazioni dovute ai più diversi inquinanti.
Se fossimo esseri divini potremmo sottomettere e sfruttare la natura; se siamo esseri naturali, tentare di farlo è come cercare di nuotare nelle sabbie mobili, siamo parte annessa e connessa di un sistema sottoposto a vincoli termodinamici inesorabili per i quali, tra l’altro, l’efficienza dei processi si lega a differenze di temperatura: risanare l’ambiente affidandosi a meccanismi energetici che agiscono con temperature massime vicine a quelle ambientali è come ripulire la casa strofinando i muri con i pacchi di immondizia.
L’entropia da qualche parte deve andare, la quota commisurata al consumo energetico che viene sottratta all’atmosfera (sottrazione non sicuramente ed esclusivamente benefica) finisce o in mare o sulle terre emerse e per essere rimossa richiede energie maggiori dell’entropia profusa, le quali lasciano residui ulteriori da rimuovere.
Considerando l’umanità come una frazione estremamente turbolenta della biosfera, una produzione minima e relativamente poco distruttiva di entropia si ottiene solamente attraverso approssimazioni di uno stato stazionario: altre soluzioni, a tiro lungo, non esistono, a parte, ovviamente, una radicale decimazione degli esseri umani o la riduzione di una quota parte ridotta a uno stato sonnambolico e vegetativo rigidamente sorvegliato.
Certo che, per molti, soprattutto quelli attivamente o supinamente integrati in gerarchie di potere, è molto più comodo favoleggiare di favoritismi ed esenzioni di pertinenza e valenza soprannaturali.
Grazie a tali agevolazioni dall’alto, essi si possono oltretutto permettere di aggirare il conflitto inconciliabile tra significato e protezione, da una parte, e libera spontaneità dall’altra: la politica, che si muove nell’ambito dei valori puramente contrattuali e variamente protezionistici mentre è totalmente impotente sul fronte delle libertà, dovrebbe occuparsi delle garanzie e dei rispetti puramente economici relativi alle vite materiali in modo non pregiudizievole per singole scelte esistenziali e spirituali con o senza virgolette: invece, grazie a stati di grazia e raffiche di ispirazioni che piovono dall’alto, affila sadicamente la propria vocazione pedagogica sempre in cerca di valori da affibbiare sul groppo a sudditi lasciati peraltro soli a sfangarsela per quanto concerne il rapporto con lo spadroneggiare crescente delle leve economiche e delle forze darwiniane del profitto.
Senza Progetto, qualsiasi politica non potrà che ridursi sempre e comunque a ratificare gli esiti della forza maggiore.
L’umanità si salva solo se si ridimensiona e riduce le pretese: se si ridimensiona e riduce le pretese attraverso il PKSSS può (almeno in potenza e nelle intenzioni) migliorare la qualità media delle vite individuali; se si affida invece all’autoritarismo oligarchico per creare eserciti ubbidienti di bravi soldatini frastornati da qualche trascendenza, non può ridimensionare e ridurre le pretese delle masse che contano in senso ambientale anche e soprattutto quando non contano in senso sociale, può al massimo illuderle per un tempo limitato prima di esplosioni e tracolli.
Governanti che non dispongono di quel minimo di provvigioni culturali indispensabili per rinvenire le tracce del destino termodinamico e non si accorgono neppure che pensare all’infinito non è pensare, bensì delirare (l’infinito attuale è fonte di tutte le antinomie logiche non banali), sono destinati a diventare tiranni al di là di ogni migliore intenzione.
La natura non ha alcun bisogno dell’infinito per farci venire le vertigini, ci può folgorare sulla via di Damasco con i più banali intrecci combinatori.
In fondo (eheh hehh heeeh ehehh) quei grandi uomini di azione che si limitavano a recidere con un taglio netto e affilato, vicinissimo alle teste degli altri, i nodi gordiani più impervi non avevano tutti i torti a non preoccuparsi granché: le élite veramente privilegiate anche grazie a emergenze e crisi ricorrenti (chi subisce una crisi senza poterne approfittare diventa in men che non si dica un signor nessuno) si stanno in effetti riducendo a contingenti tali che, se proprio gli eventi dovessero volgersi al peggio, qualche decina di astronavi potranno imbarcarli tutti per la nuovissima stazione marziana da poco inaugurata tra gli applausi incantati del pubblico televisivo più vasto e adorante e qui, nella nuova stazione spaziale, le autentiche élite (senza più le moltitudini chiassose di trafelati scagnozzi che le sostengono) potrebbero attendere con calma e serenità che la buriana si esaurisca, questo però non prima di aver rimosso ogni eccesso energetico e combinatorio.
Eh eh eh eh iiih eh eh eh ehh eihe iiihiii eh eh ih ih.
Zio Tobia tutte le feste le porta via.
9 febbraio 2021
L’ESPULSIONE DI FANATICI, TESTE CALDE, SCALMANATI, PIU’ TUTTE LE VARIE FRANGE RADICALI ED ESTREMISTE ISPIRATE IN QUALCHE MODO DAL TRISTO PEZZOTTA, APRE FINALMENTE UNA VIA PRETTAMENTE KOLIBIANA VERSO RIFLESSIONI PACATE E ANALISI SERENE E OBBIETTIVE, CONSENTENDO AL VERO E AUTENTICO FEDELISSIMO DI DARE A CESARE QUEL CHE E’ DI CESARE BEN AL DI LA’ DI OGNI GRETTO E INVALIDANTE SETTARISMO, IL CHE NON SIGNIFICA MAI E POI MAI DARE AL POTERE QUELLO CHE IL POTERE SI PRENDE ANCHE SE NON GLIELO DAI, BENSI’ DARE A UOMINI ECCELLENTI, RESPONSABILI, MIGLIORI E COMPETENTI QUELLO CHE SPETTA A UOMINI COMPETENTI, MIGLIORI, RESPONSABILI ED ECCELLENTI.
Le più recenti vicissitudini del nostro glorioso movimento testimoniano, al di là di ogni ragionevole dubbio, la improrogabile liceità e salubrità delle mosse intraprese, la cui pertinenza e tempestività ci viene appunto testimoniata da come si sviluppò il dibattito interno al culmine della prima ondata epidemica: proprio allora i più accorti tra noi avvertirono la necessità e l’urgenza di un riscatto fermo e decisivo dal pessimismo disfattista dei peggiori, mediocri e irresponsabili incompetenti tra di noi.
Chi non ricorda i toni tipici del loro argomentare?
Invece di prospettarsi l’arrivo di una fase di rinnovamento epocale in cui la consapevolezza di certe fragilità sistemiche avrebbe indotto le menti migliori a scalare responsabilmente le vette dell’eccellenza più responsabile, ecco, sintetizzati e riassunti senza impoverirli, i punti salienti del loro ragionamento:
a) le classi dirigenti avrebbero scorto nella crisi una impellente esigenza di consolidare la propria egemonia sacrificando divisioni e opportunismi sugli altari di una migliore collaborazione strategica (ogni crisi è una opportunità!!!!!);
b) non ci sarebbe stato alcun tipo di ‘mea culpa’, ma solo appelli all’unanimismo conformista spacciato per spirito solidale;
c) una ulteriore percentuale di popolazione, calibrata ‘chirurgicamente’ sulla base della gravità dei problemi e della necessità di arginare le turbolenze sociali, avrebbe principiato a erodere il blocco cavernoso e sbocconcellato del ceto medio residuo portandosi a ridosso di una precarietà strutturale da non confondere mai, per nessun motivo, con disagio e povertà;
d) il rilancio dell’economia secondo stereotipi e modelli quasi decrepiti, fallimentari dal punto di vista di un popolo inesistente, ma dinamici e fecondi secondo la cultura dominante dei darwinismi vittoriosi, avrebbe alimentato la vocazione autentica della politica professionale, vale a dire la gestione dei finanziamenti per i soccorsi emergenziali;
e) questi flussi monetari artificialmente pilotati, rispetto ai normali stanziamenti di bilancio, presentano molte più caratteristiche appetibili: sono più indifferenziati e abbondanti, generano meno diffidenze e sospetti nel popolino degli esclusi (va comunque considerata sempre, a ogni buon conto, l’opportunità di un uso preventivo dei bavagli garantisti), generano facilmente l’illusione del fondo perduto anche quando il tutto è un enorme, sterminato gattone che insegue la propria coda e i fondi, per quanto in gran parte effettivamente perduti, dovranno essere restituiti in un modo o nell’altro (anche, se, perlopiù, da quelli che non ne beneficeranno affatto) e quello che resterà non restituito o restituito troppo disinvoltamente dovrà essere rifinanziato (perlopiù da quelli che non ne avranno beneficiato affatto) per coprire i relativi buchi di bilancio, riguardino essi le singole nazioni oppure i mistici comitati di più nazioni, ciascuna molto più furba di tutte le altre;
f) l’accelerazione nell’ambito del vecchio canovaccio ecologicamente e ambientalmente distruttivo sotto l’alibi sferzante dell’emergenza avrebbe inferto il colpo decisivo al pianeta distraendo da ogni linea di condotta virtuosa frange sociali allontanate da qualsiasi alternativa o via di mezzo concretamente percorribile tra attivismo distruttivo e inerzia nell’indigenza;
g) ovviamente a tanti esagitati tenuti sulla graticola, che non possono risolvere il problema ambientale perché sono essi stessi una grossa parte del problema, si contrabbanderà la mitologia delle energie pulite (affollata di convulse e problematiche implicazioni industriali) come panacea portentosa e garantita, questo mentre, dopo l’eventuale o probabile punto di non ritorno, l’anidride carbonica più esiziale potrebbe derivare da fonti diverse rispetto a quelle preminenti in passato e potrebbe anche aver ceduto (o essere sul punto di cedere) molte prerogative condizionanti ad altri gas industriali o al principale gas serra atmosferico, ovvero il vapore acqueo.
Basterebbero due parole e un solo dato anagrafico per smentire simili deliri: Mario Draghi.
Ma più delle parole contano i fatti: il clima culturale è completamente cambiato e, a riprova di ciò, possiamo garantirvi che il movimento kolibiano è stato ufficialmente riconosciuto come forza trainante della rinascita culturale in atto, al punto che avremo diritto anche noi, in quanto fonte di promozione spirituale per tutta la nazione, a una fetta di finanziamenti e incentivi.
Il nostro auspicio spassionato è che dato emolumento sia il più possibile adeguato al potente ruolo di ispirazione e di stimolo che stiamo rappresentando anche ora, nel preciso momento in cui redigiamo questa nota doverosa e illuminante.
Cari amici, adepti, colleghi, camerati, compagni, sodali o comunque vogliate essere nominati: per quanto possa apparire incredibile, vi annunciamo solennemente che tra poco anche noi, ricevendo finanziamenti di rispettosa e dignitosa capienza ed entrando quindi nel novero delle rappresentanze e delle dignità riservate a interessi ufficialmente costituiti e riconosciuti, potremo esprimere analisi e concetti senza incorrere in sproloqui ideologici o (peggio, molto peggio!) manifestare ingenue e dilettantesche velleità da utopisti cronici e sognatori incalliti.
Come i giornalisti di testate che possono essere considerate a ogni buon diritto colonie spirituali (a volte molto finanziariamente creative) della migliore multinazionalità organizzata, potremo dire di non parlare a nome e per conto di oscuri mandanti e sulla spinta di mire losche, torbide o sospette e magari anche per turbe mentali inguaribili; potremo perfino legittimamente negare di esprimerci in difesa di molto più nobili (comunque) interessi economici.
Finalmente i Kolibiani potranno avvalersi del diritto di partecipare con ogni loro scritto e parola (e perfino, se il momento è quello giusto, che so... con un rutto birichino ed elegante) a quella immensa e quasi santa fabbrica della cultura a cui si viene ammessi solo se ci si palesa, senza ombra di dubbio alcuno, oltre che eccellenti, responsabili, migliori e competenti (il che è ovvio e garantito) anche (e questa, cari signori, secondo il nostro modesto parere, vale quale premessa indispensabile a ogni virtù non comune): disinteressati per dono o diritto divino!
29 gennaio 2021
COMMENTO FINALE DEL COMITATO DI REDAZIONE IN MERITO A UNA MALAUGURATA E DOLOROSA ESPULSIONE
Il presente e sottoscritto comitato non si pente di avere introdotto questioni di matematica pura apparentemente slegate dal contesto, né si preoccupa più di tanto per una eccessiva vaghezza e perfino grave imprecisione di certi rilievi tecnici addotti.
La presente Bibbia, anche per merito (lo riconosciamo senza remora alcuna) dell’adepto conosciuto sotto il nome di Renato Pezzotta, si è sempre fatta scrupolo di distinguere il mondo delle opinioni da quello di una ontologia dei fatti che il semplice rispetto di requisiti logici elementari riconduce inevitabilmente, se si desidera pervenire a spiegazioni e deduzioni effettivamente condivisibili e condivise, nell’ambito di quella realtà metafisica che risulta configurabile esclusivamente mediante l’uso attento e sorvegliato di procedure scientifiche e razionali.
Solo l’imperfezione umana può arrivare a confondere la fantasia immaginata con la realtà delle cose, ma anche i Kolibiani, chi l’avrebbe mai detto, sono umanamente imperfetti.
Introdurre ambiti di discorso in cui, almeno in potenza e in teoria, sembra possibile addivenire a conclusioni certe e inconfutabili, aiuta a sottolineare per contrasto la precarietà aleatoria di altri e ben diversi generi di discorso, nonché a sottolineare la meschinità di beghe caratteriali e vanagloriosi egotismi.
Che cosa implica dopotutto la metodologia trasparente e condivisa del Progetto se non un trasferimento dei comuni sforzi intellettuali all’interno di una impresa costruttiva in cui possa finalmente vigere l’arbitrato di una intelligenza comunitaria riconoscibile e accettabile da tutti o almeno da una maggioranza, in cui l’arbitrio e il capriccio di prevaricazioni e poteri sia costretto a tacitarsi disarmato davanti a evidenze pubblicamente riconosciute?
In quel tipo d’impresa non sarebbe più necessario che qualcuno si faccia avanti sotto la corona del prediletto da Dio, del superman dotato di occhiali speciali negati ai comuni mortali: sarebbe sufficiente proporre idee e intuizioni la cui fertilità e forza di stimolo derivasse unicamente dall’elaborazione (o non elaborazione) da parte di una cultura sociale sufficientemente arricchita dal punto di vista logico, scientifico e filosofico quanto adeguatamente impoverita di privilegi spiritualeggianti e attestati di nobiltà a prescindere, una cultura che coltiverà le specializzazioni estreme non per farne serragli di mercenari privilegi di casta a disposizione di plagiatori, finanziatori e migliori offerenti, ma in base alla considerazione di necessità funzionali organicamente inserite in un contesto progettuale capace di fornire anche ai meno esperti dei vari settori adeguate parafrasi divulgative.
Quella cultura saprebbe altresì distinguere licenze ed esenzioni da concedere a una espressività impregiudicata in contesti strettamente individuali (per esempio in ambito artistico o religioso) dai vincoli di oggettività impersonale a cui ci si dovrebbe attenere, nei limiti del possibile, quando intervengono strutturazioni di ordine sociologico, politico ed economico.
L’adepto conosciuto sotto il nome di Renato Pezzotta (perlomeno l’ultimo del genere) all’anagrafe conta ormai più di novant’anni: per quanto ancora bellissimo e risplendente di varie esuberanze (è anche un rompiballe pazzesco, lasciatecelo dire) è troppo vecchio per fare matematica attiva.
Nonostante ciò e per quanto ne possiamo capire, la sua illuminazione (sua o di Remoto Zampetta, di cui era sodale, il che si potrà accertare soltanto quando i 255 hangar contenente i suoi scritti (di Zampetta) saranno stati adeguatamente spulciati) è stata (forse) fulminante.
Data l’equazione:
f(k) + g(k) = h(k)
per n > 2, considerazioni sulle derivate prime e seconde intere la fanno apparire definitivamente impossibile e data l’equazione:
(ka)n + (kb)n = (ka + (kb (wn-1 / zn-1)))n
risulta auto-evidente che il secondo membro non può essere un multiplo di k.
I dettagli esplicativi si trovano nelle precedenti sezioni.
Se non-((ka)n + (kb)n = (kc)n)) allora non-(an + bn = cn)
Fino a qui tutto bene: alla comunità dei matematici ci affidiamo per un verdetto sulla congruità e sufficienza delle due dimostrazioni.
A noi serviva fornire un esempio paradigmatico elementare
a) dell’esistenza di soluzioni quasi banali ignorate per secoli dai massimi esperti;
oppure
b) di come l’immaginazione dilettantesca possa essere tenuta a freno se sussiste una metodologia oggettivamente efficace.
Aggiungevamo che sarebbe stato sociologicamente interessante e significativo se le dimostrazioni fossero risultate valide e nonostante questo passate sotto silenzio assoluto.
Quello che non ha funzionato (e anche di ciò, volendo, si potrebbe fare metafora) concerne, a nostro avviso, l’atteggiamento del Pezzotta che, pur palesando qualche comprensibile offuscamento senile, ha, nonostante ciò, inteso brandire le armi dell’arroganza sapienziale, seminando zizzania fino a contraddire lo spirito profondo della proposta kolibiana.
Una filosofia della natura capace di sostituirsi ai deliri antropocentrici fino a distogliere i più volonterosi dal grottesco balletto di fantasmi delle diatribe ideologiche (quelle pantomime meccaniche in cui a turno ogni marionetta implicata proclama quale fede in un ideale supremo la obbliga a gesticolare e oscillare sulla giostra) perderebbe efficacia fino a contraddirsi se dovesse sottostare alle solite nuove edizioni riviste e corrette in senso moderato e salutista dei soliti piccoli Stalin o Hitler che alle perversioni sadiche preferiscono patinati sentimentalismi in stile advertising o snobistiche eccentricità.
Queste primedonne che non puoi ignorare perché ti agitano continuamente sotto il naso dita laccate e profumate che schermano i palmi sporchi rivolti all’ingiù, questi geni supremi che, al di là di tutte le cortine più o meno pestilenziali, sanno sempre vedere, nel cuore di tante false lusinghe, l’autentica fonte di ispirazione di ogni democrazia moderata, ovvero il garantismo (il cattolicissimo sacramento del perdono per tutti gli scheletri contenuti nei vastissimi armadi della real-politik), costoro sapranno sempre come ricondurre ogni ricerca di armonia strutturale profonda al movimento dei fili a cui essi stessi si collegano gioiosi sognando di essere allo stesso tempo burattino e burattinaio.
Non vogliamo personaggi del genere all’interno della nostra comunità illuminata e il signor Renato Pezzotta, qualunque sia il suo nome vero, ci faccia pure causa se ritiene di essere stato bistrattato e oltraggiato.
Per il momento ci teniamo le sue dimostrazioni: se e quando realizzeremo che sono fasulle, butteremo anche quelle.
Il Progetto non persegue l’infallibilità: è un unico work in progress per la liberazione di tutti gli individui dalla dannazione del giudizio economico del cosiddetto Mercato, dal dito puntato di un nume che da dio della creatività si sta trasformando sempre più rapidamente in dio protettore del caso e della prevaricazione più bieca.
il Progetto tenta di erigere una casa comune dove virtù spontanee e diversificate, generando, non anarchia, ma ordine vivo e fecondo, attecchiscano in totale libertà e indipendenza dai bisogni materiali, tutta un’altra faccenda dal costruire una molteplicità di altari per l’adorazione di stereotipi che si rivelano sempre più fiancheggiatori o promotori dell’immensa ondata di una tirannia soft gestita con protesi ambigue e sofisticate, di una omologazione montante sotto le apparenze più antitetiche.
Il presente e sottoscritto Comitato di Redazione della Bibbia Kolibiana intende conferire a questo atto di estromissione una specifica caratura emblematica, farne il simbolo di uno svecchiamento non più ritardabile, di una abiura tassativa nei confronti di professionalità fertili e remunerative nel privato quanto sterili e ripetitive in pubblico (oppure sontuose e magniloquenti in pubblico quanto aride e invalidanti nel privato), di una sfida ideale contro una tipologia d’interazione politica e sociale irrimediabilmente impantanata in ritualità autoreferenziali che si palesano tanto più ridotte all’astuto gioco manipolatorio degli interessi meno onesti e dichiarati quanto più rimangono soggette alla produzione industriale di ipocrisie spacciate per idealità.
16 gennaio 2021
MORALE DELLA FAVOLA
di Renato Pezzotta (pseudonimo)
Il comitato di redazione, dopo avermi definitivamente estromesso dalla stesura del presente testo, mi concede uno spazio… di giustificazione e commiato, chiamiamolo così.
Il matematico (?) Carino Cosmoletto (o Cosmoletto Carino, non so quale sia il nome e quale il cognome, ormai, grazie a Internet, con i dati anagrafici è un delirio quasi quanto con definizioni e identità) ha scritto alla redazione sbeffeggiando una (e sottolineo ‘una’) delle mie dimostrazioni.
Che (kc)n – (ka)n / (ka)n possa diventare maggiore di 1 se (cn – an) / an non lo è dimostra una incompetenza gravissima anche per uno scolaretto di prima elementare.
Carino prosegue ribadendo quella bollente indignazione che lo ha indotto ad abbandonare seduta stante la lettura, disgustato di come tali stratosferici livelli di ignoranza arrivino perfino ad arrogarsi la demente pretesa di salire in cattedra.
Se si fosse sobbarcato il fastidio di esaminare anche la seconda dimostrazione, forse (anche se non è per niente garantito) avrebbe potuto procurarsi quella scintilla mentale appena sufficiente a fargli intravedere almeno qualche ombra confusa al di là del proprio naso.
In realtà, la prima dimostrazione è stata parzialmente manipolata (secondo il manipolatore, per un desiderio democratico di maggiore chiarezza che non ha variato in niente il senso del testo originale) da un personaggio che non cito e che io sospetto di essere una spia al soldo di avversari politici.
Sintetizzo qui di seguito la dimostrazione originale:
Data l’equazione:
1) an + bn = cn
consideriamo le tre funzioni:
f(k) = (ka)n
g(k) = (kb)n
h(k) = (kc)n
Se vale la 1) vale anche l’equazione:
2) f(k) + g(k) = h(k)
per qualsiasi valore intero di k.
Ma, se n > 2, si ha:
h(k+1) – h(k) > (f(k+1) + g(k+1)) – (f(k) + g(k))
oppure l’opposto (disuguaglianza con il segno di confronto rovesciato), senza possibilità di compensazione per l’arresto scaglionato nella somma dei singoli termini, il che rende la 2) (e quindi la 1)) impossibile.
La compensazione non è possibile proprio perché i due termini dell’equazione accelerano in modo diverso e unidirezionale mentre si incrementano i ‘tempi’ k, a differenza di quanto accade nel caso n=2, in cui l’accelerazione è nulla e il risultato dipende dalla distribuzione delle tre velocità iniziali.
Ne approfitto per segnalare un errore nella seconda dimostrazione (di cui mi assumo pienamente la responsabilità): wn-1 / zn-1, incrementandosi k, decresce in base al fattore 1 / kn-2 e non 1 / kn-1, almeno in base a quanto io sono in grado di affermare considerando che (b + k)n-1 / bn-1kn-2 risulta indubbiamente maggiore di 1 per k > bn-1.
La contestazione di Carino Cosmoletto è stata compresa da tutti: infatti comportava la critica di un errore che neanche un alunno di prima elementare degno di promozione alla seconda avrebbe dovuto commettere. La mia rettifica della dimostrazione non è stata capita da nessuno e intanto la mia accusa di manipolazioni al riguardo è stata giudicata bieca, truffaldina e calunniosa, per cui il comitato dei garanti ha deciso la mia espulsione.
Io ravviso in tutta la vicenda una metafora significativa (benché assolutamente casuale e involontaria) dello scacco a cui è destinata la Politica senza Progetto in un contesto di realtà complessa: nella situazione attuale, il successo dei buoni comunicatori non si commisurerà mai e poi mai ai livelli di verità delle analisi e delle proposte, ma dipenderà sempre e comunque da quanto della Realtà (e quindi del corrispondente valore di analisi e proposte) riuscirà a comprendere la maggioranza degli elettori.
Benché vi si usi soltanto l’algebra elementare, giungendo in mezza paginetta (salvo errori od omissioni) a una dimostrazione che in termini di matematica sofisticata ha richiesto decine di pagine, solo una infima parte di elettori può arrivare a comprendere, discutere ed eventualmente invalidare le argomentazioni degli ultimi capitoli di questa saga e gli ultimi capitoli di questa saga sono immensamente meno complessi dei nodi importanti della realtà.
Che l’incomprensione (a prescindere dall’esattezza o meno delle mie dimostrazioni) avvenga per difetti inguaribili, negligenza costituzionale o incuria episodica (proporzionale al prestigio o alla popolarità degli estensori) non comporta granché di differenza se la Società e la Politica non intendono rimuovere o non possono fare niente di niente per rimuovere le pigrizie intellettuali intorno ai meccanismi effettivi in base ai quali si sviluppano gli eventi oppure ritengono che detti meccanismi contino poco o nulla rispetto a idealità morali e spirituali (o addirittura solo sociali e politiche) in grado di trascendere sempre e comunque qualsiasi struttura dei fatti definibile in modo razionale.
Io penso esattamente il contrario: qualsiasi meccanismo effettivo insito in una complessità più o meno governabile affosserà sempre e comunque tutte le idealità supposte trascendenti e superiori, le quali, prima o poi, saranno costrette a cedere le redini del comando ai più potenti ed efficaci meccanismi di condizionamento causale: quelli della forza maggiore.
Se, per esempio, i flussi in denaro mossi dalle criminalità organizzate risultassero indispensabili a sostenere l’economia di mercato e il sistema finanziario vigenti, le criminalità organizzate influenzerebbero i mercati e i sistemi produttivi vigenti molto più che una irrisoria (in confronto) sostituzione di un governo di destra con uno di sinistra o viceversa.
Due parole, in conclusione, sulla dimostrazione di Remoto Zampetta.
Il signor Carino la cita per osservare con rispettosa sufficienza che le aree nidificate non sono circondate da alternanze di due colori A e F più eventualmente singole celle dell’altro colore F (ovviamente il rispetto del sig. Carino deriva dal fatto che Remoto Zampetta è un Padre della Chiesa Kolibiana e quindi l’illustre sig. Carino deve mordersi la lingua se non vuole suscitare pericolose ostilità).
All’egregio Carino consiglio prudenza non solo diplomatica, ma anche intellettuale: un conoscente abbastanza stretto dello Zampetta mi ha infatti informato che il testo in oggetto risulta solo una prima bozza di una dimostrazione più estesa che i curatori dell’Opera Omnia potrebbero presto rinvenire in uno delle decine di magazzini in cui l’emerito Padre ha stivato i suoi preziosissimi fogli.
In essa si rivelerebbe un metodo algebrico che permetterebbe di armonizzare qualsiasi opportuna combinazione di anelli circolari adiacenti, avvalorando il valore di prova delle procedure ricorsive a cui nella bozza si fa riferimento.
Non saprei dire se ciò vale sia in ottica ‘top-down’ che ‘bottom-up’ o soltanto in una delle due.
AGGIUNTO IN DATA 20 / 12 / 2020
Sempre più clamoroso: trovata tra le carte postume di Remoto Zampetta una dimostrazione molto elementare (nella forma logico-verbale di una classica ‘filosofia naturale’) del teorema dei quattro colori
Remoto Zampetta non è uno pseudonimo, ma il nome vero di un Padre Kolibiano (com’è arcinoto, a nessuno è consentito affibbiare ai Padri pseudonimi come quello di Renato Pezzotta).
Il teorema in oggetto è stato rinvenuto tra numerosi altri scritti e appunti (alcuni dei quali già inseriti nella presente Summa Teologica) ed è stato sottoposto alla nostra attenzione dai curatori della Sua (di Zampetta) Opera Omnia dopo che la pubblicazione del precedente capitolo dedicato all’ultimo teorema di Fermat ha consentito loro di ipotizzare un nostro specifico interesse al riguardo.
Come tutti i teoremi matematici, quello qui riprodotto si fregia di una certa probabilità di essere vero: se questa sia bassa, bassissima, media, alta o altissima, dipenderà in qualche modo dal grado di consensi o ripulse che potrà raggiungere tra i cultori della materia specifica, fermo restando che tale probabilità, anche se potrà avvicinarvisi vertiginosamente, non potrà mai essere uno zero assoluto o un uno assoluto.
Perché il presente comitato di redazione insiste su questioni che a un profano potrebbero apparire eccessivamente settoriali e perfino incongrue e slegate dai temi principali?
Il penultimo paragrafo fornisce una risposta indiretta: avanzare proposte razionali credibili (anche se eventualmente non definitive) in una direzione considerata da esperti sostanzialmente inverosimile, rappresenta secondo i kolibiani una operazione di igiene e profilassi mentale più che mai auspicabile in periodi di crisi in cui ricorsi a intossicazioni mitologiche e dogmatismi scientifici riposti interamente nella disponibilità delle classi superiori dei ‘Buoni e Giusti’ (magari l’una contro l’altra armate) può apparire ai buoni e ai giusti l’unica soluzione per evitare chine regressive o sbandate anarchiche.
La strategia del Progetto semplificatore di stato stazionario non può basarsi sulla presunzione di una verità metafisica assoluta: un progetto è sempre qualcosa di mediato e convenzionale e trae linfa e rinforzo non da un quadro di riferimenti certi e inviolabili (dispersi, sempre e comunque, in una complessità inestricabile), ma dall’armonia e coerenza di una specifica costruzione arbitraria, perseguita sulla base di una convenienza razionale diffusa.
Niente meglio di una opinabilità inserita nelle maglie della più tetragona e indiscussa delle scienze riuscirà mai a denunciare le tante illusioni sulla solidità di strutture non espressamente ricercate e costruite, ma semplicemente ereditate dalla Natura e dalla Storia, due ambiti dai quali soluzioni automatiche non potranno mai pervenire, per la succitata complessità, certo e soprattutto, ma anche a causa della totale anomalia che l’umanità vi rappresenta sia a livello individuale che di specie.
Un’altra ragione per cui proponiamo teoremi strani e poco plausibili si fonda anche, inutile nasconderlo, sulla speranza che, se, nella loro semplicità, fossero almeno parzialmente inconfutabili, ciò avvierebbe automaticamente un esperimento sociologico che i Kolibiani e forse solo i Kolibiani giudicano molto interessante, ovvero il grado di diniego e disinteresse strumentale, nonché di deformazione della realtà, a cui può giungere una cultura ufficiale per ragioni di puro interesse legate al mantenimento di posizioni di potere e di controllo o più banalmente desumibili dall’umano desiderio di evitare mali di testa per insidiosi dubbi e patemi.
Dimostrazione (presunta) del teorema dei 4 colori.
Premessa generale: la famosa dimostrazione del teorema da parte di Appel e Haken, ottenuta al computer esaminando un numero sterminato di combinazioni inevitabili e riducibili, non sarebbe andata a buon fine se, individuato un opportuno anello di celle a due a due confinanti (semplificato secondo le modalità che in seguito saranno specificate), l’anello interno e quello esterno di cellule confinanti, analogamente semplificati, potessero presentare situazioni insolubili con quattro colori.
La presente (presunta) dimostrazione si basa sul presupposto che tale risolubilità, di cui vengono chiariti i semplicissimi meccanismi, sia sufficiente per una dimostrazione del teorema.
Data una qualsiasi mappa, si considerano al primo passo soltanto le regioni che confinano con il nulla ovvero con gli spazi non mappati dove… sunt leones.
Queste regioni determinano una successione chiusa ad anello, il che può anche non avvenire nelle fasi successive.
Escludendo le diramazioni esterne all’anello principale, otteniamo la catena c(1).
Osserviamo incidentalmente che i ragionamenti successivi potrebbero applicarsi a una mappa sferica partendo da una catena circolare in prossimità di un cerchio massimo.
Se qualcuna delle regioni della catena c(1) circonda completamente un altro blocco di regioni, quel blocco viene ignorato e la regione in oggetto è considerata uniforme.
Nella catena c(1) (non semplificata) e così per tutte le catene derivate non semplificate, si hanno 3 tipi di confini: quelli tra i componenti della catena, quelli esterni più lontano dal centro e quelli interni.
Si considerano solo le celle della catena che toccano tutti e tre i confini.
Se un blocco di regioni si trova annidato tra due regioni in contatto tra loro, viene ignorato e le due regioni sono affiancate.
Si determina così il compattamento delle regioni inglobanti e la pura alternanza delle regioni ammesse.
Abbiamo a disposizione quattro colori e con quelli dobbiamo contraddistinguere ogni area senza generare confusioni indebite omologando regioni aventi un confine comune.
Distinguiamo i colori nelle due coppie A (Alternativi) e F (fissi), quindi abbiamo i colori A1, A2, F1 e F2.
I colori fissi si scambiano il ruolo di dominante e subordinato e il subordinato potrebbe non essere necessario, quindi il termine ‘fisso’ non rende bene l’idea, ma lo manteniamo per poter usare una sola lettera.
p1) Coloriamo la catena c(1) semplificata (quella delle regioni che confinano con l’ignoto) partendo da A1 e alternando i colori A1 e F1 procedendo in verso orario.
A seconda che i paesi della catena siano pari o dispari, A1 e F1 possono bastare, oppure, se la catena è un anello, può essere necessario aggiungere in ultimo un colore F2.
Possiamo così descrivere le due alternative:
s(1) A1,F1,A1,F1,A1,F1,A1,F1…..
oppure:
s(2) A1,F1,A1…..A1,F1,F2,A1,F1,A1…..
Si vede bene che, nella seconda successione, il colore F2, procedendo con inversioni binarie di coppie di regioni limitrofe, può essere spostato in qualsiasi punto della catena.
p2) Si individua la catena c(2) determinata da tutte le regioni che confinano internamente con almeno una delle regioni della catena c(1) depurata di inclusioni e nidificazioni.
P3) Si semplifica la catena c(2) allo stesso modo della catena c(1).
Si procede con la catena c(2) in analogia con i passi p1, p2 e p3 utilizzando i colori A2 e F2 e, nel caso debba intervenire F1, avendo cura di collocarlo in modo da evitare conflitti con l’F1 di c(1), il che è sempre possibile dato che l’F1 di c(2) si può spostare a piacere e dipende in effetti dalla regione da cui si comincia l’alternanza partendo da A2.
Si passa dalla catena c(2) alla catena c(3) ripetendo le mosse già viste con l’opportuna variazione di colori e si continua fino a esaurire le celle.
In sostanza, ogni mappa (semplificata) può essere scomposta in una sequenza di aree chiuse ad anello o anche no, ciascuna colorabile con l’utilizzo di solo tre di quattro colori, due dei quali sempre presenti (uno non necessariamente), ma con dominanza diversa, e due avvicendati a ogni passo e reciprocamente esclusivi.
La mappa semplificata si può così colorare con quattro colori a prescindere dalla sua composizione.
Perché la proposizione sia dimostrata anche per la mappa non semplificata basta considerare che, per ogni blocco accantonato, sono applicabili le stesse procedure descritte: infatti ogni blocco è incluso in una catena ridotta a una cellula (il blocco ‘enclave’), oppure due cellule (il blocco circondato parzialmente da una sola regione) oppure tre cellule (il blocco inserito tra regioni in contatto) o anche di più, catena in ogni modo colorata secondo gli schemi esplicitati e tale quindi da consentire il prolungamento a tutte le sotto aree provvisoriamente trascurate dei ragionamenti condotti finora: una singola area, due aree di diverso colore e tre aree di tre colori diversi rappresentano infatti casi particolari sempre risolubili delle sequenze del tipo s(1 o s(2).
Una ulteriore riprova di quanto asserito nell’ultimo paragrafo ci viene data da una visione alternativa in cui, anziché partire dal confine esterno, partiamo da una singola cella e determiniamo le catene successive di celle in base al grado di separazione delle celle rispetto alla cella di partenza, ovvero al numero minimo di passaggi da regione a regione che è necessario compiere per raggiungere l’area iniziale.
In questa nuova prospettiva, ogni catena n è insomma l’insieme di celle che richiedono un minimo n di passaggi e che confinano con la catena n-1 nel verso prossimale e n + 1 nel verso distale.
Trattando eventualmente i blocchi esclusi dalle semplificazioni in senso ‘bottom-up’, anziché ‘top-down’, potremmo arrivare alla catena contenitrice riscontrando incompatibilità che potremo risolvere, ripercorriamo quindi le catene in senso inverso, sistemiamo le incongruenze un passo alla volta e perveniamo infine alla regione iniziale.
Aggiunto il 5 novembre 2020 / Revisionato al 2 dicembre 2020
CLAMOROSO! I KOLIBIANI OFFRONO AL LORO BENEMERITO E BENEAMATO NONCHE’ NUMEROSISSIMO PUBBLICO BEN DUE AMENISSIME DIMOSTRAZIONI ELEMENTARI DELL’ULTIMO TEOREMA DI FERMAT, OVVERO QUALCOSA CHE, SECONDO LA CORRENTE VULGATA, I MIGLIORI MATEMATICI DEL MONDO AVREBBERO CERCATO INVANO PER PIU’ DI TRE SECOLI.
(Poiché, in questioni siffatte, niente è più facile del prendere topiche pazzesche incorrendo in uno sputtanamento altrettanto clamoroso e siccome il qui presente comitato di redazione non s’intende granché delle suddette questioni siffatte mentre i matematici che abbiamo contattato non si sono nemmeno degnati di rispondere ‘non ho tempo!’, ci prendiamo i nostri bravi rischi, ma contravvenendo alla prassi abituale (qui trovate dei pamphlet e i pamphlet di buona memoria ci tengono a conservare l’anonimato) specifichiamo a titolo di scarico di responsabilità il promotore dell’iniziativa, fornendone almeno lo pseudonimo (Renato Pezzotta), con l’avvertenza che il personaggio che è già comparso in questa sede con il medesimo pseudonimo non sembra essere la stessa persona, anche se non sapremmo dire se si tratta di omonimia pseudonimiale o di un caso di personalità multipla)
Le due dimostrazioni proposte in questa sede, proprio perché elementari, non rivestono specifici interessi matematici o più generalmente scientifici, se si escludono (forse) alcuni sprazzi intuitivi su vessate questioni quali la commensurabilità e il continuo: pongono invece interrogativi di tipo più genericamente culturale e (ancora forse) sollevano qualche dubbio intorno a quelle che potremmo definire esigenze di narrazione mitologica all’interno di qualsiasi impresa intellettuale.
Qualcuno potrebbe prendere spunto da una semplice trattazione tecnica come quella che qui produciamo per andare alla ricerca di più fondamentali implicazioni filosofiche, rinvenire tracce che addirittura rimandano (più o meno nebulosamente) ai nessi profondi della causalità naturale, ma forse e ancora forse ciò atterrebbe più alle manie di quel qualcuno che non alla realtà dei problemi.
Quel qualcuno, comunque, potrebbe spingersi al punto di sospettare che tecnicismi e specialismi eccessivi rischino a volte di favorire il ‘divide et impera’ delle più sofisticate strategie di controllo, tanto abili da riuscire sempre a nascondere il bosco o la foresta dietro gli alberi del bosco o della foresta.
Di certo, se non vengono commessi qui errori grossolani, risulta problematico convincersi che le argomentazioni addotte possano essere sfuggite a tanti cervelli finissimi e, se qualcuno si convince del contrario, dovrebbe chiedersi che cosa ha impedito di considerare tali argomentazioni lecite e definitive.
Forse il fatto che le argomentazioni non sono condotte utilizzando raffinatezze tecniche, ma con uno stile che, piuttosto che alla moderna matematica dei professionisti, fa pensare a una ‘filosofia naturale’ simile a quelle adottate da precursori come Galileo, Cartesio, Leibniz e perfino Newton?
Sarebbe a dir poco paradossale: si sta cercando una soluzione accessibile a Fermat e si rifiutano metodi che Fermat avrebbe considerato, non solo accettabili: irrinunciabili!
Da screanzati outsider oseremmo perfino parlare di una esecranda immolazione della razionalità naturale al demone dello specialismo più estremo, ma noi non siamo outsider screanzati e poi, come già accennato, potrebbero entrare in gioco questioni più ostiche e sottili, come la natura ancora irrisolta dopo millenni dal suo insorgere dell’incommensurabilità e l’autentica realtà dei numeri cosiddetti reali (vedi poi).
Per quanto ci consta, il problema non è risolto perché non è risolvibile e non è risolvibile perché è connesso con quello che, sotto metafora, fondamentalmente rimane il gioco illusionista di un prestigiatore geometra che cambia i minutissimi sotto-quadratini della sua carta millimetrata alterandone i vertici e le diagonali senza sapere bene come e perché, ovvero senza sapere rispetto a che cosa le linee si inclinano e si restringono dato che, più per convenzione che per altro, non si può ammettere l’esistenza di una sottostante carta millimetrata più sottile che conserva una fisionomia inalterabile.
Il prestigiatore nasconde i suoi trucchi perché non accetta di essere tale, ovvero l’esecutore materiale più o meno abile di certi virtuosismi regolati da norme oggettive immutabili: ci tiene invece a passare per autentico mago.
Sotto la guida di autentici maghi l’umanità soccombe davanti alla banalità dell’esistente e lo stiamo constatando proprio con la vicenda covid: un grande discutere di scienza e di valori accanto al disinteresse per quella essenza della decisione politica che, quando non si restringe al mercato delle vacche dei voti, s’impernia sulla elaborazione razionale di quadri multidisciplinari adeguatamente articolati.
A uno sguardo più attento il disinteresse non risulta frutto di immoralità o colpevole incuria: diventa tristemente obbligatorio in assenza di metodologie effettivamente efficaci nei confronti di una complessità galoppante e soverchiante.
Politici e commentatori seri dovrebbero avere la possibilità di non sottrarsi a dilemmi spinosi come, per esempio, quelli legati a un confronto tra diversi tipi di mortalità (per malattia come per stress, malnutrizione, disagio, miseria...), concentrandosi nel frattempo su quell’unica autentica legge economica che si limita tautologicamente a constatare: si ottiene davvero quello che debitamente ci si impegna a produrre.
Senza la giusta metodologia, in un caso epidemico cruciale anche la persona più volenterosa finirà per trascurare fatti essenziali come la struttura del virus, uscendosene con slogan del tipo ‘la salute è più importante dell’economia’, come se salute ed economia non fossero strettamente collegati attraverso l’indicatore della speranza media di vita.
Un virus infettivo che ha un genoma attivo doppio della media richiama forti dubbi circa una eventuale origine artificiale (il che non vuol dire scandalismo, ma sincera preoccupazione per quello che verrà) e sottolinea l’aspetto ambiguo di ogni infezione: più è infida, più favorisce l’intervento di difese naturali, più il virus è complesso e mutevole e più il sistema immunitario, anche sostenuto e coadiuvato da mediche virtù, può trovare punti di aggancio, un’altra delle innumerevoli conferme di quella corsa agli armamenti sotto l’egida della regina rossa da cui l’umanità si è sempre illusa di potersi affrancare.
Contro un virus trasformista non servono solo i vaccini, servono (se di più, di meno o altrettanto dipende dal patogeno (virus, batterio o altro)) sostegni a una qualità di vita che, in media, rimane l’unico vero toccasana per il sistema immunitario di ciascuno, quella qualità della vita che una depressione economica o il super-lavoro necessario a evitarla non favoriranno di certo, quella qualità che, declinando, farà prima o poi dei vaccini un lusso sia per gli individui impoveriti che per le collettività sempre più costrette, senza criteri validi al di fuori del puro stato di necessità, a devolvere sempre più risorse in direzioni puramente emergenziali e difensive sottraendole ovviamente alla qualità della vita.
Per altri rispetti, una depressione potrebbe favorire una ripresa ambientale (purché, superato il punto di non ritorno, tutto non venga ormai definitivamente revocato in dubbio a prescindere dalle azioni intraprese), ma il rapporto tra questioni economiche e questioni ambientali deve essere affrontato razionalmente e in chiaro (eh, sì, amici cari, tramite la giusta metodologia ovvero il Progetto) e non dissimulato dietro occasioni, pretesti o evenienze di forza maggiore che sempre e solo favoriscono la soluzione, non del più intelligente, ma del più potente.
Inoltre, mai e poi mai la miseria ha favorito l’ecologismo se non attraverso un solo tipo di azione: la decimazione dei miserabili.
Ma torniamo all’origine.
Dobbiamo dimostrare con mezzi elementari che l’equazione:
1) an + bn = cn a > b
non ha soluzioni con numeri interi per n > 2.
Per n= 2 esistono soluzioni infinite date dalle terne:
(q2 - p2 ; 2pq ; q2 + p2)
dove p e q sono numeri interi qualunque (q > p).
Se esistono soluzioni intere, esistono soluzioni razionali e viceversa.
Le soluzioni delle equazioni tipo 1) o non esistono o sono anche proporzionali e infinite, dato che, trovata una terna (a ; b ; c), anche (ka ; kb; kc) rappresenta una soluzione per k intero o razionale qualunque.
Questo è il punto di partenza delle due dimostrazioni in base alla legge logica che sancisce l’equivalenza tra:
se alfa allora beta
e
se non beta allora non alfa
Se esistono soluzioni della 1) esistono (schemi di) soluzioni multiple che mantengono la proporzionalità dei termini della 1). Se non possono esistere soluzioni che mantengono la proporzionalità dei termini, non esistono soluzioni (prima dimostrazione).
Se esistono soluzioni, esiste un numero infinito di soluzioni. Se non può esistere un numero infinito di soluzioni, non esistono soluzioni (seconda dimostrazione).
Se dunque si dimostra che non possono esistere due soluzioni con termini proporzionali e crescenti o che il numero di soluzioni è limitato (vincoli che devono valere solo per n > 2 e per numeri razionali) si è dimostrato l’ultimo teorema di Fermat.
Qui conviene forse aprire una digressione di tipo concettuale e filosofico, la stessa che si trova alla base della convinzione del nostro collega riguardo all’esistenza di una dimostrazione elementare indipendentemente dal fatto che quelle che qui si forniscono siano valide o meno.
Qualsiasi ennesima potenza di un numero intero k qualunque può essere eguagliata a vari tipi di serie scritte in funzione di k e di n.
Per esempio:
2) kn = 0 k-1Ʃj ((j + 1)n – jn)
Oppure:
3) kn = ƩJ n! / PJ
dove per PJ si intende la somma degli inversi dei prodotti di fattoriali (inversi identici salvo permutazione) i cui singoli termini rappresentano una spartizione in addendi di k (sembra complicato, ma non si sta facendo altro che applicare la formula polinomiale di Newton a una somma di k unità).
Detto questo, è chiaro che qualsiasi equazione che rapporta potenze di numeri interi coinvolge giochi di combinazioni e meccanismi d’incastri tali che, se si potessero estendere all’infinito, delle due, una: o implicano schemi semplici e ripetibili come le terne pitagoriche o sviluppano un potenziale di informazione infinita.
Per un rozzo filosofo kolibiano lontano anni luce da raffinatissime iper-specializzazioni cantoriane vale l’equivalenza:
contenuto di informazione infinita implicito in una formula = indecidibilità della formula.
Goedel dimostra che l’informazione implicita negli assiomi dell’aritmetica è infinita e quindi ogni congettura che ribadisse quell’infinità sarebbe indecidibile.
Se la congettura di Riemann, una volta provata, permettesse, almeno in linea di principio, la definizione dell’intero sistema aritmetico (come si è affermato anche in sedi autorevoli), scegliete voi: o il teorema fondamentale di Goedel è falso o la risoluzione sarebbe fasulla.
Non appena i componenti del presente comitato di redazione si saranno accordati sulla ripartizione dei meriti, l’Istituto Clay riceverà tra breve l’indirizzo di conto corrente su cui versare l’ammontare del premio.
Trionfi a parte, il rozzo filosofo kolibiano, sapendo che tecnici provetti hanno già stabilito la non esistenza di soluzioni per l’ultimo teorema di Fermat, va alla ricerca di quel limite finito o proprietà vincolante che consentano la decidibilità (in positivo o in negativo poco importa) del teorema.
Può darsi che il nostro collega abbia avuto le traveggole quando ha adottato le procedure che qui di seguito esplicitiamo per definire l’esistenza dei vincoli, ma quei vincoli devono esistere (altrimenti non potrebbe essere possibile stabilire che non esistono soluzioni) e inoltre devono essere relativamente semplici e banali se, partendo da 3, con un solo balzo arrivano a n infinito.
In realtà, la formula 2) (una sorta di ‘integrale intero’ delle ‘derivate prime intere (che sono anche ‘differenziali interi’)’ dei singoli termini della 1)) dovrebbe essere già di per sé sufficiente a illuminare circa una dimostrazione elementare dell’ultimo teorema di Fermat: basta considerare quello che potremmo definire il doppio ‘integrale intero’ definito sulle ‘derivate seconde intere’, ovvero:
0 k-1Ʃj 1 J-1Ʃ m ((m + 1)n – mn) – (mn – (m – 1)n)
A differenza del caso n = 2, infatti, da n = 3 in avanti, considerando per analogia i termini base come tempi e le loro potenze come spazi percorsi, i singoli termini sotto potenza accelerano in modo differente dilatando di conseguenza le distanze reciproche.
Se noi, partendo dalla 1), evidenziamo il termine
cn - an
dove n > 2 e a > b
vediamo che, procedendo con incrementi proporzionali di c e a, il b necessario ‘per far quadrare i conti’ non conserva affatto la stessa proporzionalità con gli altri e la sua potenza finisce inevitabilmente per sopravanzare (ka)n, il che si può impedire solamente se almeno un termine della 1) è espresso in frazioni reali e non razionali dell’unità: cioè, in sostanza, se si esclude la commensurabilità tra i termini. Come poi possano essere incommensurabili termini coincidenti tutti con numeri interi, è un dilemma che il filosofo kolibiano rimette nelle mani del mago cantoriano, ben sapendo che quello riesce sempre a far funzionare le proprie rappresentazioni se si limita a illusionismi dotati di credenziali logiche inattaccabili, asserendo, per esempio, che i numeri interi sono di due tipi: i fortunati profittatori che nascono interi e vi rimangono senza sforzo e i numeri che diventano a pieno titolo interi solo possedendo la capacità di raggiungere l’infinito.
In altre parole: se (a, b, c) fosse una soluzione di interi, anche (ka, kb, kc), con k intero e grande quanto si vuole, sarebbe una soluzione, ma se noi partiamo da a, b e c e li moltiplichiamo passo dopo passo per un k crescente, il rapporto
((kc)n - (ka)n) / (ka)n
cresce inesorabilmente superando molto presto l’unità e creando così una contraddizione insolubile tra tre affermazioni diverse: a) l’equazione conserva la sua validità lasciando invariato il rapporto tra i termini; b) il termine relativo ad a cresce in modo più che proporzionale al termine relativo a b, come è ovvio essendo a > b; c) il termine relativo a b cresce più di quello di a come si desumerebbe in contraddizione con b) se l’equazione generale restasse valida.
Una relazione come la 1) tra numeri interi può essere mantenuta soltanto tra i valori interi dei raggi parzialmente sovrapposti di due cerchi e dipende dalla formula della loro curvatura costante, richiede invece calibrature infinite di termini frazionari se il rapporto tra derivate prime e seconde in punti diversi non si mantiene identico e lineare, il che ci rimanda all’infinito e alla curvatura come aggiunta di pezzi di cerchi microscopici non commensurabili tra di loro in quanto tracciati su carte millimetrate incompatibili.
La ragione vera perché la 1) non può avere soluzioni con numeri interi o razionali per n > 2 verte sul fatto che i numeri interi o razionali contano unità di misura espressamente fissate e quindi le loro relazioni devono valere per ogni diverso dimensionamento (razionale e uniforme) dell’unità assunta come base.
I numeri reali contano infinitesimi, ovvero entità caratterizzate da una natura sibillina che tale è destinata a rimanere anche per i massimi esperti non appena quelli si decidono a uscire da schemi logici per cercare una qualche corrispondenza in schemi ontologici.
Forse i numeri reali sono stati chiamati ‘reali’ perché la realtà comune è apparenza, mentre la realtà autentica è divina e quindi infinita.
La seconda dimostrazione, più vicina a concezioni ortodosse, si incentra, come già detto, non sulla proporzionalità, ma sull’infinità.
La dimostrazione utilizza la 2) per trasformare la 1) nell’equazione:
0a-1Ʃj ((j + 1)n – jn) + 0b-1Ʃj ((j + 1)n – jn) =
= 0c-1Ʃj ((j + 1)n – jn)
E’ evidente che, a primo membro, un valore pari a :
0b-1Ʃj ((j + 1)n – jn)
interviene due volte e deve essere uguale a:
ac-1Ʃj ((j + 1)n – jn)
Ora, se consideriamo che l’equazione:
1rƩi ji= 1sƩi ki
comporta (valutando eventualmente i decimali):
r / s = media degli s k / media degli r j
e ragioniamo su una approssimazione per eccesso del rapporto di contrazione, possiamo scrivere la disuguaglianza:
4) (ka)n + (kb)n ≤ (ka + (kb (wn-1 / zn-1)))n
dove w è un punto (anche irrazionale) opportunamente centrato di kb e z un punto opportunamente centrato (anche irrazionale) del segmento (ka-kc).
Dato che, sviluppando k, il rapporto wn-1 / zn-1 diminuisce in ragione almeno (1 / kn-1) mentre ovviamente kb cresce in ragione k, il secondo termine in parentesi del secondo termine della 4) è destinato a diventare minore di 1 decretando la fine di ogni possibilità ulteriore di soddisfare la 4) per valori abbastanza alti di k.
Per non contraddire l’affermazione che, se le terne valide esistono, sono infinite, si deve concludere che le terne valide non esistono.
PILLOLE DI KOLIBIANESIMO (for dummies who are not too dumb)
30 settembre 2020
La forma pura e ideale del potere si manifesta solo nella pazzia criminale.
Il pazzo criminale rivendica il proprio lacerante dominio senza ragione alcuna al di fuori del piacere perverso che quello gli procura.
Purtroppo, accanto alla pazzia criminale, che le ordinarie leggi di natura confinano all’eccezionalità statistica di deflagrazioni rare e marginali, esistono neutrali attitudini passibili di detonanti abbinamenti espansivi, come, per esempio, l’ideologia, la propaganda, il marketing.
Se Hitler fosse stato un criminale folle e puro si sarebbe risolto tutto in modo rapido e localizzato, purtroppo era anche un grande sognatore che, lui per primo, si faceva ispirare da mistificatori come Speer o Goebbels.
Anche quando non sono folli criminali (e cioè nella stragrande maggioranza dei casi) i grandi sognatori capaci di riempire le piazze possono creare danni incredibili.
Se un danno incredibile diventa la normalità, in genere l’umanità non se ne accorge, il che si spiegherebbe bene se l’umanità stessa, nel quadro generale dell’economia planetaria, risultasse appunto un danno incredibile.
E’ vano cercare di convincere i grandi leader che richiamano le folle nelle piazze (reali o virtuali) e le folle che riempiono le piazze medesime che leader e folle non sono mai la soluzione del male, ma, nella migliore delle ipotesi, un mero sintomo del male e nella peggiore una delle cause scatenanti.
Leader e bagni di folle costituiscono l’essenza, la liofilizzazione simbolica, del Grande Gioco Sociale, quello che deve condizionare e sottomettere ogni altro gioco in base al teorema di logica pura che recita: le abilità sociali degli uomini fungono in modi vari e diversi, ma sempre e comunque devono essere prima di tutto tali da far rifulgere le doti sociali degli uomini.
Nessuno riempirà mai le piazze sciorinando sinossi e diagrammi del Progetto, siamo già fortunati se le riempie con effetti scenici e stroboscopici collegati a emissioni sonore invece che con arringhe accalorate.
Le emissioni sonore trasmettono ebbrezze e vibrazioni che rimangono confinate in aree private, come la follia di Hitler se fosse stato soltanto un criminale, come auspica il Progetto nei confronti delle idiosincrasie individuali sciogliendo una volta per tutte gli enormi equivoci che hanno sempre dominato la dialettica tra pubblico e privato, denunciando l’enorme truffa della moralità burocratizzata, della cannibalesca insania che fa strage di regole utili ed effettivamente produttive.
Gli abiti e le acconciature di fattori e addetti della democrazia parlamentare vengono mostrati in televisione e per le strade, ma i circuiti del loro essere bionico si predispongono solo in laboratori appartati.
D’altra parte, bisogna ammettere che per dare il colpo di grazia a un potere intollerabile che una maggioranza numerica o una minoranza agguerrita ritengono necessario abbattere anche se, almeno una delle due (la maggioranza), non possiede alcuna idea di quello che potrà sostituirlo, leader e piazze rimangono ancora una soluzione quasi obbligata.
Questo, pur nella sua povertà schematica, già ci consente di dividere i poteri istituzionali in tre categorie: quelli sprovveduti che non conoscono i principi idraulici che regolano l’afflusso e il deflusso delle folle durante le manifestazioni, quelli che si servono di quei principi per operazioni di pura repressione o di contenimento organizzato e infine quelli che, attraverso la figura di leader già cooptati nel sistema ancora prima di nascere grazie a una combinatoria di stereotipi facile da prevedere, si fanno opposizione da soli e quindi meritano senz’altro il titolo di poteri democratici.
Ovviamente, per elementari ragioni di coerenza e convenienza, nessuna cultura ufficialmente accreditata nelle sedi che contano può seriamente contestare la figura del leader politico e i lineamenti concettuali di quella dialettica sociologica che ne costituisce la linfa.
Una cultura ufficiale non può esimersi dall’attribuire valore a ciò che inevitabilmente predomina.
Alla cultura ufficiale, una volta constatata la rilevante esistenza di graduatorie plasmate secondo la legge di Benford o di Zipf o di Bradford, compete l’onere di iscriverle in un’aura pseudo-teologica, di conferire alla vieta enumerazione la benedizione del cubo bianco, la patente di sacralità a prescindere rilasciata dal luogo museale.
Se ciò che avviene automaticamente assume valore (se per esempio le grandi ricchezze previste indefettibilmente dal suicidio graduale di una economia di mercato appaiono propiziate da motivi di ordine superiore), nulla può mai avvenire automaticamente e la scienza si tramuta in teologia con lo spensierato consenso degli scienziati canonici.
Nessuno è colui che dice di essere.
Nessuno è colui che pensa di essere.
Nella percezione della coscienza è impossibile conciliare l’essenza ontologica con l’esistenza funzionale.
Uno specchio che riflette le cose e diventa consapevole di riflettere le cose, non può evitare di confondere le cose con il riflesso delle cose.
E’ ovvio che un uomo non percepisce un tavolo, ma lo schema neurale di un tavolo costruito dal suo cervello.
Una entità che percepisse direttamente un tavolo non sarebbe abbastanza complessa per accorgersi di percepire oppure sarebbe una essenza spirituale che si compenetra con un’altra essenza spirituale e non materiale (due essenze diverse non possono interagire in modo comprensibile), trasformandosi secondo le modifiche altrettanto incontrollabili che coinvolgono uno schema complesso quando si alterano singoli rapporti locali.
Se l’io di ogni uomo consistesse di spirito puro, di ‘anima’, invece che di invarianti e persistenze fisiologiche, si librerebbe di continuo in una caleidoscopica danza di proteiformi sembianze invece di annoiarsi all’interno di una scatola cranica come accade a molti (non a tutti!) appena si estraniano dal gioco sociale.
A prescindere dai pertinenti livelli di fissità, spirito o materia (che cosa significhino effettivamente questi termini nessuno lo sa) quando interagiscono si modificano senza detenere alcuna possibilità o diritto di controllo esclusivo sulle modalità di tale modifica.
Uno schema complesso equivale in tutto e per tutto a un’essenza a parte il fatto che esige la definizione di dettagli al posto di un riconoscimento ineffabilmente auto-esplicativo.
In natura non esiste niente di auto-esplicativo, neppure la totalità della natura medesima, ovvero Dio tra virgolette.
Un dio senza virgolette è autoesplicativo perché l’hanno deciso in via preliminare i suoi adepti con il grado di autorità intellettuale concessa da ogni arbitrio assiomatico.
Questa è filosofia, cioè un modo di pensare in generale e in astratto per molti (non tutti!) sgradevole, una tecnica di ragionamento che, se opportunamente corredata di riscontri scientifici, impedisce agli esseri umani di coltivare illusioni facilmente pilotabili da poteri e interessi tra i quali possiamo tranquillamente includere le prevaricazioni di un modello ideale di sé.
Eppure, nonostante la banale irrefutabilità di quanto appena detto, quando una entità percepisce, non può evitare di considerare contraddittoria l’esistenza di una cosa in sé e per sé, la quale cosa, proprio in quanto necessariamente concepita, non può essere svincolata dalla concezione medesima.
In sostanza l’illusione spiritualista comporta il trasferimento indebito di una apparente contraddizione fondamentale dalla coscienza relazionale indebitamente essenzializzata alla cosa relazionata.
Nel passaggio, la contraddizione da apparente diventa tanto sostanziale, quanto difficilmente visibile.
La scarsa visibilità risulta tale anche per autentici cervelloni di autentica prima grandezza, molti dei quali si rifiutano ancora di ammettere che i teoremi limitativi della logica e della termodinamica delineano vincoli assoluti relativi alla condizione umana, preferendo invece considerarsi gli esploratori di una terra incognita dalle virtualità favolose e illimitate.
Il fatto è che presunzioni del genere rientrano nelle premure di mamma natura verso pargoli da non turbare senza motivi specifici, sono da considerarsi appunto naturali e non patologiche.
Patologico è il tentativo di giustificarle attraverso una oggettività esterna non percepita, ma fondante, qualcosa che riscatterebbe la problematicità dell’atto percettivo se non avesse le caratteristiche di una pura e semplice presunzione ideale senza alcun fondamento esterno alla presunzione medesima.
Questa presunzione ulteriore, con la consumata scaltrezza di tutti i trucchi metafisici, ala fine trasforma un banale equivoco e una banale contraddizione apparente nella madre santa e possente di tutte le contraddizioni, sto parlando dell’infinito attuale, il mostro metafisico che, autorizzando processi di pensiero non predicativi, scoperchia il vaso di Pandora delle antinomie più sapienti e incontrollabili.
La coscienza, che tende ad attribuire a sé il titolo (di totalità indipendente) che compete al complesso potenzialmente percepibile inclusivo dell’entità percepiente, ricorda qualcosa di simile al piedistallo rovesciato di Piero Manzoni: su esso poggia la Terra vista dagli antipodi, ma, se stiamo al gioco, abbiamo difficoltà a decidere se l’opera d’arte consiste nella Terra, nel piedistallo o in entrambi.
Se invece non stiamo al gioco, è abbastanza facile rispondere che la presunta opera d’arte è il piedistallo e che la Terra non viene alterata da quella paradossale e tutto sommato irrilevante pretesa di appropriazione da parte di un singolo artista un po’ monello e stravagante.
La coscienza tende a stare al gioco da essa stessa o ella stessa creato e siccome il gioco è metafisico non si accontenta ovviamente di essere solo un piedistallo.
Se si accontentasse di essere un piedistallo non starebbe al gioco, dato che, a differenza del piedistallo o della ruota da bicicletta di Duchamp, non potrebbe aspirare al cubo bianco.
Soltanto le necessità biologiche collegano la coscienza animale alla natura ontologica del contesto globale.
Soltanto le necessità biologiche collegano una coscienza a ‘Dio’.
Le necessità biologiche parlano alla coscienza di cose estranee alla coscienza, ma utilizzano il linguaggio inequivocabile del piacere e del dolore.
Quel linguaggio rivela lo sdoppiamento elementare e primigenio che ne sta alla base eppure esprime entità che non sono esclusivamente riflessi.
Sensazioni di piacere e dolore, con tutte le sfumature intermedie passanti per l’indifferenza, tematizzano senza bisogno di altro l’enigma dello sdoppiamento fondamentale tra sé e non sé e quindi assorbono in modo conciso e scientificamente trattabile tutte le metafisiche della soggettività tematizzate dalle filosofie spiritualiste o meno, tutti i cogito cartesiani o meno.
Piacere e dolore non mentono circa le realtà e le dipendenze decisive, al contrario della volontà, che si camuffa molto bene.
Filoni della filosofia ormai classica hanno tratteggiato in modo significativo questi aspetti della fenomenologia psicologica, dopodiché sono state accantonate come pezzi di antiquariato senza valore economico.
Il motivo? L’ho appena detto: non hanno un valore economico.
La coscienza umana mal sopporta di confrontarsi con le proprie basi biologiche, preferisce di gran lunga le aeree arborescenze delle strutturazioni economiche in senso lato, i cui solidissimi e nodosi intrecci si dissimulano dietro le dinamiche intrinseche dei mezzi d’inseminazione più diversi e ingegnosi, confondendosi nelle cangianti fioriture dei rapporti sociali.
La tecnocrazia è il nuovo idealismo, un potenziale di vertiginosa astrazione micidialmente focalizzata, che però necessita del sostegno fondamentale di poderosi apporti energetici.
Questi non sono sufficienti a gonfiare tutta l’anima collettiva, ne possono anzi sollevare una parte minoritaria, lasciando il resto troppo vicino alla fisiologia di base per potersene scordare.
Per meglio dire: se gli apporti energetici fossero tali da sollevare al livello di anima ogni essere umano vivente, sprofonderebbero a livello di galoppante marciume l’intera biosfera.
La fisiologia di base, soprattutto quando non può essere riscattata per scarsità del reddito, rimette in gioco ausili e accorgimenti emancipativi più tradizionali rispetto agli incanti dell’immaginario tecnocratico, rimanda alle strutturazioni fantasmagoriche di cui ci parla l’antropologia culturale.
Tradizionali o innovative, appariscenti o popolane, le idealizzazioni antropiche si dividono pur sempre in due grandi tipologie: religiose-prescrittive o scientifiche-progettuali.
La fisiologia di base gestita dall’alto predilige ovviamente gli ‘instrumenta regni’ della prima categoria.
Ecco perché le religioni, grattata la patina superficiale, si rivelano così irrimediabilmente materialistiche: il loro compito è gestire la base fisiologica ovvero il collegamento a ‘Dio’ di una personalità umana che tende per il resto a disperdersi nelle inconsistenze oniriche delle proprie creazioni mentali.
Paragonate alla cosiddetta spiritualità religiosa, qualsiasi sensibilità civica o passione politica suggerita e regolata dalla cultura delle classi superiori per il proprio esclusivo uso e consumo si rivela una effusione di forsennato idealismo e qualsiasi idealismo può funzionare in pratica non perché esiste una democrazia effettiva, ma perché esiste un potere simbolico.
Una democrazia funziona soltanto in qualità di abile legittimazione simbolica di poteri nei quali l’istituto religioso (in forme più o meno laiche o più o meno integraliste), sostituendosi alla prassi progettuale, provvede di divinità riflessa gli individui non introdotti a quella presunzione di divinità diretta che costituisce il leit-motiv di ogni programma di manipolazione tecnocratica incondizionata e illimitata.
Al tipo di legittimazione appena delineato, non giova affatto l’esistenza di un ceto medio come sostanzialmente inteso dalla vecchia tradizione liberale (prosaicamente concreto e opportunista): conviene molto di più una dialettica tra masse popolari e corti dirigenziali che del resto si rivela lo sbocco naturale dei processi economici sottostanti.
Se ne sono resi conto benissimo, in passato, quei marxisti sinceramente democratici che hanno provato a insufflare la loro metafisica sociologica all’interno dell’istinto popolare.
Gastronomia e assistenza ai disagiati hanno rappresentato nei primi anni duemila una coppia quasi esclusiva e apparentemente antitetica di settori capaci di offrire occupazione non dozzinale a individui senza una specifica e sofisticata cultura di base (lauree tecniche e conseguenti specializzazioni), ma l’ambito culinario si legava alla sopravvivenza di un ceto medio prospero e infatti adesso, dopo l’ultimo scossone, le offerte di lavoro quasi sicuro, per chi non dispone di prerogative spendibili in ambienti elitari, attengono soltanto a forme di cooperativismo assistenziale dirette al mantenimento di quel bene primario che sempre resterà tale: una fonte abbondante e indifferenziata di manodopera da valutare secondo le condizioni minimali di sussistenza della medesima fonte.
Di converso, le professioni sofisticate, promuovendo il deprezzamento delle occupazioni ordinarie attraverso lo sviluppo dell’automazione, aumentano anche l’efficienza delle funzioni di guida e controllo e quindi auto-limitano anche la propria diffusione.
Ciò non avverrebbe se l’efficienza si espandesse in un processo effettivo di diffusione globale, ma l’efficienza intesa come processo globale è pura illusione: l’apporto energetico che richiede e i concomitanti effetti termodinamici di disordine superano sempre, inevitabilmente, per una legge naturale inviolabile, gli effetti organizzativi dovuti all’efficienza, il che, considerando l’umanità come parte integrante di un sistema planetario, non ammette soluzioni al di fuori di un isolamento sistematico e progettuale.
Allo stato attuale, nella continuità dell’esistente, l’isolamento può riguardare una élite, non il grosso dell’umanità, che può al massimo fungere da intercapedine (o discarica) tra le élite e la natura e il cui tasso di produzione entropica può essere ridotto ai minimi termini soltanto in regime di stato stazionario.
Del resto, a parziale conferma di ciò, già in ambiti puramente economici si constata lo svuotamento e la sterilizzazione degli indici di crescita complessivi in assenza di una concomitante crescita demografica.
L’isolamento risulta impossibile soprattutto perché lo sforzo per elevare il grosso dell’umanità all’olimpo tecnocratico viene drasticamente frustrato da due ordini di ragione: l’insufficienza delle risorse planetarie e la superiore velocità delle reazioni ambientali negative rispetto alle capacità migliorative delle condizioni socio-economiche dei vari contesti umani.
Il progresso generale dell’umanità risulta quindi una pia illusione e le dirigenze più illuminate che, anche per il proprio quieto vivere, nutrono predilezioni per soluzioni di tipo conciliativo e democratico, sanno che, accantonate soluzioni di tipo kolibiano, non resta che il governo aristocratico di masse maggioritarie ricondotte a livelli di ordinata e sobria sussistenza.
Niente assicura, comunque, che queste condizioni minimali, se regolate in modo da evitare pericolosi sovvertimenti e ribellioni, possano armonizzarsi con un tipo qualunque di sostenibilità ambientale, anche perché le aspettative degli strati sociali inferiori risentono delle promesse pregresse e si adeguano molto più lentamente di quanto sarebbe richiesto per dare sollievo al pianeta.
La megalomane presunzione umana, coltivata ed espansa a cura e per conto dei pavoni più belli, quelli capaci delle ruote più sgargianti, si è convinta nei secoli e nei millenni di poter piegare la natura in sé e per sé, contraddittoria e quindi inesistente, a rispettose cautele nei confronti di porcellane e argenterie sciorinate fin quasi a soffocare anche la più lussureggiante foresta (metafora per exploit architettonici e simili che fungono o fungeranno bene sia come meraviglie archeologiche che come sintomo di paranoie mitomani e deliranti).
Purtroppo, e qui ci si ricollega al breve excursus filosofico iniziale, contraddittoria e quindi inesistente, non è la natura in sé e per sé , bensì l’autonomia di qualsiasi concezione umana rispetto alla natura in sé e per sé.
La filosofia, con buona pace di anti-filosofi, non filosofi o finti filosofi, su un punto teorico ormai è tassativa: o non esiste la realtà in sé e per sé o non esiste il libero arbitrio.
Se il libero arbitrio esiste ogni élite è incarnazione terrena della volontà di Dio (il che spiegherebbe le pressoché totali e onnipresenti manifestazioni di poderosa saggezza esibita a maggior gloria di Dio e dei suoi eletti).
Se non esiste il libero arbitrio la volontà delle élite conta zero e a decidere sono i meccanismi.
Per tentare di riuscire operativamente causale senza eterogenesi dei fini la volontà delle élite ha davanti a sé una sola via percorribile: inventare meccanismi diversi da quelli in cui si trova innestata o innescata.
Per diventare effettori causali della propria volontà c’è un solo mezzo possibile, per quanto ostico, non garantito e ancora tutto da costruire: la filosofia progettuale.
Forze politiche che esplicitano e pubblicizzano la filosofia progettuale sono democratiche, altrimenti sono autoritarie e perfino dispotiche.
Attualmente le forze politiche pensano ancora di poter dare un colpo al cerchio e poi uno alla botte ed è semplicemente per questo che valgono meno del cerchio e della botte.
Si può solo sperare che il cerchio e la botte siano almeno di fattura pregiata, ma purtroppo giudizi estimativi di qualsiasi tipo esulano in tutto e per tutto da qualsiasi concetto ontologico sensato.
Chi si trova ai piani alti delle liste di Benford o di Zipf, si trova là perché là qualcuno deve esserci per forza, anche se (questo bisogna ammetterlo) se fosse nato con un piede al posto di un occhio e un occhio al posto di un piede per un errore embriologico ben difficilmente potrebbe essere là dove si trova.
Quando una mente libera e spregiudicata, per necessità di incisività e chiarezza, rimanda al mittente il disprezzo che riceve (più che altro per obbligo di disbrigo protocollare) dalla figura, utilissima a qualsiasi potere, del professionista burocraticamente gonfiato da anabolizzanti spirituali, il professionista parla di ‘violenza verbale’.
In realtà, proprio il professionista in oggetto è fautore ordinario di violenza teoretica e discriminazione ideologica quando accetta la vis polemica solo in funzione difensiva, ma la rifiuta quando essa è un indispensabile ingrediente compensatore degli svantaggi di cui soffre in partenza ogni nuova tesi contrapposta all’ortodossia dominante.
Il nocciolo duro di ogni tesi rivoluzionaria (qui si tratta di prodotti culturali, non di prassi sociali), consiste perlopiù, salvo rare eccezioni relegate ormai a un lontano passato, nello svelamento della banalità indigesta.
Lo svelamento, a sua volta, non rimanda a elementi di ricerca e di scoperta, ma a semplici considerazioni di importanza e imprescindibilità.
Una tesi rivoluzionaria non offende per la propria sorprendente novità, bensì a causa di una dedizione alla visibilità lapalissiana di quello che non si vuol vedere per un concorso intricato di ragioni in cui congiurano varie tipologie di interessi.
Le verità scomode vengono semplicemente ignorate e per non cadere inerti nel nulla devono assumere connotati fortemente polemici.
In questa veste si può attendere speranzosi che qualcuno si dia la briga di attaccare la confezione esteriore in quanto sfrontata e aggressiva.
Ciò denuncerebbe immediatamente la coda di paglia di questo qualcuno (di solito un galoppino mandato avanti a sondare il terreno), il quale, non potendo prendersela con la luna, se la prende con il dito che indica la luna, pensando così, sventatamente, di deflettere le istanze della luna insieme a quelle del dito.
L’aggressività mirata provoca altre modalità di cattiva coscienza.
Per esempio, attaccando degli stereotipi, induce le individualità sacrificate agli stereotipi a risentirsi e credere di subire attacchi personalizzati, mentre fisionomie psicologiche, pregi e difetti individuali, simpatie o antipatie soggettive, non costituiscono in niente e per niente argomenti che valgano le fatiche del pensiero.
I Kolibiani potrebbero essere le persone più spregevoli del mondo senza che per tale ininfluente dettaglio di contorno debbano rinunciare a proporre un’autentica igiene del medesimo mondo, erigendosi a educatori (perlopiù segreti e inconfessati) delle menti capaci di liberarsi dai dogmi più vieti e nocivi.
Mai la ‘gentilezza’ dei sedicenti ‘gentili’ si manifesta più subdola di quando indora un nucleo di veleno spargendo melassa attorno all’ostilità di un privilegio ferito che testardamente rifiuta di farsi stimolare da provocazioni pertinenti e puntuali.
Che cos’è il privilegio se non convenienza che può permettersi di trionfare sulla ragione?
C’è ipocrisia più gretta e antisportiva di quella che accompagna la decapitazione di opinioni la cui irrefutabilità è sgradevole ed è quindi automaticamente tacciata di diffamazione?
Una supposta evidenza scientifica, se è allarmante, deve essere contraddetta da un’altra evidenza, ma se il contraddittorio si basa sull’assenza di qualsiasi certezza evidente, quell’assenza dovrebbe diffondere più allarme di qualsiasi evidenza o contro-evidenza.
Il contestatore della contestazione kolibiana, mentre si accinge a contestare la contestazione, dovrebbe bloccarsi perplesso con il dito sulla bocca sotto il fumetto con l’interiezione ‘ooopss!’.
L’irresponsabilità di cui si macchia il sostenitore a fini tranquillizzanti del relativismo assoluto rivestito da comoda mitologia dovrebbe sempre richiamare quello scherno salutare che invece, almeno in via metaforica, è ammanettato sul nascere per delitto di lesa maestà.
Per il professionista dell’establishment, i pericoli che si profilano all’orizzonte rientrano automaticamente in una o l’altra di due sole categorie: quella degli allarmismi fasulli e indecorosi sollevati da guastatori in malafede oppure quella di possibili conseguenze che, in prospettiva, si elevano a monito contro gli azzardi scriteriati degli oppositori fastidiosi.
Per il professionista della comunicazione sociale, il momento per una effettiva reazione al conformismo vigente non può esistere per definizione: quando le cose procedono alla meno peggio, perché tale reazione si palesa frettolosa e fuori luogo; quando la situazione scricchiola, perché vanno assolutamente privilegiate le tattiche di un acritico consenso ecumenico, dell’unità solidale comandata.
Per il professionista della politica e dell’economia sociale sussiste allora un modo infallibile per ricompattare le masse nella solidarietà: additare a nemico comune chi propone soluzioni di un tipo particolare, soluzioni accomunate da una sola caratteristica: non piacere ai mandanti del professionista.
Il nemico pubblico numero uno, per il professionista di un effervescente dinamismo da società dello spettacolo, diventa allora chi propone soluzioni elementari e infallibili che però, per le gesticolanti maschere sociali che cercano continuamente le luci dei riflettori e condizionano tutti gli altri più di tutti gli altri, presentano il difetto di spegnere le fonti delle loro dipendenze e accendere una luminosità uniforme e monotona.
Quando si cercano eretici e untori che fungano da capri espiatori, nessuno si presta meglio alla bisogna di un latore di scomode verità e la caccia, sostituendosi alla noiosa ricerca delle soluzioni efficaci più a portata di mano, movimenta la scena e attira l’attenzione succube e passiva del pubblico che paga di tasca propria per assistere alle invenzioni dei mattatori dello spettacolo più grande del mondo.
La sacralità e quel rigorismo morale che ne è la versione più socialmente agibile e monetizzabile, perlomeno in sedi gestionali e amministrative, non contraddistinguono affatto l’autentica religiosità e anzi se ne situano spesso agli antipodi.
Diciamo meglio e più onestamente: la religiosità del sacro moralismo ripugna alla particolare religiosità kolibiana.
In ambito politico ed economico, per un kolibiano la sacralità è il male.
Mi correggo un’altra volta: in ambito politico ed economico la sacralità dovrebbe essere riguardata come un male assoluto.
Sto parlando della sacralità intesa come forma di condizionamento sociale, quel Gog / Magog, quella meretrice di Babilonia che, quando un assetto socio-economico si sfalda, esala dalle viscere di singoli corpi sferzati da ansie e paure confluendo in qualche gigantesco ibrido teratologico tale da indurre una abnorme docilità paranoica nelle menti e nei corpi di persone in cerca di protezione nelle braccia di una megalomania tirannica qualunque.
La sacralità funge bene da obbligazione spirituale, ma per imporsi necessita sempre di ausili molto materiali e concreti.
La sacralità non è che una mistificazione della menzogna, dato che ogni verità non può che contraddire qualsiasi concezione della sacralità.
Uno stato di fatto è solo uno stato di fatto e così l’epilogo di qualsiasi romanzo giallo delude in proporzione diretta al piacere ricavato fino a quel momento dalla lettura.
Ogni forma di sacralità ambisce a comprimere una ebbrezza esondante da ogni limite nell’istante concentrato di una rivelazione, ma il tempo vero di una vita, quando va bene, scorre insieme al flusso di una lettura che perviene soltanto a muri, sparizioni o ristagni prima di cedere il passo a un’altra lettura.
Una sacralità è anche una bestemmia.
Stanata dalle splendenti nebulosità in cui sontuosamente si camuffa e si dissimula, ogni sacralità s’impoverisce al punto da risultare una specie d’insulto rivolto alla divinità.
Una sacralità che predica forme di castità, per esempio, deve presupporre un dio fortemente interessato all’uso di peni e vagine, un sessuologo alla Kinsey nella migliore ipotesi, un voyeur nella peggiore.
Il burocrate del sacro è un comune mortale banalmente tampinato da corrive, futili ossessioni che, per non offendere un egocentrismo mostruosamente pompato, hanno l’obbligo di trasformarsi in mitomanie dominatrici.
Se non da peni e vagine, nel monismo asfissiante della visione sacra una metafisica istituzionale risulta comunque corrotta da psicologismi il cui collo è stato tirato finché le appendici superiori si sublimano in altezze di fantasia, rigorosamente prive di unità di misura e quindi molto campate in aria.
Una filosofia della scienza che non rosicchia i piedi di argilla del sacro fino a farlo reclinare entro una dimensione esclusivamente privata, è una filosofia ipocrita e filistea.
Che il sacro debba esulare da ogni discorso pubblico e razionale, pena il suo utilizzo in assolutismi e dispotismi di vari gradi e livelli più o meno mascherati, deriva da considerazioni scientificamente inconfutabili.
La realtà si basa su relazioni che esplodono o implodono con tempi e ritmi variabili dopo stasi sempre instabili e precarie.
La stasi assoluta della sacralità deriva da una cattiva dialettica incentrata sull’enorme equivoco della conciliazione degli opposti.
Se le contraddizioni non ripugnassero all’ontologia degli eventi, il linguaggio matematico si rivelerebbe scientificamente inservibile.
Una sacralità, come quella neo-cristiana o vetero-marxista, scambia scontri, ricombinazioni e separazioni per momenti di trasmutazione ineffabile o lancinanti fratture.
Così la mistica sociale finisce sempre per mettere in scena la propria turgidità melodrammatica e generare disagi e sofferenze realissimi.
Dato che nell’esperienza psicologica di ognuno soltanto la differenza tra piacere e dolore appare scevra di complicazioni interpretative, la psiche umana tende a votarsi al sacro ricercando il piacere nel piacere e perfino nel dolore, ma, così facendo, scoperchia il vaso di Pandora delle eterogenesi dei fini connesse al paradosso edonistico.
Fissatevi sul volo alto e rilassato di un uccello: non vi coglie il senso di una sorta di canzonatura rivolta alle presunzioni dell’animale meno saggio della Terra?
Occorre almeno un pochino di kolibianesimo per assaporare i criptati sberleffi che la natura rivolge all’umanità.
Nata da una sorta di psicosi propiziata dal sogno di una impossibilità psicologica, la sacralità non può esimersi dal delirare seminando turbolenze mentre sogna una sintesi tra calma e appagamento completi (che favoriscono l’estinzione temporanea della coscienza nel sonno) e massima tensione emotiva e volitiva (la dedizione entusiasta di un sé vivo e pulsante a un possente e totalitario Altro da sé a cui si concede nell’iperbole allucinatoria di un atto carnale).
La sacralità pretende di aggirare l’inganno naturale della sessualità: un climax che esalta il puro e semplice medium genitale per sostituirvi quanto prima l’esatto contrario, ovvero la pace dello svuotamento stordito, un carezzevole assaggio di pace nel nirvana.
La sacralità vorrebbe fondere e unificare i due fugaci momenti dilatandone la durata oltre i naturali vincoli energetici ma, per le leggi inesorabili della stessa natura, può creare soltanto pasticci.
Eroismo epico e appagamento sedativo possono conciliarsi solo in sentimenti effimeri durante una contemplazione estetica o un idillio amoroso.
I sentimenti privati, che più si sacralizzano e meno sono autentici e durevoli, rimangono comunque socialmente, politicamente ed economicamente inagibili.
Ogni esasperazione mitologica vorrebbe opporsi a tale ordinaria ovvietà, ma, a tutto vantaggio di quel trasformismo calcolatore che è linfa e sangue del realismo politico, finisce per millantare un inesistente sentimento pubblico come elevazione e autenticazione di sentimenti privati che invece, da tale prevaricazione, vengono conculcati, alterati e inibiti.
Una organica strutturazione sociale deve costituire una premessa al libero e insindacabile espletamento delle emotività soggettive, non pretendere di dirigerne le manifestazioni spontanee come davanti a un coro di voci bianche.
La sacralità riguarda lo sfondo inattingibile di ogni vita e si può ineffabilmente percepire solo quando la vita stessa si rivolge altrove consapevole di tale rinuncia, è una complementazione di quel paradosso dell’io in cui ogni corpo umano si identifica senza alcuna possibilità di capire come e perché.
Ogni costruzione sociale che si fonda su ciò che non è esprimibile presuppone tacitamente il razzismo dell’essere superiore che conosce per dono divino e può solo compiangere chi non riesce a raggiungere le stesse vette celestiali.
L’esaltazione sociale dell’inesprimibile sottintende l’esaltazione di una socialità che prevarica ogni forma comunicativa per affermarsi nella forma autoreferenziale di un bene che appartiene a una confraternita di eletti dotati di poteri iniziatici.
Ovviamente un despota vincente deve saper manovrare la sacralità, indossarla e farla indossare, senza rimanerne infetto.
La classe superiore di quegli esseri superiori, chissà come e perché, risulta sempre, in qualsiasi contesto, anche quella più dotata di mezzi materiali.
Al contrario, ciò che si può esprimere e condividere equamente presenta invariabilmente due caratteristiche: a) tollera fondamenta e impalcature di tipo logico e discorsivo; b) concretizza, ma anche, in qualche inevitabile modo, banalizza.
Se non si intende rinunciare, mai e per nessun motivo e neppure a lavoro finito e in vacanza, a concepire la realtà con mezzi razionali, si perviene alla fatale nozione definitiva di un universo come automa cellulare x-dimensionale adeguatamente esteso e miniaturizzato.
Le leggi fisiche testimoniano infatti regole di funzionamento inderogabili che agiscono già a un livello molto elevato rispetto a dimensioni minimali di cui mediano i risultati complessivi.
Senza dimensioni minimali, qualsiasi parametro rimane indeterminato e quindi lo stesso concetto di causalità e quindi di legge fisica risulta definitivamente inesplicabile, rimanda a principi non definibili attraverso un qualsiasi mezzo linguistico o algoritmico.
Molte teste fini non se ne preoccupano, fanno libero sfogo di tecnica sopraffina e raggiungono risultati mirabili ignorando completamente la natura degli oggetti e delle proprietà che usano.
A loro va bene che l’autorità religiosa possa tranquillamente arrogare a sé l’ultima parola.
Se non gli andasse bene, c’è da chiedersi che cosa abbiano effettivamente capito di quello che è importante capire per decidere il futuro dell’umanità.
Sembra quasi che essi considerino ogni realtà al di fuori del prestigio professionale una sorta di sofisma che attiene a nebulose velleità definite sprezzantemente come ‘filosofiche’.
Se il quid riguarda carriere e successo non solo non hanno torto: dimostrano una preveggenza quasi divina.
Sono teste finissime e forse proprio per questo trascurano il nocciolo del problema, che non riguarda quello che esiste, ma i limiti di quello che possiamo comprendere e controllare.
Rifiutarsi di sondare quei limiti denuncia spesso il desiderio segreto di evaderli (obbiettivo fallimentare in sede politica e sociale, ma a volte tutt’altro che disdicevole in ambiti privatistici), equivale a giocare con bombe dagli inneschi sconosciuti o a collaborare alla costruzione di ingranaggi qualunque messi poi a disposizione di chiunque voglia utilizzarli per costruire armi o altri mezzi offensivi.
Troppo comodo e facile sprofondarsi nei particolari specialistici infischiandosi del funzionamento globale.
Ciò vale a prescindere che il dio Kulo, come è anche possibile, abbia benedetto l’umanità almeno da qui a un secolo.
Nella costruzione di mitologie, l’uomo è sovrano, molto meno nel descrivere adeguatamente qualsiasi contesto fenomenico indipendente ed esteriore.
Si potrebbe addirittura affermare che certe antiche filosofie idealiste che consideravano inesistente qualsiasi complesso mondano non subordinato alla spiritualità umana manifestassero molto più realismo di tanta epistemologia contemporanea.
Vedevano chiaramente il problema e, in un positivismo più o meno disperato, ma comunque sincero, lo risolvevano attraverso l’unica soluzione ritenuta accessibile, ovvero la magia.
In fondo un religioso che concede credibilità a eventi incantati e fenomeni paranormali si rivela molto più coerente e realista di un religioso che li considera cialtronate: perlomeno la religiosità del primo, a differenza di quella del secondo, non manifesta contraddizioni interne.
Certa religiosità sociologica, rispetto al credo monolitico di uno stregone o di un mistico, appare schizofrenia culturale mentre molta scienza ‘pratica’ si prospetta, da un punto di vista ontologico, come il suo cane fedele.
Comunque sia, quello che possiamo effettivamente comprendere non potrà mai superare i risultati raggiunti da algoritmi fatti girare su potentissimi computer.
Qualsiasi responso di quel tipo relativo a una globalità può essere valido a una sola condizione fondamentale: che le leggi del cosmo si generino attraverso meccanismi locali.
Se le leggi non fossero locali, nessuna descrizione credibile di ambiti molto più allargati potrebbe generarsi in nuclei così ristretti.
Se consideriamo poi che i nuclei sono già molto espansi (di un fattore superiore a 1020) rispetto alle dimensioni minimali, arriviamo subito a un’altra condizione essenziale al funzionamento del tutto come possiamo sensatamente figurarcelo: è necessario un meccanismo d’invarianza di scala.
Per arrivare all’alternativa ‘o automa cellulare o qualsiasi cosa tanto non possiamo comprendere niente altro (men che meno Dio!)’ sono sufficienti poche altre considerazioni.
Un automa cellulare può simulare qualsiasi processo di elaborazione elettronica caratterizzato da parallelismi comunque estesi, quindi assorbe in sé l’intera nozione di calcolo e processo assiomatico e razionale, non lasciando fuori niente di scientificamente interpretabile.
Ogni legge fisica è espressa in forma matematica.
Un insieme di equazioni algebriche di più variabili può avvicinare quanto si vuole le configurazioni date da un insieme di equazioni qualsiasi.
Se gruppi matriciali di trasformazioni e tensori descrivono adeguatamente le simmetrie di natura potremmo addirittura limitarci a combinazioni di quadriche e del resto moltissimi programmi informatici anche molto sofisticati riducono l’oggetto di studio a modelli descritti da sistemi di equazioni di primo grado.
Un polinomio a una sola variabile è completamente determinato dal comportamento differenziale in un singolo punto e qualsiasi equazione algebrica o sistema di equazioni algebriche modula e dilata una dipendenza che rimane comunque dipendente da processi locali.
Di tutto ciò, come di ogni altra sintetica visione metafisica, sarebbe meglio dimenticarsi se valessero due condizioni che, ahinoi, non valgono nel modo più assoluto.
La prima è che lo studio del mondo biologico fornisse indizi credibili dell’inammissibilità o eccessiva miseria di qualsiasi schema cosiddetto riduzionista se posto a fondamento della ricchezza fenomenica di cui si occupa.
Accade esattamente il contrario: la ricchezza fenomenica e il fascino di un mondo che va al di là delle fantasie più sfrenate si armonizzano benissimo con meccanismi aridamente riduzionisti di tipo darwiniano, mentre qualsiasi principio generale che volessimo inventarci produrrebbe quelli che al confronto apparirebbero teatrini di marionette.
La seconda condizione concerne una incompatibilità analoga nei confronti delle vicende umane desumibili dai reperti di cronaca e storia.
Chi non indossa lenti predisposte per frapporre pregiudizialmente dosi di nobiltà davanti a quello che constata oggettivamente, non vedo proprio come possa riscontrare scarti qualitativi nella relativa combinatoria di base, una volta tenuto conto degli opportuni incrementi quantitativi della complessità strutturale, ben testimoniata, del resto, da un rutilante florilegio ‘orizzontale’ (non gerarchico) di fascinosi barocchismi quasi allucinatori.
E’ d’altra parte evidente che, contro la sostanza ontologica di sacralità e santità, depone in primis una adeguata analisi dei comportamenti degli individui e delle istituzioni che se ne fanno propugnatori.
Questi comportamenti non sono certo indegni ed esecrabili (la loro prestazione complessiva media deve mantenersi a un livello tale da consentire la loro conservazione e ripetizione, né più e né meno di quanto vale per una qualsiasi azienda che intende restare sul mercato).
Semplicemente palesano la netta predominanza di una razionalità organizzativa al punto da configurare religiosità e sacralità come analoghi sia della persuasione occulta degli operatori di marketing, sia della fascinazione legata al rapporto tra agenti della società dello spettacolo e pubblico di spettatori.
La loro opera non è mai individuo-funzionale, ma società-funzionale e quindi si qualifica in rapporto stretto ed esclusivo con una particolare visione della società.
L’individuo che non si adatta agli schemi viene masticato e risputato a prescindere dalle sue necessità particolari.
E’ ovvio che qualsiasi progetto sociale esige che i comportamenti individuali si accordino a determinate esigenze strutturali.
La differenza di un progetto di tipo kolibiano rispetto a un progetto integralista non consiste per niente in un maggiore lassismo in relazione a meccanismi di funzionamento specifico (tutt’altro!)
La differenza consiste nelle premesse e priorità di fondo: centralità dell’individuo in una umanità subordinata alla salute del contesto planetario, da una parte, individualità subordinate alle ossessioni liturgiche di una umanità divinizzata, dall’altra.
Se l’assunzione di una visione non integralista viene contrastata attraverso cortine di sacralità auto-costruita e inviolabile, il gioco, politicamente, non è esattamente onesto e sportivo e i kolibiani ritengono di avere ogni diritto di eccepire.
Ovviamente i discorsi fin qui fatti su una difesa dei propri interessi e delle proprie concezioni attraverso assurde immunità sacrali, non riguarda soltanto istituti ecclesiastici o confessionali in genere, ma qualsiasi organizzazione politica ricca di prosopopee ideali e povera di progetti, quindi anche partiti politici e molte confraternite messe in piedi da particolari settori delle classi dirigenti per incassare pubbliche infatuazioni mentre agiscono in gran parte nell’ombra.
Il problema fondamentale di ogni processo cognitivo consiste in buona sostanza nello schematizzare senza sclerotizzare.
Se non si schematizza a sufficienza permane una nebbia di indifferenza eccessiva, se si esagera si contrae ogni polpa in una fragile secchezza scheletrica.
La ricerca del giusto equilibrio rimanda inevitabilmente alle funzioni e agli scopi.
Quando una conoscenza non deve intaccare un complesso di convenzioni artificiali da preservare in linea di principio, parte già con le mani e i piedi legati.
Quando una conoscenza effettiva intacca un complesso di convenzioni artificiali, l’essere costruttivo o distruttivo dal punto di vista sociale non riguarda la conoscenza effettiva (che non è mai ‘libera scelta’ neppure per convenzione), ma le convenzioni.
Convenzioni che non sanno utilizzare una conoscenza effettiva, per durare, devono farsi benedire dal caso ovvero dal dio Kulo.
Il comportamento alimentare risulta un utile riferimento analogico per qualsiasi funzionalità biologica.
Possiamo concepire un modello generale di processo cognitivo attraverso l’analogia con un rettile che cattura un insetto estrudendo una lunga lingua collosa.
Il sistema nervoso del rettile deve privilegiare un paradigma iconico tra infiniti altri (per esempio una macchia mobile su uno sfondo più stabile), azionare i mezzi adeguati (la lingua) e incorporare la preda in uno schema preesistente (l’organismo che si nutre).
Senza uno specifico intervallo di soglie percettive il rettile finirebbe per inseguire sterilmente o disastrosamente mutamenti del quadro insignificanti o non pertinenti.
Se selezionasse troppo le caratteristiche dello stimolo, perderebbe troppe occasioni.
Il giusto grado di selettività dipende ovviamente dal contesto in cui si attua la sequenza comportamentale.
Un qualsiasi essere umano sarebbe costretto a graduare e adattare gli schemi di selettività cognitiva in base all’estensione più o meno localizzata o differenziata delle influenze esterne più significative.
Durante il corso evolutivo o involutivo di una specifica civiltà, le influenze esterne a cui un essere umano soggiace diventano sempre più estese, complicate e illeggibili e ciò in misura direttamente proporzionale al territorio interessato dalla civiltà.
Queste scarne considerazioni spiegano in gran parte perché il Grande Borghese può dire un mucchio di sciocchezze se le di dice in modo elegante e profondo.
Basta dilatare uno sfondo indistinto e iscrivervi una saggezza sterile e formale mentre si rimane solidamente avvinghiati a un contesto limitato tenuto sotto stretto controllo.
Lo sfondo che dovrebbe condizionare l’importanza degli stimoli e dei riferimenti crea una profondità puramente astratta, propagandisticamente e moralisticamente agibile, mentre le mosse reali si temprano quasi esclusivamente sugli attrezzi del tipo di palestra di casa che presso quasi tutti i grandi borghesi replica un modello sostanzialmente uniforme.
La profondità non si sa del resto che cosa sia e nemmeno se esista, ma il saperla riconoscere distingue il cittadino degno dall’indegno.
L’eleganza è rigorosamente soggettiva e pertanto esige tipi di discrezionalità, regole e convenzioni in assenza dei quali non merita alcuna credibilità sociale.
Di Grandi Borghesi se ne trovano ovunque, praticamente in ogni via di paese o di città.
I decaduti si ritrovano pure nelle periferie depresse o malfamate.
Ogni giudizio morale coinvolge un criterio nella distribuzione sociale della ricchezza e viceversa.
Il Grande Borghese è grande perché manipola giudizi morali, non, mai e in nessun caso, criteri di distribuzione della ricchezza.
Il Grande Borghese non denigra l’avversario o il nemico: esalta il nemico o l’avversario dell’avversario o del nemico.
Quando l’avversario o il nemico del Grande Borghese denigra rozzamente il proprio nemico o avversario rivela la propria rozzezza di essere inferiore che non merita nemmeno di essere denigrato.
Il Grande Borghese lotta in modo elegante e profondo e pertanto ritiene squallido e immorale un mondo dove non esista competizione.
Il Grande Borghese si ritiene migliore del piccolo borghese, pur sapendo che, a differenza di quello, non potrà mai essere onesto.
Più scompare il ceto medio e più i borghesi (piccoli, medi o grandi) si moltiplicano.
Una qualsiasi borghesia si identifica infatti con un qualche ceto emergente e, quando la società sprofonda, emergere non è più un optional, ma una necessità.
Il borghese doc non pensa di essere una categoria sociologica.
Il borghese doc pensa di essere una categoria dello spirito.
Per il borghese doc sostituire categorie dello spirito con progetti razionali rappresenta un segno di degenerazione metafisica, la rinuncia al marchio divino.
Per il borghese doc il Progetto non è una utopia.
Per il borghese doc il Progetto è una impossibilità logica.
Un progetto eliminerebbe infatti la borghesia e non si può migliorare le condizioni di una specie animale eliminandola.
La mentalità borghese, per un borghese, non è una caratterizzazione culturale ed etnologica.
La mentalità borghese, per un borghese, è l’espressione genuina di una specie animale promossa a specie spirituale assoluta.
Nessun borghese autentico aspira veramente a diventare aristocratico.
L’aristocratico non è che un borghese vincolato alla noia assoluta del paradiso definitivamente raggiunto.
Un aristocratico, in effetti, è qualcuno che può oscillare tra forme paradossali e metamorfiche di ‘libera individualità’ e configurazioni da Grande Borghese.
Per quelli che non appartengono all’aristocrazia, le forme di ‘libera individualità’, senza Progetto, non possono possedere alcuna effettiva valenza e consistenza sociale.
Per avere diritto alla ‘libera individualità’, i non aristocratici devono rispettare regole che irrimediabilmente avviliscono ogni manifestazione di ‘libera individualità’.
Per il vero aristocratico lo stato, se esiste, c’est mois.
Per il borghese (piccolo, medio, grande) lo stato diventa l’insieme di vacche da mungere che quando non si può più intendere come tale si trova a essere uno stallatico afoso di tumulti, conflitti e scorribande.
Lo stato appartiene anche ai popoli, che a tutt’oggi non esistono più, se non come accozzaglia di aspiranti borghesi.
I borghesi, d’altra parte, si rivelano perlopiù aspiranti al ruolo di borghese.
Il borghese detesta lo stato, ma ama ogni istituzione che assomiglia a una chiesa.
Il popolo che non esiste più ama soprattutto quelle chiese che simbolizzano la sacralità del popolo che non esiste più.
Popolo e chiesa si raccordano soltanto in quell’ineffabile punto tangenziale di contatto che si colloca nella coscienza unica e universale del singolo individuo impegnato in un colloquio intimo ed esclusivo con Dio.
I non individui (gli individui-stampino del Dio-stampone) che formano un popolo prima o poi risultano incompatibili con qualsiasi forma organica e funzionale di società.
Atti liturgici e scaramantici sopperiscono appunto a questa contraddizione fondamentale e inguaribile.
La contraddizione si può sanare soltanto attraverso il Progetto, ma un Progetto presuppone una maggioranza di autentici individui in grado di formare un autentico popolo.
Un Progetto presuppone insomma l’esistenza di quello che non c’è e che il Progetto creerebbe solo in seguito all’attuazione del Progetto.
Un Progetto può nascere solo come Progetto di un’aristocrazia che rinnega il suo essere borghese a favore del suo essere individuo limitatamente e realisticamente sovrano.
Un Progetto presuppone qualche strana forma di santità, ma la santità potrebbe essere sostituita da semplice intelligenza se rappresentasse l’unica soluzione attraverso cui una qualsiasi aristocrazia fosse in grado di prolungare la propria sopravvivenza.
Se, nella dissoluzione del ceto medio, le maggioranze borghesi tendono a dissolversi in una liquidità indefinita e un po’ sordida, sempre imprevedibile e pericolosa, ogni possibilità di speranza richiama a gran voce un mutamento antropologico generalizzato da borghese (piccolo, medio o grande) ad aristocratico.
Qualsiasi cultura utile è cultura aristocratica devoluta alla sopravvivenza dell’umanità come collezione di individui inseriti armonicamente nella biosfera planetaria.
Un qualsiasi tipo di cultura borghese (ovvero cultura da ceto emergente a partire da una base qualsiasi) si palesa ecologicamente insostenibile.
Un qualsiasi tipo di cultura democratica parla al vento se pretende di parlare a un popolo che non esiste e non è mai esistito, ma parla al vento anche se parla a un popolo di futuri borghesi impegnati a sgomitare e dissanguare il pianeta.
KFAQ4 O INTERVISTA COL VAMPIRO
13 /07 /2020
Alla luce degli ultimi sviluppi, molte preoccupazioni diffuse dai Kolibiani sembrano essersi liberate dall’alone sulfureo di una sorta di masochismo intellettualistico per cominciare ad armonizzarsi con la temperie di una nuova realtà sociale: come pensa che i Kolibiani possano approfittare del momento favorevole per infondere le indicazioni e i consigli temprati da una nobile, severa, astratta Teologia del Progetto alla positività concretamente propositiva del Nuovo Riformismo?
La semplificazione radicale di un Progetto di stato stazionario sensibile a un fisiologico benessere individuale non rimanda a un empireo teologico, piuttosto a una pratica igienica generalizzata.
Una igiene perfetta, come quella necessaria per togliere dal problema delle mascherine molti enormi punti di domanda, può restare per sempre una utopia, ma, come anche la maggioranza dei ciechi muniti dei più diversi bavagli sta finalmente constatando, ciò non vale per la sua necessità e urgenza, i cui elementi di solidità e concretezza sembrano anzi progredire con l’allontanarsi di soluzioni che il bolso ‘buon senso comune’ delle trafelate piccole borghesie segretamente innamorate della ricchezza che diventa nobile (tutte le ricchezze da un certo punto in poi) giudica appunto ‘utopiche’.
Senza certe supposte ‘utopie’, a modesto parere dei Kolibiani, autoritarismi e auto-censure avanzeranno inesorabili come soli rimedi (velleitari, improvvisati e sostanzialmente, nel quadro complessivo, aleatori) al diffondersi di un caos entropico analogo sia a un’anarchia tumorale che a una degenerazione senile, cioè a patologie che, lungi dall’essere accidentali e passeggere, risultano invece, per un verso, automatico risvolto negativo dei vantaggi di una strategia biologica di fondo e, per un altro, costo energetico commisurato in modo più che proporzionale alle complessità di sistema.
Il copione, se si vuole salvare capra e cavoli, è già scritto: un incidente di percorso acutizza gli effetti delle storture, ma, siccome non si può buttare via il bambino insieme all’acqua sporca, non ci si può arrendere alle difficoltà sacrificando i dinamismi economici (Crescita! Crescita! Crescita!), occorrono dunque nuovi dinamismi, ma dinamismi sani di gente sana piena di iniziative sane che però rispettino nuove regole sane!
E’ la fase riformista sana affidata alle sinistre sane (non radicali, ma vere di un vero che più vero non si può), l’intermezzo galante che segue la fase hard boiled in cui il dinamismo schietto e robusto, ma proprio per questo un po’ rozzo e tontolone, ha inciampato per la scarsa agilità del suo muscoloso corpo ipertrofico da super-culturista della produttività fine a se stessa, coinvolgendo tutti in un enorme ingorgo.
Purtroppo dinamismo sano e regole sane non collimano mai senza il Progetto, ma per potere almeno abbozzare un tentativo di giocare al riformismo sano in un modello sostanzialmente immutabile, occorre ovviamente allentare i lacci e i lacciuoli che intralciano l’opera di quegli uomini sani che possono provvedere all’allentamento senza sollevare obbiezioni irate e rivolte pericolose perché appunto sono uomini sani ed equilibrati, non culturisti fanatici, così, quando essi stessi constateranno che il gioco purtroppo non funziona, si troveranno almeno dotati del prestigio e del potere necessari a tentare un altro gioco scambiandosi ruoli e costumi con culturisti che adesso non sono più tali, perché le Grandi Riforme hanno rimescolato opportunamente le carte, come solo il riformismo vero e sano è capace di fare.
Questo altro gioco si rivelerà indefettibilmente il ballonzolare del corpo muscoloso e ipertrofico che, un po’ rozzo e tontolone com’è, in precedenza ha inciampato, ma ora è stato rimesso in piedi con la promessa che l’inciampo non avverrà o almeno sarà più improbabile: gli uomini sani, infatti, nella fase fallimentare di riformismo sano, hanno almeno provveduto a togliere di mezzo un po’ di quelle trappole e intralci che ostacolavano il cammino del corpaccione forte e vigoroso, molto positivo perché molto vivo, ma tanto, tanto ingenuo, se non fosse per l’affannarsi intorno a lui dei riformisti spazzini maestri di socialità raffinata, dei quali solo il dispotismo becero che, quando inciampa, si sfracella la faccia sul muro, può permettersi di fare a meno, se non altro perché riescono benissimo (molto meglio del tontolone) in giochi di prestigio e magie illusionistiche per cui, grazie a finezze esoteriche da Maestri Finanzieri e al capitalismo smart di avanguardia, profitti discutibili ed elusioni fiscali si tramutano in investimenti e occupazione (che genereranno profitti discutibili ed elusioni fiscali in crescita progressiva, ma questa è un’altra storia e riguarda il senno di poi e non quello di prima).
Il gioco è un po’ tortuoso, gli individui sani che si dedicano ai giochi di società sani se ne avvedono e se ne avvedono perfino gli individui ‘senza se e senza ma’ che si affannano a distinguersi e così si mantengono stretti e pigiati nel corpaccione sudato del Gran Tontolone: basterebbe considerare i successi ottenuti in pochi anni dal Terzo Reich rispetto ai passi da ubriaco del New Deal rooseveltiano (è vero che la confisca di tutte le risorse ebraiche ha facilitato le cose, ma quale evoluzione economica non comporta dei vinti e dei vincitori? Basta, inutile dirlo, evitare scriteriati eccessi da fuori di testa), per rendersi conto che ci sono vie più dirette e spedite per raggiungere certi risultati (a meno di considerare le condizioni dopo il crollo di Wall Street del 1929 molto più gravi del delirio in cui è sorta la Repubblica di Weimar e gli Stati Uniti un territorio striminzito e povero rispetto alla Germania).
Ci sarebbero, sì, scorciatoie (basta considerare i miracoli (anche quelli rooseveltiani) di quelle economie di guerra che, chissà come e perché, vengono sempre invocate metaforicamente per rilanci e ripartenze con le ruote che fischiano e mai in merito a svolte epocali all’insegna di un Progetto), ma, se non si vuole rischiare catastrofi, la democrazia risulta effettivamente una condizione irrinunciabile, i cui difetti si possono a ogni buon conto correggere salvaguardando tra le libertà soltanto quelle di iniziativa economica e di parola.
Con l’economia non si esagera mai e, se le parole che fanno audience e spettacolo esagerano (le altre contano un beato cazzo di nulla), a rimettere le cose a posto ci possono pensare gli avvocati senza distinzione e qualche giudice tra i più volonterosi.
E’ anche vero, però, che, alla lunga, i bambaccioni possono stancarsi di far la parte degli energumeni lasciando le parti più nobili e redditizie ai riformisti sani, ma perfino i bambaccioni sanno che, anche se ciascuno può indossare maschere diverse secondo la recita, una volta che le ha indossate per amore o per forza, si deve rassegnare al ruolo che quelle designano anche se è quello meno gratificante e più faticoso, altrimenti, soprattutto quando le maschere diventano di un solo tipo o quando vengono gettate per terra e calpestate, il primo a rimetterci è proprio quel valore assoluto che tutti chiamano ‘democrazia’ senza sapere esattamente che cosa diavolo sia, anche se il più delle volte (non sempre) la sua mancanza si sente, eccome si sente.
Sembra effettivamente e inequivocabilmente sussistere una sorta di intervento provvidenziale nell’abilità accertata oltre ogni ragionevole dubbio che i più diversi periodi storici detengono nel forgiare quella ristretta cerchia di individualità eccellenti (eccezionali eccellenze italiane, potremmo definirle in un paese che ha saputo sempre distinguersi in ogni campo, più che per le medie generali delle varie prestazioni (in verità, non sempre eccezionali), soprattutto per le sue eccellenze) in grado di pilotare le sorti di una nazione al di fuori di secche e ombre e oltre gli scogli tumultuosi in cui si era cacciata. Non ritiene che un riconoscimento del genere possa educare i Kolibiani a ridefinire i motivi ispiratori di una metafisica laica che non deve mai perdere di vista, non solo la profondità inarrivabile degli eterni valori di base, ma anche e, oseremmo dire, soprattutto, gli effetti delle loro ricadute pratiche, concretamente operanti e quotidianamente fattive?
I Kolibiani rimangono convinti che la Santa Alleanza tra confessionalismo e tecnocrazia, da un punto di vista culturale (che, in ambito sociale umano, non si può mai trascurare del tutto neppure nell’impazzare delle determinazioni più nude e più crude) costituisce una strategia preventiva e difensiva contro la sgradevole evidenza che il progresso delle scienze ha demolito, insieme alla possibilità di instaurare razionalmente qualsiasi tipo di discorso religioso, anche ogni contestuale possibilità presente o futura di sostituirvi un qualsiasi tipo di certezza ontologica generalmente condivisibile mediante argomenti ineccepibili e comprovati. E non c’è niente di più facile che, in qualsiasi tipo di dialettica sociale, l’assenza di ogni certezza si tramuti ipso facto nella presenza di un solo tipo di certezze imposte per statuto.
Per una strategia ampiamente concordata sulla base di concezioni tradizionali e meccaniche, il disincanto della cultura di punta avanza di pari passo con gli incantamenti sempre più fantasiosi ed elaborati della cultura di massa.
Ne risulta una sorta di gioco delle parti simbolico, di pantomima teatrale dei valori in cui, finché di sovrastruttura (in senso marxiano) si tratta, le alte gerarchie si turbano e si arrovellano in imprese sempre più ardite (come le conquiste spaziali e la lotta al razzismo ingenuo), mentre sempre più ampi livelli basali attendono i risultati nella fiduciosa letizia di panem e di circenses entrambi ampiamente garantiti anche se un poco di meno (molto poco, finché è possibile) ogni anno che passa.
La filosofia naturale che ha dominato il sapere per secoli perfino in campo religioso (in un campo, cioè, in cui gli elementi di dubbio scientificamente avvalorati e tali da far vacillare le menti migliori si riducevano, fino a un paio di secoli fa, ai paradossi di Zenone e poco altro) ci rimette le penne e i sopravvissuti che se ne fanno stentati cultori non dispongono più di orpelli con cui dissimulare le ossute nudità.
Oggi basterebbe ragionare come si deve intorno a fenomeni come una simulazione al computer (un videogioco, per esempio) o alla semplice esistenza di fotografie e musiche digitali per trarne conseguenze minimali molto impegnative sulla natura della realtà e invece una diffusa incapacità di pensare al di fuori di ambiti tecnici preliminarmente e metodicamente ben delimitati non si limita a primeggiare: diventa obbligatoria se non ci si vuole condannare al confino di una marginalità dove le recinzioni sono troppo deboli e larghe per impedire il passaggio di beffe e pernacchie da parte del popolino.
L’assenza di certezze non inventate (ovvero non coltivate da uno spirito di volitiva positività pregiudiziale), anche se solo oscuramente intuita dalla coscienza collettiva, significa precarietà irreparabile di ogni strategia di direzione e controllo (prima tra tutte, lo sprone di una volitiva positività pregiudiziale), il che non può essere sminuito con una scrollata di spalle da chi è coinvolto in meccanismi o, ancora peggio, automatismi di portata planetaria.
Se sia Dio che ‘Dio’ (la causalità sistemica totale interpretata illusionisticamente come giusta se non addirittura benigna) rappresentano definitivamente concezioni logicamente intrattabili, privata di qualsiasi fondamento propizio a intese ragionevoli e ponderate che esulino da una corriva dinamica degli interessi, una politica che non voglia ridursi a puro gioco elettorale tra squadre la cui competitività dipende dagli sponsor si trova davanti a una sola alternativa forte e credibile a prescindere dalla pletora di contorsioni serpentine che esibirà al fine di sfuggirvi o fingere di esservi sfuggita: o escalation oligarchica e integralista con riduzione progressiva della democrazia a orpello formale o progetto democratico di stato stazionario semplificato.
Ogni religione ‘positiva’ ovvero istituzionalizzata ovvero politicamente spendibile può allora appellarsi soltanto a un istinto di riconoscimento fondamentale che, quando in persone diverse non coincide, comporta inevitabilmente o un poco ardito rilassamento della fede in tollerante relativismo o implicazioni di tipo razziale espresse da frasi come: ‘io possiedo quell’istinto e tu no!’.
Sembrerebbe quindi che la religione politicizzata, se presa sul serio e non come puro strumento di marketing elettorale, sia o un gioco folle per ignoranti basici o l’anticamera del razzismo dispotico (ogni dispotismo è razzismo e ogni razzismo è dispotismo, non esiste l’uno senza l’altro, purché ovviamente, al razzismo idiota collegato al colore della pelle e a quello corale suggerito da volgari tornaconti etnici, si aggiunga il razzismo molto più perversamente astuto che si fonda su un amalgama di discriminazioni psicologiche, fisiologiche e culturali molto più particolari e sottili).
Il ‘sembrerebbe’ diventa ‘è di sicuro’ quando la propaganda religiosa diventa appannaggio di oligarchi intrinsecamente e radicalmente ignoranti e incolti per spavalda e aggressiva scelta esistenziale (commercianti di fumo gonfiato da quel plusvalore che solo il politico venditore di elisir di lunghissima vita riesce a generare grazie al tesoro di imprenditorialità di cui dispone): molto più ambiguo e complesso è il caso della vera e propria istituzione religiosa, che qualcuno può vedere come un Progetto basato su quella che qualcuno può considerare una pietosa e meritevole menzogna.
In entrambi i corni dello schema manicheo (religiosità fasulla per regnare accalappiando consensi con l’inganno o religiosità sincera tradotta in elaborate finzioni istituzionali), soggetti a infinite infiltrazioni e contaminazioni reciproche, le discussioni tra persone che non si riconoscono in una razionalità comune sono perfettamente inutili: una pantomima simbolica inscenata per titillare un pubblico di tifosi da big match parlamentari o da ring televisivi, un ruminare di bocche e macchine da stampa che diffonde lo sciame di locuste intellettuali dei bla bla mentre quello in cui si confida supinamente riguarda olismi transattivi e conciliativi a insorgenza esterna e automatica (quindi per la quasi totalità casuali o darwiniani (la vita è quello che accade mentre sogniamo, fantastichiamo e soprattutto parliamo di altro)), oppure ci si isola dentro compartimenti stagni oppure magari si prepara un golpe o una guerra civile oppure magari si prepara un progetto da proporre o imporre, kolibiano o non kolibiano.
Ai Kolibiani va riconosciuto il merito di aver movimentato il rapporto tra scienza e fede, optando in apparenza per una sorta di nichilismo metafisico che però, a ben vedere, se adeguatamente rivisto e corretto, pone il rapporto tra due delle più grandi e fondamentali correnti della vocazione culturale umana su una base razionalmente più solida e perspicua. Già i Padri Kolibiani avevano distinto tra una fase critica preliminare a una indispensabile pars destruens e la successiva costruzione di una Nuova Alleanza quando le condizioni lo avessero permesso. Conviene con noi che i tempi sono maturi per un rivolgimento delle analisi e delle intenzioni in senso positivo?
Non concordo affatto con questa impostazione di fondo. Reale è ciò che esiste e/o avviene indipendentemente dal gioco di specchi del nucleo di coscienza che lo percepisce o concepisce e che, all’atto stesso della percezione o concezione, lo rimodella e trasfigura, illudendosi proprio per questo di poterlo dominare essendone invece dominato.
Reale è anche tale ricostruzione modellistica involontaria mentre un progetto rimane e rimarrà sempre il risultato di una progettazione deliberata e sistematica che esige una visione chiara e coerente del reale e di quello che lo percepisce e concepisce.
Realtà e Progetti non ubbidiscono a sentenze e deliberazioni di società che, quando giudicano, badano soprattutto a blindare un nucleo culturale (variabile nel tempo e nello spazio) di valori centrali e dogmi ispirativi, salvaguardandolo dalle proprie incapacità e impotenze e ignorando tutto il resto. Tutto il resto è, per quelle società, solo confusione e rumore, ma basta allargare la prospettiva della visuale e confusione e rumore risultano proprio quelle società non progettuali.
L’umanità deve correggere la concezione di se stessa e le modalità di occupazione del pianeta, non ricomporsi dopo uno sbandamento o una caduta e continuare a procedere secondo vecchi presupposti e sottintesi, forme mentali adottate passivamente come protesi cefaliche, riflessi condizionati a cui si appiccica l’etichetta di libera scelta.
Per armonizzare la libertà individuale (vista dall’interno ossia percepita effettivamente come tale dal singolo individuo indiscriminato) alle inevitabili leggi funzionali e strutturali, serve la logica unica e sostanziale delle finte casualità, non la vera casualità delle logiche multiple e flessibili inventate dall’uomo.
Logiche flessibili, indifferenze epistemiche, pluralismi dilettanteschi e inconsulti mettono capo a un solo tipo di soluzioni possibili: il braccio forte dei poteri forti.
Il relativismo assoluto necessita di assolutismi relativi per non condannarsi al mutismo, all’immobilità o al caos e la relatività degli assolutismi (se, come accade sempre un millimetro sotto la crosta delle apparenze, due assolutismi non concordano tra loro, sono relativi e richiamano a gran voce, per dirimere le questioni lasciate in sospeso, al posto di una razionalità autentica già esclusa dal gioco, l’arbitrato o di compromessi al ribasso (che, alla prima occasione, le parti cercheranno di eludere) o della forza pura) dipende da quelli che in un modo o nell’altro, con forzature e aggiustamenti di poco conto, possiamo senz’altro chiamare ‘interessi’.
L’oggettività sopporta solo approcci di tipo scientifico, tutto il resto è interesse oppure, nelle migliori delle ipotesi, arte, fabulazione, sogno, inventiva, istintività, capriccio (effluvi delle esistenze individuali che, quando anche profumino delle migliori flagranze, si deteriorano in men che non si dica in contesti pubblici e spersonalizzati), ma la conoscenza scientifica non garantisce affatto la verità metafisica, ne può fornire al massimo drastiche approssimazioni vagamente plausibili: si distingue molto meglio per le semplificazioni scaltre e le manipolazioni che esse permettono.
La conoscenza umanistica nasce dalla presunzione metodologica del libero arbitrio e su quello prospera osservando quello che essa stessa genera, ivi comprese le osservazioni che poi osserva in un rimando infinito di specchi; la conoscenza scientifica astrae, riduce, sclerotizza ma non potrebbe neppure vagire e azzardare un passettino sbilenco se non fosse una traduzione intellegibile di schemi di azione che tutto fagocitano e determinano.
Facendosi dettare le leggi da un mondo reale, la cultura scientifica si palesa lussuriosamente religiosa e monasticamente laica; registrando le leggi di un mondo artificiale che crea esplicitando oggettività della propria natura, la cultura umanistica appare al contrario lussuriosamente laica e monasticamente religiosa.
La tecnologia, protesa tra due mondi e due culture, può essere monasticamente servizievole come lussuriosamente auto-referenziale.
Un Progetto o una Guerra (iniziali maiuscole) rientrano entrambi nelle più dinamiche tra le eventualità che si aprono a ogni tipo di conoscenza possibile.
Questo è quanto e se siete delusi, pazienza! Forse varrebbe comunque abbastanza per pensare concretamente a un generale, ordinato benessere, ma se tali pensieri vi turbano, se li ritenete indegni…. beh, allora non siete di sicuro sintonizzati sulla lunghezza d’onda dei Kolibiani.
Il deluso qualsiasi potrà consolarsi al pensiero che le delusioni e i disprezzi maggiori riguarderanno i soggetti con maggiori possibilità di emergere e di distinguersi dal volgo (per meriti veri o presunti, conoscenze e rapporti umani veri o falsificati, eredità vere o presunte...), i modelli umani meglio riusciti o che tali si ritengono, gli aspiranti pionieri sempre in cerca di eccellenze che di solito rimangono tali a rapporti ridotti e su scala ravvicinata, mentre in dimensioni maggiori producono più che altro equivoci grotteschi e complicazioni inestricabili.
Le mitologie immettono sempre nel collo di uno stesso imbuto, che siano scientifiche o religiose prima o poi farneticheranno di epici trionfi e sontuosi giubilei, dove in mezzo a folle prone e adoranti gli stati maggiori sciorinano parate militari lanciando navicelle spaziali e tappi di champagne.
Finché l’umanità non si rassegnerà, con grande vantaggio per tutti gli animali della Terra ella compresa, a essere solo una specie animale che organizza al meglio la vita dei suoi esemplari grazie a una intelligenza superiore, non farà che moltiplicare a ogni passo le probabilità di catastrofe.
L’umanità trabocca di bellimbusti inossidabili dal sorriso splendente e dall’ottimismo sbrigliato (sostituiti, quando serve, dalla mutria draconiana del condottiero costretto a imporre la forza per motivi di ordine superiore) i quali non hanno la più pallida idea di chi o che cosa effettivamente garantisca i controlli di decine o centinaia di migliaia di testate nucleari e altrettante bombe ecologiche e climatiche, il che comprende anche il caso rarissimo in cui il bellimbusto, guardandosi allo specchio, possa affermare senza mentire del tutto : “….. ma uno di quei controlli sono io!!!”
L’umanità, se non vuole continuare a bestemmiare, deve dimenticarsi di Dio nel giusto e sacrosanto rispetto della Sua incomprensibilità.
A una persona effettivamente religiosa un tale inquadramento teologico potrebbe perfino non dispiacere e i Kolibiani potrebbero apprezzare e condividere certe aperture di gradimento: l’esigenza fondamentale è che la persona effettivamente religiosa non pretenda di sapere quali siano i propositi e le volontà effettive di Dio e non pretenda di condizionarli in modo da ingraziarseli e utilizzarli in sede politica configurando così una enorme bestemmia scambiata per atto pio per un massimo di assurdità confessionale, un massimo di idiozia teoretica o un massimo di imbroglio disonesto e malevolo (scegliete voi).
Il culmine del paradosso avviene quando un religioso contrario all’ambientalismo parla di umiltà: considerare la propria anima superiore al patrimonio naturale (opera di Dio) che viene distrutto ogni anno, secondo lui è un atto di umiltà?
I Kolibiani non hanno proprio niente da ridire se la persona effettivamente religiosa si intrattiene intimamente con Dio in tutti i modi che ritiene opportuni: sono faccende private, come in bagno o in camera da letto.
Razionalmente parlando, Dio non può sapere quello che fa; se anche lo sapesse, non possiederebbe il libero arbitrio; se ne possedesse almeno l’illusione, sarebbe finito ma enormemente più complesso di noi, come un programmatore di livello superiore per cui potremmo essere personaggi virtuali intrappolati in un mondo virtuale che Egli può modificare insieme al progetto dei nostri schemi mentali, questo nell’ipotesi che il salto categoriale a cui lo obbligherebbe il compito immane non Lo precipitasse direttamente in un buco nero in senso astronomico, eventualità perfino auspicabile se solo si riflette un istante su quali complicazioni provochi al pianeta Terra un salto di livello mentale come quello dalla scimmia all’uomo.
Probabilmente non esiste un universo in grado di accogliere da solo tutti i guai che provocherebbe un analogo salto dall’uomo a Dio.
Dio però potrebbe possedere una logica dell’infinito a noi preclusa: a chiunque di noi, che sia ateo, cattolico, taoista o mussulmano o tutto quello che volete.
Ognuno, in privato, può fantasticare su come quella logica possa favorirlo, io per esempio potrei stendermi al sole e convincermi che la mossa che Dio detesta di più è l’utilizzo della religione in politica per scantonare dal Progetto e continuare a sporcare il mondo con un biasimevole e indecoroso eccesso di esseri umani che si scalmanano a impugnare i bastoni dei valori per menarli sopra tutti quelli che si ritengono senza valore perché hanno bastoni più deboli (come è sempre possibile ritenere almeno finché non li si riceve sui denti).
Ecco, appunto: quell’incapacità di comprendere a livello diffuso esige un tipo di gestioni e controlli che non devono disgregare una intelaiatura democratica, ma piuttosto rinforzarla inverandone la natura e gli scopi. I singoli esseri umani possono gettare nel mucchio comune e centrale le proprie spontanee aspirazioni, ma un coacervo disordinato non si tramuterà mai per miracolo in un costrutto architettonico: occorre farvi spirare sopra e attraverso la chiaroveggenza di uno spirito superiore. Mi vuole illuminare circa le azioni che i Kolibiani intendono intraprendere per riformare e vivificare la nuova immagine di Dio o, come essi maliziosamente aggiungono molto spesso, di ‘Dio’?
Dio è morto, confermava una famosa rivista americana parecchi decenni dopo gli scoop filosofici di fine ottocento, Dio scompare dall’orizzonte per il nostro bene, dicono i Kolibiani, Dio è più vivo che mai, sostiene buona parte degli elettori, Dio dovrebbe essere vivo, ritiene ancora la maggior parte degli abitanti della Terra, se Dio muore e risorge potrebbe essere il diavolo, dicono ancora i Kolibiani e aggiungono: non basta certo dire che si è fatto uomo per rassicurarsi in merito (figuriamoci!).
I Padri della Chiesa Kolibiana ritenevano perfino che esistesse una dimostrazione matematica definitiva dell’inconsistenza del Dio dei monoteisti tradizionali (e dunque della urgenza di una chiarificazione circa il senso effettivo delle comunque inesorabili leggi di natura), una sorta di forzatura o dilatazione di teoremi limitativi della logica matematica tratti dalla letteratura specialistica: consisteva nell’inconcepibilità dell’algoritmo minimo in grado di generare un numero qualunque, ovvero, data l’uguaglianza
U (pn) = T (n)
dove U è una macchina di Turing universale, T una macchina di Turing particolare, n il numero in base binaria che T fa corrispondere all’indice della sequenza da minimizzare e p il programma la cui combinazione con n (l’input) si deve minimizzare, l’inconcepibilità della combinazione pn di lunghezza minima rispetto a un qualunque numero T (n) della sequenza infinita dei numeri.
Attenzione: non si sta dicendo che la successione degli algoritmi minimi è antropologicamente indeterminata e inconoscibile: sarebbe banale, una elementare conseguenza dei teoremi limitativi legati alla conservazione dell’informazione come quelli di Goedel, di Turing, dell’AIT o della meccanica quantistica, teoremi che Dio potrebbe aggirare grazie alla sua infinita onniscienza.
Dio potrebbe conoscere, per esempio, specifici esempi o controesempi vertiginosamente elevati di congetture esprimibili in formule semplici (esempio facile: la congettura di Goldbach) e questi numeri, combinati insieme in un’altra formula semplice, potrebbero fornire come risultato numeri vertiginosamente elevati realizzabili con programmi che al confronto apparirebbero quasi infinitesimi (ricordiamo che Dio dispone di eternità e infinità come se fossero sinecure).
Anche in presenza di tale onniscienza e anzi proprio a causa di quella, ammettere la successione dei minimi produce una contraddizione.
Data una qualsiasi successione parziale dei minimi (che esiste di sicuro se non la si considera un tutto illimitatamente correlato), estesa all’infinito essa diverrebbe incoerente, perché sarebbe contraddetta sempre, inevitabilmente, da un certo indice in poi, dalla lunghezza del programma di generazione e auto-implementazione di tutti i programmi che si proponesse la ricerca dell’indice per cui appare per la prima volta un certo valore massimo M (programma di lunghezza pari a una costante maggiorata dal logaritmo in base 2 di M).
La matematica può rendere auto-contradditorie razionalità ed efficienza e può farlo perché, come Dio, può permettersi di vivere in un mondo infinito e disincarnato, dove non esiste differenza tra istruzione-testo e istruzione-comando, tra software e hardware, tra spirito e materia.
Immaginiamo ora di lasciare invariato tutto il resto, ma di negare la proprietà dell’infinito restringendo la discussione a un mondo finito schematizzato da un computer totale che, a ogni singola scansione temporale, genera un output totale che, alla scansione temporale successiva, si trova reinserito in ingresso come input totale. Che cosa ne risulterebbe in generale? Se non il programma minimo, una identità di input e output oppure un ciclo chiuso di input e output che si ripetono.
Reintroduciamo l’infinito (ogni persona religiosa può permettersi tali magie e quindi ce le concediamo anche noi Kolibiani) ed ecco che certi vincoli scompaiono, ma purtroppo (se il tutto in un modo o nell’altro è collegato, condizione indispensabile all’operabilità divina, e una contraddizione in qualunque punto del tutto lo fa detonare, condizione indispensabile alla razionalità umana) scompare anche ogni possibilità del computer universale di realizzare un qualunque ordine locale e una qualunque consequenzialità logica, a meno di miracoli che non possiamo capire.
Ripeto ancora una volta: auto-riferimento e autocoscienza senza limiti di spazio e di tempo significano Dio, ma allora Dio comporta l’implosione di qualsiasi ragionamento finito: basta caricare una generazione infinita di programmi nel sistema operativo dell’anima infinita e l’anima infinita, ripartendo ogni volta da 0, scopre che la congruenza ed efficacia massimali della precedente successione erano puramente illusorie: si può fare di meglio e del resto ogni manager per mandato divino (tutti i manager autentici!) lo sanno molto bene da quando erano in culla e già in quel piccolo scranno hanno ricevuto l’incarico.
Ironie a parte (d’altra parte se non ci si diverte un po’ anche senza trastullarsi con i trastulli con cui si trastullano i non kolibiani…. che cauchemar la vita!): il concetto di algoritmo più efficiente ai fini di ottenere una determinata conclusione date determinate premesse è un assunto fondamentale per tenere in piedi un impianto logico di sicura efficacia.
La non esistenza e anzi (molto peggio!) la non concepibilità di un algoritmo massimamente efficiente se consideriamo un ambiente illimitato (non il nostro studio o la nostra cantina, ma l’intero universo inteso come infinito) conduce a un’alternativa inderogabile: o l’universo è finito o l’universo (e quindi, eventualmente, se si vuole, l’Umanità o addirittura Dio) è illogico anche se (o forse si tratta della stessa caratteristica) illimitatamente perfettibile.
Ovviamente universo finito, anche se, per certi versi, significa universo comprensibile, non significa affatto (al contrario di un universo infinito che si può contrarre all’infinito cavandone tutto o il contrario di tutto) universo controllabile, ma piuttosto, per le caratteristiche connesse a una elaborazione estesa e parallela della causalità locale, l’esatto contrario: data la caratteristica delle leggi fisiche scoperte finora e risultati matematici incontrovertibili come la densità delle funzioni polinomiali nell’insieme totale delle funzioni, la finitezza di un universo abbastanza ‘grande e numeroso’ rimanda ipso facto a una specie o l’altra di automa cellulare produttore di moduli caratterizzati da qualche forma d’invarianza di scala.
Secondo tale visione, una entità biologica integrata in tutto e per tutto in un ambiente finito non può controllarne l’evoluzione: può al massimo adattarvisi nel modo migliore evitando quanto più è possibile condizionamenti e disturbi eccessivi.
Una entità biologica potrebbe forse controllare l’evoluzione del contesto di cui fa parte solo se fosse infinita come il contesto, ma in quel caso sarebbe un mago dotato di poteri di cui non sa e non capisce nulla, un piccolo dio delegato da un dio più grande: se anche costui (il dio immediatamente superiore in grado) sapesse e capisse qualcosa di più (il che non è affatto detto) al dio più piccolo non sarebbe possibile saperlo e capirlo e così avverrebbe per tutta una eventuale catena infinita di cui sa il diavolo in che punto preciso ci troveremmo (l’infinito, si sa, quanto a ordinamenti e corrispondenze, è fonte di infinite sorprese).
Lei ci sta spiegando molto bene come le complessità del reale non sopportino il giudizio rozzo e sbrigativo del populismo demagogico, ma richiedano le attente e ponderate disamine di organismi sufficientemente edotti e coordinati tra loro. Il risultato di tale lungo e sapiente logorio non può che sfociare nell’ultima e più efficiente versione di PS – SS (Progresso Semplificato di Stato Stazionario), in linea con quella logica politica che i Kolibiani hanno contribuito a costruire e diffondere. Non ritiene assai promettente la riflessione critica di quelle correnti kolibiane che raccomandano di allentare la rigidità delle concezioni originarie per calare il Progetto nelle dialettica viva delle realizzazioni promosse dagli elementi più dinamici e creativi della società?
A parte il fatto che, allo stato attuale, l’esistenza di correnti kolibiane denuncerebbe una pura e semplice schizofrenia di fondo dei comitati ideologici di base, mi consenta gentilmente di dissentire nel modo più radicalmente ringhioso.
Socialmente parlando, gli individui più dinamici e creativi non esistono: esistono ambienti influenti, sostegni e relazioni che permettono a determinati talenti di esprimersi ed esplicarsi sotto la clausola ferrea e irrinunciabile che non disturbino quegli appoggi e quelle relazioni; esistono esuberanti specialisti sollecitati da qualche ossessione che, più allarga il proprio orizzonte, più diventa pericolosa, perché al limite estremo finirà con il coincidere con l’ossessione di risplendere attraverso le ossessioni dinamiche e creative di tutti gli ossessi, una ossessione che tendenzialmente conduce all’appiattimento della società sotto gli scarponi chiodati di una ristretta schiera di oligarchi più capricciosi e turbolenti di un olimpo o di un walhalla (in termini di concezioni religiose i popoli antichi avrebbero moltissimo da insegnare ai moderni, si potrebbe perfino affermare che, nei secoli, il realismo scientifico ha proceduto di pari passo e a braccetto con l’irrealismo metafisico).
Sempre socialmente parlando e a prescindere perciò da liturgie per adepti e infatuazioni varie di natura specialistica e dunque iniziatica, le persone che propongono riflessioni complesse, proteiformi, sottili, delicate passano direttamente al dimenticatoio nella migliore delle ipotesi, mentre nella peggiore sono considerati untori di infezioni mentali e intanto folle ingorde di succulente emozioni conferiscono onori e plausi extra-large solo a trombonate pacchiane.
In qualsiasi campo, i necrologi dei mezzi busti da telegiornale, anche di quelli iper-politicizzati all’insegna dell’equidistanza misurata con il bilancino, non misurano la qualità dell’opera, ma il successo ottenuto, il che è comprensibile e perfino (da un punto di vista professionale) ineccepibile, ma solo finché non si profondono sospiri di commossa adorazione nei confronti di un’opera deteriore.
In una economia di mercato (sedicente) l’arretratezza culturale non si diffonde attraverso analfabetismo e miseria come nelle antiche società rurali: dilaga sulle onde generate meccanicamente da ispirati sentimenti nazional-popolari.
Se invece la domanda non alludeva a individui in carne e ossa, ma a elementi impersonali non meglio identificati, mi lasci dire che quelli vanno identificati e anche molto bene e alla svelta, il che, proprio per la liquidità inafferrabile della realtà che ci avvolge, si può fare solamente includendoli in una struttura organica che li qualifichi e li condizioni: il PP o PK, il Progetto Progetto teorizzato dai Kolibiani.
Gli individui dinamici e creativi sono tali soltanto quando edificano la domus loro o dei loro parenti o del loro clan, altrimenti, che se ne rendano conto o meno, sono squinternati in buona fede o ipocriti in mala fede.
L’uomo, in privato, possiede innumerevoli pregi e difetti, ciascuno giudicabile da un altro uomo secondo i propri innumerevoli pregi e difetti che sopportano ordinamenti d’importanza mobilissimi e perfino gassosi.
Nella prospettiva olistica della società complessiva non esiste uomo buono o cattivo, esiste l’uomo che rispetta le leggi oppure no. Un uomo può essere soggettivamente giudicato nobile e perfino eroico quando a proprio rischio contravviene a una legge che ritiene iniqua, ma una legge iniqua non dovrebbe poter esistere in un regime di democrazia non iniqua dotata di correttivi adeguati atti a garantire una ragionevole flessibilità e infatti il contravventore avveduto (soprattutto se provvisto di buoni avvocati), a tutt’oggi, nelle moderne società di pseudo-mercati pseudo-liberali, gode generalmente gli onori della stampa.
Senza orco cattivo, non c’è eroe buono, ma se l’orco cattivo è un’organizzazione statale sostenuta (o tollerata in base a un possibilismo fatalista che la giudica il male minore) dalla maggioranza dei cittadini (come molto probabilmente è accaduto, almeno nei primissimi tempi, per la quasi totalità delle dittature instaurate finora, di destra o di sinistra) occorre forse risvegliare il bello addormentato del senso morale comune e addestrarlo ad analisi un po’ più sofisticate di quelle a cui si trova avvezzo per quieto vivere, pigrizia o nostalgia di passioni manichee da melodramma.
L’unica categoria etica o pseudo-etica che conta in un’organizzazione civile, la forma mentis che decide gli esiti delle dialettiche parlamentari oppure delle guerre civili (piccole o grandi, conclamate o nascoste) coinvolge il concetto di lealtà.
Una categoria di persone massimamente sleale e quindi massimamente iniqua risulta allora quella di quelli che fanno le leggi sottobanco, che discutono pubblicamente di cavilli e aggiustano in segreto l’essenziale, che rimbambiscono gli analfabeti culturali e nel frattempo comprano o ricattano i legislatori, la schiatta di corrotti e corruttori che si legalizzano grazie agli strumenti di manovra di cui possono disporre dietro le quinte della recita formale che intanto distoglie l’attenzione del pubblico, i satrapi che dispongono in abbondanza di stuoli di avvocati, canali televisivi e curatori di immagine impegnati a tempo pieno a distorcere la verità.
Attenzione! Non sto affatto parlando di criminali nel senso giuridico del termine: quelli, al confronto, meritano un certo rispetto.
Gli aspetti tecnici di una organizzazione sociale non si distinguono per la percentuale di corrotti o di malversatori (le percentualizzazioni secondo categorie etiche di una società rientrano in determinismi oggettivi legati a variabili come modello politico, clima, geografia, risorse, reddito pro capite, livello culturale di popolazione e mass media, retaggi e tradizioni etniche e storiche eccetera): si distingue per il rischio che corrono corrotti e malversatori (e, specularmente, per i sani e produttivi vantaggi che ottengono i cittadini migliori fino ai santi e agli eroi).
Eroi e santi che ottengono esclusivamente vantaggi di parte meritano solo giudizi di parte.
La società peggiore in assoluto è quella in cui, nel rapporto rischio / beneficio, il criminale legale è avvantaggiato su quello illegale e il buono insano su quello sano.
Come si fa a calibrare al meglio e non casualmente un miscuglio di buoni e cattivi predeterminato statisticamente?
Se teniamo conto che buoni o cattivi si possono valutare oggettivamente soltanto in modo tecnico e strutturale e che la loro composizione si riorganizza variando le lenti e le prospettive soggettive dei sentimenti e degli interessi, si vede bene come, senza Progetto, sia impossibile.
Le migliori società del capitalismo di tipo occidentale sono caratterizzate da una forte regolamentazione di un altrettanto forte coesione di base, sorta naturalmente soprattutto per motivi climatici, geografici e demografici, tra cui un rapporto ideale in vari sensi tra popolazione e territorio, imputabile a varie e mutevoli ragioni: la loro organizzazione si avvicina molto più di altre a impostazioni di tipo progettuale.
Per quanto possa apparire paradossale, rafforzando il culto della libertà economica a detrimento di tutti gli altri tipi di libertà, le peggiori società capitaliste assomiglieranno sempre di più agli stati del comunismo reale, il che, includendo nella considerazione anche nazioni che storicamente ne costituirono l’avversario più agguerrito, favorisce un patto tra gli uomini mascherati da riformisti smaliziati e quelli che assumono il ruolo di culturisti bambaccioni (vedi sopra), perlomeno da certi livelli di reddito e patrimonio in su.
Ovviamente vari fattori contribuiscono a distinguere un comunismo reale da un fascismo reale, ma forse (dico forse) quello che conta di più, livello tecnologico a parte, è la differenza di ricchezza e di potere tra frange dominanti e frange dominate, mentre quasi tutto il resto, comprese le componenti culturali, temo che si rivelerà prima o poi questione relativa o di dettaglio.
Il sistema di equilibri che possono uscire dal bacino di attrazione di una democrazia almeno formale accelerando verso qualche culo di sacco autoritario è sempre instabile e alla precarietà contribuiscono i più svariati meccanismi: per esempio, un popolo già incline a sentimentalismi regressivi e ripieghi anti-culturali e semplicisti favorisce un certo tipo di offerta televisiva e un certo tipo di offerta televisiva incrementa sentimentalismi e ripieghi che incrementano ascolti che incrementano l’offerta che incrementa sentimentalismi e ripieghi e così via irresistibilmente fino al punto di non ritorno del coagulo di un blocco di mentalità politicamente maggioritario che prevarica anche sopra e al di là di specifici interessi materiali e schieramenti ideologici.
Non c’è dubbio che, come lei stesso ci ha appena confermato, la presente crisi sta evidenziando le eccezionali doti di resistenza, ‘resilienza’ e intelligente flessibilità dello spirito umano: come intendono i Kolibiani far tesoro delle complesse e paradossali particolarità del momento critico per inserire le opzioni da essi caldeggiate nel caleidoscopio di occasioni, possibilità e aperture prospettiche sciorinate davanti al fermo e ponderato giudizio di quelle egemonie forzatamente e opportunamente più selezionate e ristrette che si vanno gloriosamente delineando?
I Kolibiani non possono avvezzarsi alle più inattaccabili e tetragone delle strategie conservatrici: quelle basate su un moto continuo e consuetudinario di rivoluzione sistematica, consistente nel cambiare quasi tutto in superficie per non cambiare quasi niente appena sotto.
Ci si potrebbero avvezzare stringendo i denti e tappandosi il naso se di rivoluzione in rivoluzione potesse conservarsi integro un nucleo originario di libertà e liberalità, ma questa salvaguardia contraddice purtroppo le leggi fondamentali della fisica e in particolare il secondo principio della termodinamica (che diventa fattore decisivo imprescindibile non appena, seguendo canoni di concepibilità scientifica minimale, disegniamo interpretazioni plausibili di una situazione planetaria inclusiva di una specie zoologica umana che arbitrariamente sottopone se stessa a profilassi categoriche di intensa divinizzazione ma, sul fronte della causalità effettiva, otterrebbe maggiori risultati ricorrendo a scongiuri scaramantici).
Non è certo per caso che solo una persona totalmente illiberale possa ambire al ruolo di rivoluzionario vincente: le frange più anarchiche di qualsiasi moto insurrezionale lo hanno più volte sperimentato sulla propria pelle e, poiché l’anarchico puro non può rimanere tale e imparare qualcosa dai fatti concreti, continueranno a farlo finché ci saranno storie rivoluzionarie da analizzare sui libri di storia.
Nel frattempo gli anarchici si dividono in due delle categorie di bambolotti preferiti dai poteri di colore vario purché molto vivido: i puffi arrabbiati che fanno attentati, da una parte, e, dall’altra, quelli che diventano sempre più sognatori e sentimentali ogni anno e generazione che passa, i puffi degli zoo e delle riserve più colorite, dei luoghi invaghiti e invaghenti dove perfino gli square puntuti addolciscono gli angoli, dove i decorosi e amabili cerberi abilissimi nel correre trafelati intorno al gregge per tenerlo unito rilassano le zampe in un sonnacchioso passeggio, soprattutto la domenica.
Gli amici anarchici (categoria di persone a cui guardo con una grande e spontanea simpatia severamente inibita da un esagerato senso borghese dell’igiene e del pudore) non se ne abbiano a male: siamo tutti puffi o gargamelle, anche se ci sentiamo tutti semidei ingaggiati nella costruzione di paradisi per semidei destinati a diventare inferni per puffi.
Comunque sia, non c’è niente di più incompatibile rispetto alla libertà individuale del sommovimento continuo, il che consegue banalmente dalla constatazione che un processo evolutivo incessante, se non vi intervengono vincoli regolatori tassativi e implacabili, finisce certamente in sconquassi.
Freni e cambi e tutti gli annessi e connessi non servono quando si cammina: occorre andare almeno in bicicletta.
Purtroppo la totalità planetaria è incommensurabilmente più complicata di una bicicletta, un’automobile o un aereo e i cervelli umani la punteggiano come grumi infinitesimi che possono valere sia come nodi che (poco o tanto) coordinano fili intrecciati, sia come detonatori di ordigni esplosivi.
Sotto molti e vari aspetti, una bicicletta o un’automobile non diminuiscono la libertà individuale, tutt’altro, ma una bicicletta o un’automobile nascono da un progetto e da una fabbrica fortemente regolamentata.
Una singola persona può dedicarsi a quello verso cui si trova naturalmente portata se il quasi infinito altro risulta stabile e non invadente: in caso contrario, l’individuo sarà in balia del quasi infinito altro mentre, nelle convulsioni epilettiche dei prospetti sociali, è relegato all’infima parte che gli viene assegnata a discrezione di chi pensa di sollecitare e movimentare un quasi infinito altro illusionisticamente ridotto a modesto giocattolo onirico per il concorso di fantasie contorte e degenerazioni percettive.
Proprio così: contro l’inerzia delle rendite e dei privilegi stantii, la parte sana della classe dirigente rimane pienamente consapevole che non possono esistere diritti senza doveri, che entrambi crescono insieme, ma i doveri in ragione più che proporzionale rispetto ai diritti. Ecco perché nessuno può dormire il sonno del giusto, ma a tutti, se si vuole mantenere un concetto di evoluzione e di progresso che coinvolga l’interezza degli strati sociali, compete l’assunzione di sforzi innovativi. Come intendono qualificarsi le strategie kolibiane nel complesso di quella che non esitiamo a definire una nuova grande missione per l’umanità?
I Kolibiani sono filosofi concretamente essenzialisti e quindi forzatamente minimalisti, donde per cui la domanda che si pongono è, di volta in volta, invariabilmente la stessa: a che gioco si sta giocando?
I Kolibiani lasciano ai maitre à penser chocolatièr le domande più spesse e appiccicose confezionate ex novissimo secondo gli imballaggi sociologici che vanno di moda al momento e il cui prototipo assomiglia sempre a qualcosa come ‘che senso ha la vita?’
La vita e tutti i suoi nuclei più rappresentativi (come l’arte, la politica, la religione…) non possono possedere un valore svincolato dalle reti di relazioni che intessono il particolare gioco antropologico che li avvolge.
Questa è la più definitiva e disarmante delle ‘non verità assolute’: che la pretesa di assegnare un senso assoluto ai fenomeni vitali s’infrange contro una impossibilità di esprimersi altrettanto assoluta.
Eppure, paradossalmente, proprio per certi caratteri paradossali della condizione umana (ricordate sempre che la maggior parte della vita di un uomo non esiste e che ogni uomo nutre verso se stesso un amore senza speranza di essere corrisposto) il punto cruciale è un altro e cioè questo: qualora anche, per assurdo, quel senso assoluto si potesse esprimere senza auto-distruggersi, prevaricherebbe sulle specificità vitali e ogni essenziale rilevanza dovrebbe allora essere annessa al senso e non alla vita, alla segnaletica dei controlli e non alle vie percorribili, alla meta dell’istante finale e non al viaggio che dura una vita, generando non valori fruttuosamente vivibili, ma astrazioni che dissolvono qualsiasi valore autonomo.
Etiche, significati, moralità, per conferire senso alla vita, devono restarci appesi al di sopra insieme alla spada di Damocle di integralismi e nichilismi.
La classica e autentica dottrina liberale si è sempre limitata ad auspicare una chiarificazione democratica delle questioni connesse a interessi comuni e inderogabili e ha sempre considerato tutto quello che si pretende di più e di meglio parte di quelle solenni illusioni che possiamo senz’altro includere tra le cause delle peggiori catastrofi storiche e ambientali.
Il gioco fondamentale di qualsiasi potere (ripeto: qualsiasi potere, buono o cattivo non importa) può solo muoversi purtroppo in un’ambigua striscia di confine tra democrazia formale e dispotismo illuminato, tra ultra-razionalismo prometeico e deriva teologica.
E’ del resto ovvio che, più i problemi s’ingarbugliano, più la nostalgia di valori assoluti diventa diffusa e pressante.
Ogni individuo dovrebbe possedere il pieno diritto, in ambito strettamente individuale, di inventarsi valori supremi e di giocarci come meglio crede, ma i valori si riducono sempre, prima o poi, in merce o moneta sonante dell’interscambio sociale.
In tale veste o divisa, ottengono sempre e comunque di sviare l’attenzione dalle regole dei funzionamenti primari, particolarità di sicuro inestimabile per chi gode di un prestigio sufficiente per vantare qualche diritto di prelazione se non di esclusiva circa la manipolazione delle norme più condizionanti e decisive.
Questo non è marxismo: è autentica scienza o almeno filosofia della scienza.
In effetti il marxismo ha sposato una idea dogmatica e quasi religiosa della scienza, a cui le moderne società hanno saputo restituire, grazie soprattutto alla illuminata mediazione delle dottrine economiche, gli aspetti più dinamici e vitali. I Kolibiani si sono senza dubbio proposti l’obbiettivo di salvaguardare gli aspetti più propulsivi della civilizzazione umana attraverso una sintesi sapiente ed efficace tra le istanze oggettive identificate dagli specialisti dei settori trainanti e l’afflato ispiratore e unificante di un comune sentire di natura, almeno in senso lato, religiosa. Vorrebbe, per favore, relazionarci sugli ultimi progressi del vostro contributo?
Una divisione del mondo tra scienza istituzionale e religione altrettanto istituzionale, favoleggiante una concordia di fondo la cui semplice supposizione denuncia qui pro quo giganteschi, rientra tra le tecniche di gestione dell’autorità fotografata già molto prima dell’avvento della fotografia nella formula ‘divide et impera’.
La questione comunque implica coinvolgimenti antropologici molto più estesi e profondi delle strategie di direzione e comando.
Non si può esercitare la gestione democratica delle persuasioni e dei consensi ricorrendo a una sola categoria generale di suggestioni, né vincolare diversi talenti e affinità a un solo tipo di prassi operativa.
Il problema base riguarda la questione della realtà vera e della verità reale e come una collettività umana vi si rapporta.
Nelle attuali versioni dominanti le scienze si iscrivono in genere nell’ambito di un pragmatismo funzionalista con compiti specialistici e contingentati, mentre le religioni rispondono all’appello di una metafisica realista portatrice di vincoli olistici e generalità normative: ciò significa, a conti fatti bene, che le scienze finiscono per pervadere ogni angolo concreto e materiale delle singole esistenze spicciole, mentre le religioni impongono direttive di stato nella forma di pure mitologie condizionanti, salutari e infallibili a tre sole modeste condizioni: che il Dio personalizzato esista veramente, che gli uomini ne possano interpretare le volontà e che gli strati dirigenziali ecclesiastici appartengano al novero di quelli che le interpretano correttamente.
Tradotto in altri termini: un teocrate o un suo simpatizzante può ritenersi sicuramente nel giusto solamente se è pazzo o catastroficamente ignorante.
Si potrebbe perfino sostenere che i moderni monoteismi occidentali (altre religioni, come quelle orientali, esulano dal discorso) hanno capovolto il rapporto tra scienza e religione fino a collocarlo all’opposto di quanto accadeva nei monoteismi originali: oggi, istituzionalmente parlando, la scienza è considerata (dalle ‘maggioranze incoraggiate’) tecnica pura e la religione verità pura, mentre in origine l’equivalente della scienza (ovvero la filosofia ovvero la ragione di ispirazione divina) cercava la verità ontologica e intanto la religione prescrittiva (ovvero le ispirazioni regolative della pratica sociale ovvero le convenzioni antropologiche interiorizzate che smussano la conflittualità di un insieme di individui impartendo direttive pragmaticamente promosse a sacramenti) impostava gli schemi di vita materiale.
Non si vuole con ciò significare che il ‘divide et impera’ antico sia migliore di quello attualmente in voga: si intende bensì sottolineare come l’efficacia delle varie sintesi e ripartizioni si rimette sempre e comunque al superiore arbitrio di una causalità effettiva, reale o inventata che sia, correttamente individuata o travisata da schemi più o meno pregiudiziali e allucinatori.
Nessun potere si è mai permesso in passato di negare il diritto di ultima parola a un riscontro ontologico superiore e indipendente, solo l’odierna tecnocrazia confessionale ritiene di poterselo permettere dopo essersi di fatto sostituita a quel Dio che proclama di venerare e obbedire.
Allontanandosi dalla concretezza delle necessità naturali, non sembra proprio che le culture umane più comuni e diffuse stiano manifestando travolgenti progressi verso una chiarificazione deliberata e consapevole: più che altro sperimentano a caso combinazioni non sempre nuove e non sempre conseguenti ed efficaci dei miti antropologici di fondo e nel frattempo la dialettica democratica si dimentica di necessità logiche elementari e confronti con il reale di tipo correttamente speculativo.
In sostanza, mentre si favoleggia di un pluralismo teoretico che accetta e legittima correnti di pensiero non scientifico e perfino anti-scientifico, si millanta una potenza e infallibilità delle scienze molto al di là di quanto la complessità di fatti ed eventi concreti consenta di raggiungere effettivamente.
La vicenda covid-19 ne fornisce un esempio chiaro e inconfutabile, ancorché piuttosto modesto.
Non esistono dialettiche serie e conseguenti non sorrette da logiche di tipo scientifico, ma legittimare i modi di pensiero più assurdi sembra al potere un modo astuto di lasciare libero sfogo alle inventive più innocue garantendo nel contempo che la sovrana competenza degli esperti autorizzati a muoversi nei campi dello scibile che di volta in volta ricadono sotto la tutela dei grandi interessi non venga messa in discussione nemmeno nei casi dove appare disarmata di fronte alla dimensione dei problemi.
Proprio nei casi più critici e problematici, in effetti, l’aleatorietà delle soluzioni esige ubbidienza acritica e pregiudiziale, per cui patenti preventive d’infallibilità rappresentano un’avvertenza tutt’altro che illogica al fine di depotenziare in anticipo scetticismi e disaffezioni.
La ricerca di una ottimalità rispettosa della tradizione occidentale di sintesi tra esigenze strutturali e individuali dovrebbe volgersi in tutt’altra direzione: riconoscere l’inderogabilità di bisogni primari da gestire efficacemente in modo scientifico, standardizzato, normativo e intanto auspicare spazi di manovra i più ampi possibili per quanto riguarda quella irrealtà delle sensazioni e dei pensieri, quel mondo di fantasmi nel quale, in modi paradossali e irriducibili, si risolve ogni aspetto psicologico per cui vale la pena di vivere, per cui vivere non è la stessa cosa o addirittura peggio dell’essere nulla.
Questo non è socialismo e neppure scienza: è semplice realismo e perfino ovvietà.
Effettivamente, dopo il covid, la gente appare confusa e sembra che molti fossero addirittura arrivati a pensare che quella definita una volta ‘società affluente’ o addirittura (da altri) ‘opulenta’ mirasse a configurare un paradiso sibaritico di depressurizzate individualità, mentre ovviamente la logica architetturale non può che essere e rimanere quella di un formicaio di rispettose e disciplinate volontà indirizzate gioiosamente (Dio è gioia, le crisi sono opportunità e si vive per lavorare gioiosamente e non si lavora per vivere gioiosamente!!!!!) verso il bene comune dell’umanità vittoriosa e super-aziendale. I segnali positivi non mancano, come le mascherine viste in giro nel più generale ossequio plebiscitario: segno in apparenza di un istinto di difesa per animale prudenza, ma simbolo in realtà, almeno nelle potenzialità di fondo, di un desiderio prevaricante di omologazione e obbedienza (basta constatare la risalita in popolarità anche del più improbabile cerbero mussoliniano quando devolve i suoi ringhi da addestratore di cani alla causa di una santa profilassi e quarantena). Quali contributi intendono fornire i Kolibiani a quel vaticanesimo confuciano prossimo e venturo che, come non possono non riconoscere, rappresenta l’unica possibilità concreta di addivenire per via non progettuale e non democratica a qualche facsimile o surrogato o simulacro o imitazione olografa di un auspicabile, necessario e non più rinviabile PS-SS?
Per i Kolibiani le mascherine hanno ormai risalito tutte le scale gloriose degli empirei immaginali di cui la presente umanità deve accontentarsi per scarsità di materia prima spirituale e dai massimi vertici archetipali giganteggiano attraverso simboli sinistri di occupazione antropocentrica permanente come le croci sulle cime dei monti.
I Kolibiani trovano comunque divertente un particolare equivoco che riguarda queste virulente imposture minimali (tanto più ambigue rispetto alle maschere vere quanto meno espressive), mi riferisco all’aneddoto circolato sui media riguardo a una differenza d’interpretazione tra occidentali e orientali in base alla quale, nel pertinente immaginario collettivo (che non si sa mai bene che cosa sia, ponendosi molto al di là della comprensione dell’immaginario collettivo stesso e dei suoi più autorevoli amministratori), a ovest la mascherina difende mentre a est previene dall’offendere.
L’equivoco è proprio questo: che si tratti di una metafora etica ideale e non di una descrizione di dinamiche oggettive.
Affermando che la mascherina serve a proteggere gli altri, gli orientali (se dobbiamo dar fede alla notazione in oggetto) non manifestano riguardo e sollecitudine per il prossimo loro, esprimono semplicemente la realtà dei fatti.
La mascherina è infatti efficace nell’ostacolare il flusso del virus dal malato all’ambiente esterno incontaminato, ma lo è molto meno nel proteggere la persona sana dall’attacco dei virus in ambienti ristretti già infettati, questo almeno nelle situazioni effettive e statisticamente consolidate e consolidabili, non in quelle vertiginosamente astratte in cui la gente tratta le costose mascherine con l’implacabile rigore di miss o mister Asettico dell’anno.
Ogni mascherina, tenuta per parecchi minuti, si intride di goccioline di saliva, particelle di muco, frammenti epiteliali eccetera, quindi può diventare un ambiente ideale per la coltivazione di virus, una protesi, insomma, che fornisce il corpo allevatore di virus di una dependance o succursale (uno spin off) di allevamento dei virus medesimi: le mascherine proteggono parzialmente le persone sane, ma aggravano (di tanto o di poco, in percentuali che nessuno conosce esattamente e che di sicuro variano da soggetto a soggetto, da virus a virus, da ambiente ad ambiente e in relazione all’uso specifico e ripetuto che si fa dello strumento) i rischi e le condizioni dell’infetto (e magari anche quelle del sano sfortunato e statisticamente poco significativo a cui un folto transito di virus poteva passare sotto il naso e andarsene altrove se non fosse stato richiamato da un ricetto comodo e allettante dove vivere e moltiplicarsi per giorni e giorni di mancato o difettoso lavaggio, in prossimità di una divinità benevola (per il virus), cioè il naso medesimo).
Quanti infetti non avrebbero avuto sintomi o li avrebbero avuti molto meno gravi se non avessero mai indossato mascherine? Una cosa si può affermare senza tema di smentita: un infetto non sottoposto ad altre situazioni di contagio può ricavare soltanto danni dall’uso della mascherina (al massimo, può rimanervi indifferente, ma solo se adotta efficacissime procedure di igiene).
Esaminiamo ora il concetto di virulenza (quello relativo a un virus e non alle mascherine o all’umanità rapportata al pianeta): non esiste la virulenza di un virus, esiste la virulenza di una popolazione di virus, per cui la virulenza cresce in modo non lineare e anzi esponenziale in base alla numerosità di detta popolazione.
Il rapporto tra letalità e numerosità, variabile da virus a virus come da batterio a batterio, ma in qualche misura generale e inconfutabile, comporta varie, molto significative conseguenze: immaginiamo per esempio che un centinaio di persone anziane affette da normalissima influenza siano confinate in un salone comune invece di essere assistite a casuccia loro da manine amorevoli. Ci siete, vi siete focalizzati sulla situazione? Avviamo allora un giro di scommesse per chi si avvicinerà di più a indovinare in che percentuale s’incrementerà a causa della situazione ‘dormitorio comune’ il basso indice di letalità detenuto dalle popolazioni di modesti e banalissimi patogeni influenzali (scommesse vietate però a virologi, dato che deterrebbero un vantaggio spropositato rispetto alla gente comune e farebbero saltare il banco).
A me sembra (ma potrei sbagliarmi) che la maggior parte delle mosse avviate dai poteri responsabili all’inizio della pandemia (giudicate insufficienti da un’opposizione ancora più fanatizzata per l’occhio da volpe rivolto ai sondaggi) implicasse una valutazione d’incremento pari a zero, come pari a zero sembra sia stato valutato sul fronte opposto l’incremento di salubrità anti-epidemica indotto da generiche profilassi anti-virali a disposizione di una rete di medici locali (che, in tempi di promiscuità globale, avrebbe dovuto essere preventivamente allestita e invece è stata sollecitamente indebolita da lungimiranti amministratori insieme alle strutture pubbliche passatiste meno propulsive nei termini delle cospicue quote di PIL facenti capo alla multinazionalità sanitaria organizzata).
Perlomeno, se non gli effetti di un tetro salone comune tipo orfanotrofio alla David Copperfields, sembra che certe decisioni abbiano valutato a zero gli incrementi di letalità legati a effetti psicosomatici ovvero a sindromi di allarme e depressione indotti da eventuali sopravvalutazioni o esasperazioni dell’insidia epidemica, tipo di danni a cui bisogna aggiungere le conseguenze nefaste dovute al rifiuto o alla impossibilità, per la paura di contrarre il virus o per gli affollamenti da questo generati, di farsi ospedalizzare per malattie gravi di qualsiasi tipo.
Forse (mi si conceda voli di accademismo quasi spiritualista, che sono anche un modo per schermarsi dalle accuse di cinismo che gli sprovveduti rivolgono a chi affronta tematiche tragiche con rigore razionale) le malattie respiratorie risultano così pregiudizievoli in tarda età anche perché il senso di oppressione che determinano si somma al panico di quella nostalgia sconfinata che, da eventi e sensazioni ormai racchiusi in un orizzonte immobile e definitivo, sorge quando un volume fisso e inderogabile di esistenza si rivela la media assurda e imponderabile tra un infinito di potenzialità ineffabili e un nulla di realizzazioni effettive.
Tutta la vita umana, del resto, metafisicamente parlando, o è nulla o è infinita e l’uomo, soggettivamente parlando, può temere e onorare l’infinito, ma può amare veramente solo il proprio nulla, anche se, per conseguire un minimo di successo biologico e sociale refrattario a qualsiasi metafisica come a qualsiasi soggettività, rimane sempre consigliabile confondere il nulla con l’infinito e viceversa, confusioni che la religiosità ufficiale gestisce molto bene.
Coloro che rifiutano analisi prospettiche di convenienza generalizzata sulla base di un concetto enfatico quanto ipocrita del genere ‘qualsiasi vita prima di tutto’, dovrebbero almeno domandarsi se certe dosi di errata solerzia nel combattere il virus covid-19 non abbiano alla file penalizzato proprio le figure più fragili e più esposte al pericolo di soccombervi.
Comunque sia, tutti quei signori che hanno approfittato di presunti ‘negazionismi’ per auto-attribuirsi, come rientra naturalmente nel loro modus vivendi pubblicizzato e politicizzato, tessere esclusive di un club della nobiltà, non hanno motivo di affannarsi a dimostrare le loro ragioni per i posteri: entro qualche anno le varie statistiche demografiche mondiali ci diranno tutto quello che non si poteva sapere prima sui diversi gradi di pericolosità.
Alcuni fatti però già venivano dati per acquisiti prima, ovvero che ogni quarto di secolo circa ci si deve aspettare un virus con tassi di letalità di almeno dieci volte superiori a quelli medi influenzali, come è avvenuto con la spagnola, con l’asiatica (circa un milione di di morti nel 1957 in un mondo molto più compartimentato di adesso, quasi in lockdown fisiologico al confronto), con la Hong Kong e (appunto) con il covid-19: si tratta di capire se ogni quarto di secolo ci si può permettere una depressione economica gravissima.
Suggerisco ai decisori futuri di prendere almeno in considerazione due mosse basilari: predisporre tassativamente interventi esclusivi a domicilio dei malati e promuovere pompette di disinfettante o liquidi saponosi o entrambi da portarsi in giro obbligatoriamente al posto delle mascherine, raccomandando ovviamente inalazioni frequenti.
Per il resto, in base all’autorità che i Kolibiani mi conferiscono (la quale assomiglia molto poco, oserei dire in niente, alle forme correnti di autorità) consiglio di evitare quanto più è possibile stravolgimenti degli assetti sociali attraverso interventi discrezionali e saltuari fatti piovere dall’alto, cercando nel frattempo di apportare, attraverso metodologie progettuali rispettose di qualità individuali ragionevolmente intese, modifiche mirate e durature di comportamenti abituali relativi a pratiche igieniche e sanitarie preventive.
Infine, mi si permetta una lieve e ancora e sempre aulica diversione: celebrare lockdown e mascherine e tutti i vincoli che hanno impedito un adeguato godimento di meravigliose giornate primaverili, caratterizzate dalla limpidezza surreale di un’atmosfera energetica e mobilissima ripulita da aerosol e particolati (l’inquinamento scompare in fretta, i gas serra permangono a lungo), beh… non sembra un po’ una stonatura rispetto a fondamentali inclinazioni estetiche che dovrebbero arricchire l’esperienza di ognuno?
Fare di necessità virtù può rappresentare una buona tecnica consolatoria (soprattutto quando la necessità crea una diversa virtù come il lockdown quando migliora la qualità dell’aria), ma, se non si sta attenti, rischia di diventare degenerazione sentimentale e perversione emotiva (che celebra moralisticamente e pedantemente la necessità e non la virtù).
Quanti Kolibiani con le future primavere ridotte al lumicino sono stati tentati di ignorare il virus pur di rivivere sensazioni sempre più limitate e rare?
Non potremmo trovarci più d’accordo: la determinazione con la quale i pubblici poteri hanno perseverato in disposizioni come il lockdown testimoniano di una rigenerazione non più reversibile del potere sovrano: può descriverci con la massima precisione possibile la collocazione dei Kolibiani all’interno delle nascenti, doverose e non più procrastinabili gerarchie?
Quasi tutte le disposizioni assunte da quasi tutti i poteri del mondo in occasione della pandemia rivelano una degenerazione vertiginosa dei poteri e non una loro fantomatica rigenerazione.
Una grave crisi come quella del coronavirus doveva richiamare schemi complessi di analisi preliminare che avrebbero già dovuto essere predisposti almeno a grandi linee dalla miriade di commissioni e autorità internazionali deputate alla prevenzione di pandemie ed eventi critici similari: ogni forza politica (che non passasse il 90% del tempo a guardarsi allo specchio per studiare quali argomenti indossare in armonia con un idoneo taglio di tessuti e di sorrisi entrambi confacenti al particolare pubblico della particolare occasione, dedicando invece quella quasi totalità del tempo a riflessioni adeguatamente elaborate, ostiche e faticose) avrebbe già dovuto tenere in serbo certi tipi di schematizzazioni da sottoporre alla pubblica opinione per riceverne input adeguati.
Un esempio di quesito da porre a individui pensanti da non trattare come bambinoni ritardati avrebbe potuto essere del tipo: che percentuale di letalità saresti propenso ad affrontare se fosse l’unico modo di evitare un rischio molto più alto di finire in miseria?
Che impostazioni del genere appaiano quasi fantascienza la dice lunga sull’effettiva consistenza e tenuta di una democrazia meritevole del nome in un periodo drammatico di acute emergenze.
Ovviamente una percentuale di letalità, più o meno indicativa e approssimativa, non tiene conto di particolari categorie di persone sottoposte a un rischio molto più alto: per queste si dovrebbero predisporre interventi ad hoc, come è avvenuto, per esempio, con l’AIDS, che riguardando soprattutto tipologie sessuali non sembra aver generato quel panico che un’accentuazione secondo criteri anagrafici del rischio ha invece generato.
Che cosa è avvenuto in effetti? Molto presto i sondaggi hanno delineato una propensione ‘di pancia’ del popolo non populista (su questioni supreme di vita e di morte il popolo ha diritto a decidere ‘di pancia’ senza essere tacciato di populismo, mentre su altri, molto più meschini, interessi… no! Parentesi nella parentesi: gli interessi spiccioli e ordinari sono meschini solo quando riguardano il popolo o il ‘popolo’)… una propensione ‘di pancia’ a subire vessazioni piuttosto che affrontare pericoli di cui nessuno conosceva l’esatta consistenza.
Ciò ha esentato una buona parte dei politici del mondo dal sobbarcarsi decisioni problematicamente scabrose: come si può contravvenire a una volontà generale su questioni di vita e di morte, questioni troppo gravi e possenti per essere trattate con gli strumenti dell’informazione, della documentazione e della logica?
Ecco a che cosa serve la democrazia: soprattutto a vincere le guerre!
Signori della corte, esaminiamo spassionatamente tutta la faccenda al di là di colpe e responsabilità su cui risulta perlopiù abbastanza accademico (se non sospetto e perfino iniquo) chiacchierare in casi particolarmente spinosi e imprevedibili: non vi sembra che tutto ciò gridi a gran voce Progetto e ancora Progetto e soprattutto Progetto?
Concordiamo con lei che la perspicace lungimiranza dei legislatori non solo ha propiziato la spinta verso la concordia e la solidarietà di un popolo ligio e decoroso, ma ha contribuito ha iscriverne le mosse future in un ambiente restituito alla splendente benevolenza di Mamma e Madonna Natura. Il nuovo capitalismo verticalizzato che avanza emenderà i peccati di quello convulso e caotico di prima, in cui welfare e libertà individuali affondavano nella lotta di tutti contro tutti di una economia di mercato fondata sul presupposto dogmatico che le aziende dovessero generare profitto prima del bene comune: ovviamente alcune lo facevano, ma troppe venivano gestite in modo indegno da persone indegne. Non ritiene che la più recente congiuntura inviti ad abbandonare la tradizionale diffidenza dei Kolibiani verso l’esercizio della sapienza economica per affiancare l’opera di vincitori, che, per la prima volta nella storia, testimonieranno la loro virtù per il semplice fatto di essere tali ovvero vincitori?
Il capitalismo virtuoso ha bisogno di quello selvaggio almeno quanto il capitalismo selvaggio ha bisogno di quello virtuoso.
Perché il capitalismo delle quote alte rimanga virtuoso è assolutamente necessario che tutto il ventaglio declinante dell’indotto, almeno da un certo punto a scalare, rimanga selvaggio.
La virtù del capitalismo non si desume dal bilancio di pratiche sconce e virtuose, ma secondo soglie puramente quantitative: quando si varca il limite di fatturato e personale assunto sopra il quale si è troppo grandi per fallire, l’azienda prima è proclamata beata e poi, dato tempo al tempo e a meno di cazzate mostruose o catastrofi di fisica sociale, santa o santissima e questo a prescindere dalle origini storiche delle relative concentrazioni di capitale.
Le cazzate mostruose favoriscono le catastrofi sociali almeno quanto le catastrofi sociali favoriscono le cazzate mostruose.
Una pandemia, per esempio, può far stramazzare le quotazioni dell’industria turistica e alberghiera e mandare alle stelle quelle di industrie farmaceutiche e sanitarie, per cui uno stato privo di un’attività autonoma di riconversione economica riverserà denaro in gran parte a fondo perduto (se non altro perché i fallimenti non ripagano i debiti) nei settori perdenti reputati strategici, mentre i settori vincenti che acquisiscono forza contrattuale ben difficilmente possono essere chiamati a contributi solidali data la forza di condizionamento di cui la situazione li arricchisce, quindi sequestreranno i profitti in cerchie private sempre più ristrette.
Per sfruttare le opportunità (ogni crisi è un’opportunità!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!) in modo eticamente proficuo per la collettività, i vincitori dovrebbero però sviluppare la ricerca, ma la ricerca, in regimi concorrenziali, non sopporta sprechi e improvvisazioni, tanto è vero che vari settori produttivi di fascia alta dell’industria sanitaria, per risultare vincenti nella giungla della regina rossa, hanno già dovuto amplificare sproporzionatamente la sezione marketing rispetto alla sezione ricerca e lo stesso devono continuare a fare se non vogliono soccombere rispetto a concorrenti parimenti avvantaggiati e così il tempo speso dagli operatori sanitari a esaminare il trattamento giuridico e commerciale del banco farmaci, protesi e strumentazioni con i relativi listini dei prezzi e le condizioni di appalti, royalties e concessioni risulta enormemente alto rispetto a quello impiegato nell’operatività di laboratori e capezzali.
Certi meccanismi sono destinati a durare almeno fino a quando non esisteranno più concorrenti ma solo soci di collusione oligarchica, dopo di che, al limite e in teoria, le aziende leader potrebbero tirare a campare sbattendosi al minimo per quanto riguarda sia il marketing che le molto più limitate (in confronto) spese di ricerca.
Queste ultime del resto, finché non subentrano necessità di brevetto, possono continuare a svilupparsi servendosi di professori, borsisti, tecnici, contrattisti ecc. coltivati da uno stato che non brevetta mai, prosperando insomma grazie a figure che, preoccupati soprattutto di brevettare, gli operatori privati si limitano al massimo ad ‘arrotondare’ investendo forte solo dove serve e merita.
Naturalmente tutto questo accade perché i migliori senatori e deputati, quando non si tratta delle loro tasche, perseguono il bene pubblico e pensano ‘positivo’, mentre ai manager del capitalismo, nel rispetto della divisione dei poteri, spetta esclusivamente il compito di sviluppare i profitti con tutti i mezzi legali messi a disposizione dalla politica, compresi quelli legalizzabili dall’inventiva dei buoni avvocati e dalla collaborazione dei politici forse meno buoni, ma molto versati nello studio del mondo affaristico.
Tutto quanto sopra denuncia ovviamente componenti di esagerazione schematica, in quanto i politici che gestiscono nominalmente il potere, perfino quando sono messi astutamente e legalmente a libro paga da chierici e sacerdoti del profitto (ogni politico dispone della possibilità di gestire l’effetto di carriere passate e la promessa di carriere future dedicandovi maggiore o minore attenzione rispetto alla carriera avviata nel presente), gestiscono interessi in parte contrastanti, il che resterà valido finché anche la democrazia oligarchica, come l’economia oligarchica, non si sarà trasformata in puro dispotismo aristocratico, il che potrebbe non avvenire mai, più per semplici ragioni di convenienza e funzionalità legate a un inevitabile e insopprimibile bilancio dei poteri che per altro.
Comunque sia e comunque vada, queste antinomie e paradossi, tendenziali o già incombenti, immettono a sbocchi abbastanza ineluttabili: lo stato e quindi il ceto medio è schiacciato da un debito pubblico crescente, i settori svantaggiati vengono decimati e si coagulano in centri nevralgici più floridi di prima, il volume dei meno abbienti si gonfia mentre i settori vittoriosi, invece di rimedi sicuri, affidabili e duraturi diretti a rintuzzare i mali collettivi che li hanno avvantaggiati (rimedi che ovviamente penalizzerebbero le prospettive delle vendite a venire), pensano più che altro a stipulare accordi ai vertici con i propri pari sciorinando al pubblico quel caleidoscopio abbacinante di mezze verità evidenti e mezze bugie sibilline e indecifrabili che contribuirà sì ad allargare il bacino delle fake news che spopolano sul wwvù, ma solo dopo che ne saranno stati identificati i responsabili in coloro che attaccheranno le mezze bugie senza accorgersi che in realtà sono mezze verità, meritando quindi il biasimo sincero dei cacciatori professionali e prezzolati di fake news, ai quali non manca mai qualche albero virtuoso di proprie bontà e qualche arbusto contorto di altrui bugie in grado di nascondere la foresta di debolezze umane che quando permettono di concentrare ricchezze esagerate potrebbero anche essere definite scellerataggini senza incorrere nell’accusa di manicheismo.
E’ una fortuna quasi commovente che una economia di mercato abbia bisogno di compratori per ogni categoria di prodotti, altrimenti il mondo sarebbe ormai una distesa dilagante e irresistibile di merci prodotte per uno sfizio distensivo come il golf e sotto vi giacerebbero i cadaveri di tutti i compratori eccetto quelli che giocano a golf.
E’ vero che la globalizzazione ha consentito di inventarsi compratori ovunque per il mondo, tollerando così incrementi numerici delle fasce di disagio se più che compensati quanto a risultanze complessive dai flussi generati dalle vendite all’estero attraverso l’idraulica dei pesi e contrappesi che l’industria finanziaria, con le manopole giuste, carica e scarica alleggerendo o appesantendo, da un giorno all’altro, i governi e le popolazioni più diversi, ma, se anche una globalizzazione può durare in eterno nei sogni dei globalisti teorici, i meccanismi economici che ne reggono la congruenza sistemica si deteriorano ed estinguono in fretta e, se anche possono mutare pelle grazie alla fantasia inesauribile di maghi demiurghi sempre più selezionati e coesi, il pianeta (ovvero, secondo certe forzature, Dio o ‘Dio’) sembra avere molto da puntualizzare al riguardo e i maghi, infastiditi da quella intromissione indebita, potrebbero cominciare a litigare tra di loro.
20 maggio 2020 (20022020 + 3 mesi)
KFAQ3
Risponde Krizio Gabbalameno, firmatosi spesso con lo pseudonimo che il lettore-detective può ritrovare in qualche parte del testo (lo pseudonimo allude al prestigioso team di intelligenze e culture che muove i fili della Bibbia Kolib e quindi, per discrezione e modestia, si preferisce evitarlo)
In che modo, sfruttando quella serendipity provvidenziale insita nei meccanismi cosmici e terrestri secondo predisposizioni che significativamente arridono ai più degni rappresentanti della super-specie umana, saranno selezionati gli esemplari alfa in grado di farci approdare a una delle tante isole vergini che, nell’arcipelago Opportunità, torreggiano sul mare immenso e inesplorato delle crisi più belle?
L’umanità, si sa, è una specie megalomane e narcisa che ha dissipato buona parte delle abilità teoretiche e linguistiche di cui dispone nel negare prerogative essenziali della matrice cosmica da cui scaturisce e millantarsi invece davanti a se stessa, ovvero alla sua rappresentazione simbolica (Dio!), quale strumento principe di un non meglio identificato ‘disegno superiore’.
Ogni caratteristica di tale sublime exploit continua del resto a rimanere inespressa e inesprimibile e questo soprattutto per l’ottima ragione che ogni tratto intelligibile che se ne volesse concretamente formulare assumerebbe ipso facto i lineamenti distorti della caricatura involontaria oltre che dell’infamia e dell’insulto nei confronti ancora e sempre dell’onnipresente, ma non meglio identificato, signor Dio creatore di tutto l’universo.
D’altra parte, ben lungi dall’alato sussiego che le sbornie metafisiche aiutano a pompare nei pavoni più in vista, meccanismi innati di salvaguardia psicologica all’insegna della compensazione e dell’ammortamento inducono molti membri dei ceti economicamente inferiori a concepire la giustizia divina nei termini di un alleato forte che ristabilisce gli equilibri e presiede ai risarcimenti (episodi come la morte di una persona di successo per tumore precoce o incidente stradale forniscono conferme indiscutibili al riguardo) e così usi e abusi delle mitologie passe-partout contribuiscono a quelle immani commedie degli equivoci e teatri dei burattini che i più uguali degli uguali vorrebbero dirigere o almeno dirimere, ma nel corso dei quali, in genere, la fa da padrone qualche improbabile deus ex machina che spunta quando meno te lo aspetti in una coreografia floreale di molte e svariate eterogenesi dei fini.
Esistono comunque modalità abbastanza efficienti e ‘naturali’ per superare con sovrana e serafica eleganza impasse definitive che qualcuno potrebbe accreditare perfino di assoluta inconfutabilità scientifica (quasi tutti quelli, in effetti, per cui la scienza arriva a essere autentica cultura e non solo virtuosismo culturista per iper-specialisti venduti ai te(cn)ocrati): tali metodologie, inculcate a ogni apprendista stregone come base e sostegno dell’autentico sapere, si riconducono tutte, alla fine, al mito inossidabile e intramontabile della grande personalità carismatica, dell’individuo eccezionale il cui acume fora le nebbie che ottundono i mediocri, ‘individua’ la via nei dedali e nelle matasse delle vie e deposita accedendovi testimonianze di Verità e quindi Autorità, uno, insomma, come Bill Gates, che sembra sia stato in assoluto l’unico a predire il pericolo virus prima che si manifestasse concretamente, a parte le migliaia o i milioni di quelli che, non avendo un patrimonio sufficiente, tirano solo a indovinare.
Qualsiasi biografia di personaggi storici di spicco che scavi in profondità senza riverenze e pregiudizi fornisce lineamenti utili a delineare il senso e la sostanza di simili strategie, però in genere uno scorcio più banale, ma anche più pregnante, ci è offerto dal servilismo della cronaca spicciola nei confronti del ‘grande imprenditore’, quello che raggiunge immense ricchezze contribuendo a impostare le comunità secondo usi e costumi comodi e appaganti nel breve quanto problematici nel lungo, quello che, per sviluppare la clientela, contribuisce anche a sviluppare forme di soggiogamento e passività sempre più smaliziate e sottili, al punto di sollecitare impegno critico e attività creativa affinché ogni individuo, anche quelli meno dotati, possa costruirsi da solo e in piena autonomia la gabbia per contenere se stesso.
Costui (il ‘grande imprenditore’), o meglio, costoro (poiché di fatto mai si tratta di singole personalità, ma sempre di club riservati e di élite-ragnatela che si nutrono e accudiscono a vicenda sollevando di quando in quando sulle reverendissime teste, tenuto ben stretto per le gambe, un qualche simulacro più telegenico degli altri) selezionano i gabbiaroli più bravi trascinandoseli dietro come un enorme strascico di cortigianeria ramificata.
Chi si è costruito la gabbia dimostrando doti di acume e abilità indispensabili agli occhi degli altri che contano per quotarsi quale persona di giusto rispetto, spesso si ritrova privo di ogni effettiva libertà di giudizio politico e morale, ma ciò in genere non riguarda chi risponde a voce alta e tonante ‘signorsì!’ e si dispone risoluto a gesti di eroica sottomissione ventriloqua (in lui alberga un lussureggiante ma tacito abisso di perverse ribellioni), bensì coloro che salvano l’anima da vendere al migliore offerente non sofferente acquisendo quell’imparziale equilibrio di giudizio che fa tanto talk show e che, non disturbando mai nessuno, non disturba soprattutto chi perlopiù disturba e non è disturbato: tali pesci in barile, campionissimi di equanimità e imparzialità, contribuiscono enormemente, Dio gliene renda merito, a liberare da lacci e lacciuoli i Gog, Golem e Magog dell’economia oligarchica, da uno speco delle cui spire gigantesche prima o poi si riaffacciano conservando molto dignitosamente, nel loro piccolo, la fisionomia integra e solenne del perfetto analista.
Una parafrasi ancora più icastica dell’individualismo da scenografica mascherata olimpica ci è poi fornita da faccendieri, intrallazzatori o impiccioni i cui crediti in termini monetari sono direttamente proporzionali al marciume di un sistema politico autoreferenziale (insensibile alla differenza destra / sinistra) in cui l’incaricato amministrativo, quasi sempre con la scusa che bisogna agire in modo rapido e spregiudicato, devolve lucrose discrezionalità e favoritismi in rispettoso omaggio a buon rendere verso ex appartenenti alla casta, alimentando così il circuito chiuso della peggiore delle aristocrazie: quelle del denaro e non del sangue.
Quando il faccendiere, intrallazzatore o impiccione vanta un curriculum di intensa religiosità e devozione ai Valori, può contribuire o meno a una valida e pertinente definizione antropologica dei concetti di religiosità e devozione ai Valori, la più plausibile delle quali coinvolge appunto la nozione di megalomania narcisa da cui è cominciato il presente breve excursus, quella particolare cecità che non si sa mai se definire patologica o salutistica intorno alle proprie oscure ambiguità, quella cortina protettiva che consente di avventurarsi senza timidezze e ritrosie in mezzo alle scelleratezze del mondo conservando una sensazione di edificante candore per la luce che risale dal profondo grazie alla tutela di un un tipo molto tosto, un mentore e protettore molto più che grande: infinito!!!
Quali difficoltà e pericoli, spesso seminati ad arte da disfattisti per vocazione e mestiere, dovranno evitare e quali avvertenze rispettare le eccezionali doti di acume dei nostri condottieri perché si avveri l’auspicio che la pubblicità e il marketing stanno cinguettando con impositiva fermezza, ovvero che tutto andrà bene?
Intelligenza individuale e intelligenza di specie hanno poco o nulla in comune. Una intelligenza in senso biologico si risolve interamente in corrispettivi di fitness ovvero di coefficienti che misurano il grado di adattamento contestuale ovvero di successo evolutivo.
Basta la nozione comune di genio disadattato o di successo per competitività paranoica insensibile alle probabilità sfavorevoli di rischio per mettere in tensione in un complesso di antinomie e di attriti i vari termini del problema.
Come, in ambito ecologico, selezione sessuale, selezione di gruppo, fitness individuali, geni egoisti e geni drive, svariati meccanismi sistemici a livello genomico e fisiologico eccetera configurano una serie praticamente illimitata di cooperazioni e contraddizioni distribuite su scale e livelli altrettanto sconfinati, le società umane si presentano come miscugli armonici o conflittuali di attitudini in cui vantaggi e svantaggi individuali e collettivi si sovrappongono negli incastri e nelle collusioni di equilibri costantemente precari e instabili.
La fede ottimista di un’automatica composizione degli interessi lasciati il più possibile liberi di furoreggiare, teorizzata dal liberalismo classico in termini molto più problematici e prudenti di quanto il confessionalismo tecnocratico più recente abbia poi sempre più interpretato e presunto a propria immagine, somiglianza e vantaggio, se anche si è dimostrata in particolari periodi storici una metafora parzialmente mimetica di particolari evoluzioni socio-economiche, connette ogni sua eventuale credibilità esclusivamente alle fasi floride e ascendenti della parabola di una specifica civiltà e si rivela, prima o poi, almeno nelle fasi tardive, un’autentica e piuttosto squallida contraffazione ideologica.
Ciò, al giorno d’oggi, non concerne soltanto questioni di equa distribuzione dei redditi e dei patrimoni, di serena convivenza tra classi sociali, ma anche, ovviamente, criticità climatiche, ecologiche e ambientali che sempre più interagiscono e si intrecciano con le più classiche delle tematiche politiche ed economiche.
Mentre la contaminazione reciproca e inarrestabile tra aspetti sociologici e naturali accentua le implicazioni sistemiche e impersonali dei vari problemi cruciali, le velleità di un certo neo-illuminismo salvifico cominciano a rivelarsi impotenti e perfino vanagloriose e ridicole rispetto all’entità dei compiti, al punto che il rozzo, sbrigativo e tautologicamente infallibile responso istintivo di quel totalizzatore da scommesse clandestine che è il cervello-massa dell’opinione pubblica rivela qualcosa come un sospiro di sollievo quando un barlume di perfidia che corrompe la sincerità degli intenti governativi corregge anche un dilettantismo da idealista e sognatore, preludendo ai tagli dei nodi gordiani attraverso le prime caute o incerte prove di arbitrio dittatoriale.
Ecco come e dove si riconnettono i circuiti dell’integralismo schizoide sognato dalle società umane e si richiude (o meglio: tenta di richiudersi) la forbice delle disparità che dilaniano la democrazia appena un centimetro sotto gli orpelli formali: nel doppio sogno dell’integralismo doppiamente sognato, dal basso come incarnazione nello stato della divinità giusta e pietosa, dall’alto come sottomissione del popolo giusto e pietoso alla volontà incarnata nella personalità superiore del delirante narciso.
Basterebbe una generale ed effettiva cultura scientifica diffusa per incamminarsi verso la soluzione stabile del Progetto, ma nel frattempo i sacerdoti della società dello spettacolo (la società degli uomini che non si rivolgono a orecchie in carne e ossa di singoli uomini, bensì a masse e platee e attraverso mezzi ormai quasi esclusivamente elettronici) hanno predicato la scienza dei miracoli evocata dagli stregoni dell’umanesimo possibilmente religioso e necessariamente simpatico e così ci stiamo incamminando tutti, fiduciosi e obbedienti, sulla strada di una dittatura destinata a rimanere una sospirata chimera, dato che, senza consensi maggioritari e sindromi di Stoccolma diffuse (notoriamente impossibili da amministrare), qualsiasi dispotismo sognato dai patiti della legge e dell’ordine, di destra o di sinistra, rimane molto fragile e confuso, pervaso da quegli anarchismi infettivi che partono dall’alto (i più virulenti e devastanti in assoluto), al punto da costringere despoti e oligarchi a servirsi sempre di più dell’ircocervo di una democrazia oligarchica per non creare sfracelli e non finire magari a testa in giù al centro di una piazza.
Come si potrà educare la gente a non impantanarsi nel fetido groviglio di fake news che servizi segreti nemici e fette disgustosamente degeneri di popolazione stanno spargendo a piene mani su tutto il wwvù?
C’è una spia abbastanza inequivocabile riguardo al grado di compromissione della razionalità sociale e di un’autentica ed effettiva cultura scientifica diffusa, cioè di quel complesso di percezioni e nozioni che in passato si definiva ‘filosofia naturale’ o anche ‘libero pensiero’ e che si trova esattamente all’opposto o almeno molto lontano dal conformismo tecnologico scaturito da quella alleanza tra umanesimo religioso e ipertrofia specialistica che si sta officiando sotto gli auspici di un neo-integralismo pan-economico di stampo ovviamente e ineluttabilmente oligarchico: questo indice quasi infallibile si manifesta anche presso persone in apparenza insospettabili attraverso una ossessione idiosincratica verso le cosiddette fake news e tutte le varie fandonie che circolano su internet, una irritazione fobica che denuncia indefettibilmente spostamenti e rimozioni di ascendenza psicanalitica o semplicemente psichiatrica e rivela anche perché divulgazioni di tipo freudiano non possano più godere i favori della moda.
Uno scienziato di solida dottrina ossessionato dalle fake news è come uno chef sopraffino ossessionato dalle frodi o sofisticazioni alimentari, qualcuno cioè del tutto insicuro sulle proprie capacità di gusto e di giudizio e sulle possibilità di addivenire a soddisfacenti controlli di qualità, una figura di maniaco che, quando la sindrome si aggrava, necessiterebbe a ogni pasto, per la propria tranquillità, di un assaggiatore, neanche fosse un imperatore romano o (paragone più adatto a cervelli fini) l’ultimo Kurt Goedel.
Effettivamente, sia scienziati che alimentaristi potrebbero accampare moltissime giustificazioni per i loro dubbi e le loro ambascie: le filiere che coinvolgono le loro attività sono, per forza di cose, talmente complesse e problematiche, nascondono lati così oscuri e insondabili, che, non appena si chiude la porta del laboratorio asettico e ci si allontana dalle leggi fondamentali per camminare nel mondo, già manifestare opinioni con coefficienti di affidabilità di poco superiori al 50% può essere ritenuto un lusso o un successo sfrenatamente utopistici.
Il fustigatore di fake news e l’inquisitore di fandonie manifestano qualcosa di simile all’omofobia del gay represso, emettono sentenze a condanna dei facili costumi dall’interno dell’esoscheletro che comprime in moralismi la propria natura di incontenibile ninfomane: se non disponessero di protesi artificiali di quel genere non potrebbero reagire prontamente a contestazioni e riluttanze di profani che, pur non avendo dedicato almeno dieci anni di studi assidui e concentrati a un settore specifico pari allo zero virgola per cento del potenziale scibile umano, osano comunque dubitare della disciplinata correttezza, mai toccata da considerazioni venali o di carriera, della corporazione professionale messa vigliaccamente sotto attacco.
Quando qualcuno afferma che un coronavirus che accelera sulla mortalità e affossa le economie è fuggito da qualcuno di quei laboratori che dovranno poi lavorare come matti per rimediare alla fuga (non per punizione, ma per competere sotto le richieste urgenti della comunità che in un modo o nell’altro, data la loro rinnovata importanza, non potrà esimersi dal pagare sempre più e sempre meglio i servizi almeno di quelli più importanti e too big to fail) come potrebbe la comunità solidale dei virologi, senza il dono della preveggenza etica che esecra le fake news quasi per un istinto infallibile, rintuzzare nel giro di due o tre ore la bieca insinuazione, visto e considerato che, per accertare il fatto, anni di studi e contro-studi ‘indipendenti’ verosimilmente approderebbero solo a un ventaglio di ipotesi da cui ognuno di noi teste pensanti, come è giusto e salutare che accada in democrazia, sceglierebbe secondo convenienza?
Il virus è uscito da un pipistrello, è acclarato, come ha potuto passare da un laboratorio prima di diffondersi in un mercato di animali o altro? Aveva bisogno di cure, doveva ritirare una diagnosi o farsi prescrivere dei farmaci? Vedete bene a che grado esilarante di assurdità può arrivare un seminatore di fake news del calibro di un terrapiattista o addirittura di un miscredente che usa a sproposito la scienza per contestare Dio o addirittura il potere economico costituito.
Di questo passo dove arriveremo? Ad affermare, per esempio, che l’unico fabbricatore di fake news di cui valga la pena preoccuparsi, in questa come in ogni altra epoca, è, per pure esigenze di sopravvivenza strutturale, il sapere ufficiale di poteri egemonici che hanno bisogno del polverone di panzane clownesche e pirotecniche per nascondere la fragilità transeunte delle proprie eterne verità? Magari con il corredo di un mito profondo che manda bagliori sinistri nel teatro agonico interiore delle deviazioni freudiane a cui soggiace il misero individuo biologico investito di responsabilità, autorità e privilegi: il mito della Grande Panzana, della Panzana Imperatrice, della Panzana che compensa una volta per tutte la rinuncia forzata a tante frivole leggerezze, a tante inconsulte e sconvenienti libertà.
Conclusioni del genere non porterebbero alla pura e semplice anarchia?
No, se evidenziassero a tutti la necessità del Progetto!
20 marzo 2020 (20022020 + 1 mese)
KFAQ2
Sezione occasionale e tematica su problematiche riassumibili nei seguenti quesiti (suggeriti dai servizi segreti russi): ‘Un potere democratico che mette agli arresti domiciliari i propri concittadini deve ascendere al cielo e illuminare dall’alto o girare di casa in casa con il borsone degli attrezzi e i manuali di istruzione? Quanto tempo occorre a un potere che gestisce emergenze diventate croniche (questi ‘miracolosi’ integratori e ricostituenti dei poteri forti in difficoltà) per trasformarsi da potere democratico (se lo è) in potere… divino? Tenuto conto di pietre miliari della psicologia sperimentale (Milgram, Asch, Stanford ecc.), come si regoleranno nelle canoniche emergenze eccezionali certe ‘acquoline’ delle forze dell’ordine? Come possiamo confrontare il tasso di mortalità di un virus (da non confondere con quello di letalità) e il tasso di mortalità di una depressione economica, tenuto conto delle correlazioni inconfutabili tra stato di salute e stato di precarietà sociale? Fino a che punto si possono legittimare e contemperare scelte strategiche con effetti molto differenziati secondo le categorie che si prendono in considerazione, cioè, nel caso specifico, se attinenti a fasce anagrafiche oppure reddituali? Come sarà mai possibile evitare, senza Progetto, che le criticità del globalismo economicista si risanino solo avvitandosi nell’imbuto a spirale di ingiustizie e sperequazioni crescenti? Sfuggiremo mai a questa altalena assurda tra gli stakanovismi sacrificali delle emergenze belliche e le coreografie holly-woodooystiche di un maniacale perfezionismo tecnocratico? Quanto può durare una generalizzata cecità intorno alla sproporzione enorme tra quello che si millanta di conoscere e controllare e quello che si conosce e si controlla effettivamente? Quando una qualsiasi autorità sarà costretta a gettare la maschera da Mandrake dei grandi ideali e dei buoni sentimenti e dichiararsi per quello che è nella migliore delle ipotesi: il semplice opposto dell’anarchia fondato sull’obbedienza?’
La virulenza del virus (inteso come flagello globale e non male di stagione) è ‘davvero lieve’, come mormora qualcuno anche in ambienti qualificati, o infligge danni polmonari permanenti, come subito si affrettano a rilanciare alcuni organi di stampa?
In un labirinto di incertezze, equivoci, mezze verità mezze vuote o mezze bugie mezze piene, dove perfino il labirinto delle inquietudini non si sa se sia una costruzione reale o fittizia (se fosse reale, sarebbe comunque iniquo farsi cogliere dal panico e allora percepirlo come reale potrebbe significare iniquità al punto di non doverlo considerare reale), il Comitato di Redazione Kolibiano farebbe volentieri a meno di altre gatte da pelare al proprio interno, ma questa grazia non ci viene purtroppo concessa anche se, tra di noi, cerchiamo di discutere con la massima calma.
A noi del Comitato era parsa cosa giusta e salutare incaricare del KFAQ2 i membri più anziani della Congregazione (distribuiti equamente tra i sessanta e i novanta con gruppo sanguigno A), questo ovviamente perché tra di essi si annoverano i soggetti più a rischio e quindi le personalità più strettamente coinvolte nella disgraziata congiuntura che tutti conosciamo.
Pessima idea! Appena si sono riuniti intorno alla lunga tavolata, l’atmosfera si è fatta subito incandescente e il prologo di dichiarazioni e intenti programmatici non ha lasciato dubbi su quello che sarebbe stato il tono troppo sulfureo ed estremista del risultato finale.
Dopo neanche un’ora è apparso chiarissimo che il Comitato avrebbe dovuto profondere un faticoso, estenuante lavoro di editing inteso a contrastare una visione abnorme e parziale del virus, tale da considerarlo quasi un rimedio a mesi di inutili sofferenze qualora si fosse provveduto ad autorizzare la pratica dell’eutanasia nei confronti di quelle persone colpite che già in precedenza erano costrette da malattie pregresse a una sopravvivenza quasi da vegetale.
Scandaloso! Ma purtroppo i vecchi kolibiani sono fatti così, pensano egoisticamente ai pericoli di umiliante invalidità che li assediano e ne approfittano per invocare il diritto / dovere all’eutanasia, esorcizzando la paura di morire attraverso una metafisica che reputa la scomparsa definitiva o la ripetizione perenne della singola vita molto più plausibili di un al di là che non può essere compreso e dunque nemmeno pensato o addirittura nominato.
Abbiamo dato il benservito al turbolento girone infernale e convocato forze ben più giovani e fresche, le quali non si sono spaventate per gli schiamazzi di protesta inscenati dai ringhiosi ed esagitati nonnetti (ci è mancato poco che volassero i pannoloni), dedicandovi al massimo qualche divertito e compassionevole sorriso.
Le splendenti giovinezze dei nuovi collaboratori non devono trarre in inganno: nemmeno se (eventualità tutt’altro che certa) il tasso di mortalità del virus (da non confondere con quello di letalità) si palesasse irrisorio, influendo poco o nulla (perfino in assenza di drastiche contromisure) sulle statistiche dei decessi annuali riparametrate per assorbire le spinte episodiche, essi non propenderebbero (di ciò il Comitato ha inteso espressamente sincerarsi) per la tesi di un involontario misfatto generazionale o sopruso gerontologico, preferendo se mai inclinare (dovendo, per puro scrupolo di documentazione, concedere a contorti enigmi e ombrosi retroscena una comparsa rapida e succinta) verso un imprevedibile escamotage climatico più o meno volontariamente e ambiguamente sollecitato.
Avvertenza preliminare
Il Comitato Kolibiano di Igiene e Vigilanza Morale chiede venia per le quantità industriali di distaccata ironia profuse nella presente sezione, così poco adatte alla gravità del momento, ma, dopo laborioso consulto, le ritiene necessarie ad arginare sia la dilagante, anche se sotterranea, tristezza, sia artificiose reazioni di ardimentosa baldanza, le quali di sicuro meritano rispetto e perfino venerazione per quanto implicano di sprone e conforto in direzione di una tenacia che si deve ormai perseguire a ogni costo in coerenza con le scelte effettuate, ma le quali, peraltro, non vorremmo mai possano costituire, per i vari tipi di potere in atto o in lista di attesa, un comodo banco di prova idoneo a sondare la praticabilità incondizionata di limitazioni dei diritti elementari in previsione di abbonamenti futuri a emergenze destinate forse a diventare la regola e non l’eccezione.
Nella presente sezione si fa esplicito riferimento a un ente categorico della nuova antropologia di avanguardia denominato Kulo, un prodotto della mente collettiva che, analogamente a miracoli, tarocchi, tabù, mana e altre iperboli spiritualiste, informa, a giudizio dei kolibiani, la sostanza profonda di tutti i più generici e diffusi istinti religiosi.
Lungi dal proporne interpretazioni denigratorie o sarcastiche, si intende qui fornire una stima ponderata e riguardosa di tale importante essenza demonica, sottolineando come Ella e solo Ella (latitando il Progetto) emetterà il giudizio storico decisivo pro o contro l’una o l’altra delle strategie belliche nazionali e internazionali che, pur ponendosi agli antipodi in quanto a inerenze e riflessi della più ampia portata, si basano tutte, indifferentemente, su informazioni e valutazioni affatto insufficienti e perfino aleatorie.
Quello che, infatti, necessiterebbe maggiormente nelle fasi cruciali di insorgenza, ovvero una sinossi dei tassi di letalità e mortalità del virus scaglionati per fascia di età e grado di morbilità preesistente (con relativo rischio di morte a breve e a prescindere), risulta irrimediabilmente impreciso e anche se fosse noto nei minimi dettagli risulterebbero irrimediabilmente imprecisi gli schemi decisionali da adottare, visto e considerato che di certo rimane solo alla fine: primo, che l’insidia pandemica (se tale si può considerare) si situa nella vastissima area grigia tra una ordinaria influenza e un contagio effettivamente devastante; secondo, che rimangono ignoti: efficacia di eventuali vaccini, importanza di una immunità naturale acquisita, possibili mutazioni, recidive locali (stagionali o meno), ritorni di fiamma da nazioni diverse, tante altre evenienze future tra cui virus di tipo diverso che potrebbero risvegliarsi domani mattina.
Morale della favola: o la crociata antivirus nasconde più nobili intenti e obbiettivi in direzione di riforme drastiche e pertinenti oppure ha buone probabilità di essere sanzionata come la cazzata del secolo e questo indipendentemente da meriti e colpe che vengono troppo spesso attribuiti senza alcun criterio degno del nome.
Per cantarcela chiara e fuori dall’ugola e dai denti, auspicando che tale canzone sia intonata a squarciagola e palleggiata da un balcone all’altro con squillanti e intrepide sonorità (insieme a goccioline di saliva che non hanno le ali, ma subiscono la forza di gravità): i maggiori pericoli della economia globale sono ingovernabili e quindi dovrebbero essere attivamente previsti e prevenuti in base alla semplice ed elementarissima ragione che, quando si presentano, se non ci si trova nelle grazie del dio Kulo...
P.S. Nelle grazie del dio Kulo non si trovano di sicuro i partiti politici al governo ora e nei prossimi mesi: può darsi che beneficino in un primo tempo di una temperie solidaristica da epopea missionaria (fertile vivaio di eroi insieme al controcanto da teorema duale di delatori, collaborazionisti, integralisti e fanatici), ma fate mente locale a quando si tratterà di gestire tutta l’immensa burocrazia dei sostegni e degli indennizzi, con il malaffare che già probabilmente sta affilando gli artigli e la solita divisione del mondo tra i molti che riceveranno briciole o pannicelli caldi e i pochi che sapranno cogliere quelle opportunità che ogni crisi rappresenta (come potrebbe essere il caso, per esempio, di menestrelli, istrioni, aedi, cantastorie, confessori radiofonici, funzionari della comunicazione via filo e via etere, eccetera, i quali non sono certo sfavoriti per il grande impiego di sussidi mass-mediatici da parte dei galeotti casalinghi, sebbene potrebbe non esserlo (il caso), qualora un domani, a buriana finita, dovessero magari soffrire di associazioni negative e crisi di rigetto)…
P.S.2 Indipendentemente da come finiranno per rapportarsi i destini della società dello spettacolo e quelli del covid, i Kolibiani ritengono umanamente comprensibile che un telegiornale giudichi la ginnastica all’aperto una scandalosa violazione dei sacri disposti e inneggi invece alle celebrazioni eucaristiche sui balconi circonfusi da un’aureola di goccioline cadenti.
Perché la Bibbia Kolibiana non termina, come sarebbe stato naturale, con la sezione FAQ?
Perché i nuovi sviluppi obbligano la scienza kolibiana a elevarli a esempio paradigmatico dei propri nodi dottrinali.
In questo modo la Bibbia non rischia di tradursi da complesso dottrinale a ordinaria vetrina di commenti e interventi sull’attualità?
Si tratta purtroppo di un esito doveroso quando l’attualità si configura come avveramento di profezie nefaste introdotte in origine come possibilità di rischio (tutto considerato) dalla probabilità prospetticamente elevata e anzi elevatissima, ma comunque ritenuta molto inferiore al 50% almeno per una decina di anni (più o meno), secondo la stima prudenziale di quel classico e ormai quasi proverbiale ottimismo kolibiano.
A ogni buon conto, il coordinatore di sezione, consapevole della virulenza infettiva della verbosità da entertainer o anfitrione mediatico che dilaga aggressiva per il mondo virtuale, onde rassicurare i milioni di follower preoccupati per un possibile scadimento del tono generale della loro Summa o Decalogo Filosofico preferito, ci tiene a gratificarli di una solenne promessa: le prossime KFAQ, se mai dovessero esistere (speriamo di no!), si atterranno scrupolosamente a temi scientifici, teorici e speculativi della massima generalità e quindi del massimo esoterismo, contribuendo così, attraverso asciutti e impietosi segnali che rinviano al Progetto e solo al Progetto, a disintossicare le menti dalle sdrammatizzazioni ilari o ironiche e dalle drammatizzazioni enfatiche ed estetizzanti che, con terapie diverse e varietà di video virali che adesso forse cambieranno denominazione, riempiono di pathos e speranza i cuori delle masse di individui che onorano orgogliosi il Dio Umanità senza sapere di essere proprio loro il piatto forte dell’offerta sacrificale.
Perché i singoli individui rappresentano offerte sacrificali immolate al Dio Umanità?
Se la presente congiuntura non prelude al Progetto e gli scenari da ristabilire saranno gli stessi del passato, proprio i singoli individui comuni, chiamati a brandire cantando le armi contro le insidie della disumana natura, dovranno continuare a ballare dinamici ed entusiasti (a maggior gloria dei registi e coreografi che sapranno o potranno approfittare della propria e altrui creatività (ogni crisi è un’opportunità!!!!)) per impedire l’arrivo di una pesante depressione, con il rischio statisticamente significativo di ritrovarsi un po’ debilitati alla prossima ricomparsa del virus (magari mutato quel tanto che basta per aggirare vaccini e profilassi), vuoi per una esuberanza protratta ben oltre le possibilità della tempra media, vuoi per i disagi di una retrocessione troppo marcata degli indicatori economici (la correlazione tra stati patologici e disagi economici si fonda su dati inconfutabili, al punto che salvare vite provocando una crisi del PIL può voler dire salvarne adesso per sacrificarne di più in futuro), vuoi per entrambi i motivi, vuoi per molto altro ancora (il singolo cervello umano è assai limitato in confronto a tutto quello che i cervelli umani combinano nell’insieme, ma la natura no: non smette mai di aggiungerci del suo o, meglio, dell’altro suo).
Anche dal punto di vista ambientale, ripulire l’aria oggi per sporcarla ancor più domani realizzerebbe un ennesimo esercizio di inguaribile scelleratezza: nei sistemi complessi, frenate e accelerazioni sviluppano in genere molte più imprevedibilità, pericoli e incognite rispetto a escalation regolari e inoltre, per quello che se ne sa, un’aria meno inquinata, in assenza di ulteriori sanificazioni e supporti di ordine generale, potrebbe accentuare e non mitigare i danni dell’escursione termica, perlomeno nelle ore diurne.
Si può solo sperare che la bellezza e limpidezza di un mondo ripulito a inizio primavera faccia sperimentare alla gente un tipo di ricchezza degna di essere riconquistata definitivamente, sempre che le norme restrittive e gli arresti domiciliari comminati a tutti non impediscano quel tipo di percezioni e rivelazioni.
Possiamo ribadire i motivi contingenti capaci di esporre la sapienza kolibiana al contagio pandemico della loquacità comandata e commercializzata?
Forse e soprattutto, almeno apparentemente, il virus covid-19, ma in alternativa, sempre forse e soprattutto, volendo applicarsi in un sano complottismo e in una sana dietrologia, gli incendi in Australia e l’incremento abnorme (oltre ogni limite di guardia) delle temperature medie di questo inverno boreale, nel qual caso il virus rappresenterebbe o una sorta di invio provvidenziale del dio Kulo (la divinità scaramantica più diffusa e adorata del mondo, al punto che qualcuno, in modo invero assurdamente irrispettoso, ritiene ‘Kulo’ il vero nome di Dio) o una manovra ordita ad arte per non subire la sorte dell’Australia, dapprima a opera dei saggi governanti del popolo più numeroso della terra (zone interne della Cina e dell’Australia sono considerate da molti modelli di evoluzione geo-climatica tra le aree terrestri più a rischio di sconvolgimenti), poi via via da tutti gli altri, con in testa i volonterosi condottieri italiani, sempre i più disinvolti (governo od opposizione è lo stesso) tra le nazioni ‘poco autoritarie’ quando si tratta di suscitare nel loro mansueto gregge enfasi sacrificali sempre un po’ cattoliche e/o un po’ mussoliniane, gregge a sua volta sempre molto eroicamente malleabile quando si tratta di esibizionismi epocali di buona ispirazione melodrammatica, anche se, in ambiti di più corriva ordinarietà, a volte troppo pazzerello, casinista e birichino, almeno quando gli si lascia briglia sciolta.
Pensate quanto poco di chiacchierabilissimi eroismi, abnegazioni e sacrifici ci vorrebbe per adibire conoscenze e tecnologie di punta alla redazione collettiva di un Progetto di Stato Stazionario, ma anche quanto un tentativo serio di avvilire l’esibizionismo megalomane della Specie Padrona della Terra salvaguardando invece un ragionevole, equilibrato e prudente benessere di tutte le singole vite individuali potrebbe essere offensivo per le grandiose prosopopee che gli alfa-esemplari (sempre in cerca di tessere e credenziali da primo della classe per entrare nei circoli ristretti di qualche aristocrazia) includono in uno strano concetto teocratico di presunta libertà.
Sembra quindi destino che, per i Kolibiani, una pandemia rimanga una crisi e non diventi un’opportunità?
Poveri illusi Kolibiani! Quanto utopistica si è rivelata sempre, finora, la pretesa di scalzare i semidei dai loro scranni per salvare il pianeta!
Se un pericolo di calamità consiglia moderazione, subito un altro tipo di calamità si presenta in carne e ossa, fa dimenticare il pericolo che consigliava moderazione ed esorta tutti a quel fanatismo a oltranza che facilita al momento le soluzioni del contingente e del prioritario.
Evidentemente, secondo i fortunati oligarchi (ma la fortuna si rivela l’enunciato di un teorema se i massimi poteri si basano, non sulla stabilità, ma su uno stato di crisi permanente qual è quello che caratterizza il capitalismo globale), il pianeta si può realisticamente salvare solo costipandosi di sogni alternati di gloria materiale e spirituale, spurgandosi poi degli uni o degli altri secondo le indispensabili pause di un tipo o dell’altro, crisi che fanno comunque rifulgere le valenze divine di ogni essere umano, in alto o in basso nella scala sociale poco importa: da questo punto di vista, ovvero delle potenzialità di spesa sacrificale, si diventa tutti eguali in un ‘batti baleno’ (diversa visibilità dei contributi a parte) anche se probabilmente sarebbe facile per un 90% accettare l’esenzione da oneri e macerazioni del 10% in cambio di una maggiore partecipazione alle cose belle esclusive di quel 10.
Per un Kolibiano, si sa, ogni crisi non dovuta a catastrofi imprevedibili è pilotata (da volontà esplicite come, per altri versi, da un inconscio collettivo più o meno limitato ai piani oligarchici) e ogni crisi almeno in parte, ‘scappa di mano’: quando avverrà la fuga senza ritorno?
Forse è già cominciata (per qualcosa che non si sa ancora bene in che misura è una catastrofe imprevedibile e in che misura no), ma niente paura: gli investimenti più lungimiranti hanno già provveduto a tracciare la suprema via della salvezza e dunque, se anche dovesse proprio mettersi male, sono già pronti i prototipi dei supereroi che conquisteranno altri mondi facendosela nei pantaloni o nelle mutandine di pizzo perché non dispongono di posti alternativi dove scaricare al riparo da radiazioni, micro-asteroidi e sguardi indiscreti di compagni di avventura che per la noia esasperante e l’aria viziata si vorrebbe uccidere dopo solo un mese di viaggio proprio come accade quando si resta in casa per un virus che impazza al di fuori (a meno di non essere cyborg allenati alle atmosfere di psicopatia sistematica).
Del resto, chi ha letto qualcosa sulla storia delle grandi esplorazioni via oceano, quelle che magari avvenivano mentre i più savi e fortunati si godevano le frivolezze rococò in attesa che i loro sciagurati eroi li onorassero con stupefacenti doni esotici, si è già fatto una idea di quello che sprizza nel cervello dei conquistatori dalle pupe o crisalidi dello spirito più ambizioso e indomito quando, insieme alla vieta prosaicità di chi si è dovuto rassegnare alla navigazione per sfuggire alla miseria o a crisi occupazionali, si trovasse racchiuso in un cassone claustrofobico sballottato per mesi da venti e da onde o languente irrisorio nella bonaccia sotto l’indifferente occhieggiare degli astri.
Qualcuno ha detto però che senza parti o componenti di eroismo non ci può essere dignità e senza dignità non ci può essere valore e neppure sopravvivenza: che cosa rispondono i Kolibiani?
Che eroismo e valori assoluti non esistono e la prova decisiva, da un punto di vista intuitivo e psicologico, è offerta proprio dal senso interiore di dignità: se tutti lo vivessero in un solo identico modo, non esisterebbero sogni, aspirazioni, talenti e obbiettivi diversificati e quindi nessuna società complessa potrebbe funzionare. Dovremmo tornare al tempo delle aristocrazie guerriere in cui il coraggio e la valenza fisiche assommavano in sé la totalità dei discrimini qualificanti e tutto il resto rientrava in una prestazione di servizio più o meno obbligatoria e disprezzata.
Forse, se non la grandezza, almeno la tenacità del 99,99 % delle vite umane comparse finora si deve alla capacità di sopravvivere senza dignità in condizioni dove la dignità è impossibile e quindi non ha il minimo senso.
Alla fine si potrebbe anche scoprire che solo in società arcaiche dominate dalla classe dei guerrieri i privilegi del comando si sono basati su presupposti tangibili e verificabili perfino dalla prospettiva degli schiavi o dei servi (analogamente a come solo fino al mantenimento dello standard aureo l’economia ha potuto conservare qualche problematico legame con bisogni antropologici concreti prima di diventare un regno iniziatico di fantasmi e magie): qualsiasi modifica o aggiunta posteriore, (come, per esempio, l’invenzione del cristianesimo) si è collocata in un’area transattiva e contrattuale in cui ogni emancipazione delle masse più umili ha comportato necessariamente maggiori facilitazioni in garanzie e privilegi legati a un esercizio del potere che, come minimo, esentasse dallo schierarsi in prima linea in mezzo a due turbolente masnade.
Il fascino maggiore del pietismo cristiano presso le aristocrazie consiste nel sue essere idealmente polizza assicurativa sottoscritta in comune, ma riscossa individualmente soltanto da alcuni.
Come possono i Kolibiani sperare di sostituire la geometria del Progetto a infatuazioni e suggestioni mitologiche?
Molto della cultura popolare si regge sugli slogan e uno slogan sbagliato determina scetticismi generalizzati spesso più plausibili, ma anche meno inevitabili, di quello che sembra: se il riassunto gnomico del darwinismo non recitasse ‘la sopravvivenza del più forte’, bensì ‘la sopravvivenza del più fortunato’ (come sarebbe anche scientificamente più corretto), forse le adesioni irriflessive dell’opinione pubblica si moltiplicherebbero (evitiamo comunque la formula ‘la sopravvivenza del più adatto’: può far nascere un sospetto istintivo d’imbroglio, perfino in quegli scienziati che non hanno ancora capito che solo la tautologia (il ‘bootstrap’) può essere la chiave di un mondo qualsiasi.)
Come può, però, la propaganda kolibiana ritenersi esente da pecche di persuasività, se imposta un punto chiave della sua comunicazione scientifica sulla contrapposizione tra finito e infinito locali?
Purtroppo si tratta di una questione assolutamente cruciale, densa di equivoci allevati con cura da chi è interessato a una scissione definitiva tra cultura umanistica e scientifica (nel qual caso, la cultura umanistica o non esiste o è dominante in un senso più o meno velatamente religioso), quando non si accontenta di sintesi assolutamente vacue e superficiali.
L’infinito preclude qualsiasi comprensione reale del mondo e questo è tutto, da qui non si scappa, con buona pace di quei fisici e matematici che ritengono invece che l’edificio concettuale dell’analisi terminato sostanzialmente a fine ottocento consenta una rappresentazione sensata della realtà proprio mentre frappone una barriera netta e inviolabile tra manipolazione delle formule e concepibilità effettiva.
Azione senza comprensione implica prima o poi arbitrio teologico, un’alleanza tra tecnologia e clericalismo che può significare anche tante cose buone, ma di sicuro, insieme a queste, se non un’avversione, almeno una condiscendente refrattarietà verso la mentalità autenticamente liberale (un male minore, se l’insofferenza si arrestasse qui) e quindi verso l’accertamento spregiudicato delle verità (conseguenza inevitabile che configura il male maggiore).
Che cosa rispondono i Kolibiani a chi scrolla le spalle e sostiene che parlare di finito o infinito ci proietta in un giro aereo di capriole astratte senza approdi solidi e concreti?
A chi ritiene trascurabile, troppo limitativo o perfino spregevole limitarsi ai requisiti di funzionamento di un mondo finito, non rimane che affidare la gestione del mondo infinito a ciò che viene chiamato ‘Dio’, una entità infinita di cui nessuno può farsi una qualsiasi idea esprimibile con un numero finito di caratteri grafici, ma di cui si potrebbe comunque intuire la ‘grandezza’ attraverso un’analoga ‘grandezza’ della propria anima, se questa fosse infinita.
Un’alternativa più laica (e forse molto più pericolosa) ammette la possibilità di trascurare tutto ciò che è extra-umano, riducendo automaticamente la stazza dell’universo a quella dell’umanità, salvo infinitesimi di ordine superiore a cui apparterrebbero cosine come virus e altri minuscoli accidenti del genere.
Se possedere una infinità (letterale o equivalente) nei propri meandri viscerali di iper-antropoidi viene giudicato un segno superiore di civiltà, ai Kolibiani non rimane che chinare il capo e denunciare la propria indegnità e pochezza di esseri sub-umani.
Una mente infinita non soffrirà mai di depressione per inadeguatezza e incubi di controllo insufficiente, per cui è perfettamente inutile che i Kolibiani insistano a richiamare con queruli toni l’inconfutabilità dei teoremi che legano il contenuto informativo delle premesse a quello delle conclusioni in modo tale che anche principi esplicativi che, per essere enunciati, richiedessero un libro intero (una Bibbia!) darebbero vita a un teatrino infantile di bambolotti e altri giocattolini senza la compartecipazione globale di livelli ultrafini entro un orizzonte degli eventi sufficientemente esteso.
Se invece livelli ultrafini e orizzonti estesi cooperano in solido, anche leggi contenute nelle prime righe del foglio illustrativo di un tostapane possono dare l’avvio a vertiginose catene di eventi, benché solo facsimili della pazzia kolibiana possono giudicare un tale videogioco degno di sostituire una essenza divina del cosmo che compenetra la specie homo più homa e ne garantisce un successo glorioso oltre ostacoli e difficoltà sempre contingenti e momentanei.
Tutto questo come può riguardare emergenze come le pandemie?
Mette in gioco ovviamente cruciali meccanismi di sistema, dissipando ogni illusione sulle effettive possibilità di controllo.
Di tali ambasce, beninteso, non mette conto di preoccuparsi se voi umani (i Kolibiani si astengono) disponete di una mente infinita (quindi i poteri che consigliano una mente infinita si dimostrano a loro modo assai lungimiranti): nel caso, però, che l’uomo non disponga di vista perforante, quasi ubiquità per eccezionali dinamismi o altri super-poteri, sareste obbligati a contenere asceticamente le ipertrofie muscolari del vostro ingegno, se non volete che la somma delle singole invenzioni umane, unite alla somma delle invenzioni non umane, diano una somma totale che superi le capacità di calcolo molto parziali della piccola parte umana finita dentro la grande parte complessiva ugualmente finita.
Non perturbare la stabilità del complesso non fornisce garanzie assolute, visto e considerato che ogni stabilità è sempre transiente e relativa: semplicemente regolerebbe le durate degli equilibri sui tempi almeno millenari degli eventi biologici e geologici, ampliando il raggio dell’orizzonte temporale concesso ai destini umani in assenza di catastrofi di origine extra-planetaria.
Che cosa rispondono i Kolibiani ai molti che sostengono esattamente il contrario e cioè che solo una esasperazione tecnologica consentirà di disporre di mezzi straordinari di sopravvivenza capaci di far fronte a calamità altrettanto straordinarie?
I Kolibiani ragionano da individui a cui interessa il destino di altri individui, mentre importa relativamente del destino di una specie biologica dominante grazie alla cui oculata amministrazione planetaria altre specie scompaiono a decine o centinaia ogni giorno che passa.
Da un punto di vista elitario, invece, salvezza individuale e salvezza di specie si sovrappongono: a salvarsi da catastrofi eccezionale sarà infatti sempre una élite, anche se magari sorteggiata a caso.
Dal punto di vista assiologico, i Kolibiani ritengono il concetto di élite molto relativo, se non altro perché diventa sempre più difficile giudicare valori effettivi a prescindere dalle agevolazioni iniziali.
Soprattutto ai Kolibiani non piace una élite che per sopravvivere nelle forme attuali (in qualche forma certi tipi di élite rimarranno comunque inevitabili) deve affidarsi ad alternative entrambi invise ai Kolibiani: o mettere il pianeta a ferro e fuoco o instaurare un medioevo prossimo venturo di integralismi autoritari gonfiati di stakanovismi enfatici e borie eroicizzanti.
Per la nuova umanità kolibiana, l’intelligenza umana che, attraverso il pieno dispiegamento delle proprie abilità e conoscenze, non riesce a contemperare singole qualità individuali con un’armonica convivenza non distruttiva all’interno della biosfera, diventa una voce al passivo della contabilità planetaria: punto e a capo.
I Kolibiani avversano le più nobili delle virtù per un edonismo lassista?
I Kolibiani avversano le più nobili delle virtù perché in politica e in economia servono in un piatto d’argento, d’oro o di platino alle forze egemoni la comoda scappatoia del mal comune mezzo gaudio, corredata con i manuali d’istruzione e le scatole degli attrezzi di una varietà di autocontrolli masochistici, quelli che propiziano un 10% canonico affetto dal vizio dell’altruismo santifico, ma alla prova dei fatti risultano gravemente inefficaci se ci si propone di salvare il resto della natura planetaria dalla pandemia umana.
Impegno e disciplina da mezzo diventano facilmente fine e traguardo supremo, se le malversazioni di un sistema non sono mai causate dal sistema, ma dal fato governato da Dio (dal Kulo, secondo certe versioni eterodosse) e diventa quindi superfluo mettere mano a una modifica dei meccanismi di sistema, perché basta attendere stoicamente che il fato smetta di soffiare a 200 km/h.
In fattispecie come le attuali, i Kolibiani che cosa consigliano al posto di velleità da specie onnipotente per mandato divino?
In casi come pandemie o altri disastri, invece di fare sfoggio di culturismo spirituale, sarebbe molto meglio approfittare sperimentalmente degli eventi insoliti che si vengono a creare per orientarsi in merito a questioni di difficile definizione teorica, come per esempio gli effetti comportamentali di un taglio improvviso dei rifornimenti di droga in particolari ambienti sociali o le reazioni del clima al diradamento di inquinanti, aerosol e polveri sottili.
Sarebbe inoltre consigliabile non approfittare della dilatazione (in tutti i sensi) di un particolare pericolo, per nascondere o trascurare altre manifestazioni inquietanti, come per esempio una sibillina apparizione africana del flagello biblico delle locuste o carcerati morti che, in altre situazioni, obbligherebbero i vari talk show a riempirsi di vesti stracciate e peana sociologici.
Si può aggiungere, volendo calcare la mano, che un politico dotato di un comune senso del pudore, all’atto di chiedere sacrifici alla gente altrettanto comune, dovrebbe esprimere, almeno alla stregua di pio desidero, l’auspicio che la presente crisi non si risolva, come la totalità delle altre, nella solita ulteriore concentrazione di poteri e ricchezze, in seguito a cui lo ziqqurath della gerarchia sociale restringe ancora di più i piani agibili delle terrazze, accentua la ripidezza dei pendi di raccordo e lascia fluire in cerchio o su e giù solo una libertà scelta e selezionata, una libertà ideologicamente filtrata dall’eugenetica etica e morale, una libertà troppo pulitina, ineccepibile e perbene per potersi ancora chiamare ‘libertà’.
Va da sé che, usciti dall’emergenza e spirati i termini per tirare il fiato e consentire un riequilibrio almeno parziale di determinati squilibri, l’accentuazione delle varie polarità non potrà che riaccendere con forza maggiore di prima rischi e precarietà planetarie oppure rimettere le decisioni ai consigli di oligarchie sempre più ristrette oppure (molto probabile!) entrambi le cose.
I Kolibiani sono dietrologi e complottisti?
In medio stat virtus, clausola particolarmente valida e pertinente nel caso di atteggiamenti che si relazionano con fenomeni drammatici e fuori dal comune. Troppo comodo (e anche, talvolta, molto sospetto) giudicare complottismo o catastrofismo turbe mentali e caratteriali a prescindere! Il giudizio va emesso di volta in volta sulla base degli elementi circostanziali, il che appare lapalissiano se diamo il giusto peso alle seguenti risultanze semplicissime e inconfutabili: complotti e catastrofi prima di tutto esistono e, in secondo luogo, da punti di vista statistici e di teoria dei giochi (apparentemente astratti, ma capaci in ogni momento di assumere implicazioni assai e molto concrete) configurano coefficienti di utilità, posta attesa e rilievo complessivo paragonabili e sovente maggiori rispetto a quelli dei pericoli e dei rischi più ordinari: questi coefficienti infatti si ottengono da una stima di probabilità e una stima di importanza, moltiplicando quindi coppie di frequenza e di influenza i cui termini quantitativi si muovono in modo complementare e opposto, attenuando oppure stabilizzando oppure anche accelerando (in una dipendenza non lineare dal contesto) sia il decremento che l’incremento dei valori.
Il confronto tra complottismo e catastrofismo esagerati, da una parte, ed eccessi di trascuratezza e faciloneria va comunque sottoposto al verdetto delle circostanze dominanti, anche se spesso gli appelli del buon senso tassativo e comandato ai valori supremi del quieto vivere sotto la cappa protettiva degli ossequi più diffusi mischia le carte e confonde indebitamente questioni extra psicologiche di realtà effettiva con sempre auspicabili (ma a volte paralizzanti) componenti di riflessività, ponderatezza, calma, sangue freddo.
Il complottismo dei Kolibiani parte da una negatività pregiudiziale?
No, un kolibiano è perfettamente consapevole che una pianificazione segreta può essere ordita anche in buona fede e per fini supposti benefici: un complotto può proporsi di arginare una catastrofe che si ritiene non possa essere affrontata alla luce del sole con la dovuta efficacia e senza scatenare reazioni incontrollabili, panico e altri effetti nefasti.
Se, con un esempio che si riferisce a eventi traumatici recenti senza rivendicare al riguardo alcuna certezza, risultati di studi e ricerche commissionati da enti governativi reputassero altissimo il rischio per la Cina di subire durante le prossime stagioni estive incendi e inquinamenti paragonabili a quelli della scorsa estate australiana, un raffreddamento drastico dell’economia potrebbe apparire l’unica contromisura efficace e, in mancanza di meglio, la sopravvalutazione del pericolo di una particolare variante o analogo di virus influenzale potrebbe essere vista come un espediente accettabile per agire in tempi rapidi in assenza di piani revisionali alternativi.
Si tratta di fantascienza, è chiaro, una architettura retorica per delineare meglio lo spunto argomentativo, non certo per alimentare la fabbrica delle fake news: se ci fosse bisogno di qualche smentita al riguardo, basterebbe considerare lo zelo con cui gli organi sanitari italiani, spronati dai paladini della pubblica amministrazione, hanno dichiarato una guerra eroica e senza quartiere a uno dei virus più potenzialmente micidiali mai apparsi sulla faccia della terra (guadagnandosi i convinti e sinceri plausi dei partner europei, il cui spontaneo entusiasmo ha addirittura raggiunto e superato i riconoscimenti ottenuti in occasione della missione militare di salvataggio denominata ‘Mare Nostrum’).
La vicenda covid è stata gestita male dall’amministrazione pubblica?
Non si tratta di giudicare scelte e delibere dalla consistenza sempre in qualche misura relativa, aleatoria e opinabile di fronte alla complessità indecifrabile dei fatti, quanto di evidenziare i modi in cui quella complessità condanna a una ambigua, insolubile precarietà qualsiasi scelta di sistema che non metta radicalmente in discussione le basi del sistema medesimo.
Se anche tutta la faccenda fosse stata gestita male dalle forze governative, vi si coinvolgerebbe una responsabilità generalizzata, soprattutto perché si è assistito a un livello molto alto e di sicuro acritico ed esagerato di plausi e sostegni politicamente non caratterizzati e, anche per quello, le forze ‘di opposizione’, anziché uscire dal coro, ne hanno amplificato le note chiedendo misure ancora più drastiche sulla falsariga di quelle adottate: di ciò ci si dovrà ricordare quando si arriverà al sommario e si potrà stilare la resa dei conti delle conseguenze, perché allora, politici o non politici, sarà facile sottrarsi alle responsabilità da parte di chi non è direttamente implicato nelle decisioni.
Non si tratta di male o di bene, si tratta di paradigmi dominanti.
La faccenda covid (nomen omen dalle assonanze simili a colib) dimostra il ricorso ineluttabile a paradigmi risolutivi che all’opinione pubblica dominante allargano il cuore e risuonano di note addirittura epiche, mentre un kolibiano degno del nome li reputa assolutamente terrificanti: sono i paradigmi della resistenza eroica, della solidarietà, del sacrificio comune assunto quasi entusiasticamente e regolato dalle grancasse propagandistiche a cui prestano la loro collaborazione rassicuranti e inebrianti maschere e mascherate dello star system e del marketing etico-umanitario più vivace e sontuoso.
I kolibiani si schierano dunque dalla parte del male?
No, i Kolibiani denunciano semplicemente un gigantesco equivoco: quella chiamata alle armi delle migliori forze della nazione può essere una mossa giusta e perfino inevitabile, ma può anche costituire una gigantesca foglia di fico schierata davanti al marciume di una gerontologica impotenza.
La differenza non la decidono le sublimi qualità di stoicismo umano: dipende dalle circostanze.
Se ci trovassimo ad affrontare le conseguenze della caduta di un asteroide o di un brillamento solare devastante, ogni appello all’eroismo e allo spirito di sacrificio sarebbe giustificato, ma davanti all’apparizione di un genere di pericolo e di minaccia che si può prevedere diventerà sempre più assillante e insistente fino a diventare la norma e non l’eccezione (basta pensare alla dilagante e irrefrenabile invasione di specie aliene anche velenose), un certo dispiego di risorse materiali e morali potrebbe semplicemente rivelare una incomprensione della situazione e una mancata accettazione di rischi a cui chiunque ormai si trova abbonato suo malgrado, il che immetterebbe prima o poi nel cul de sac di una affannosa sovreccitazione più dannosa del danno, come più dannoso del danno risulta a consuntivo il panico che dilaga quando s’incendia un locale affollato e quando calpestamenti e incastri dei corpi disordinatamente in fuga provocano più vittime delle fiamme e del fumo: l’aspetto più paradossale in simili situazioni si evidenzia quando gli immancabili inviti alla calma che nelle fattispecie si sprecano a iosa, vengono smentiti in modo perfino grottesco dai provvedimenti estremi che tutti sono obbligati ad adottare ovviamente con calma e senza alcuna reazione di panico.
In che senso il rimedio può, in questo caso, recare più danno del danno?
In molti modi diversi rispetto ai quali, sia chiaro, è stupido e inutile parlare di responsabilità e di colpevoli: quando la strategia decisionale migliore rischia di essere il lancio dei dadi, chi deve prendere comunque decisioni importanti merita tutta la comprensione e il rispetto qualunque cosa decida, purché sia risoluto e coerente nell’agire.
Una quarantena generalizzata ha senso se si riesce a debellare un virus, altrimenti indebolisce o ritarda il rafforzamento di una popolazione per immunità naturale: la scelta dipende dai risultati, ma i risultati rappresentano un enorme punto di domanda al momento della decisione.
In un sistema che sempre più mostra crepe irrimediabili, qualunque cosa succeda, non servirà molto alla lunga incitarsi l’un l’altro attraverso civilissimi inviti alla moderazione, invocare le capacità reattive più nobili e nobilitanti davanti all’assembrarsi dei pericoli: servirebbe molto di più tirare un sospiro di rassegnazione, accettare i rischi e mettersi tutti a studiare un sistema migliore per scansarli in futuro. Forse e sempre forse.
Un virus altamente nefasto nel globalismo impazzito dell’economicismo a oltranza può insorgere in qualsiasi momento con tassi di infettività e mortalità molto più alti di quelli del covid. Soluzioni lungimiranti per arginare e ridurre rischi capitali come quelli delle pandemie e delle degenerazioni climatiche si ottengono in un solo modo: limitando e disciplinando lo scorrazzare umano sul pianeta attraverso progetti di auto-costrizione dell’umanità non altrettanto restrittivi per vite individuali che anzi potrebbero essere svincolate da una miriade di condizionamenti umilianti, primo fra tutti l’obbligo dell’abnegazione e dell’eroismo, qualcosa che, quando diventa un obbligo, non genera più materia per un poema epico, data l’insignificanza del singolo uomo in un enorme cumulo di circostanze: significa solo un surplus di umilianti catene.
I Kolibiani ravvedono spesso nell’atteggiamento scientifico funzionale all’ortodossia economicista infiltrazioni di quella che potremmo definire la teologia del potere ovvero un dogmatismo metafisico che, per ragioni di puro interesse, millanta e pubblicizza una sorta di onnipotenza demiurgica sempre superiore a qualsiasi possibilità di disturbo insita in congiunture naturali non umane: simili storture mentali si possono individuare anche nella vicenda covid?
Certamente e si possono evidenziare con semplicità. Evidentemente, se le potenzialità infettive e mortifere del virus covid fossero state simili a quelle di un normale virus influenzale, vaccino o non vaccino, non si sarebbe proceduto a disposizioni tanto drastiche.
Dato che la virulenza del covid (il tasso di letalità, non di mortalità) sembra situarsi tra 10 a 20 volte quella di un flu, tra 1 e 20 deve collocarsi una soglia sotto la quale la profilassi rientra nell’assoluta normalità delle procedure sanitarie canoniche.
Si può quantificare questa soglia, tenuto anche conto di rimedi sistematici in grado di spostare il carico terapeutico dalle strutture pubbliche alle dimore private? E inoltre: se le infezioni da virus, una volta rientrate, dovessero riaccendersi in punti sparsi, si ricomincerebbe da capo?
Nessun virologo sa rispondere esattamente a simili domande. Compito e interesse dei virologi e di tutti i settori sanitari affini è sviluppare una profilassi, non stabilire con sufficiente precisione i limiti e le convenienze delle diverse applicabilità: ciò è perfettamente normale e replica situazioni comuni a molti altri campi e settori scientifici, ma è anche un seme di un possibile conflitto di interesse tra esigenze professionali (legate anche a un minimo di prestigio corporativo in certa misura non solo comprensibile, ma addirittura indispensabile) e interesse pubblico.
Il principio di precauzione a cui deve applicarsi un virologo interpellato da pubblici poteri tacita senz’altro qualsiasi prudenza di ordine più generale che può determinarsi soltanto in relazione a una gradualità di eventi che rimane altamente problematica e confusa, vale a dire: io virologo non potrò mai dire che il tasso di infettività è troppo basso per rischiare una depressione economica, tasso di virulenza e depressione economica appartengono a scenari fenomenologici incommensurabili tra di loro: dovrò sempre limitarmi ad applicare le mie competenze in termini di confinamento e repressione delle pandemie a prescindere dal grado di pericolosità di quelle.
Una decisione intorno ai valori di soglia spetterebbe ai politici, ma i politici, quasi per definizione, non detengono alcuna competenza neppure vaga che possa indirizzarli in modo avveduto e corretto sulla strada di decisioni così delicate e strategicamente importanti.
Quindi? Quindi, nei momenti cruciali la tecnica decide tutto al posto della politica e quindi, se un certo sistema inclina verso stati di crisi permanente o di sconquassi sempre più ravvicinati, la politica non decide più niente: decidono solo tecniche e tecnologie che a volte vanno d’accordo tra di loro e a volte no e spesso devono decidere di malavoglia e senza possibilità di astenersi, ubbidendo alla regia di nuove figure intermedie di salvatori della patria che, in grazia di una lecita, comprensibile e perfino auspicabile ignoranza da manager di assalto, possono sempre rivolgere contro di loro le responsabilità delle scelte.
Che lezione al momento traggono i Kolibiani da tutta la vicenda covid?
Non conferme delle loro posizioni, che sono assolutamente superflue, dato il carattere di ovvietà sgradevole che attiene alle loro analisi (le ovvietà sgradevoli non si possono contestare senza implicitamente avvalorarle, e quindi si ignorano), piuttosto la dimostrazione di come i poteri di controllo gestiscono con estrema facilità e faciloneria la paradossale incongruenza umana, una forma di stravaganza autolesionista e anti-naturalista che potremmo senz’altro etichettare come stupidità metafisica.
Essa si manifesta in forma particolarmente evidente nei periodi di crisi proprio perché vi si evidenzia una capacità di sopportazione e perfino di sacrificio eroico che spesa una tantum in ben altre e più ordinarie occasioni potrebbe fungere da preludio ad assetti molto più armonici e sereni e invece finisce sempre per manifestarsi come via obbligata, del resto molto ben tracciata e corredata di cartelli di divieto e percorsi obbligati, per sottrarsi al caos più distruttivo e deprimente e consentire il superamento degli eventi funesti con molte più probabilità medie collettive, passata la tempesta, di appartenere a una parte più disagiata di quella a cui si apparteneva prima che il sistema mettesse capo alla solita inevitabile e garantita fase di complessivo sbandamento strutturale.
Il sistema non sopravvive grazie a solidità e compattezze reali, si rinnova continuamente attraverso crisi che, come recita il manuale del buon investitore (e come è perfino impossibile non convenire ‘a naso’), materializzano sempre nuove opportunità offerte dalla risoluzione dei nodi causali delle crisi, anche se, a ben guardare, le opportunità che in tal modo sempre più frequentemente si propongono, favoriscono sempre meno le maggioranze inferiori e sempre più le minoranze privilegiate.
Queste minoranze privilegiate, guarda caso, si riconoscono proprio perché durante una crisi emanano il tranquillizzante bagliore soffuso del meditato e consapevole conforto, sdrammatizzano, spronano a non disperare, appaiono punti di riferimento e oasi di ristoro.
Del resto, si sa, il comandante che più che comandare, consiglia e gestisce, suscita prima o poi dubbi e critiche da parte di chi (quasi tutti!) ne sa sempre qualcosa più di un altro e quindi vorrebbe comandare, il comandante che comanda e demanda genera invece paure e inibiti rancori, solo il comandante che chiede sacrifici e sforzi eccezionali a seguito di una calamità indubbia ed evidente beneficia di un carisma devozionale almeno fino alla fine di un’emergenza che per le gerarchie religiose (supremo oggetto di invidia per ogni dirigenza laica e profana) non termina mai, poiché nel loro caso la disgrazia coincide semplicemente con malattia, decadimento fisico e vecchiaia.
Come si può meglio dettagliare il concetto di ‘stupidità metafisica’?
Accostandolo alla retorica del sacrificio, questo ‘do ut des’ che in contesti primitivi manifesta una plausibilità psicologica e una sorta di razionalità per così dire omeostatica legata a meccanismi naturali d’interazione e di scambio ovvero a un senso istintivo di giustizia e di equilibrio impersonale (riserva mentale che possiamo banalizzare con la formula: non si ottiene alcunché senza corrispondere un corrispettivo adeguato e ciò vale anche nei rapporti con gli dei).
I progressi del sapere scientifico e la crescita tecnologica avrebbero dovuto reimpostare drasticamente il rapporto tra l’individuo, la comunità e i vari rapporti di sudditanza e rappresentanza, ma così è avvenuto solo molto superficialmente.
L’illusione religiosa e l’apporto psicotropo che rappresenta (e che, soprattutto come sostegno nell’ordinarietà degli impegni quotidiani, si stende molto oltre i confini del confessionalismo praticante) si paga, a livello di comunità sociale, con una sorta di ipnosi inibente e inebetente, un plagio integralista che impedisce alla razionalità concreta di espandersi oltre gli ambiti esistenziali ristretti delle comuni mansioni, per cui alla fine, oggi come migliaia di anni fa, mutatis mutandis, ogni volontà collettiva deve soggiacere alla suggestione di fantasmi morali messi in scena da poteri che, senza gli abili surrogati di una qualche sacralità, al primo intoppo serio perdono efficacia e convinzione coinvolgendo nel disfacimento strutturazioni sempre in qualche misura approssimative e contraddittorie.
Come giudicano in proposito i Kolibiani quella specie di colossale complotto rappresentato da quelle fake news che anche in occasione dell’affair corona virus hanno inondato il www?
Sottolineano i qui pro quo, le commedie degli equivoci, i capovolgimenti di senso e le brusche inversioni di marcia che imperversano quando la dissimulazione delle problematiche mette capo a rimedi sotto mentite spoglie: il popolo che non si fida mai in pieno dei suoi governanti inevitabilmente scambia una tavoletta con l’altra e (siccome deve dimostrare che ha scarpe grosse, ma cervello fino) denuncia drammatici tentativi di copertura e minimizzazione dei pericoli fasulli, avvalorando così le ricette di coloro che, coscientemente o meno, non dichiarano che cosa stanno effettivamente curando e intanto si presentano come i campioni dell’autocontrollo razionale a fronte di una frenesia inconsulta nei confronti dei pericoli fasulli.
Si tratta di un copione già visto più volte nel corso di una storia recente che ha lasciato l’economia del libero mercato perfetto riprodurre nominalmente se stessa attraverso crisi continue che rigenerano il mercato perfetto attraverso dosi aggiuntive di oligarchia esponenzialmente crescente.
Il sistema manifesta pecche e falle colossali, ma quando comincia a vacillare, il sistema dichiara lo stato di crisi endemica demonizzando cause e motivi accidentali, episodici e, almeno in parte, costruiti ad arte, e intanto richiama a gran voce una collettività diffidente, ma sprovveduta, a lottare contro il nemico comune, l’alieno che attenta indifferentemente al benessere di tutti.
Il sistema, insomma, invece di metamorfosarsi in Progetto lungo la linea evolutiva più semplice, diretta, logica e naturale, preferisce la solenne rappresentazione rituale della solidarietà di un popolo lottatore chiamato al bivio supremo (l’alternativa ‘senza se e senza ma’) tra abnegazione o tradimento: quando il popolo di santi, esploratori e lavoratori la scamperà (se la scamperà), il sistema ingurgiterà la pillola ricostituente ‘Oligain’, ‘Elitolo’ o ‘Corteaiosa’ (utili delle vendite divisi scientificamente tra le varie multinazionali) e, grazie a qualche quota di polarizzazione in più (devoluta come giusto e sacrosanto risarcimento per gli sforzi intrapresi), ricomincerà a camminare sulle proprie gambe come se niente fosse o fosse stato.
In fondo, solo un inetto pessimista chiama ‘crisi’ una crisi: un homo ss o se o soss che si rispetti la chiama ‘opportunità’.
Quindi, in un certo senso, a occhi kolibiani un complottista ordinario è un sognatore e un illuso?
Nella misura in cui vede una miriade di piccoli complotti diffusi, ne fraintende il senso e intanto perde di vista la struttura base dei complotti fondamentali… certamente sì.
Le formichine del pettegolezzo malevolo, del solletico pandemico diffuso dalle tenere zampette delle fake news proliferanti, rappresentano l’orchestra cacofonica diretta e sobillata dalle bacchette dei vari direttori incaricati che, dal palco dotato di apparecchiature insonorizzanti, comandano ai cani fedeli di guidare la mandria degli stridori al pascolo di un Grande Silenzio.
I grandi silenzi intorno agli scandali comprovati (per esempio quelli di Wikileaks) rappresentano i veri colossali complotti e i veri sconfinati allevamenti di fake news, ma per fortuna internet rigurgita di farneticazioni complottiste e nessuno sa distinguere una pagliuzza vicina da una trave lontana.
Gli anacoreti del regime sono sempre vigili e intransigenti nello stigmatizzare un profluvio spontaneo o coltivato di fandonie, ma tanti scrupoli igienici risultano inutili e perfino dannosi se dimenticano o addirittura si propongono l’avvento di un pericolo ben maggiore: che cioè, a prescindere se, dopo i relativi accertamenti, risultino vere o false, ormai anche le notizie più allarmanti e scandalose non sono in grado di generare alcuna reazione conseguente ed efficace.
Il kolibianesimo risulta allora il solo movimento culturale di autentica matrice riformista e perfino rivoluzionaria?
Sì e no: sì, assolutamente, oppure no, al contrario, ciascuno scelga in base a quello che ora seguirà.
Il kolibianesimo esprime l’enunciato di un teorema e ne tenta una elaborata dimostrazione. Il teorema recita semplicemente: senza Progetto il sistema muterà pelle per conservare i visceri e mettere capo a un ricambio di oligarchie accompagnate da un diverso assetto distributivo delle ineluttabilmente crescenti sperequazioni non solo economiche, ma legate a una più ampia fenomenologia di agevolazioni, vantaggi e qualifiche infuse ai vari stili di vita.
Ciò deriva immediatamente dall’appropriazione oligarchica di quella tecnica e tecnologia da cui dipende la soddisfazione dei bisogni primari e secondari di ciascuno, gestiti ormai, secondo modalità sostanzialmente esclusive, attraverso una mediazione economica che depotenzia e sostituisce qualsiasi istanza di ordine politico, ideologico e più generalmente identificativo.
Soltanto ideando e costruendo il Progetto di Stato Stazionario, secondo i Kolibiani, diventerebbe possibile democratizzare quei tipi fondamentali di gestione: altre opzioni non esistono.
In che modo tecnica e tecnologia e quindi, in senso lato, l’arbitrio economico condizionano la politica secondo i Kolibiani?
Semplicemente perché sono assolutamente discriminanti, decisive e indispensabili e rimangono quasi totalmente nella disponibilità delle più forti concentrazioni di capitali, come, appunto, la ricerca di vaccini o altri rimedi essenziali.
L’equivoco di base su cui si basano le moderne società industriali riduce progressivamente la sfera dell’azione politica ai termini della sopravvivenza essenziale, lasciando per tutto il resto campo libero a una autonomia produttiva e finanziaria sottoposta a sua volta a una regola ferrea: o espandersi o morire.
Al carrozzone della politica, staccato dalla locomotiva economica a cui ogni tanto si aggancia (anche per decisione dei macchinisti economici), tutta una pletora di attivismi religiosi, filantropici, caritatevoli, volontaristici (soprattutto quelli finanziati, in buona sostanza, dalla parte nobile della élite) finisce per succhiare il midollo etico lasciando agli organi tradizionali e ai rappresentanti eletti un grigio professionismo di routine impegnato in mediazioni tra parti delle quali, a grandi linee, si può dire che una, numericamente più esigua, finanzia e l’altra, molto più numerosa, protesta (se può) e poi contribuisce alla credenziale dei voti.
Ormai non si tratta più di scelte, ma di inesorabilità sistemiche con un solo tipo di sbocchi possibile: il restringimento progressivo del concetto di sopravvivenza entro i limiti della pura sussistenza vegetativa e la subordinazione a vincoli sempre più stretti della grazia regale di accesso al superfluo, vincoli che da compiti e prestazioni tendono ad allargarsi coinvolgendo elementi di ordine caratteriale e antropologico.
La riduzione della persona a puro e semplice compratore di beni di consumo deve allora, per forza di cose, implicare anche condizionamenti invasivi di ordine metafisico e simbolico e ciò in concomitanza strutturale con il ricostituirsi di un’autentica classe aristocratica autorizzata ad arrogarsi decisioni intorno ai diritti elementari delle persone, a impossessarsi di arbitrati che inizialmente nascono e sono autorizzati in base a stati di necessità e che poi rientrano alla chetichella tra le prerogative del tutto ordinarie.
3 febbraio 2020 (02 02 2020 ... + 1 giorno)
KOLIBIAN FREQUENTLY ASKED QUESTIONS (K-FAQ)
I Kolibiani esistono veramente?
I Kolibiani esistono, ‘veramente’ o ‘falsamente’ non sono avverbi che attengano con proprietà a un concetto informale di esistenza concepito da esseri umani che, vivendo in modo irriflessivo, riguardo alla verità non sono giocatori, ma piuttosto carte o pedine, e che, appena cominciano ‘veramente’ a pensare, si ritrovano nella terra di nessuno tra realtà e irrealtà.
La prova inconfutabile dell’esistenza dei Kolibiani è cartesianamente fornita da uno statuto di fondazione che la presenza qui e ora di un lettore materializza attraverso l’atto di lettura che sta compiendo proprio in questo preciso momento: se il tipo di processo culturale in cui si trova impegnato il soggetto in oggetto coinvolga categorie come quelle di verità o falsità non dipende dai Kolibiani, ma dal soggetto in oggetto.
Dai Kolibiani dipende, ma solo in parte, l’irreversibilità dell’evento ovvero la misura in cui l’incontro con il testo presente e (qui e ora) autoreferente costituisca un piccolo saggio di esistenza indelebile.
Naturalmente, come certe idee si depositino e maturino nelle interiora dei corpi sociali e come i diserbanti adottati per estirparle distruggano le idee o le interiora contano agli occhi di Dio o ‘Dio’ molto più dei risultati di cento tornate elettorali di fila.
Quanti sono i Kolibiani, almeno approssimativamente e come ordine di grandezza?
Una stima effettiva risulta al momento difficile perché richiede di scavare sotto un cumulo denso e stratificato di censure e auto-censure, di invenzioni stereotipe che pretendono la credibilità del dogma diffuso e obbligatorio, della tendenza dei più diversi assortimenti e combinazioni di aspirazioni individuali e interessi economici a fissarsi in costellazioni di pseudo valori giudicanti e discriminanti.
Comunque le stime più accreditate oscillano in un range che va da qualche miliardo a circa uno.
Com’è possibile che esistano tante incertezze sul numero di Kolibiani?
Può sembrare una forbice esorbitante, in realtà non significa molto, poiché nei regimi caratterizzati da una competitività tra specializzazioni che, sulla scala dal successo alla sopravvivenza stentata, assegna agli agenti un punteggio in base all’investimento di tempo-ossessione, peso politico e profondità delle idee politiche (generalizzanti, panoramiche, riassuntive) si pongono in un rapporto duale di complementarietà inversa: l’uno sale mentre l’altra scende e viceversa.
Se fatti e ragioni si separano e i meccanismi sistemici assorbono per intero la mente sociale, ogni principio di individuazione culturale diventa in buona parte arbitrario e anche l’essere kolibiano, che pure si qualifica per una volontà deliberata di uscire dai giochi, comincia a sfumarsi e oscillare.
Si può dare una descrizione veloce dei giochi a cui i Kolibiani vorrebbero sottrarsi?
Non si tratta più di giochi, ormai, ma di ‘non giochi’.
La cultura politica, recisa da ogni corrispondenza pratica e concreta, si sta estinguendo per la stessa ragione che concerne la cultura filosofica: mentre su qualsiasi materia e argomento è possibile forgiare qualche slogan incisivo e interessante, chi parla di politica e filosofia, per non dire banalità o sciocchezze, dovrebbe parlare per ore. Logorroica e incontinente com’è, la cultura politica, come quella filosofica, si palesa poco o punto telegenica e sconfina senza alcuna moderazione e ritegno dai bordi di qualsiasi cartellone pubblicitario.
Si obbietterà che ciò vale per tutti gli esotismi, artistico-letterari o matematici e fisici o delle scienze in genere, ma quelli in linea di massima sopportano bene esclusioni dalla vita pubblica se compensate da più pregiate valorizzazioni in qualche stanza dei bottoni: teorie politiche e filosofiche no, mai, agonizzano e basta, facilmente sostituite, se serve una parvenza di profondità, da surrogati moralistici e religiosi.
La politica cattiva scaccia la politica buona, come le monete di una volta e i titoli azionari di adesso, come il prodotto cronometrico a obsolescenza programmata a fronte del prodotto che dura e non fa guadagnare né il produttore né gli intermediari di commercio.
L’abilità politica non deriva più dalle convinzioni, ma dalla capacità di convincersi per forza conservando affinità con i non convinti che dovranno convincersi per forza.
Le sole idee politiche che pesano nei fatti si limitano a quelle delle oligarchie vincenti, si tratta alla fine di un controllo igienico di dinamismi automatici o imposti: tutto il resto è movimento gastrico del corpo sociale, di cui contano soltanto le manifestazioni esplosive.
I Kolibiani non hanno idee politiche: politico è il Progetto, questo convitato di pietra che per ora nessuno dei politici invita, ma che, in forme più o meno deformi, prima o poi comincerà a incombere, magari a seguito di una qualche esplosione dei corpi sociali e/o planetari.
Il kolibianesimo appartiene al fronte dell’antipolitica?
Antipolitica che cosa significa? Antisistema?
Se un sistema ammette un tipo unico ed esclusivo di politica sostanziale, con marginali modulazioni di superficie, il Sistema è antipolitico e l’unica politica autentica è antisistema.
Le modulazioni di superficie si correlano alla lotta tra galli dei grandi interessi o agli umori e malumori di un popolo populista più o meno scontento o rassegnato in relazione alle lusinghe che riceve e al grado di sincerità che vi annette (un popolo non populista è un ossimoro vivente, una contraddizione in termini come un magnate autenticamente democratico).
Secondo quella scienza senza unità di misura che è l’economia (una protesi intellettuale al servizio delle autarchie, priva di autonoma causalità deterministica), il valore della politica è monetario come quello di qualsiasi altra cosa e nel casinò dove opera la politica, allo sportello in entrata, i soldi vanno tradotti nelle fiche dei voti secondo il listino dei cambi determinato dalla proprietà.
Per i Kolibiani la democrazia è solo illusione?
Senza Progetto è una illusione necessaria, il sistema peggiore solo se si escludono tutti gli altri.
E’ una conclusione logica elementare che, se è l’economia a gestire la politica e non la politica a gestire l’economia, si vedranno in giro solo operazioni del tipo assalto alla diligenza o salita sul carro del vincitore e ogni opposizione dovrà sempre negare tassativamente se stessa se vorrà pretendere di contare qualcosa e non combinare pasticci.
Ai pasticci, una opposizione autentica riceve gratis l’abbonamento sottoscritto a suo nome, con grande impegno e inventiva, da poteri autentici che sanno come rendere disfunzionale per il ‘popolo’ tutto ciò che a loro non aggrada proprio per niente.
D’altra parte, un’aristocrazia vincente è quella che non si confronta mai con un popolo (virgolette o meno), ma con una collezione di individui, alla cui messa a punto tornano utili le fabbriche dei ‘valori circenses’. E’ un vero peccato che anche di quelli la produzione collassi al primo punto negativo di PIL: masse frammentate unite solo dal disagio possono allora tramutarsi in un mostro pluri-cefalo in crisi di identità per l’assenza dei domatori di quella opposizione autentica che, se ben difficilmente si integra in una democrazia autentica, risorge ex novo insieme a rischi di guerra civile.
D’altra parte, finché riescono effettivamente a comandare, i criteri economici sono meglio di tanti altri e sono tra i pochissimi che, senza Progetto, riescono a conservare una pallida sembianza di oggettività impersonale.
Il giudizio negativo dei kolibiani coinvolge indistintamente tutti i partiti?
E’ perfino possibile che, come sostengono certi archetipali padroni della politica, in Italia, ma forse in tutto il mondo, esista un solo tipo di partito politico serio: quello di quelli che dichiarano apertamente il padrone a cui appartengono.
Un esperimento molto interessante diventerebbe accessibile quando uno di questi padroni raggiungesse i centodieci anni di età: si potrebbe verificare se anche in quel caso il decesso del numero uno sia capace di determinare un cospicuo salasso di voti, magari fornendo la prova che anche un partito favorevolissimo alla voracità inconsulta di giovani emergenti e aitanti avventurieri può rimanere in piedi solo grazie al sindacalismo gerontologico degli elettori più anziani e meno... lucidi.
Solo i partiti seri possono costituire un solido baluardo contro il comunismo: impediscono infatti il trasferimento dei voti alle loro copie carbone (o, meglio, olografiche) a sinistra, ponendo un freno a stravolgimenti epocali nella distribuzione dei sussidi, a scandali che vedono, per esempio, i fondi per manifestazioni musicali con rapper sardina superare quelli per i saloni dei motori e della nautica.
Le critiche kolibiane non rischiano di creare divisioni e immobilismo?
I Kolibiani sono realisti metafisici e, in quanto tali, ritengono che sulle falsità non si possa costruire nulla di buono.
I Kolibiani si limitano a esprimere quelle che, secondo loro, sono verità indispensabili a comprendere funzionamenti basilari di importanti livelli della realtà e, siccome non sono dei geni dotati di ispirazione divina, esprimono soprattutto verità sgradevoli semplicemente perché quelle gradevoli, formulabili da loro come da moltissimi altri cervelli, si diffondono con tale ampiezza e tale rapidità da rendere pleonastica qualsiasi replica o sottolineatura.
La gente è abituata a opinare sulla gradevolezza o sgradevolezza dei fatti come se discutesse della loro verità o falsità rispetto a uno stato di cose. Alla luce di una convenzionalità dominante, la differenza può apparire relativa, ma quando si cerca di mettere insieme qualcosa come un Progetto, la differenza si sente, eccome si sente!.
Inoltre, applicando una regola non scritta del marketing e della pubblicità commerciale, per cui la qualità di un prodotto si trasmette meglio camuffando le debolezze nascoste più che lodando le doti evidenti, il nichilismo ideologico rappresentato dalla mania per record ed esasperate eccellenze viene predicato accusando di nichilismo coloro che, come i Kolibiani, ne attaccano l’idolo protettore rappresentato dalla iper-specializzazione paranoica.
La sfiducia dei Kolibiani verso le ‘istituzioni democratiche’ non risulta un tantino eccessiva?
Coordinazioni delle forze economiche (che oggi sostituiscono antiche polarizzazioni imperiali) disporranno sempre e comunque della forza economica e strategica di promuovere e finanziare un 10% di componenti a destra, un 10% al centro e un 10% a sinistra (cifre tonde puramente indicative) per imbrigliare qualsiasi dialettica parlamentare e pilotare, ogni volta che si prospettano deviazioni dalla rotta assegnata (che possono avvenire per radicalismi vari, ma anche per luculliani eccessi di telegenico egotismo) un immancabile governo tecnico o delle larghe intese.
Una volta, il pari e patta tra forze partitiche e sociali contrapposte invitava ad abbandonare lo scontro su astrattezze ideologiche per occuparsi di compromessi fattibili; oggi, invece, con i parlamenti imbrigliati, decidere tutto ciò che è veramente importante si rivela quasi una sinecura per l’effettività industriale e finanziaria, rimane solo l’incognita magistratura che, guarda caso, è sempre al centro delle attenzioni dei partiti del ‘fare’.
Ovviamente le tre decadi, per così dire, si ricopriranno degli orpelli più idonei ad accalappiare la credulità più consona all’immaginario collettivo del ‘genio’ nazionale (il quale dipende anche dal livello medio di istruzione), per cui le decadi di una certa nazione, nonostante la coincidenza di interessi globali, non sempre si trovano d’amore e d’accordo con quelle di altre decadi anche di alleati di coalizione sovranazionale e così, prima di chiarimenti ai vertici che cambiano tutto per non cambiare nulla, si possono manifestare quozienti di repulsione reciproca che di solito non si confrontano direttamente, ma vanno a tampinare (fino all’assassinio, se è il caso) gli alleati extra-coalizione dell’alleato di coalizione, il quale può essere gravemente destabilizzato dall’alleato di coalizione che destabilizza il partner extra-coalizione.
La coalizione, naturalmente, è solidale.
Stante la situazione attuale, i Kolibiani si estranieranno dunque dalla politica?
Una politica che meriti questo appellativo può rinascere soltanto in condizioni di stato stazionario e quindi, a prescindere da quello che è stato o non è stato in passato (allorché, comunque la si metta, fino alla fine del ventesimo secolo sono sempre esistite influenti forze anti-sistema capaci di rendere politica anche la politica pro-sistema), i politici o progettano il Progetto o sgomitano per un posto al sole arbitrando lo sgomitare per i posti al sole nell’illusione, coltivata e impartita ad arte, che di posti al sole ce ne siano abbastanza per tutti o almeno per la maggioranza.
Probabilmente o quasi di sicuro per una maggioranza non basteranno mai e, altrettanto probabilmente o quasi di sicuro, molto prima che arrivino a sfiorare il 50%, il pianeta tracollerà senza chiedere il permesso ai moltissimi campioni della fede e della fiducia che ogni giorno, mentre sgomitano per i posti al sole, ci iniettano potenti dosi salutari della loro pregiudiziale saggezza.
Perché i Kolibiani non confidano nelle risorse della creatività umana?
Perché l’essere umano, come qualsiasi altro esemplare di qualsiasi altra specie, è attrezzato principalmente per la sopravvivenza e le prerogative che aiutano la sopravvivenza non sono mai ‘ambientaliste ed ecologiche’: l’armonia e coerenza di una immensa complessità emerge dal complesso e solo dopo messe a punto con durate di milioni di anni, ogni infima parte apporta soltanto stravaganze e bizzarrie che quando diventano importanti conducono a confusioni e tracolli.
Le strutture gerarchiche capovolgono la situazione: un livello dirigenziale può essere totalmente idiota anche se i singoli membri sono mediamente intelligenti, più o meno il contrario di quanto avviene alla base (ricordate la saggezza della folla di Surowiecki: beh, c’era anche del vero), il che spiega il funzionamento paradossale delle democrazie e la verità della frase di Churchill sul male minore.
Gli spumeggianti creativi genereranno sempre cose bellissime e dannose se le esigenze strutturali di una complessione non collimano con i talenti e le ispirazioni-aspirazioni di singole unità.
Ambizioni smodate, volontà ferree, intenti ossessivi imposti da esponenziali impennate della competitività favoriscono il gigantismo parossistico oppure la protezione automatica del privilegio o entrambi, non sviluppi armoniosi di comunità equilibrate e serene.
Che cosa ci dicono i Padri Kolibiani in merito alle doti umane più utili e meritevoli?
Per gestire bene una società servirebbe quella commistione di idealità e concretezza che i Padri Kolibiani hanno espresso nella formula ‘cuore a destra e cervello a sinistra’ (sogno di autentica nobiltà accanto a elaborato realismo), ma le doti che favoriscono il successo individuale in qualsiasi settore di attività, in primis la politica, si collocano all’opposto: cuore a sinistra (sentimentalismo seduttivo e aggregante, sogno di uniformità idilliaca...) e cervello a destra (egoismo prontamente istintivo e intelligenza opportunistica).
Il male minore rispetto destra a tutta o sinistra a tutta? Può darsi.
Si deve però considerare che: a) una società artificiale riguarda in prevalenza fatti di ingegneria costruttiva; b) il successo individuale riguarda in prevalenza fatti di adattamento ambientale; c) la differenza tra l’utopico e l’indispensabile non dovrebbe dipendere dalle opinioni vittoriose e brillanti, ma da considerazioni scientifiche generaliste che di solito non si attagliano ai focalizzati puntigli delle opinioni vittoriose e brillanti.
Sulla strada del successo politico, nel mercato elettorale delle vacche e dei vitelli (del frastuono divistico e del silenzio degli innocenti), la gestione delle verità è irrimediabilmente molto meno importante di quella delle finzioni, ma niente nel mondo reale può contravvenire al mondo reale e, siccome nel mondo reale l’umanità come è intesa dall’umanità non è che infima e illusoria parte, si ripete continuamente lo spettacolo penoso e grottesco dei cortei cerimoniali che, invece di votarsi al Progetto, si inventano Idoli di Verità a cui portare in sacrificio, in un convulso andirivieni di intrecci, il fagotto colorito delle particolari e mutevoli finzioni.
Che cosa caratterizza il kolibianesimo come categoria politico-culturale?
Ovviamente la concezione del Progetto come unica metodologia alternativa a una o l’altra delle egemonie oligarchiche destinate tutte a cadere vittime esse stesse della trappola fondamentale adoperata per acquisire il consenso dei sudditi, vale a dire l’illusione micidiale della propria onnipotenza tecnologica.
Secondo i Kolibiani, il Progetto è la conclusione politica esclusiva a cui può pervenire l’uomo razionale e pensante.
Sul piano teorico (non delle possibilità o impossibilità pratiche, effettive) i nemici del progetto sono confidenti inerti nella divinità di un miscuglio di casualità e causalità che non sanno dirimere, in cui, cioè, casualità e causalità sfumano continuamente e velocemente una nell’altra.
Ormai tra un teocrate e un tecnocrate moderni non c’è più differenza: uno crede in un tutto organizzato e finalizzato, l’altro nell’intelligenza automatica che insorge (metaforicamente parlando) da una miriade di macchine di Turing (non fa differenza se universali o specifiche) che interagiscono scambiandosi input e output senza alcun tipo di coordinazione preventiva: dov’è la differenza, se non si privilegia una e una sola macchina di Turing universale?
Non esiste differenza sul piano degli effetti fenomenici, esiste invece una coincidenza perfetta verso la soluzione che si rende obbligata dopo l’abbandono di qualsiasi progetto di un Progetto: rimettere ogni principio di ordine nelle mani di un Olimpo Divino benedetto dal Creatore di Tutto.
Il punto debole di questa visione aulicamente aristocratica o biecamente dispotica, secondo i punti di vista e le traduzioni nei fatti, si annida proprio nel concetto auto-contraddittorio di Creatore del Tutto, difficoltà non solo logica, ma perfino etica e morale: se Costui ha creato tutto (fatto illogico e quindi incomprensibile), perché dovrebbe privilegiare l’umanità fino a permetterle ogni arbitrio egemonico?
I Kolibiani denigrano quindi la scienza come fonte di inganni capziosi?
No, i Kolibiani presuppongono di adottare ragionamenti scientifici inconfutabili contro artificiali e tendenziosi accordi al vertice tra imposizioni tecnocratiche e condizionamenti simbolici, ideologici e religiosi.
Attraverso maldestri sincretismi filosofici la cui autentica sostanza culturale, costruita quasi esclusivamente su esigenze di manipolazione comunicativa, tende a un controllo il più possibile morbido quanto inflessibile della dilagante complessità sociale e strutturale, le nuove teocrazie adottano accorgimenti sempre più laboriosamente raffinati, ma dimenticano il punto fondamentale.
Dimenticano Dio oppure, il che è praticamente lo stesso (almeno riguardo ai livelli di comprensione acquisibili), ‘Dio’.
E’ possibile esplicitare sinteticamente alcuni punti qualificanti dell’analisi kolibiana?
I Kolibiani sostengono semplicemente che senza stato stazionario e conseguente abbandono di ogni tipo di crescita, soprattutto economica e demografica, con alte, altissime probabilità (da commisurare alla gravità degli eventi) non esisteranno possibilità di scampo da eventi catastrofici nel breve volgere di qualche decennio o al massimo di uno virgola secoli.
Ovviamente una probabilità di x entro mezzo secolo (per esempio) implica una probabilità di y entro… mettiamo cinque anni, minore, ma (sempre probabilmente) elevatissima (tutto compreso) rispetto ad altre stime precauzionali adottate per esempio nel caso di rischi della viabilità, della salute pubblica o del lavoro dipendente.
Come arrivano i Kolibiani a certe conclusioni?
I Kolibiani sottolineano punti evidentissimi di fragilità dei sistemi vigenti, dopo di che la loro credibilità dipende soltanto dal grado di rassicurazione che i vari ottimismi settoriali saranno in grado di proporre al riguardo.
E’ importante sottolineare che l’onere della prova spetta ai non Kolibiani in quanto i Kolibiani denunciano ignoranze gravissime e possono quindi essere contestati solo attraverso quei ‘saperi’ che, se esistessero, dovrebbero essere ampiamente comprovati e divulgati sulla base dei più elementari doveri democratici, mostrando un minimo di rispetto verso il diritto pubblico all’informazione sulle questioni nevralgiche, dispiegando quindi quella sollecitudine che, lungi dall’essere un optional, dovrebbe costituire lo spartiacque tra una democrazia inevitabilmente difettosa, ma non fasulla, e una mera gestione opportunistica di pressioni puramente numeriche.
Non può valere come alibi per certe inadempienze che le maggioranze non riescano a farsi neppure una lontana idea di quello di cui stanno parlando i Kolibiani (lacuna del resto condivisa da ampi strati della classe dirigente, soprattutto di formazione umanistico-religiosa), dato che l’assenza di qualsiasi mentalità maggioritaria capace di affrontare l’effettività dei nodi problematici cruciali ricade comunque negli ambiti di responsabilità di una tecnologia mediatica sotto controllo oligarchico.
I non kolibiani devono anche dettagliare qualsiasi tipo di soluzione non basata sul Progetto: permanendo infatti livelli abissali di capitale ignoranza che non si riescono a dissipare, ogni proposta che non tenti di aggirarne l’oscurità ribaltando un tavolo dei giochi di azzardo con tutte le sue regole temerarie e scriteriate, probabilmente (per il quando ci si può sempre appellare al fattore K) si accorgerà molto presto di erigersi su fondamenta di fango o di sabbia.
Rivolgersi per rassicurazioni a esperienze del passato (peraltro molto recenti), invocando paradigmi innovativi come quelli che hanno consentito finora soluzioni precedentemente insospettate, non sembra proprio un atteggiamento sensato: processi accelerati che scaricano sempre più in fretta riserve materiali ed energetiche consentono certi conforti soltanto nell’illusione di una fonte di ricarica praticamente infinita.
Una politica degli espedienti, che ripara le falle alla giornata aprendone altre di altro tipo, batte a caso i tasti sul pannello dei rischi e alla lunga si rivela di sicuro un rimedio peggiore del male, se la cura non permette decelerazioni e favorisce anzi il contrario.
Qual è la premessa basilare che sostiene le argomentazioni kolibiane?
In un intreccio planetario di fenomeni naturali con prevalenti dinamiche non lineari e parziali sviluppi perfino esplosivi, si possono determinare in ogni luogo e momento transizioni di fase locali o globali assolutamente imprevedibili.
Non vi interviene soltanto la nota sensibilità alle condizioni iniziali dei sistemi caotici, ma anche e soprattutto la dipendenza dei decorsi processuali dalle velocità e accelerazioni delle influenze implicate: anche in condizioni sperimentali controllate e già a livello teorico, un sistema termodinamico di non equilibrio che parte da situazioni uguali si comporta generalmente in modo molto diverso se si variano i ritmi e i gradienti di un medesimo flusso causale.
L’umanità si trova assuefatta in tutto e per tutto al substrato della biosfera, il quale pervade a sua volta gli ambienti in prossimità della superficie terrestre e da questi è pervasa.
Valutando razionalmente entità, frequenza e intensità delle attuali modalità perturbative adibite dalla specie umana, qualsiasi paragone tra passato e presente risulta allora, dal punto di vista climatico e ambientale, assolutamente futile e pretestuoso e ancora di più ogni rassicurazione priva di conferme credibili.
Si può procedere a una lista più specifica delle fragilità denunciate dai Kolibiani?
Sì, ecco un elenco di domande essenziali e schematiche soddisfacendo senza vaghezze alle quali si sputtanerebbero i Kolibiani mentre, non rispondendo esaurientemente a nessuna, si dovrebbe obbligatoriamente onorare il Progetto come l’idea del secolo.
L’utilizzo dei combustibili fossili permette alle attività economiche di sfruttare una risorsa prodotta dalla natura attraverso un lavorio chimico durato milioni di anni: si tratta di un valore complessivo che, quando verrà a mancare, non creerà alcuna falla? Quale efficienza mostruosa compenserà il venir meno di tale apporto collaborativo al punto di svilire immani processi naturali al rango di marginali sinecure? Se invece una falla non trascurabile dovesse crearsi senza rimedio, in che modo sarà ripartito il costo?
Se una soluzione dovrà per forza di cose ricorrere a processi esotici come la trasformazione di materia in energia secondo la più famosa formula di Einstein, potrà avvenire senza alcun sacrificio dei più comuni livelli di ragionevole sicurezza?
Come si potrà evitare che l’abbandono dei combustibili fossili comprometta le produzioni di chimica organica facendo schizzare il prezzo di molti articoli e in particolare quello di fertilizzanti, diserbanti e antiparassitari? Dove andrà a finire una rivoluzione verde che, nonostante tante speranze riposte nei metodi alternativi, allo stato attuale declinerebbe rovinosamente senza quel tipo di prodotti?
L’abbandono dei combustibili fossili (il cui uso ha già superato limiti di tollerabilità e sarà comunque imposto dall’esaurimento dei giacimenti principali) come modificherà la composizione dell’atmosfera per quanto riguarda sia i gas serra (diminuzione o sostituzione?) che gli aerosol schermanti e le particelle (nuclei di condensazione) che hanno effetto sulla formazione e la riflettività delle nubi? Non ci saranno conseguenze impreviste da questo ennesimo e rapidissimo (in termini geologici) stravolgimento atmosferico? Non è possibile che l’escursione termica provocata da una ripulitura veloce dell’aria nel perdurare di gas serra molto lenti a dissolversi assesti un colpo di grazia al pianeta, per esempio sollecitando lo scioglimento dei ghiacci e del permafrost?
Non è possibile che il colpo di grazia al pianeta lo assestino i geni della mitigazione, per esempio promuovendo un riassorbimento di gas serra che richiede tanta energia quanto la quantità di entropia determinata da tali gas e quindi genererà tanta entropia quanto quella ritirata più una percentuale del cento per cento meno il rendimento? Dove andrà a finire tutta quell’entropia? E tutta quella energia chi ce la regala?
Quanto dureranno terre rare, elementi esotici e più ordinari metalli dopo che l’industria delle energie rinnovabili e alternative avranno cominciato a utilizzarli con una intensità che sembra debba essere di decine di volte superiore a quella relativa a produzioni energetiche più tradizionali e, nel caso di pile per automobili e accumulatori, promette livelli a dir poco... imbarazzanti? Provvederemo con il riciclo? Ma un riciclo non richiede anche qui grossomodo tanta energia quanto l’entropia che risolve? Il materiale perso comunque non si pone in proporzionalità inversa rispetto al rendimento?
Quanto costano in termini di biodiversità 70 milioni di esseri umani in più e la quota di fatturato aggiuntivo necessario a sostenere una crescita dei consumi senza la quale l’economia globale rischia costantemente il tracollo? La biosfera si adatterà sempre e comunque a una modifica continua di assetti ed equilibri fondamentali quantificabile in una percentuale di scambio di almeno due o tre punti percentuali che ogni anno impoverisce quasi ogni specie biologica per rimpinguarne una sola?
Si può pensare davvero che questo andazzo, presupponendo, a rigor di logica, una produzione vegetale crescente e un incremento collegato del ciclo del carbonio, possa avvenire in un regime atmosferico di anidride carbonica decrescente?
Si può credere veramente che ambientalismo e disuguaglianza si possano accoppiare quando parchi naturalistici, salvaguardie animaliste e insomma qualsiasi iniziativa ecologica avviata in zone disagiate dimostrano che gli stati di necessità portano inevitabilmente ad aggredire i territori e, perfino in assenza di esigenze pressanti, gruppi e individui sradicati da una autonoma condizione ancestrale distruggono habitat e specie anche solo per frustrazione o addirittura per il gusto dell’infrazione, del dispetto e della rivalsa? E con le ambizioni, non dei privilegiati, ma di frange compresse in prossimità dei limiti di sopravvivenza e sensibili alla propaganda di un attivismo produttivo sempre inevitabilmente in cerca di accelerazioni consumiste... come la mettiamo?
L’Occidente, che, insieme a ideali molto astratti di libertà e democrazia, si è fatto vessillifero nei decenni passati anche di questo tipo di spinte, ha diffuso nel mondo più civiltà o più barbarie? Non dovrebbe cercare di rimediare diventando ora vessillifero del Progetto di Stato Stazionario? Non è il caso di porre il quesito alle ispirate teste d’uovo santissime della Comunità Europea?
Se invece il benessere medio dovesse crescere in parallelo con le azioni ambientaliste, si può credere davvero che gli effetti delle seconde supereranno gli effetti del primo in misura tale da risanare una pressione degenerativa che ormai non basta più interrompere, ma occorre ribaltare in senso migliorativo, anche in questo caso, però, per la velocità e la contraddittorietà dei processi che si verrebbero ad accavallare, generando molte più incognite che certezze?
I Kolibiani appartengono a una specie di sofisti che trovano gusto a intorbidare le acque?
Qualsiasi rappresentazione semplice, confortevole e rassicurante di una realtà molto complicata e problematica risulta prima o poi menzognera e deformante.
Poiché, non certo per caso, la dimensione umana si colloca più o meno a metà strada tra l’immensamente piccolo e l’immensamente grande, i settori di realtà del mondo più minuscoli ed elementari possono diventare in qualsiasi momento molto più complicati di quanto siano in grado di tollerare le capacità rappresentative della mente umana, che quindi sta influendo in modo esagerato su concatenazioni di eventi verso cui manifesta una ignoranza molto più grande delle esagerazioni che provoca.
Dalla divina totalità dell’esistente nessuno può isolarsi: al livello più generale, gli uomini possono solo fidarsi dei benefici effimeri e ballerini di un minimo di fortuna individuale involontaria oppure difendersi adottando gli accorgimenti correttivi e semplificanti di un massimo d’intelligenza collettiva volontaria.
La Bibbia Kolibiana si rivolge in particolare a qualche categoria di persone?
La Bibbia Kolibiana può essere mediamente fruibile da persone sufficientemente colte e informate, capaci eventualmente di procurarsi per conto proprio quei supporti integrativi che, inseriti nel testo, lo renderebbero più perspicuo, ma anche più prolisso, noioso e ridondante.
Per il resto, i Kolibiani gradirebbero molto provocare e irritare dei degni avversari, ritenendo perfettamente inutile e melenso cantare e suonare filastrocche esortative e celebrative a componenti dello stesso clan o confraternita.
Un kolibiano quindi ama polemizzare amabilmente soprattutto con un certo tipo di ottimista: colui che salvaguarda le apparenze mostrando di vedere rosa quel tanto che basta a non suscitare sospetti da parte dei custodi del fideismo dominante (controllori fiscali delle dosi minime obbligatorie di confidente conformismo, egemoni in quasi tutte le sedi professionali), ma dentro di sé e in privato nutre seri dubbi sulle capacità del sistema vigente di uscire dal venefico pantano in cui si sta immergendo con un passo tanto più convinto e marziale quanto più ritiene, sbagliando, di indirizzarsi verso un terreno asciutto.
Ai pessimisti tout court non kolibiani, ovvero non illuminati dalla luce per quanto crepuscolare e lontana del Progetto, il kolibiano ritiene inutile peggiorare l’umore, mentre l’ottimista tout court rimane fuori portata perché vive dentro un fantascientifico guscio di energia immateriale che lascia passare soltanto le favole.
I Kolibiani creano contrapposizioni artificiali per il solo gusto della polemica?
Diciamo piuttosto che i Kolibiani portano alla luce quelle spaccature, incompatibilità o incomprensioni radicali che, non essendo mai esplicitate e affrontate apertamente pur continuando a esercitare un’azione di lavorio sotterraneo, metaforicamente possiamo considerare alla stregua di rimozioni freudiane a livello più sociale e politico che individuale e psicologico.
I Kolibiani ne registrano gli effetti negli ambiti più svariati della comune pratica relazionale e dialettica, ma sono ovviamente interessati all’analisi di risultanze che coinvolgono categorizzazioni politiche e culturali di portata molto generale.
I toni polemici kolibiani non sono eccessivi e controproducenti?
Estremizziamo con una metafora per farci capire meglio, ben consapevoli che a qualcuno potrà apparire irritante: supponiamo che uno stuolo di pazzi fuggiti da un manicomio (la metafora si svolge nell’ottocento e quindi sono ammissibili termini rozzi e politicamente scorretti) invada e conquisti un albergo di lusso rifornito di ogni ben di Dio per l’arrivo imminente di ospiti importanti. Supponiamo che la turba (in fondo sono dei pazzi) si sparga per le cucine e le sale da pranzo rovesciando i tavoli già pronti e i pentoloni delle vivande, spargendo e calpestando ogni cosa per poi raccogliere pezzi di cibo qui e là con le mani, divorandoli famelici mentre avvengono altri tipi di orge e bagordi. Supponiamo di essere un dissidente internato per ragioni politiche e non psichiatriche e di dover assistere allo scempio mentre, dopo un lungo periodo di privazioni, si sarebbe volentieri gustato nei dovuti modi il piccolo risarcimento di quella momentanea parentesi di benessere.
Che toni dovrebbe usare il dissidente politico per frenare la perversa cuccagna e quali pazzi dovrebbe cercare di convincere tenendo conto di differenze individuali che l’esplosione di brutalità incontrollata coinvolge in un solo ammasso indistinto?
Di sicuro non può atteggiarsi come un forbito e dignitoso educatore davanti a un’assemblea di bravi e obbedienti scolaretti.
I Kolibiani non si danno la zappa sui piedi assumendo un aristocratico distacco verso i movimenti e le manifestazioni di piazza?
Continuando con la metafora precedente, una manifestazione di piazza è analoga al comportamento del dissidente non pazzo che si proponga di correggere i disgraziati compagni di fuga cominciando a imperversare e gozzovigliare come loro per batterli sullo stesso terreno o riuscire almeno a farsi ascoltare: se anche dovesse averla vinta, alla fine si sarebbe così assuefatto a quei comportamenti da non poter più smettere, essendo entrato in dipendenza per i relativi flussi di adrenalina.
Il potere autentico è una droga che dà deliri di onnipotenza proprio perché sembra poter domare il male e l’anarchia attraverso l’esercizio di una legge superiore, ma una legge superiore non esiste: ogni legge non fa che spostare e modificare le scaturigini e gli effetti del male e dell’anarchia da un gruppo di persone a un altro o da un settore geografico a un altro.
La lotta politica per un kolibiano è allora ininfluente?
Ogni lotta è politica e senza lotta in genere non si può ottenere ciò che si vuole e già non si possiede, ma si tratta di intendersi bene su che cosa è politico in relazione alle modalità, priorità e urgenze dominanti.
La lotta per il minimo indispensabile e per la sopravvivenza in condizioni di ragionevole salute è qualcosa di ben diverso dalla lotta per il mantenimento dei privilegi e del superfluo.
Se l’obbiettivo non è più la sopravvivenza, ma la qualità della vita, è perfettamente inutile fare massa e cercare vasti consensi: ci si troverà prima o poi davanti al gigantesco equivoco di voler pianificare quello che non è pianificabile e di voler ridurre a un linguaggio comune ciò che rimane irriducibilmente confinato a un ambito individuale.
La politica diventa allora spettacolo e propaganda a cura di impresari che fingono di allestire spettacoli diversi, ma sono legati a vincoli sistemici che hanno già scritto i copioni a parte poche secondarie opzioni episodiche.
Occorre inoltre distinguere tra ciò che si può influenzare con i desideri discrezionali degli uomini e ciò che agisce in piena indifferenza rispetto a questi: l’autonomia non antropomorfa di certi destini esige che molta parte della politica abdichi a favore di una scienza pura, svincolata per quanto possibile da interessi parziali.
Da queste contraddizioni ci si salva soltanto uniformando in modo tecnologicamente sofisticato il lato puramente bio-fisico ed energetico dell’esistenza umana (che, lasciato a se stesso, promette sfracelli a dir poco epocali) e concedendo invece il massimo di spazio possibile all’auto-organizzazione, assolutamente libera e indeterminata (purché ovviamente non dannosa verso gli altri esseri umani e le altre forme di vita), dei singoli profili psichici e culturali.
Nel quadro indicato, s’impone la necessità di una prassi progettuale adeguatamente predisposta, applicata e mantenuta con tutte quelle auspicabili (ma non eccessive e auto-castranti) dosi di intelligente flessibilità che si riveleranno inevitabili.
Più una politica si allinea con l’idea del Progetto, più merita di conservare al titolo il senso di una saggia amministrazione lungimirante; non appena se ne allontana, scade progressivamente in un illusionismo scenico che, nella logica sovrana degli incassi da botteghino, solletica istinti e interessi subliminali deprimendo nel contempo la coscienza riflessiva.
Per un kolibiano, allo stato presente delle cose, una legge vale dunque come un’altra?
No, è ovvio che l’esistente può essere amministrato bene o male, nessuno però, né tra i governati , né tra i governanti, si rassegna a ridurre la politica a compiti meramente amministrativi.
Il problema nasce quando l’esistente si sfalda o introduce a sviluppi nefasti, come appunto sta avvenendo quasi di sicuro sul fronte climatico-ambientale e conseguentemente o indipendentemente anche su quello socio-economico e geo-politico, fronti che potrebbero rimanere distinti se, come dovrebbe essere scontato, i tempi del primo fronte fossero molto più dilazionati del secondo, il che, in presenza di possibili accelerazioni esponenziali, non solo non è più certo: è diventato improbabile.
Una legge può essere più o meno buona e cattiva, è ovvio che entro certi limiti le gradazioni contano e non si può fare di ogni erba un fascio, ma, quando il peso delle totalità eguaglia e supera quello delle località, ogni sofisticazione del gioco delle tre tavolette non funziona più, nemmeno portando le tavolette a mille o a un milione.
Allora le leggi non bastano: per fare politica ci vuole il Progetto, la politica, almeno per un kolibiano, si riduce a convincersi della necessità del Progetto e a escogitare metodi di pressione perché si entri almeno nelle fasi preliminari della sua stesura teorica.
Il Progetto prevede però uno stato stazionario e quindi un nuovo inizio con livellamento drastico delle posizioni sociali (parliamo pure di comunismo): non si tratta di un atteggiamento estremamente compromesso con la vecchia radicalità politica?
No o almeno non necessariamente, se la massima priorità non viene riposta nell’azzerare i privilegi, quanto nel valorizzarli entro una funzionalità complessiva che si proponga un’alta qualità generalizzata delle vite più comuni all’interno di un modello economico stabile e non più forsennatamente distruttivo.
Il kolibianesimo non rischia di franare definitivamente nell’utopia irrealizzabile?
Si tratta di una questione di nessun rilievo.
La domanda, per cogliere nel segno, dovrebbe essere così formulata: l’umanità si è spinta a un punto tale da rischiare a breve l’estinzione se non risulterà capace di realizzare effettivamente qualcuno di quelli che sono sempre stati ritenuti modelli utopici?
I Kolibiani rispondono affermativamente alla domanda e le argomentazioni con cui sostengono tale risposta affermativa non hanno proprio niente di utopico.
Le argomentazioni filosofiche dei Kolibiani non sono troppo astratte e inconcludenti?
Sono astratte per essere concludenti.
In gioco non vi sono questioni di dettaglio, di meriti o di priorità da regolarsi caso per caso: si tratta semplicemente di adottare forme di realismo che si confrontino effettivamente con la realtà e non è certo realismo intelligente quello che, con grande sfoggio di liberale spregiudicatezza, accetta la globalità dei coinvolgimenti e poi continua ad applicare integralmente i rosicchi dei propri lambicchi alla coltivazione del cestello del proprio orticello.
I Kolibiani non si prosternano davanti a misteri teologici che raccomandano una fede assoluta nei trionfi di una globalità vittoriosa, a maggior gloria di una umanità che consuma pro-capite decine di volte più di tutte le altre specie viventi e cresce di 70 milioni ogni anno.
I Kolibiani, per quanto è accessibile ai loro mezzi limitati, chiamano a raccolta tutte le migliori risorse intellettuali inventate dagli esseri umani nel corso di una storia millenaria e ne traggono deduzioni che ritengono inconfutabili circa lo scarsissimo controllo che l’umanità è in grado di esercitare anche e soprattutto riguardo a quello che l’umanità medesima si ritrova a essere e fare.
Facendo questo non possono non rischiare l’astrattezza filosofica: se ci stessero troppo lontano, si smarrirebbero di sicuro in quel sottobosco di minuzie in cui l’esploratore specialista, super esperto di qualche particolarità del sottobosco, riesce in tutta una vita a esplorare l’uno per cento dell’esplorabile e quell’uno per cento riguarda la particolarità esplorata, non il sottobosco intero.
In che modo i Kolibiani pervengono a dissipare le illusioni dell’umanità circa le proprie possibilità di giurisdizione ontologica, a sottolinearne l’impotenza verso quella che, con una formula un po’ paradossale, potremmo definire la trascendenza della realtà rispetto a qualsiasi frazione di se stessa?
Autoriferimento, diagonalizzazione, esistenza e indimostrabilità dei punti fissi metamatematici, casualità e causalità degli eventi riferita al substrato onnipervasivo e non agli eventi ideali isolati ‘sine qua non’ dalla prassi scientifica in quanto prassi scientifica.
I dettagli tecnici non sono semplicissimi, ma nemmeno così complicati da non potere essere trasmessi a un vasto pubblico da una divulgazione onesta e spregiudicata.
Le correnti che dominano la comunicazione sociale dell’impresa scientifica procedono invece a dilatazioni mitologiche di fenomeni come il cosiddetto entanglement quantistico o ad affermazioni (reiterate anche di recente da personalità di assoluto prestigio) che in fondo il teorema di Goedel riguarda una singola formula particolarissima di nessuna importanza nella pratica matematica concreta.
Se non si vede o non si vuol vedere che già la semplice aritmetica è sufficiente a creare ipso facto una rete più che numerabile di affermazioni indimostrabili (e vere perché indimostrabili) e che la casualità è implicita nel principio stesso di causalità (che non può evitare di prevedere una velocità massima nella trasmissione delle influenze), la porta aperta alle meraviglie tecnologiche spalanca anche quella delle allucinazioni teologiche.
Perché riveste tanta importanza per un kolibiano ciò che un ‘epistemologo serio’ potrebbe giudicare forzature pseudo-scientifiche o astruserie filosofiche?
Perché, a parere di un kolibiano, dimostra che la sociologia della ricerca scientifica (che va molto al di là di un controllo di potere e coinvolge censure autonome, idoli privati e convincimenti interiori) da un punto di vista della massima generalità, cioè di una visione del mondo preventiva e assolutizzante, persegue in media non un ideale di verità e conoscenza né un traguardo di avveduta armonia, ma un miraggio di supremazia totalitaria sulla realtà extra-mentale.
Agli occhi di Dio (non a quelli di un uomo), che cosa potranno mai valere qualità politiche e squisitezze morali se poi l’umanità si rivela così metafisicamente, ontologicamente, teologicamente nazista?
In che modo i Kolibiani ritengono che un rivolgimento filosofico radicale desunto da ciò che secondo loro è una interpretazione ‘alla lettera’ o ‘tra le righe’ di una descrizione scientifica del mondo possa rivestire un elemento di civiltà decisivo?
Semplicemente partendo dal presupposto che senza quello che potremmo chiamare ‘un adeguato realismo metafisico’ non si va da nessuna parte.
I Kolibiani trovano abbastanza incredibile, per esempio, che atteggiamenti religiosi possano essere valutati a prescindere da come riscontri oggettivi si rapportano alle varie credenze, il che vale sia per l’aspetto psicologico, ovvero la sincerità di una fede desumibile dalla praticabilità di una effettiva coerenza tra comportamenti esistenziali e ontologia di fondo, sia per le valutazioni e interpretazioni strategiche riguardo alle causalità inerenti agli eventi mondani.
I Kolibiani osservano che la loro non può essere considerata una semplice versione ideologica della scienza, bensì una visione del mondo decisiva al fine di discernere tra scelte cruciali da adottare in ordine a quella vera e propria gestione planetaria che l’umanità, volente o nolente, ha finito per assumersi.
Se qualsiasi filosofia che adotta integralmente presupposti di logica scientifica (qualsiasi altro tipo di filosofia, secondo i Kolibiani, farebbe bene a limitarsi a campi come quello artistico, lasciando perdere ogni implicazione ontologica che possa essere trattata solo razionalmente) è costretta a deporre velleità di tipo fondativo già al livello delle antinomie elementari e inoltre a inchinarsi alla complessità incontrollabile del mondo, forse dovremmo tutti renderci conto che, non i trionfalismi tecnologici, ma le decantazioni ascetiche della metodologia sperimentale e assiomatica dovrebbero porsi alla base della presenza stessa dell’umanità sul pianeta, obbligando quindi a trasformare in politica del Progetto una prassi socio economica che funge ormai da occupazione militare del territorio di una singola specie a danno di tutte le altre.
La pratica scientifica dominante può essere così sprovveduta come la descrive il kolibianesimo?
Niente affatto e la domanda del resto, posta in altre sedi, rivelerebbe un assoluto fraintendimento del kolibianesimo.
I problemi non riguardano la prassi scientifica, che i Kolibiani additano anzi a modello degno di pervadere (con il massimo apporto, beninteso, di delicatezza, sensibilità e rispetto verso le varie specificità) ogni ambito dell’esperienza umana: nelle sezioni precedenti non si stigmatizzavano ricerche operanti (riguardo al cui lavoro sul campo i kolibiani hanno molto poco o niente da obbiettare), ma presupposti di sociologia e politica della scienza.
Purtroppo nella scienza come in tutti gli altri settori strategici solo determinate categorie di persone, spesso bravissime a organizzare il lavoro degli altri e quindi ad assumersene i meriti, sono in grado di conquistarsi la fiducia e il sostegno del potere politico e finanziario, solo quelle vanno nei parlamenti o in altre sedi illustri a ricevere assenso e devozione a prescindere da quello che dicono (e perfino, al limite, sparando cazzate), assumono quindi un peso decisivo entro una specifica gerarchia e qui, dai piani alti anche se non altissimi, dettano le impostazioni e gli indirizzi di base che sostanziano l’utilizzo sociale dei risultati messi a punto dagli addetti dei piani più bassi.
Questi ultimi devono invece dedicarsi a tipologie applicative che, per il crescere ineluttabile delle complessità e delle concorrenze, lasciano sempre meno spazio alle raffinatezze relazionali.
I Kolibiani possono fornire esempi specifici di questioni epistemologiche che aiutino a chiarire la loro visione?
I punti di attacco, quasi a riprova dell’impostazione adottata, possono essere moltissimi e molto diversi.
Ne esemplifichiamo solo due, data la necessaria stringatezza del presente questionario, uno scientifico e l’altro umanistico: il problema della continuità o discontinuità (infinità locale o unità minimali) nella descrizione scientifica del mondo e il problema del rapporto tra libertà e valore ovvero di quel delicato dosaggio che coinvolge ogni ‘opera dello spirito’, quel fragilissimo equilibrio che, quando viene violato, perturba ogni struttura e mette in rotta di collisione l’energia psicologica della libertà con i punti di riferimento indispensabili alla giurisdizione del valore.
Queste problematiche rinviano a un nucleo culturale unificante che riguarda tutti e soprattutto artisti e scienziati: l’infinito promette e illude camuffando le incomprensioni sotto gli orpelli di un intuito superiore che infine conduce o all’anarchia o alla umiliazione della libertà sotto il dogma; il finito può riconnettere concretamente libertà e valore, ma richiede gli sforzi e i sacrifici preliminari di una disciplina meticolosamente e prosaicamente regolata.
Mediazioni e compromessi non esistono, perché non si tratta di due misure, bensì di una misura e una non misura.
I Kolibiani sono culturalmente ambigui?
Visioni del mondo che scavallano su versanti categorici distinti, ciascuno frastagliato a sua volta nel caleidoscopio di discipline o fantasie poco e male comunicanti, risolvono le complessità dell’esistente attraverso una psicopatia metafisica da personalità multipla: in un tale contesto, ogni tentativo di ricomporre la ‘frattura originaria’ sarà considerato inevitabilmente o ambiguo o semplicista.
Schematizzando, il complesso delle fratture-fritture si riassume in dicotomie riassuntive del tipo: destra / sinistra (categoria politica), umanistico / scientifico (categoria culturale), assolutista / pragmatico (categoria psicologica) eccetera.
La metafisica (perché, come già ribadito innumerevoli volte, sempre di metafisica si tratta quando un uomo tenta di descrivere il mondo con mezzi linguistici)… la metafisica kolibiana riassume ogni dualismo in una sola alternativa fondamentale: o l’umanità determina il cosmo (la natura, il mondo, l’essere, ‘Dio’...) o il cosmo (la natura, il mondo, l’essere, ‘Dio’…) determina l’umanità.
I Kolibiani sono allora semplicisti?
Quando è mal posta, l’accusa di semplicismo denuncia spesso il tentativo maldestro di chi, misconoscendo il peso effettivo di una complessità e sguazzandovi fiducioso, per conservare le proprie illusioni si schermisce da chi, contro quella complessità, cerca effettivamente di escogitare schermi efficaci.
I Kolibiani denunciano dei qui pro quo giganteschi (fino a clamorosi capovolgimenti di senso) riferibili proprio a situazioni siffatte.
Cerchiamo di darne preventivamente una idea molto succinta.
Cominciamo dalla prassi scientifica: essa si basa su strategie molto generali che prevedono sostanzialmente, come fase preliminare decisiva al fine della definizione ontologica dell’ambito indagato, processi di isolamento e semplificazione seguiti da trattazioni logico-matematiche e descrittive che allora e solo allora, dopo cioè l’opportuna decantazione, diventano accessibili.
La scienza sciorina proposizioni concrete e incisive sul mondo solo perché ne riconosce ed evita la complessità, che poi affronta in trattazioni al limite tra scienza ed epistemologia, costituendo discipline autonome quali, per esempio, la termodinamica, la meccanica statistica, l’informatica teorica, le teorie computazionali, un corpus che, nel complesso, costituisce appunto una scienza della complessità.
Parliamo ora di arte e letteratura (autentiche!): come affrontano la complessità del mondo? In modo antitetico, opposto? Assolutamente no! L’analisi frattale dei dipinti di Pollock rivela un indice medio di Hausdorff ben calibrato: Pollock stesso, totalmente ignaro di dimensioni frattali, accantonò dipinti con indice molto diverso e a giudizi simili sarebbe portato un qualunque fruitore dotato di senso estetico.
Altre tipologie di opere, non possono essere trattate con criteri tanto limitrofi a una metodologia scientifica, ma la conclusione metaforica di fondo rimane quella di una rappresentatività sintetica per molti versi comune, che rispetta e onora in modo pressoché religioso una ricca e proliferante trascendenza.
Arte e letteratura affrontano, non le oggettività teoriche che la scienza si propone, ma le profondità esistenziali e i riflessi emozionali delle esperienze psicologiche e antropologiche, eppure il modo di relazionarsi alla complessità è simile nei due rami di esperienza culturale (molto diverso però da quello dei pragmatismi istituzionali dai quali artisti e scienziati devono elemosinare udienza), anche se le risonanze simboliche dei liberi formalismi intuitivi sostituiscono le formule della riproducibilità astratta o viceversa.
Dove viene meno il rispetto autenticamente religioso che scienza e arte (autentiche) dovrebbero manifestare nei confronti del reale secondo i Kolibiani?
Scienza (meccanica quantistica, relatività, informatica...) da una parte, arte e letteratura (impressionismo, cubismo, Schoenberg, Joyce, Kafka... citando a caso) sono pervenute più o meno nello stesso periodo a sintesi della realtà straordinariamente coincidenti nelle loro note più autentiche e profonde, ma in che modo poi le società umane hanno combinato tante intuizioni essenziali? Hanno rimesso la gestione della complessità non agli artefici di un Progetto, ma alla società dello spettacolo e alla tecnologia dei cani aziendali sciolti, agli acrobati da circo mediatico, ai clown e ai funamboli delle pubbliche piazze e della propaganda cerimoniale, tutti alla ricerca di un posto al sole con sgargiante ombrellone sulle spiagge concesse in sub-appalto dall’impresa appaltatrice responsabile della disastrosa gestione planetaria operata finora: la politica considerata monopolio dell’economia e quindi dell’apparato industriale e finanziario.
L’umanità si sta ormai riducendo a un’avanguardia di pirotecnici e pirateschi avventurieri e biscazzieri che erigono i loro rutilanti casinò in mezzo a moltitudini di poveracci che, abbacinate e stregate dalle giravolte di luci, accorrono disordinatamente verso le insegne svettanti calpestando e predando tutto quello che non è umano, come se fosse un optional di cui possano fare a meno.
I Kolibiani sono catastrofisti e distopici?
Si sarebbe tentati di rispondere che i Kolibiani sono realisti, ma, a parte che la presunzione di realismo è una forma di auto-inganno a cui nessuno può sottrarsi, il termine, se anche fosse appropriato, non indicherebbe niente di diverso da un’adesione episodica a uno qualunque dei moltissimi e svariatissimi livelli in cui la Realtà (‘r’ maiuscola) si scompone.
Inoltre, in un senso pragmatico, i Kolibiani non possono neppure considerarsi realisti, dato che la realtà (‘r’ minuscola) di qualsiasi gioco sociale consiste, come già sottolineato dal buon Witt, nel rispetto delle regole convenzionali su cui esso si basa.
I Kolibiani sono più che altro divulgatori di quelle ovvietà elementari che derivano da una visione del mondo che appare a sua volta come una ovvietà elementare se solo viene aggirata la premessa ovvia ed elementare che una visione del mondo non deve ostacolare i normali disbrighi pratici delle comuni esistenze.
I Kolibiani infrangono questa premessa / promessa ovvia ed elementare per la ragione ovvia ed elementare che qualsiasi tipo di politica globale coinvolge un ospite scomodo, un convitato di pietra che si auto-invita al banchetto nonostante tutti gli esorcismi, le croci e i mazzetti di aglio sciorinati lungo il perimetro di sicurezza.
Che argomenti adducono i Kolibiani a sostegno del loro presunto catastrofismo da untori della paura?
Se ci fosse bisogno di accampare scuse al riguardo, i Kolibiani dovrebbero tentare di giustificare il proprio eccessivo ottimismo: la predicazione del Progetto pochi anni o al massimo pochi decenni prima del probabile manifestarsi di sintomi inequivocabilmente preoccupanti e intollerabili per chiunque presuppone infatti che la fabbrica del Progetto si possa avviare e concludere entro quel lasso di tempo, considerazione che richiede appunto, data la vastità del compito, una buona dose di ottimismo.
Per altri versi i Kolibiani si rivelano effettivamente pessimisti nel considerare scientificamente improponibile che l’umanità possa contare sulla bontà e giustizia di garanti cosmici traboccanti di amore per la simpatica specie responsabile della sesta estinzione, ipotesi riadattata e resa commestibile anche per le menti più raffinate e pretenziose in grazia di teorie che vedono nel cervello umano il campione di una trascendenza sistemica in grado di sconvolgere e trasfigurare le leggi basilari di una complessità biologica inferiore.
I Kolibiani esercitano effetti demoralizzanti e destabilizzanti?
‘Guerra sola igiene del mondo!’ hanno proclamato in passato varie specie di pazzoidi. Senza condividere affatto certi entusiasmi maniacali, molti ritengono che una guerra sorge comunque da una palude politica malsana quando diventa impossibile fare i conti con impotenze e distorsioni irrimediabili.
‘Kolibianesimo sola igiene del mondo!’ proclamano i Kolibiani, che forse e anzi probabilmente sono inguaribili pazzoidi, ma ritengono comunque con una certa dose di una qualche plausibilità che esistono solo due tipologie di argomenti che possano aspirare effettivamente a una convergenza ecumenica e super partes: quelli scientifici e per nulla ideologici del disincanto totale, fondati su logiche ed empirismi solidi ed elementari, e quelli di un individualismo ineluttabile e condiviso da tutti, nonostante sia molto spesso represso e auto-represso.
Tutti siamo corpi mortali e individui fantasiosi, ma solo alcuni appartengono a una fede e a una etnia particolare.
Se i popoli, in momenti cruciali, scelgono di essere una collezione di corpi e di individui oppure una collezione di fedi e di etnie dipende anche da una classe dirigente, da come ragiona, da quello che sa o ritiene di sapere.
Una classe dirigente che ci tiene a illudere e confortare perché vuole essere illusa e confortata è come un Dio che ci tenga a essere lusingato e adulato: un paradosso, una contraddizione, una antinomia di base.
La critica kolibiana alle classi dirigenti non è troppo saccente e sopra le righe?
Assolutamente no, si limita a constatare banalità come: ‘ognuno fa il suo mestiere e ognuno ha i suoi interessi’ e quindi a consigliare ai sudditi (se il voto non può modificare in niente un percorso assegnato, l’elettore medio è un suddito, eventualmente molto contento di esserlo) una buona scorta di sospetto quando mestieri e interessi richiedono il sostegno e l’intercessione di valori supremi e di fiducie incrollabili, i buoni uffici, insomma, di una fede obbligatoria.
La teologizzazione del potere in Occidente è una conseguenza quasi automatica del sempre più corrivo gioco elettorale e compensa una esautorazione da poteri autentici come quello economico con sceneggiature simboliche che, per essere convincenti, devono attingere i propri canoni persuasivi dalla multimediale società dello spettacolo.
Le differenze e gradazioni di realismo e franchezza delle mentalità politiche nelle varie situazioni nazionali, per un verso dipendono da quanto il minimo di dignitosa sussistenza materiale delle varie popolazioni è statisticamente garantito, per un altro dalla percentuale in cui le richieste e le aspettative che riguardano l’inevitabile surplus sono soddisfatte dal Grande Fratello Buono della tecnologia creativa.
Un politico non sopravvive se non racconta balle: è normale e perfino auspicabile che alla fine finisca per crederci egli stesso.
La balla più grande che si racconta oggi un politico, secondo il punto di vista kolibiano, è che l’economia liberista e la tecnologia che la sostiene miglioreranno sempre di più la fornitura di un minimo di sussistenza e di un ragionevole circenses alla maggior parte dell’umanità senza contestualmente elevare alle stelle i rischi di un tracollo generalizzato.
Come risponde un kolibiano a critiche del tipo: ‘troppo facile criticare e basta’?
Non risponde: è una critica cretina!
Compito del kolibiano è proporre al singolo lettore della Bibbia Kolibiana l’idea che il Progetto Generale di Stato Stazionario sia l’unica metodologia seria per affrontare le sfide del futuro, mentre tutto il resto è un vivere alla giornata in un grande calderone agitato che al momento conserva una temperatura media ancora accettabile.
Da che mondo è mondo, la parola scritta non ha fatto altro che rivolgersi a singoli lettori: quello che poi ne è scaturito fa parte della chimica sociale, non del processo di scrittura.
Secondo i Kolibiani, non esiste un solo caso di scrittura utile o almeno non deleteria rivolta a gruppi numerosi con intenti esortativi, mentre qualsiasi forma di promozione pubblicitaria istiga il tritacarne del conformismo affaristico (un orgiastico livellamento e infine genocidio della soggettività riflessiva per pure e semplici necessità di performance economica) a esasperarsi nella forbice micidiale tra espulsioni feroci e fagocitazioni entusiaste.
Nessuno sa se sia necessario conservare l’abitudine alle buone letture per essere un governante serio e nessuno sa che cosa sia in generale una buona lettura, ma, in generale, i Kolibiani ritengono che sarebbe meglio che ciascuno argomentasse logicamente le proprie convinzioni invece di seminare idiozie per collezionare follower e like o di sentenziare scipite ovvietà per essere messo in caricatura simpatica (nel senso calzante per un inchiostro che, dapprima invisibile, si evidenzia con il passare del tempo) dal telegiornale amico che trova sempre, per quelle strategiche idiozie, una nicchia tra notizie più serie raccontate nel modo e nel mondo più ameno possibile.
Il Progetto, per godere di quell’attendibilità che un elettore qualunque (un tale signor x che, mediamente, non legge neppure un articolo di giornale al mese) reputi degna del voto, può solo essere redatto e promosso da un insieme di commissioni e contro-commissioni autorevoli nella temperie di un dibattito pubblico opportunamente trasparente e regolato, ma purtroppo, allo stato attuale, i kolibiani dispongono di persone più perspicaci o più scriteriate della media, non di persone autorevoli: di quelle è meglio fornito perfino il canale radio che trasmette perlopiù canzonette.
Come può invece un kolibiano dissipare il sospetto che Bibbia e Progetto si propongano come una satira swiftiana, abbastanza cinica, delle eterogenesi dei fini provocate dalla velleitaria saccenteria umana?
Se l’incapacità di pervenire alla realizzazione del Progetto e quindi (ritenendo valide le premesse e le deduzioni kolibiane) di disinnescare la catastrofe ambientale e quella socio-politica viene considerata offesa e sberleffo della sacra umanità, i kolibiani prenderanno atto, sia del fallimento, sia del divieto a divulgarne la rivelazione diventata tabù.
Per adesso la Bibbia Kolibiana rimane una collezione di idee a disposizione di singole menti pensanti, non un libro maledetto da bruciare oggi sulle pubbliche piazze e domani, quando sarà troppo tardi, diventare magari per qualcuno un piccolo oggetto di culto.
Esistono formule con cui sintetizzare in via preliminare, indicativa, preparatoria il credo dei Kolibiani?
Di slogan e aforismi sulla metafisica di base se ne possono inventare a bizzeffe, per esempio:
Il trattato di non belligeranza tra fede religiosa e ricerca tecnologica stilato dall’assolutismo economico liberista è solo un trucco per sviare una sana razionalità da deduzioni elementari e sgradevoli.
Oppure:
Tra religiosità autentica e riduzionismo scientifico non può sussistere alcuna differenza o conflitto se entrambi perseguono in completa onestà intellettuale una verità ontologica svincolata dal peccato originale dell’idolatria psicologica.
O anche:
Il rispetto e la salvaguardia delle soggettività non si ottiene elevandole al rango di divinità crudeli che saccheggiano il mondo, bensì collegando armonicamente i corpi deperibili in cui si generano alla trama del mondo creato da Dio o ‘Dio’.
Nota a margine:
Dio e ‘Dio’ (il Dio puro e assoluto e il Dio con le virgolette) rappresentano una medesima entità e la prova si ottiene chiedendo a un qualunque essere umano, sempre e dovunque, una definizione che non sia ridicola e blasfema del concetto di Dio o ‘Dio’.
Perché i Kolibiani si ritengono ‘autentici religiosi’?
Perché una umanità che volesse davvero glorificare Dio (e quindi la sola cosa di Lui che possiamo comprendere ovvero le Sue opere) invece di magnificare esclusivamente se stessa (e quindi le corti dei suoi legittimi pastori, custodi e governatori), dovrebbe preoccuparsi non di Dio (che se ci tenesse davvero a tanta attenzione, primo, si sarebbe reso comprensibile alle menti effettivamente pensanti e, secondo, non sarebbe a ogni buon conto un dio di primissima qualità), ma di una salvaguardia di sé collegata alla valorizzazione di tutte le ricchezze del pianeta e quindi scevra da auto-esaltazioni che acutizzano invece di neutralizzare le potenzialità distruttive del proprio imperversare incontrollato.
Come possono i Kolibiani configurare antropologicamente, in via intuitiva e approssimativa, la classe dei sostenitori e quella degli oppositori?
E’ necessario tracciare una linea di confine trasversale che suddivida gli schieramenti politici separando le soggettività che perseguono i fantasmi dell’obbiettività e dell’indipendenza dagli individui che necessitano come l’aria di connotazioni e riferimenti economici e sociali ben definiti e stringenti (e quindi accidentali in senso etnico e storico).
Categorizzazioni astratte, ideali, prive di significati tangibili?
Certo, nessuno esprime compiutamente e in qualsiasi situazione un solo carattere, occorrerebbe valutare le aspirazioni profonde e le incrostazioni abitudinarie che vi si oppongono, ma anche qui intervengono ambiguità e complicazioni di ogni sorta.
Il punto cruciale è ben altro: chi sbaglia rimanendo nel solco di un errore comune e condiviso può guadagnare consensi e quindi esercitare influenze, chi vede giusto, ma in modo per forza ‘aristocratico’, si trova il vuoto politico intorno e quindi, quando il comune errore si rivela irreversibilmente fatale e in tempi molto stretti... sono cazzi acidi (o amari: lor signori vogliano gentilmente scusare l’eccesso di pittoricismo).
L’insistenza kolibiana sull’idea di Progetto deriva da considerazioni logiche elementari: il Progetto rappresenta l’unica prassi politica seria capace di salvare la democrazia dalle sue contraddizioni quando il modo in cui l’umanità vuole essere diventa ininfluente rispetto a quello che l’umanità è e sempre sarà.
Se ‘Progetto sì’ e ‘Progetto no’ diventa un’alternativa democratica essenziale, come può essere democratica una posizione che afferma ‘Progetto no’ significa il disastro?
L’alternativa è posta in modo sbagliato, dovrebbe esprimersi così: ‘disastro garantito no’ o ‘disastro garantito sì’ e prospettare all’inizio una scelta non politica, ma puramente scientifica.
Se si sceglie ‘disastro garantito no’, tanti auguri e molto fattore K! Se si opta per il sì, ‘Progetto sì’ diventa l’unica opzione se si tratta di affrontare concretamente i problemi, mentre tutte le altre, almeno secondo la visione kolibiana, porteranno le forze avverse a litigare e scannarsi su palliativi che quando si riveleranno inefficaci costituiranno motivo di acre risentimento da parte di chi aveva proposto palliativi diversi o nessun palliativo.
Solo la metodologia del Progetto può risolvere contemporaneamente l’impasse politica e quella economica, la politica che si illude di essere indipendente dall’economia è quella che viene stuprata dall’economia con il preservativo e il lubrificante, quella che ci prende gusto e diventa di costumi allegri.
Per quella politica raffinatamente osé da bordello metafisico di lusso, erotismo e stupro diventano una questione di stile, e lo stile che conta è ottimista perché pervaso di grazia, vede la luce in fondo al tunnel circolare perché è esso stesso luce che vede se stessa, luce che porta l’illuminazione del business a chi vede che ogni problema spalanca le porte del business. Solo gli esseri inferiori non arrivano a capirlo: più il problema è impervio e più il business vi prospera, ogni problema non è che un’opportunità di cui il business si serve per prosperare e far prosperare. Come si fa a dire che una prosperità è un problema? E’ da idioti! Se una prosperità fosse un problema come potremmo chiamarla ‘prosperità’?
La contraddizione di fondo della democrazia rappresentativa riflette pedissequamente quella di una economia liberista, entrambi tendono a diventare fine a se stesse all’interno di una mistificazione assolutistica del fenomeno umano inteso come fondamento e arbitro di ogni altro fenomeno, il che è esattamente il contrario di quello che accade secondo qualsiasi punto di vista che meriti la definizione di ‘scientifico’.
Detto molto banalmente: 1) il mondo vero ha generato l’umanità e l’umanità ha generato un mondo fittizio; 2) il mondo vero prima o poi rivendica esazioni che il mondo fittizio insiste a considerare esagerate o addirittura irreali.
I Kolibiani predicano un sovvertimento filosofico di concetti basilari come quello di religiosità o di democrazia: quali azioni pratiche vi si possono collegare?
Per non mettersi a discutere del sesso degli angeli e affrontare la questione con un minimo di concretezza, è necessario sfatare molti equivoci comuni, a cominciare proprio dai miti della praticità e della concretezza.
Non c’è niente di più concreto della chiarezza quando si tratta di scegliere un percorso tra molte possibilità alternative e non esiste chiarezza esistenziale senza chiarezza filosofica e scientifica.
Istinti e intuizioni fungono da supporti utili, preziosi e insostituibili in congiunture locali, ristrette e dai risvolti soggettivi, ma creano solo danni e confusioni in contesti strategici da pianificare in opposizione ad automatismi esiziali.
Se gli automatismi sono il male, le risposte automatiche non possono essere un bene.
Gli stati di grazia, i capricci o le depravazioni dei ‘grandi uomini’ hanno spesso avuto un peso determinante nella Storia, ma quasi esclusivamente in cerchie degeneri di caos elementare risolvibile soltanto attraverso atti di semplificazione brutale, in contesti storici riducibili a una lotta tra bande la cui valenza si collega soprattutto a quella dei boss.
In fondo, il grado di civilizzazione può essere pensato come una misura di quanto, nel tessuto sociale e istituzionale, i processi delle complessità impersonali riescano a disarmare le bravate dei ‘pezzi grossi’, mentre il grado di imbarbarimento dipende da quanto i ‘pezzi grossi’ riescano a illudersi e a illudere circa il destino della complessità.
Che cosa intendono i Kolibiani per chiarezza filosofica di base?
Soprattutto una giusta impostazione del rapporto tra libertà e contraddizione.
La pretesa di ogni vitalismo di districarsi e avanzare in un groviglio di contraddizioni facendo valere la superiore saggezza e fecondità di una sapienza innata e diffusa può ingenerare soltanto tre tipi di esiti non catastrofici, spesso combinati insieme: a) lo stagnare in una immobilità convulsa; b) il taglio dei nodi gordiani attraverso l’imposizione arbitraria di un potere sempre episodico e relativo; c) il rimettersi fatalisticamente a un’autorità convenzionale indiscutibile.
I vari esiti si determinano diversamente in diversi punti e livelli delle varie scacchiere variamente connesse e sovrapposte e così ogni essere umano trascorre la vita a osservare gli sviluppi caleidoscopici di giochi e partite di cui conosce qualcosa soprattutto attraverso le regole che è costretto a subire passivamente.
Questa è la vita umana, bellezza: una bislacca e colorita insensatezza.
Non si può che stare al gioco e salvare il salvabile nei recessi del privato mentre la cronaca diventa Storia svuotandosi di ogni essere umano ‘concreto’ e lasciando sulla ribalta del ricordo ufficiale soltanto le maschere mobili e cangianti dei canovacci e dei ruoli, gli hipocritos dello skene convocati dal coro, gli attori più bravi ad adattarsi alle parti trovando in quelle rutilanti assurdità la verità assoluta del ‘qui e ora’ per sempre.
Bene così: dopotutto non siamo ‘umani’? Dobbiamo credere in qualcuna delle pietre che rotolano, ma a volte le pietre rotolano in una immane valanga e comunque l’orologio del pianeta ha una carica che prima o poi si esaurisce e finora non è mai stato inventato niente sul pianeta che esaurisca la carica più in fretta di quell’essere umani.
Perché l’orologio del pianeta non può essere ricaricato o scaricato più lentamente dalla tecnologia liberista meglio di quanto non possa fare il Progetto?
Perché non possa essere ricaricato deriva dalle leggi fondamentali della fisica, anche se l’abilità comunicativa delle lobby liberiste e i patti al vertice tra le università e le chiese risultano abilissimi nell’ingarbugliare le carte e a indurre la gente più istruita, posata e razionale del mondo a credere nei miracoli come fosse cosa ovvia e intelligente.
Perché non possa essere scaricato più lentamente deriva da elementari considerazioni socio-politiche in base alle quali si constata che il liberismo riesce a dilatare in modo esponenziale la forbice dei redditi e delle ricchezze conservando la pace sociale soltanto se rispetta una condizione basilare e irrinunciabile: che nel frattempo la situazione economica delle fasce inferiori non vada a peggiorare in termini assoluti, requisito più che sufficiente a rendere inaccessibile la stabilità regolatrice e le mitigazioni riequilibranti di uno stato stazionario senza il quale la catastrofe da un lato si avvicina pericolosamente e dall’altro non è rimediabile senza rotture traumatiche.
Si può schematizzare brevemente un identikit psicologico dei nemici del Progetto di Stato Stazionario?
I nemici del Progetto sono caratterizzati da quella particolare ignoranza (ricordiamoci sempre che tutti siamo fondamentalmente ignoranti) che si trova spesso associata a un’acuta intelligenza pragmatica e sociale.
Più che ignoranza, dovremmo parlare di cecità: si tratta infatti di una totale incapacità o refrattarietà a collocare il proprio ‘super ego’ al di fuori del gioco di specchi in cui crea e consolida se stesso attraverso corrispondenze e rimandi intrecciati ad altri ‘io’ altrettanto artificiali, tutti fondati e amalgamati insieme in quella irrealtà surreale che si dissolverebbe in lievitazioni vagabonde e nebulose se non fosse appesantita dalle zavorre di un solido istinto religioso o comunque dogmatico.
Quell’ignoranza o cecità induce a trascurare i pochi capisaldi indispensabili alla ricognizione ontologica di un modus operandi che di fatto e non per finta o per ingegnosa invenzione emetterà prima o poi i verdetti importanti per il futuro dell’umanità.
Si possono elencare in modo semplice e chiaro i principi essenziali che secondo i Kolibiani regolano gli sviluppi del reale?
Casualità assoluta e creazione dal nulla si equivalgono.
Qualsiasi trasformazione dell’esistente o emerge dal nulla o implica una legge fisica.
Una legge fisica utile e comprensibile deve essere molto più semplice di quello che regola e consentire una impressione illusoria di estesa casualità.
Una legge fisica utile e comprensibile deve essere esprimibile con un numero finito di termini.
Una legge primaria, non fondata su un’altra legge, è semplice, arbitraria e non ulteriormente giustificabile.
Un insieme di leggi, per essere comprensibile, non può generare contraddizioni.
Leggi semplici, finite e comprensibili devono potersi identificare completamente in ambiti locali molto ristretti.
Leggi semplici, finite e comprensibili devono giustificare tutto ciò che non si crea dal nulla.
Leggi locali onnicomprensive non possono agire in una sola dimensione.
Per quanto se ne sa e, probabilmente, se ne potrà mai sapere, leggi fisiche locali ed elementari, arbitrarie e non giustificabili con criteri esterni, quando agiscono globalmente in tre dimensioni spaziali e una temporale sono sufficienti a determinare qualsiasi tipo di realtà analoga a quella che genericamente constatiamo e ciò in modi scarsamente accessibili alla mente umana.
Le altisonanti leggi ideali che l’umanità inventa si pongono al servizio di visioni antropocentriche che autorizzano una spoliazione prepotente e dispotica del pianeta con la complicità di un creatore contento di disfarsi di tutto tranne che del suo unico risultato ben riuscito.
Queste visioni antropocentriche, o corrispondono effettivamente a una realtà secondo le pretese dei monoteisti (considerate assurde dai Kolibiani), o prima o poi diventano controproducenti e perfino suicide.
Perché è difficile che tali principi siano acquisiti da una classe dirigente?
Per motivi soprattutto darwiniani: nella totalità dei sistemi politici vigenti, democratici o meno, chi dirige è un vincente che necessita dell’appoggio di una massa maggioritaria o anche solo determinante (se fattori di forza ‘energetica’ predominano sul fattore numerico) di accorti perdenti (subalterni rassegnati o subdoli repressi che sanno intrufolarsi e acclimatarsi nelle spire di qualcuno di quei poteri che sanno meritare i servizi dei fedeli), quelle tipologie di volonterosi ortodossi bravissimi a spargersi minacciosi nelle strade quando, al posto di un malessere arrivato ai limiti della sopportazione, vi aleggia la promessa di salire sul treno di una sicura vittoria.
A un nucleo dirigente e alla sua più o meno vasta corte di accoliti l’ampiezza di visione serve soltanto in particolari situazioni di promettente rigoglio, quando una variopinta abbondanza si presta a scelte facilmente remunerative (culmine di una civiltà, inizi della rivoluzione industriale eccetera): quando le complicazioni abbondano o si entra in una fase di declino, aiuta molto di più un bel paio di lenti scure con tanto di superbi paraocchi.
In situazioni critiche i messaggi non vengono più lanciati alla massa di elettori costretti ormai a compiere atti di fede al posto di scelte riflessive, si indirizzano invece ai concorrenti in corsa per i posti di comando e avvertono, per esempio: attenzione a non coltivare troppo gli interessi del nostro popolo bue al posto di quelli dell’aristocrazia se non si vuole che altri popoli bue si congestionino troppo ed esplodano danneggiando tutti, nessuno escluso.
Sarebbe più logico e perfino più semplice dire: trasformiamo i popoli da deflagranti coacervi entropici del tardo-liberismo a sistemi auto-regolati di altrettanti Holding Nazione (opportunamente ripartite in sub holding federali), ma un misero titano qualunque non può predicare niente che vada contro l’abolizione dell’anarchia della classe dei titani, singoli titani possono contare qualcosa soltanto a sfracello avvenuto e in assenza di elementari garanzie democratiche.
I Kolibiani credono effettivamente nella realizzabilità del Progetto?
No, a meno che non si creino condizioni di estrema emergenza, quelle che comunque favoriscono ancora di più i deliri del confessionalismo rispetto alla prudenza della razionalità, reazioni emotive e inconsulte piuttosto che le coordinazioni di elaborati interventi.
Il Progetto dovrebbe essere promosso, organizzato e redatto con tutta la dovizia di mezzi e di tempi necessari a un lavoro ben fatto e di quel calibro eccezionale, ma, in condizioni ordinarie di calma relativa, i mezzi permangono nella disponibilità di classi dirigenti abbacinate da un fondamentalismo liberista il cui tendenzioso ‘ottimismo’ (sempre pronto, alla minima difficoltà, a trasformarsi in ‘realismo’ dirigista) distoglie da ogni azione lungimirante priva di convenienza immediata.
In una situazione di cooptazione generale del professionismo intellettuale in una moltitudine incredibile di appalti e commissioni consultive e coadiuvanti (basta pensare alla mole incredibile di quattrini con ritorni quasi sempre incerti e problematici distribuiti dagli organi amministrativi e giudiziari a luminari, specialisti, studi tecnici e professionali, periti, amministratori straordinari, liquidatori eccetera) il fatto che una idea così naturale e quasi scontata come l’incarico a un comitato internazionale per un documento di indagini e approfondimenti propedeutici alla stesura di un Progetto post-liberista di stato stazionario non sia mai stata presa in seria considerazione dimostra inequivocabilmente che: a) la parte meno colta e più povera degli elettori non è in grado di farsi promotrice di tale concezione; b) la parte più acculturata e in odore di classe dirigente non coltiva sufficienti interessi in tal senso.
Si possono esemplificare casi specifici dell’impossibilità di un particolare sistema ad accedere a mosse effettivamente risolutrici come quella del Progetto?
Un regime liberista che consente a un appaltatore di servizi statali di sub-appaltare i servizi di ricognizione sul campo in merito agli interventi da eseguire (di modo che l’appaltatore primario sceglie l’intermediario più economico in senso lato e l’intermediario più economico in senso lato è quello che si assume le responsabilità maggiori al posto dell’appaltatore primario) denuncia un regime perverso che, quando cerca di rimediare, cozza contro le clausole legali firmate da alter ego del medesimo regime perverso, un regime perverso che si mangia la coda e dal quale è impossibile attendersi le soluzioni più semplici e incisive.
Paradossalmente, in simili casi, le forze politiche che reagiscono contro una situazione palese di corruzione legalizzata non possono nemmeno accusare una parte politica avversa di aver combinato il pasticcio (interpretazione benevola!) perché questo implicherebbe il riconoscimento di una debolezza legale molto confacente agli avvocati dell’appaltatore, ma pochissimo al politico serio intenzionato a chiedere a questi un redde rationem facendo valere argomenti efficaci tra cui non possiamo certo includere una disdetta unilaterale con pagamento di lauti indennizzi.
Sarebbe molto interessante valutare ogni contratto intercorso tra organi pubblici e aziende private procedendo a un confronto statistico tra i due investimenti complessivi specifici negli expertising tecnico-giuridici messi in campo rispettivamente dalla parte pubblica e da quella privata.
Sarebbe anche interessante poter giudicare se e quando i due expertising hanno giocato dalla stessa parte.
Perché con una parte dei soldi spesi in consulenze non si istituiscono organi incaricati di redigere opportuni prospetti investigativi idonei a programmare l’uscita da simili trappole?
E’ possibile che non si faccia semplicemente perché crollerebbe il sistema?
In una tale giungla di scritture già scritte un politico serio e onesto è abbastanza giustificato se non combina niente a parte riscaldare la solita minestra stracotta, ma un politico serio e onesto può essere ancora giudicato tale se non denuncia apertamente la situazione e non prospetta almeno vagamente l’ipotesi di riforme radicali?
In che direzione opera l’ottimismo ideologico liberista secondo i Kolibiani?
Prima di tutto bisogna capire perché il liberismo è ottimista: è ottimista perché è auto-referenziale, ovvero ottiene automaticamente quello che si propone, nel senso che il modello di organizzazione mondiale a cui si ispira non può prevedere eccezioni: qualsiasi isola di anomalia sostanziale che dovesse inserirsi nel sistema complessivo è destinata a riassorbirsi nella trama o per processi di osmosi adattativa o per dissoluzione patologica o traumatica.
Già nei decenni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, quando ancora esisteva un antagonismo tra modelli globali, tutti gli esperimenti del nazionalismo terzomondista naufragavano molto velocemente, senza colpo ferire, in paludi malsane di inflazione a tre cifre o quasi: è stupefacente che pochissimi abbiano rilevato in tali eventi l’esemplificazione di un tipo efficacissimo di potere colonialista ottenibile configurando i parametri di una pseudo-scienza come l’economia, una ‘scienza’ senza unità di misura, quindi una ‘scienza’ la cui oggettività operante e costrittiva e le cui potenzialità di legislazione effettiva sul mondo possono essere arruolate da quei nuclei di potere imperiale in grado di accordarsi in merito alla definizione di quelle stesse unità di misura senza la cui fissazione incontrovertibile qualsiasi legge rimane lettera morta.
L’economia non è scienza obbiettiva, è scienza condizionante e pragmatica, che si può attagliare a tipi diversissimi di realtà, ma, una volta che si sia messa in cassaforte la prerogativa esclusiva di scegliere i parametri dei quali fissare arbitrariamente il valore e quindi di agire sulle quantità discrezionali, gli opportuni centri direttivi possono fondare e controllare una realtà che non esisterebbe al di fuori dei loro atti liturgici di istituzione e governo.
I regimi nazionalistici dittatoriali o comunque autoritari necessitavano di instrumentum regni, quali soprattutto la forza di dissuasione militare, la torta dei capitali esteri da spartire e la corruzione diffusa, per regolamentare i pasti dei lupi e ricondurli a una disciplina unitaria: il governo liberista globale instaura lo stesso tipo di disciplina attraverso la creazione tecnocratica di un surplus generalizzato la cui colata abbondante appiana tumulti e divergenze, ma stressa gravemente il pianeta.
Sussistono motivi più fondamentali per uno scetticismo circa il destino del Progetto che appare quasi auto-lesionista?
Gli individui possono essere stupidi o intelligenti in relazione alla propria caratteristica, unica e irripetibile situazione esistenziale, ma in relazione alla propria caratteristica, unica e irripetibile situazione planetaria l’umanità può solo essere stupida.
Il punto è che questa sostanziale stupidità umana dalla maggior parte degli individui, intelligenti o meno, non viene avvertita come tale, ma come una sorta di coraggiosa vitalità e il motivo in fondo è banale: un individuo non può mai vedere molto al di là del proprio naso e, senza nemmeno accorgersene, applica le proprie categorie di giudizio esistenziale anche ad ambiti che trascendono di parecchi ordini di grandezza ogni possibilità percettiva e ricognitiva del singolo cervello.
Come si possono precisare meglio i termini della stupidità umana?
I teorici dell’economia comportamentale hanno già sottolineato come la prontezza istintiva necessaria a rispondere adeguatamente a stimoli ambientali improvvisi e imprevedibili ben difficilmente si armonizza nelle storie individuali con programmazioni di più ampio respiro e durata fondate sulla raccolta e organizzazione in tempi successivi di disparati elementi.
L’uomo rimane un animale biologico dotato di attributi ‘diabolici e/o divini’ il quale vive in un mondo ‘diabolico e/o divino’ che ha contribuito a creare e a cui continua a conferire arbitrariamente attributi biologici che contrabbanda come divini e solo raramente e a malincuore diabolici.
Anche quando riesce a togliere l’appannatura dalle lenti e a scorgere o a intuire i caratteri di quella diavoleria barra divinità, è portato a stravolgerne i contenuti: se agisse diversamente otterrebbe in cambio solo una diminuzione dei coefficienti di fitness competitiva.
Una consapevolezza non penalizzante può derivare soltanto da un tipo nuovo di coscienza collettiva, ma le accelerazioni del progresso favorite da un certo tipo di garibaldina o guascona intraprendenza rendono ormai la velocità di accumulo delle incombenze degenerative molto superiore a quella delle opportune maturazioni relative a una visione del mondo generale e condivisa, che oltretutto non si sa neppure se abbia qualche possibilità concreta di esistenza.
Quali elementi di tipo storico o sociologico potrebbero suffragare o mitigare certe cupe visioni?
L’invecchiamento delle popolazioni peggiora ulteriormente le cose. Il condizionamento degli anziani diventa sempre più determinante grazie alle esperienze maturate e alle disponibilità economiche e i giovani devono tenersi gelosamente strette certe schematizzazioni e cecità se non vogliono perdere ogni opportunità di carriera.
La quasi totalità delle… chiamiamole filosofie... degli anziani sarebbero ormai da buttare in discarica, ma esse informano e vivificano ormai un bel mazzetto fragrante di valori senza il cui magico effluvio l’atmosfera di una vita in declino subirebbe l’affronto di tristi offuscamenti: come si può pretendere simili rinunce!
Del resto, sarebbe un grande azzardo anche affidare il futuro a giovani mani che hanno toccato la realtà servendosi quasi esclusivamente delle protesi costituite dai media tecnologici secondo modelli sempre in qualche modo ispirati a un particolarissimo e antitetico ecumenismo liberista, stampi lobotomici che scambiano il sovranismo autentico dei centri imperiali per internazionalismo pacificante (“i Romani fanno terra bruciata e la chiamano pace!” diceva un tale dipinto da Rembrandt)) e il sovranismo kolibiano della holding-nazione per sciovinismo retrogrado.
Si può ancora intravvedere da qualche parte qualche spiraglio o nota positiva?
Bisogna ammettere che un moderato che si aggira per un territorio italico che, tra inondazioni, sismi, frane, vulcani, più scorie e rifiuti clandestini in sostituzione del calcestruzzo di buona qualità, risulta tra i più accidentati del mondo, può ottenere le prove che, grazie al genio nazionale, un appaltatore, invece di creare buchi che lo stato in un modo o nell’altro dovrebbe ripianare, può guadagnare miliardi, il che rassicura incidentalmente sul fatto che il comunismo, perlomeno quello sincero e autentico (spesso il più disastroso grazie alla reazione ferma di nazioni che sono baluardi della libertà), qui non ha mai attecchito.
Anche per quanto riguarda specificamente il Progetto, una speranza, seppure flebile, sussiste: avendo l’ultimo CMK (Congresso Mondiale Kolibiano) impartito ufficialmente il consiglio a ogni adepto di professare un totale disincanto circa le possibilità di una edificazione effettiva del Progetto, per gli avversari potrebbe diventare un punto d’onore stigmatizzare il pregiudiziale e ideologico pessimismo kolibiano; potrebbero quindi, in presenza di questo nuovo e inaspettato evento e nella insorgenza di priorità e traguardi a esso collegati, mutare opinione, non sul Progetto medesimo, che in quanto obbiettivo specifico non merita alcun giudizio etico e culturale degno del titolo, bensì intorno a ciò che di simbolico il Progetto può rappresentare.
Nessun altro scampo a queste conclusioni pessimiste?
Le conclusioni possono apparire pessimiste in periodi di obbiettività, equilibrio, ponderatezza (supponendo che esistano criteri adatti per procedere a simili definizioni) e a persone che se li possono permettere, non così, per la maggior parte del tempo, all’esemplare tipico della specie umana, darwinianamente attrezzato per affrontare le sfide della vita tramite dosi opportune di accentuata partigianeria programmatica, duttile fanatismo indifferenziato e solida fede nel fattore K tradotto in forme idolatriche.
Se anche l’ideologia del Progetto diventasse dominante, il carro o la nave del Progetto traboccherebbe di aspiranti vincitori alacremente intenzionati a non sprecare una così bella occasione di mettere le proprie abilità darwiniane al servizio della causa del Progetto.
Tutto ciò può apparire una specie di delirio masochista, ma in realtà si tratta di non indulgere a illusioni e compromessi di sorta riguardo al grado di chiarezza intellettuale che è necessario raggiungere, una tabula rasa e un punto zero di coscienza collettiva da cui si possa ripartire conservando al contrario la totalità delle disponibilità tecniche ed economiche già esistenti.
Queste si sono materializzate finora per un’attivazione sostanzialmente anarchica di energie e risorse e l’anarchia produce naturalmente spinte creative e contro-spinte autoritarie finché il movimento complessivo esce dalla fase fertile e si esaspera nella dialettica schizofrenica di disordini incontrollabili e polarizzazioni congelanti, trovando l’unica mediazione possibile nello sfruttamento eccessivo di un ambiente stremato.
Il kolibianesimo deve assolutamente evitare la parabola fin qui seguita da ogni altro movimento politico e culturale, quella derisoria alternativa tra ribollente marginalità inefficace e incartapecorita o addirittura cadaverica omologazione istituzionale: piuttosto che certe pantomime oscene, meglio il suicido e poi il loculo silenzioso di un polveroso scaffale di biblioteca anche solo virtuale.
Il kolibianesimo non si propone il siparietto di una recita antropologica, ma niente di più o di meno che un risultato globale: se deve sacrificare la sua immagine pubblica perché si muova almeno un passo in quella direzione, il kolibiano lo fa ben volentieri, se non altro perché, per lui come per ogni altro, fino a che tutto quanto non stravacca ci sono tante cose tra cielo e terra più divertenti che arrabattarsi invano a salvare l’umanità e proprio questo è il rischio maggiore per l’umanità.
Al di là di questioni tattiche o strategiche, possiamo delineare un quadro filosofico riassuntivo di più ampia generalità?
Con la sua propensione naturale verso significati generali, assolutismi religiosi, valori unificanti (che purtroppo possono essere concepiti solo in singole teste e passati da una testa all’altra solo approssimativamente e attraverso contraffazioni linguistiche), l’umanità non si rivela soltanto anomala nel complesso di tutti gli altri organismi viventi: si conforma secondo tipologie antinomiche rispetto ai meccanismi generativi insiti nell’ontologia naturale.
Sebbene i dettagli di tale ontologia sfuggano inevitabilmente alle possibilità ricognitive e descrittive di esseri che vi sono subordinati e annessi in tutto e per tutto, il quadro metafisico di fondo rimane chiaro e inconfutabile per chi voglia gettare almeno uno sguardo fuori dal bozzolo protettivo delle fantasie e delle illusioni: uno scheletro incredibilmente scarno e minimalista di regole direttive in grado di sviluppare, in condizioni opportune, un florilegio prolificante di strabilianti complicazioni.
Metaforicamente e in estrema sintesi: uno sfarfallio esteso e profondo di tessere quasi infinitesimali che, oltre certi valori di soglia, possono esplodere in gerarchie orizzontali e verticali di strutturazioni parzialmente stabili e auto-replicanti nel volgere di tempi medi e nell’ordine di dimensione assegnati.
In sintesi gnomica: bellezza e libertà in cambio di significato e protezione, la metamorfica e ironica verità di una creazione continua e inesauribile al posto dei santuari della Verità Assoluta.
L’umanità, ovvero la complessione di individui antropologici adattati alla vita pubblica secondo canoni resi indispensabili dai modi di sopravvivenza e riproduzione sociale specificamente assunti sotto condizionamenti storici, etnici e geografici, è naturalmente condotta a propendere per lo scambio inverso (significato e protezione in cambio di bellezza e libertà), ma un traguardo simile non riceve il minimo avallo o garanzia dalla logica generale degli eventi ed esige invece tutte quelle costruzioni artificiali di cui l’uomo sociale si è dimostrato forsennatamente capace.
Dio viene formalmente adorato come garante di senso e sicurezza, ma a uno sguardo oggettivo e disincantato appare piuttosto il patrono di una estetica dell’imprevedibilità e dell’invenzione, per cui i Kolibiani, religiosi autentici in mezzo alle tante scimmiottature di idoli antropomorfi orchestrate dai falsari politicizzati, urlano ‘prosit’ e si rimettono convinti alla sua volontà buttandosi alle spalle il bicchiere.
Qui si inserisce la contraddizione irrimediabile: niente può essere costruito in opposizione alle leggi fondamentali di quella natura di cui l’uomo partecipa e quelle leggi, al contrario di ciò che producono, sono semplici e ingannano con la loro semplicità: l’uomo che ricerca e isola quelle leggi deve votarsi all’astrazione ancor più dell’uomo vanesio e fideista che richiede l’ausilio indispensabile della scienza e della tecnica per tenere ordinato il giardino degli idoli.
Alla fine, l’uomo più adatto a gestire e utilizzare i prodotti di Scienza e Fede SPA, l’eroe eponimo di una metafisica fantoccio che, per promettere a sé e agli altri la terra promessa, mischia le follie darwiniane del conquistatore con sigilli da notaio, s’imbastardisce nel cimento delle conquiste per procura.
Fruitori ed elargitori suppongono che la terra mitica di un sogno demiurgico sia garantita dalle leggi scoperte, ma intanto, fraintendendo il senso profondo di quelle leggi in omaggio alle istanze da cui si è spronati e a volte incoronati, procedono purtroppo a distruggere la terra reale, cioè tutta quella surreale baraonda da autentico sogno un po’ perverso che la decora e che ora, davanti all’ingannevole sogno dogmatico dell’umanità e dei suoi tecnicismi manipolanti e semplificanti, arretra e si corrompe coinvolgendo ovviamente nel crollo la stessa umanità.
Le critiche kolibiano non riecheggiano troppo un certo spiritualismo ‘new age’ dell’ambientalismo anni ‘60?
Nei testi classici dell’ambientalismo ricorrono correttamente i termini abbinati di tecnofideismo e cornucopianesimo per definire l’ottimismo economicista: preventiva sterilizzazione concettuale e mitologia dell’abbondanza inesauribile si legano a vicenda in una dicotomia ineludibile, cementano insieme le basi di ogni velleità di conquista planetaria.
Entrambi i corni del dilemma sono logicamente e scientificamente destinati a subire, prima o poi, stravolgimenti che li fanno cozzare uno contro l’altro: la metafisica da rullo compressore che si sostituisce come illusione all’autentica complessità del vivente non può che avversare il rigoglio inesauribile della metafisica non umana e questa, prima dell’inevitabile reazione che scalzerà e butterà nella polvere il cavallerizzo impazzito, si mortifica e sclerotizza mentre i crismi e i poteri della regia passano dalla viva realtà all’artificio dei credi assiomatici.
Per evitare di fare i conti con la cruda quanto pirotecnica sostanza delle cose, qualsiasi visione scientifica settoriale e non olistica finisce, prima o dopo l’inglorioso e inevitabile epilogo, per consegnarsi con le mani legate all’arbitrio egemonico di visioni teologiche a cui è sempre consentito risolvere tutto nel modo più facile: una divisione del mondo tra una corte di eletti gratificati da qualche divinità simbolica e vaste masse di comune bestiame nutrite e accudite in recinti.
Anche quella, però, si rivela un sogno e anzi un’acrobazia onirica più fantasiosa di ogni spiritualismo bucolico: fuori dall’olimpo rimangono sempre bande di semidei o di titani almeno altrettanto numerose dei residenti olimpici e i recinti sono sempre sul punto di esplodere mentre i pascoli si inaridiscono sotto zoccoli nervosi e scalcianti.
La critica kolibiana coinvolge anche l’ambientalismo scientifico?
Dipende appunto da che cosa s’intende per scientifico. Se significa relativo a specialisti nel senso di esperti incaricati dopo un immancabile azione di filtro, i quali stendono rapporti in commissioni ufficiali e li sottopongono con mille precauzioni diplomatiche alla decisione dei politici, la risposta, se non è affermativa, è almeno dubitativa.
Basta confrontare l’ambientalismo europeo con quello statunitense per rendersene conto.
Iniziative storiche come quelle del Club di Roma sono nate in assenza (almeno dichiarata) di qualunque agenda politica. Non sono in grado di dire se vi albergassero anche doppi fini o eccessi snobistici, ma so o mi sembra di sapere che l’impatto fu un pugno nello stomaco a svariate forme di interessi sia di destra che di sinistra (allora esistevano ancora concreti e circoscrivibili interessi economici di destra e di sinistra capaci di dare un minimo di sostanza al ‘gioco’ elettorale) e l’ostracismo del mondo politico fu pressoché unanime.
La diffidenza fu più accentuata a sinistra, ma solo perché previsioni scientificamente azzeccate potevano in quel momento apparire come una doccia fredda per le spinte rivendicative di classi inferiori allora in piena attività: nessuno, infatti (o pochissimi), nell’ambito di una sinistra inebriata dai capricci del vento sindacale e poco propensa ad assunzioni di responsabilità strategica, vide in quelle formulazioni una forte giustificazione teorica per procedere verso una economia di stato.
I risultati che ora comunque constatiamo in Europa appaiono forse inferiori rispetto a quanto avvenuto (finora) negli USA dove una parte del partito democratico (non tutta e nemmeno, scrostate le apparenze, la maggioranza) ovvero dell’establishment, ha appoggiato la causa ambientalista?
Perlomeno in Europa non esiste o è abbastanza insignificante quello che negli States invece sembra prevalere: una corrente dogmaticamente, dichiaratamente, programmaticamente e selvaggiamente anti-ambientalista.
Il problema di fondo riguarda la totale inconsistenza o, peggio, contraddittorietà, di un ambientalismo da classe privilegiata fiorito in ambienti sofisticati o comunque non popolari in una nazione economicamente e militarmente molto (troppo!) potente il cui internazionalismo, elaborato dai think tank più raffinati, è stato, è e sempre sarà una forma raffinata di colonialismo.
Chi ha interesse a confondere l’analisi kolibiana con fenomeni definiti qualunquismo o populismo?
I portatori di interessi elitari dilazionanti e temporeggiatori che ovviamente non possono fare finta di ignorare i problemi, né affrontarli con grossolana faciloneria, ma nemmeno (il che è comprensibile, ‘umano’) possono rinunciare a convenienze vitali, a privilegi qualificanti che ineluttabilmente alzano pericolosamente il livello del rischio considerato tollerabile.
A volte non si tratta tanto di interessi materiali, bensì morali, esistenziali, spiritualistici, il che non è affatto detto che migliori la situazione.
Davvero dobbiamo plaudere all’attore hollywoodiano dai modi accattivanti e gentili quando predica la salvezza delle energie rinnovabili ed esecrare il commesso o barista o autista o magazziniere di Baltimora o Detroit quando urla che gli USA non devono impoverirsi coltivando sensi di colpa a favore delle nazioni emergenti? Stanno dicendo cose radicalmente diverse, se violiamo l’apparenza per penetrare nei sottintesi sotterranei?
Se l’attore dicesse: ”Attraverso la tecnologia delle rinnovabili gli USA potrebbero conquistare il mondo come hanno fatto con Microsoft, Google o Facebook!” e l’uomo della strada: “Non è la stessa cosa e poi i tempi sono cambiati, è già tardi e poi è tutto da dimostrare che le rinnovabili siano una soluzione efficace, mentre è quasi certo che, a pari condizioni, renderebbero più elevato il costo della vita!” la musica generale cambierebbe di molto? Forse cambierebbero soltanto i livelli di sincerità e i tassi di nobiltà delle rispettive posizioni.
Venti o trent’anni fa gli ambientalisti statunitensi dicevano: tra venti o trent’anni potrebbe essere troppo tardi. Adesso dicono: tra venti o trent’anni potrebbe essere troppo tardi.
In realtà quando diventerà troppo tardi (e molto probabilmente già adesso lo è) ogni nazione cercherà di cavarsela optando per quel tipo o l’altro di cosiddetto sovranismo che si rivelerà l’unica opzione percorribile in assenza di quel Progetto di Stato Stazionario che nessuno di quelli che volano da un meeting, simposio o congresso all’altro si è mai dato la pena di teorizzare per il semplice motivo che non conviene a lui o almeno alla maggioranza decisiva dei suoi sponsor.
I kolibiani sono ‘sovranisti’?
L’internazionalismo dei potenti è il sovranismo dei vincitori (e perfino il populismo dei vincitori, se vi gioca un minimo di considerazione per le esigenze delle classi inferiori, magari solo per motivi elettoralistici), quel sovranismo o populismo che critica il sovranismo o il populismo delle medesime classi inferiori: se e quando scatterà l’ora x mentre la soluzione geniale dei futurologi di marca con tanto di certificato di garanzia si sarà limitata alle energie rinnovabili e ai palliativi di mitigazione, la corsa di ogni nazione o di ogni consorzio di nazioni avverrà in un teatro planetario di purissima disfida darwiniana, con gli annessi e connessi per quanto riguarda l’escalation dei vari conflitti e magari la bella sorpresa in stile serendipity di un inverno nucleare come sbrigativo ed efficacissimo espediente di autentica mitigazione, magari espressamente cercato e programmato.
In alternativa si può invece credere che analoghi di un Gore o di un Obama, che magari il giorno prima, calcoli alla mano, hanno revocato agevolazioni governative a particolari settori industriali impegnati nelle energie rinnovabili, nel momento cruciale posporranno gli interessi nazionali a valutazioni filantropiche circa la salute e la felicità di tutti gli altri popoli della Terra, le cui intenzioni possono essere tante e diverse, ma mai facilmente decifrabili.
Consoliamoci: finché dura Trump o un suo analogo non sussisteranno ombre sgradevoli relative a certi dilemmi.
E’ vero che l’estremismo di centro kolibiano a volte si è mostrato favorevole più a una politica estera coloniale di destra che di sinistra?
No! Si tratta solo di capirsi bene.
A differenza dei democratici, gente come Trump sarebbe bravissima a scongiurare conflitti mondiali alleandosi con chi merita per tenere buoni i paesi che non fanno parte del club, magari fomentando in apparenza conflitti locali magari con il tacito assenso magari segretamente collaborativo di avversari ancora dotati del minimo buon senso per capire che certi limiti non si possono superare: gente come Trump si accontenta del potere il più possibile assoluto e dei suoi compromessi il più possibile impresentabili, non vuole brillare come il faro del mondo.
Per capire come ciò sia sgradevole, ma offra molto meno i fianchi a una eterogenesi dei fini, consideriamo un esempio specifico.
Arretriamo di qualche decennio e collochiamoci in piena guerra fredda alias equilibrio del terrore o della dissuasione preventiva. Supponiamo che in una certa parte politica cruciale di uno dei maggiori contendenti prenda piega la figura carismatica di un falco propenso ad azzardi che la parte maggioritaria, più prudente, dei colleghi consideri a un certo punto una inclinazione pericolosa verso azzardi resi allarmanti per la capacità del falco di attrarre adesioni in settori non preponderanti, ma molto attivi e inquieti, dell’esercito, della polizia e dei servizi segreti.
Quale migliore strategia per i colleghi del falco, al fine di preservare i fragili equilibri e non compromettere le opportunità di pace, che dare informazioni al ‘nemico’ circa gli spostamenti del falco medesimo, accompagnati dal messaggio cifrato che un intollerabile atto di guerra, non solo sarebbe tollerato, ma perfino ben visto?
Un democratico rifiuterebbe ricevendo dalla controparte solo disprezzo e scrollate di spalle tipo ‘se vi va bene così...’, un Trump ci si butterebbe a capofitto anche per distogliere dai pasticci interni.
Naturalmente quello che succederebbe dopo sarebbe in ogni modo denso di incognite, ma ai kolibiani non sembra facilissimo stabilire quale sarebbe la scelta più coraggiosa, assennata e lungimirante.
Queste tristezze da realpolitik possono rincuorare i paesi subalterni per cui gli esami non finiscono mai e sbagliano sempre i compiti a casa: quando vi alberga un umore uggioso da ultima ruota del carro, possono pur sempre ricordarsi di possedere una Borsa nazionale con annessi listini titoli che brindano e lanciano il cappello in aria ogni volta che i potenti si accordano mentre, chissà perché, non si scompongono più di tanto quando i piccoli si azzuffano tra di loro o minacciano di farlo.
Si dovrebbe allora dedurre che la filosofia del Progetto di Stato Stazionario è un puro non senso?
Niente affatto: qualsiasi formulazione culturale riguarda la conformazione degli individui, le metamorfosi del loro stato psicologico e mentale, l’insieme degli stimoli e delle motivazioni sottoposti al vaglio selettivo di una emblematica realtà che comprende gli stessi individui e moltissimo altro.
Ogni effetto importante sui singoli soggetti psichici si trasmette poi a opinioni pubbliche e comportamenti collettivi.
Nessuna concezione teorica, descrittiva o prescrittiva, ha mai ottenuto quello che si era eventualmente prefisso, risultando alla fine come una manciata di ingredienti buttata più o meno alla cieca nel grande calderone delle fenomenologie effettive: quando una qualsiasi teoria ha voluto trasformarsi in prassi comune ed estesa si è assistito quasi sempre a qualcosa di molto peggio di una semplice alchimia culturale.
L’unica razionalità che, sconfinando da un ruolo abbastanza marginale di guardiano di linea o perfino giudice-arbitro, abbia mai potuto avere un impatto concreto nello svolgersi delle vicende umane, ha riguardato sempre i marchingegni di unità ristrette, come una corte aristocratica, un gruppo di governo o di rappresentanza, un’azienda, un nucleo familiare: in tempi lunghi, la relazione tra unità è sempre orchestrata molto più da un destino indecifrabile che da una fantomatica volontà.
La teorizzazione del Progetto intende esprimere questo stato di cose nel modo più diretto possibile: attraverso una teorizzazione che rinnega se stessa, una teorizzazione che rimanda senz’altro a una pratica denunciando la propria tautologica impotenza in quanto teorizzazione.
Se questo aspetto verrà colto almeno intuitivamente dagli elementi più determinanti di una comunità, potrà verificarsi un salto qualitativo nel medio livello culturale accompagnato da una variazione dei coefficienti di reazione e delle percentuali di ipotetica salvezza, ma in un modo o nell’altro il giudizio sarà emesso in base alla natura metafisica del mondo.
Secondo i Kolibiani, la differenza cruciale verte sull’esistenza oppure no di una forma o l’altra del Dio venerato sia dalle religioni monoteiste sia, in modo subliminale e dissimulato, da molta parte della scienza mainstream.
Se tale Dio non esiste o presenta caratteri antitetici rispetto a quelli tradizionali (i caratteri così sublimemente messi in luce dai Kolibiani), i cui effetti si riveleranno in tempi non facili da determinare, ma probabilmente molto più nell’ordine dei decenni che dei secoli, l’attuale assetto organizzativo dell’umanità riceverà da poteri esterni e superiori un verdetto di condanna capitale.
I Kolibiani ritengono inoltre che la cosa più insignificante riguardi proprio quello che molti reputano invece il punto più qualificante: se tali poteri siano personificati o meno.
E’ chiaro che i Kolibiani ritengono qualsiasi personificazione (termine peraltro estremamente ambiguo) o ridicolmente assurda o totalmente imperscrutabile, ma a loro sembra ancora più assurdo e insieme imperscrutabile non capire che un tipo o l’altro di personificazione effettivamente divina equivale a un tipo o l’altro di destino impersonale, non comporta niente che autorizzi una maggiore o minore fiducia da parte della sedicente santa umanità.
Questa sì è autentica religiosità, miei cari valenti e insigni signori.
Che cosa autorizza l’ideologia kolibiana a non considerarsi una ideologia come un’altra?
Soltanto: a) una scissione netta, radicale, irrevocabile tra ambiti pubblici / oggettivi e ambiti privati / soggettivi; b) la circoscrizione tassativa della sfera politica e amministrativa ad aspetti tecnici di fisiologia materiale abbordabili da metodologie di pianificazione scientifica; c) una subordinazione totale dell’economia privata all’economia pubblica non per considerazioni di etica comunitaria o umanesimo escatologico, ma in base a esigenze di imparzialità che conseguono da considerazioni di logica elementare relative alla necessità inderogabile di uno stato stazionario visto come unica opzione di sopravvivenza di una umanità che intenda conservare in modo stabile un alto livello tecnologico senza pagarne le conseguenze per un’assurda esasperazione dall’impronta quasi paranoica.
Che cosa distingue la visione kolibiana da una pura e semplice utopia?
Semplicemente il realismo catastrofico ovvero un giudizio scientifico di assoluta incompatibilità tra gli attuali modi dell’invasione umana del pianeta e i più fondamentali equilibri naturali, quegli equilibri che, a prescindere da ogni altra considerazione, si rivelano indispensabili per prolungare quella medesima invasione, auspicabilmente ridotta a semplice presenza soddisfacente da un punto di vista soggettivo e, per altri versi, statistico.
Gli effetti destabilizzanti irrimediabili vengono valutati secondo un orizzonte temporale dell’ordine dei decenni e non dei secoli, il che implica rischi esorbitanti alla luce di qualsiasi serio principio di precauzione o dubbio ragionevole entro periodi di anni e non di decenni.
Come si può tracciare un limite tra critica legittima e offesa di certe sensibilità morali e anche estetiche molto diffuse?
Un siffatto limite non può essere tracciato in presenza di allarmi ed emergenze che evocano prese di posizioni epocali e rivolgimenti profondi nei più comuni modi di pensare e di agire.
Una qualsiasi rivendicazione di priorità culturali e sentimentali è difendibile solo finché non urta contro situazioni di fatto non più rinviabili, altrimenti rappresenta una forzatura ideologica che si arroga assurdi poteri demiurgici.
I conflitti ideologici e politici o i confronti tra religioni o tra laicità e fede confessionale cambiano radicalmente aspetto quando coinvolgono scelte e interventi da impostare prima di tutto in rapporto a ben determinate valutazioni oggettive e scientifiche e ciò indipendentemente dal grado di chiarezza e univocità che vi si può accreditare.
Su un livello puramente dialettico, filosofico, argomentativo, un certo tipo di visione etica e/o religiosa calata come un velo di Maya davanti a qualsiasi autentica possibilità di evoluzione catastrofica non può pretendere la delicatezza della comprensione e del rispetto da parte di chi ritiene tali possibilità allarmanti e incombenti al punto di considerarle del massimo rilievo prioritario, altrimenti tanto vale che consideriamo qualsiasi analisi o discussione alla stregua di un divagante intrattenimento giocoso come avviene nelle chiacchiere radiofoniche tra una canzone e l’altra e spesso e volentieri nella maggior parte dei talk show.
Un catastrofista può essere esecrato per le ragioni che porta, non perché è un catastrofista che induce timori nella gente: nel secondo caso, chi lo contesta si rivela un propiziatore almeno potenziale di catastrofe.
Pretendere che una qualsiasi dialettica tra interlocutori umani possa dimenticarsi della realtà non umana rappresenta una dogmatica anche se dissimulata concezione di quella realtà, nasconde l’azzardo presuntuoso e compromettente di un integralismo di base, reclama la paradossale libertà di un pregiudizio definitivo e tranchant, rivela un assolutismo astratto da cui discendono concretissime conseguenze cruciali.
Come si può evitare che un giudizio su fatti scientifici ritenuto preponderante e irrefutabile ostacoli i più naturali e spontanei processi democratici alla stessa stregua di un pregiudizio o addirittura un dogma metafisico?
I più naturali e spontanei processi democratici non possono rivendicare nessun diritto insindacabile verso una ignoranza sistematica quando questa diventa ambigua e pericolosa.
Idem per quanto riguarda ciò che è palesemente antinomico, come il magnificare in piazze gremite un grande dispiego di attivismo privo di alcuna sostanza palese a parte uno sperpero di energie che in un modo o nell’altro peseranno ulteriormente sui bilanci familiari.
Invece di riempire le piazze, come è sempre avvenuto senza che ciò sia mai riuscito a condizionare davvero il corso profondo delle ineluttabilità economiche sotto le giravolte superficiali dei costumi, si dovrebbe procedere a svuotare le cabine elettorali manifestando con ciò la consapevolezza che la vecchia politica è arrivata al capolinea.
Come passo successivo, si dovrebbero inventare forme di resistenza passiva e manifestazione spontanea che in un modo o nell’altro proclamassero a voce molto alta: vogliamo al più presto un progetto o più progetti alternativi e votare su questo o su quelli (simili forme di protesta, attuabili anche in assenza di quella contraddizione in termini che sono i ‘leader’ (strani e affascinanti fenomeni come la Greta a parte) potrebbero sempre tramutarsi in forme più energiche e organizzate qualora il degenerare delle situazioni lo richiedesse).
In assenza di questa politica effettivamente ed esplicitamente progettuale quello che avverrà è estremamente prevedibile in base alle esperienze passate: dietro l’enorme sipario gaudentemente democratico delle foglie più fiche dei fichi più fichi (passerella sontuosa per capipolo e trascinatori di masse che vinceranno o perderanno in antitesi perfetta con la sconfitta o la vittoria delle istanze di base), delle due una: o si prepara il grande schianto che tasterà l’alea dei destini facendo girare la ruota con altri mezzi di prosecuzione politica, o le varie oligarchie patteggeranno tra di loro le modalità di aggiustamento dei passi e delle mete tenendo conto delle emergenze certe e inevitabili.
Conviene ripeterlo e ripeterlo ancora: si dovrebbe affollare e non svuotare le cabine elettorali soltanto a favore delle parti politiche più direttamente progettuali, se dovessero comparire inopinatamente sulla scena, cercando così di evitare che un voto diviso al 50%, punto più o punto meno, tra due schieramenti costretti a fare, punto più o punto meno, le stesse identiche cose, si tramuti in una divisione muro contro muro quando le stesse identiche cose si palesassero finalmente delle prese in giro inutili e controproducenti e quindi si fosse costretti a optare, come prima o poi si renderà necessario, per imposizioni unilaterali tali da scontentare radicalmente il 50% dei votanti (punto più o punto meno) che ha perso le elezioni o la quasi totalità se a perdere (come prima o poi si renderà necessario) sarà la quasi totalità.
Quanto sopra può apparire troppo massimalista e radicale, i lettori attenti non faranno fatica ad accorgersene (questo del resto è un testo presuntuoso che si rivolge presuntuosamente soltanto a lettori attenti, anche se non per scelta deliberata (mi dedicherei a un best seller capace di generare ritorni più congrui, se rientrasse nelle mie corde (David Lynch una volta disse (più o meno): beati i registi come Spielberg, ai quali piace quello che piace alla maggioranza della gente)).
Le persone attente (che leggono testi filosofici) non pretendono che quello che è espresso senza peli sulla lingua in un testo filosofico possa essere tradotto fedelmente sul palcoscenico della realtà: chi fa cultura butta semi nella testa della gente, ma non sa esattamente a che specie vegetale appartengono.
Chi conosce esattamente il tipo di rami, foglie e frutti che vuole far germinare nella testa della gente, non fa cultura, ma propaganda.
Gli interessi manifestano una natura chiara ed evidente come sembrano intendere i kolibiani o cambiano forma e aspetto a seconda di come si realizzano i giochi politici?
Attualmente, la seconda descrizione è più credibile, ma se si ritiene che lo stato stazionario e quindi l’istanza progettuale diventino irrinunciabili, si deve provvedere a stabilizzare gli interessi primari e stornare il più possibile gli interessi indotti per esigenze economiche di consumismo e di mercato, oltre che per tutto un vastissimo coacervo di lusinghe psicologiche imbastite dalla scenotecnica della teatralità socio-politica.
Come rispondono i Kolibiani all’accusa di essere anti-democratici?
In presenza di emergenze riguardo alle quali i popoli non possiedono cognizioni in grado di approntare i giusti rimedi, si prospetta soltanto un tipo di democrazia: affidare lo studio delle soluzioni a élite competenti e sottoporle con i il dovuto dispiego di mezzi divulgativi ed esplicativi al vaglio di interessi reali massimamente diffusi, riconosciuti nella loro essenza prioritaria senza colpevolizzazioni e censure preventive.
La democrazia fasulla e truffaldina, in versioni che divergono soltanto per la diversa tutela che offrono a interessi diversi pudicamente celati, sancisce che il corpo mistico della società debba essere onnisciente su priorità connesse a valori e non a interessi.
La democrazia vera, genuinamente liberale, concede invece all’individuo il difetto del resto ineluttabile dell’ignoranza e la legittimità di interessi non trattati da una profilassi sterilizzante.
La democrazia puramente formale che si sta delineando è esattamente il contrario di quella kolibiana: una scrematura e un condizionamento delle istanze più naturali attraverso una sapiente eugenetica preventiva e promozionale, un sapiente condizionamento propagandistico sottilmente pervasivo, in modo che élite competenti quasi esclusivamente nel mantenimento e nella riproduzione di se stesse acquisiscano sempre più libertà discrezionale nell’impostare presunte soluzioni ad hoc connesse a scelte pressoché obbligate e riferite a emergenze riguardo alle quali si tacciono le cause effettive e si dà anzi per scontata l’assenza di incongruità sistemiche e di specifiche contraddizioni strategiche.
Un nuovo terrificante moralismo si sta affacciando all’orizzonte e lo si scorge, per esempio, quando un muro di silenzio e di censura preventiva viene eretto intorno ai danni fisiologici irreparabili indotti in astronauti che hanno trascorso solo pochi mesi nello spazio, come se riconoscere che l’uomo è un animale terrestre, che per invadere lo spazio extraterrestre necessita di mutazioni genetiche e condizionamenti da cyborg, diffonderebbe un pessimismo offensivo e lesivo rispetto a istanze educative irrinunciabili per la coltivazione nei sudditi di prodezze ormai obbligatorie.
Mentre si predica l’asepsi di una modellistica prescrittiva e convenzionata in cui ogni istanza ecumenica è accuratamente ritagliata secondo le esigenze dei mercati che ancora consentono adeguati ritorni aziendali, la retorica politica di una classe dirigente sempre più fondata su quei mercati, e quindi, in sostanza, sovvenzionata dall’estero, è costretta dalla sostanza del gioco elettorale a mascherarsi dietro i soliti vieti proclami nazionalistici che chiamano a una reazione eroica le solite viete caratteristiche etniche, i soliti vieti sciovinismi locali.
Non sarebbe molto meglio prendere atto una volta per tutte che il fenomeno umano è unico come la biosfera e che, come nella biosfera, nel suo ambito contano soltanto due ordini di fenomeni: la fisiologia sistemica generale e l’individualità dei singoli organismi? Programmare la eliminazione dell’anomalia umana e una armoniosa integrazione planetaria accanto alla libertà e alla liberazione di individui non più equiparati a congegni esplosivi sparsi nella natura?
Armonia e libertà sulla massima scala terrestre possono nascere solo dal Progetto, la spontaneità aleatoria e indiscriminata nell’esercizio della potenza umana conducono verso la gerarchizzazione teologica, la sottomissione geo-politica, l’oppressione esistenziale e, probabilmente, alla decimazione e forse all’estinzione.
Dal punto di vista di una generica prassi sociale, i Kolibiani non sopravvalutano l’effetto delle contraddizioni sminuendo il pragmatismo degli aggiustamenti e delle mediazioni?
La dialettica di ascendenza marxista e il pluralismo relazionale (la comunicazione e il dialogo) della democrazia rappresentativa si collocano in una tradizione umanistica secondo modulazioni espressive dipendenti dai diversi gradi di stabilità sociale e dalla mutua interazione tra gruppi portatori di aspirazioni e interessi più o meno conflittuali.
Entrambi i filoni, come del resto ogni deviazione autoritaria conseguente o antitetica, s’incentrano su una metafisica antropocentrica che in sostanza ignora totalmente e anzi giudica questione quasi riprovevole e perfino blasfema il problema della compatibilità del complesso fenomenologico umano con il complesso fenomenologico dell’ambiente planetario.
Tale gigantesca trascuratezza dipende da uno strabiliante processo d’inversione in base al quale non è il ricetto naturale dell’intera biosfera a ospitare l’evento recentissimo e probabilmente passeggero della specie homo soss (sapiens o sapiens sapiens), bensì l’architettura generale costruita dall’immane formicaio delle psichi umane a ospitare l’intera biosfera al culmine di un processo filogenetico dispersivo e pasticcione fino a una inezia di tempo geologico fa.
Si tratta, del resto, di un prolungamento naturale dell’illusione soggettivista: i processi fondamentali attraverso i quali l’uomo parcellizza, classifica e struttura la realtà esteriore risentono fortemente della persuasione introspettiva che l'io sia qualcosa di separato da un corpo riguardo al quale rivendica priorità ontologiche di fantasia, processo d’inversione che si trascina dietro una quantità di distinzioni artificiali fondate su illusioni di autonomia fittizia.
Detta così, la concezione delineata nell’ultimo paragrafo appare incredibilmente fantasiosa: per questo detta concezione non la si dice mai così e ci si limita a viverla o a farla agire senza rifletterci sopra.
Se tale concezione fosse esplicitata, si evidenzierebbe l’assoluta irrazionalità di ciò che si considera implicitamente il fondamento assoluto della razionalità, aprendo il vaso di pandora delle antinomie si cui si aggrappa senza che quasi nessuno se ne accorga il corso delle vite comuni.
Guardare in faccia questo tipo di contraddizioni per le quali non esiste rimedio, per cui non si può escogitare alcun processo valido di decantazione o edulcorazione, può essere doloroso, ma anche indispensabile: per negarlo con un minimo di credibilità è necessario tenersi ben stretti a quelle contraddizioni e non allontanarle mai al punto di potersi fare una cognizione del loro profilo autentico.
La ripulsa generalizzata dei cosiddetti valori non rischia di tramutarsi in puro e semplice cinismo?
I Kolibiani non contestano i valori individuali ovvero quei motivi ispiratori e regolatori che in qualche modo indirizzano o influenzano il corso delle singole vite (tanto più auspicabili quanto meno collidono e quanto più si armonizzano con la rete dei valori altrui), i Kolibiani contestano valori pubblici che si raggrumano in complessi di pressione ideologica senza essere stati preventivamente sottoposti a un’azione igienica di filtro capace di depurarli dalle incrostazioni soffocanti di interessi che, dal punto di vista dell’azione politica concreta, esercitano immancabilmente la preponderanza del loro peso condizionante.
Naturalmente ogni essere umano sano professa valori che gli convengono, fatto innegabile quanto ineluttabile non appena si pervenga a un concetto di convenienza sufficientemente profondo ed esteso, una nozione che tenga in debito conto il novero di sfaccettature che si articolano a partire da una vita psichica allevata in una rete di relazioni sociali, economiche e culturali molto più complessa degli ambienti etologici relativi a qualsiasi altra specie animale.
Un kolibiano che non professasse valori convenienti non costituirebbe un esempio di santità ammirevole ed esemplare: rivelerebbe come qualsiasi altro individuo una costituzione psicologica difettosa, coefficienti preoccupanti di assurdità secondo criteri darwiniani.
La differenza in termini ideologici e politici di un kolibiano rispetto a un suo avversario (competitor!) dialettico non rimanda a una fisiologia di base più o meno ‘spiritualizzata’, verte semplicemente sul grado di consapevolezza in merito a quanto appena detto o, per meglio dire (visto che non si tratta nemmeno, questo è altrettanto certo, di differenze di tipo intellettivo) su una valutazione di quanto sia utile e perspicuo sottolineare l’esistenza insuperabile di quei limiti e impossibilità che marchiano a sangue il corpo di qualsiasi dottrina etica o morale.
I Kolibiani si avventurano in certi territori pericolosi soltanto perché: a) ritengono (magari a torto) che nello stato attuale delle cose i pericoli autentici siano ben altri; b) perché (così almeno ritengono) lo storno di tali pericoli richiede una visuale olistica e progettuale che non si può assolutamente conquistare senza avventurarsi in quella insidiosa terra di nessuno (poco importa se, chi non osa, lo fa per timore, prudenza, buon senso, avvedutezza o altro).
A pesare non sarà mai l’eventuale cinismo dei Kolibiani, piuttosto il cinismo intrinseco e strutturale di un tipo società che, mentre ogni altra complessità si sviluppa in modo esponenziale, perde sempre più quella complessità che è la sola capace di fondare la natura democratica delle proprie istituzioni: la complessità di un intreccio sufficientemente vasto ed equilibrato di interessi determinanti.
Aggiunte del 3 dicembre 2019
BREVE SAGGIO ANTROPOLOGICO SUL VIZIO DI DESTRA E DI SINISTRA SECONDO IL PUNTO DI VISTA DELL’ESTREMISMO DI CENTRO KOLIBIANO
Il termine ‘antropologia’ evoca inevitabilmente per un kolibiano riflessi di natura patologica legati ovviamente all’oggetto di studio e non allo studio medesimo: l’antropologia si occupa infatti di zoologia umana e, per addivenire a sintesi generali, isola comportamenti e mentalità perspicui e definibili solo in ambiti ristretti ovverosia, in un senso almeno approssimativo, tribali o settari. In tali contesti, come sarà ulteriormente argomentato nella successiva sezione dedicata alle ‘fake news’, patologia e normalità s’intrecciano indissolubilmente al punto che, se non ha senso parlare di patologia, non ha senso neppure parlare di normalità.
Una tribù o una setta, che siano concentrate per fronteggiare un territorio selvaggio o disperse su una vasta zona civilizzata dove le parti si rapportano attraverso i più diversi contrassegni di riconoscimento simbolico e le più diverse forme di aggancio comunicativo, implicano una giungla di attitudini artificiali laboriosamente e spesso precariamente sovrimpressa a una base di istinti biologici.
In fondo, una patologia, anche in senso medico (basta pensare all’anarchia tumorale), non è che una trasgressione (giusta o sbagliata) opposta a una norma (sbagliata o giusta) e l’uomo, rispetto alla natura, è ora più che mai (anche se in realtà lo è sempre stato) sinonimo di devianza.
Anche nelle civiltà industriali, una antropologia e quindi qualche specie di patologia si sostituiscono all’attività costruttiva e progettuale ogni qual volta (cioè quasi sempre) diventa impossibile instaurare sul mondo una qualsiasi presa esclusiva di tipo scientifico o almeno razionale.
La politica diventa antropologia e quindi, almeno in parte, patologia quando si trasforma in usanza folkloristica e convenzionale, non riuscendo nemmeno più ad accorgersi che le formule fondamentali con cui usa etichettare il mondo, come per esempio quelle di ‘processo democratico’, ‘libertà di mercato’, ‘comunismo’, ‘fascismo’, ‘liberalismo’ stanno perdendo significato e congruità a una velocità vertiginosa, nei casi migliori, e subendo, nei peggiori, capovolgimenti improvvisi di senso secondo gli usi e i contesti.
Il termine ‘politica’ designa qui (ovviamente) la liturgia delle contrapposizioni partitiche, non le necessarie e inderogabili supervisioni gestionali e arbitrali al cui asciutto disbrigo si sovrappongono inevitabilmente (fuori da qualsiasi visione progettuale ‘in grande’) rituali sistemici ‘patologicamente’ dilatati da un auto-riferimento di base imposto da ragioni professionali-affaristiche che, in un modo o nell’altro, finiscono per sconfinare oltre il perimetro di esigenze (già di per sé problematiche in quanto compromettono inesorabilmente l’equità e imparzialità delle regole) di finanziamento fisiologico minimale.
Naturalmente, un qualsiasi animale di qualsiasi specie animale è opportunamente relegato a essere un animale e solo un animale: il ‘genere’ umano, dato il potenziale distruttivo delle sue forzature artificiose e manipolanti, non potrebbe e non dovrebbe limitarsi a essere meramente antropologico stazionando in quella sciagurata, accidentata, disarmonica terra di nessuno tra animalità e razionalità (o anche, se si vuole, ‘spiritualità’) in cui sventuratamente si ritrova.
Premessa lessicale in forma dubitativa o ipotetica: la qualifica di ‘estremismo di centro’ potrebbe essere intesa (anche se permangono al riguardo svariate perplessità da parte degli stessi kolibiani), come la caratteristica di assommare in contemporanea e nella stessa persona il vizio di destra e quello di sinistra (ricordate? Cuore a destra e cervello a sinistra!). A differenza del moderato di centro (varietà oggi probabilmente estinta se si smascherano tutte le varie opportunistiche e spesso grottesche imitazioni e contraffazioni), che vorrebbe miscelare i due vizi in centellinate ponderatezze, l’estremista di centro non disdegna i pasticci con dosaggi ad alta gradazione, ma nel fare ciò conferisce agli ingredienti un’azione simultanea e reciproca di neutralizzazione e di antidoto (oggi il perfetto moderato di centro possiamo vederlo all’opera, per esempio, quando è quasi sul punto di indignarsi alla notizia che un condannato per strage dopo dieci anni ha compiuto un’altra strage mentre era in libertà vigilata, ma poi, da uomo di mondo analitico, riflette che il suo leader preferito ha dovuto soggiacere a certi eccessi di garantismo per conservare una certa imparzialità democratica insieme al diritto del medio galantuomo a tenere lucidato e splendente il proprio tenore di vita senza rischiare a ogni passo la galera).
Il kolibianesimo non teme coloriture accese e stridenti: ogni bollente spirito, anche antagonista e sovversivo, si può mitigare e contemperare nell’atmosfera refrigerante del Progetto e se qualcuno teme gli stridori polemici perché incrinano e fanno tremare convinzioni instabili e fittizie non è adatto a incamminarsi sui sentieri impervi e tortuosi che raggiungono i crinali sotto i quali può distendersi per la prima volta la visione panoramica del Progetto medesimo.
Se quelli adatti risulteranno poi, alla resa dei conti finale, sparuti e insignificanti manipoli, pazienza: non si potrà di sicuro addebitare ai kolibiani il fallimento dell’umanità.
Se siete portati a rimproverare alla Bibbia kolibiana inutili asprezze sarcastiche o gratuite cadute di stile e di gusto, vi inviterei in via preliminare a riflettere sul grado di retorica e valenza allegorica presente in qualsiasi testo a prescindere dalla volontà dell’autore e dalle forme esteriori esplicitamente adottate, ad auscultare come le varie impronte stilistiche o espedienti fraseologici si integrino o disallineino rispetto a sempre ipotetiche ed enigmatiche centralità e sostanzialità di messaggi velleitariamente votati alle egide e ai crismi della sincerità.
Anche una miscela di prudenza salomonica, rispettoso pluralismo, imparzialità ineccepibile può echeggiare di boati sinistri e risonanze graffianti qualora si dovesse riferire a evidenze allarmanti a cui un tono possibilista e dubbioso non conferisce la dovuta rilevanza e anzi tende a scansarla per motivi poco chiari perché non sufficientemente elaborati: affettazioni di signorile distacco e infide ipocrisie possono marciare distanti o convergere pericolosamente, ma la geometria delle traiettorie non dipende dallo stile, bensì dai giudizi sui fatti e dalle motivazioni che li guidano.
Se, non i fatti, ma gli accessibili riscontri su di essi, come quasi sempre accade sono ambigui, anche solo assolutizzarne le versioni ‘moderate’ tagliando sistematicamente e pregiudizialmente le gambe a quelle meno rassicuranti, comunque argomentate, rappresenta quasi sempre un illegittimo arbitrio del puro interesse, il che varrebbe anche al contrario, se il contrario diventasse dominatore assoluto di una normalissima ambiguità e se una normalissima ambiguità, in determinate circostanze, non costituisse già di per sé un normalissimo, ma non per questo meno insidioso, pericolo.
Ovviamente gli interessi sono anche più ambigui delle esperienze fruibili, è difficile focalizzarli e quantificarli, ma escluderli al cento per cento consegue ipso facto o dalla pura ignoranza o da volontà di menzogna dettata da qualche interesse.
Proprio perché tutto è relativo e contestuale, tutto deve essere pesato e ponderato e proprio perché ogni pesata e ponderazione è relativa e contestuale, non può essere selezionata in base al filtro di una castrazione eugenetica che altro non è che discriminazione ideologica programmaticamente predisposta e articolata.
E proprio perché, in migliaia di anni di storia della scrittura, tutto è più meno già stato detto e ridetto, tutto è novità e aria fritta insieme e in proporzioni variabili, il come si dice non può mai essere interamente disgiunto da quello che si dice e perché lo si dice, partecipa comunque al profilo e all’incisività della logica argomentativa.
Supponiamo, per esempio, che il funzionario di un certo apparato burocratico si svegli un bel mattino improvvisamente avvolto dal sospetto che le mentalità e i criteri operativi adottati fino a quel momento da lui e dai suoi colleghi confondano o addirittura invertano i termini dei vari problemi rendendo spesso e volentieri il buono cattivo e il cattivo buono, il facile difficile e il difficile facile, il superficiale profondo e la profondità superficiale, il fondamentale irrisorio e l’irrisorio fondamentale, il concreto astratto e l’astratto concreto eccetera eccetera: se non si accontentasse (cosa in realtà molto saggia) di tagliare drasticamente in due la propria vita mentale dividendola tra pubblico e privato (nel caso di incompatibilità irrimediabili le soluzioni schizofreniche potrebbero sempre dimostrarsi l’unica razionalità percorribile, i pazzi autentici e migliori lo sanno molto meglio dei kolibiani), che strategia dimostrativa dovrebbe seguire una volta presa la risoluzione suicida di trasferire le sue convinzioni all’habitat circostante?
Beninteso, gli scenari che così si spalancano si tingono di tonalità molto diverse e cangianti sulla base dei canoni codificati di influenza e autorevolezza ascrivibili al nostro… eroe o squilibrato, scegliete voi: partendo dall’alto, mentre il livello di ascolto passa dalla perplessità allarmata al compatimento incredulo, si va dai drammi solenni e dalle disfide titaniche del Prometeo iconoclasta provvisto di un grado gerarchico elevato alla comicità penosa del Davide immobilizzato su una carrozzella e senza neppure una fionda che sfida un Golia armato di clava.
Se il Davide senza fionda brandisce la penna si trova davanti solamente due opzioni alternative in qualche modo auto-gratificanti: o cercare un posto nello zoo degli scribacchini come specie rara e ammirevole che capta gli sguardi incuriositi del pubblico pagante o divertirsi con l’esperimento sociologico di quelle verità sgradevoli che saranno automaticamente considerate menzogna, di quelle inevitabili metodologie costruttive che saranno viste come distopia invalidante, di quegli elementari richiami etici che saranno giudicati blasfemia arrogante e infamante (eccetera eccetera).
Questi esiti sono garantiti da tre ordini di ragioni: a) coefficienti di autorevolezza e credibilità, che esistono solo per privilegio, convenzione, abitudine o dogma, non si possono elevare in alcun modo proprio per la natura intrinseca delle tesi e delle dottrine veicolate; b) il credito sociale di una verità (sottinteso relativa, verità a meno del fattore K) dipende unicamente dalla quota di convenienze che è in grado di coagulare in merito all’opportunità o meno della sua diffusione; c) la maggiore convenienza sociale di una verità concordata non deriva dal suo essere mimesi mentale e linguistica di generalissime situazioni di fatto, bensì dall’essere mistificazione oggettivata e funzionale di particolarissime proiezioni mentali (storicamente connotate).
Il punto c) coinvolge la definizione stessa di ‘scienza’ e i rapporti tra scienza e filosofia. Gli odierni detentori del sapere riconosciuto ed efficace, ovvero gli specialisti delle varie discipline ‘che contano’, tendono in maggioranza, è inutile negarlo, a disprezzare la filosofia, ma la loro principale dabbenaggine filosofica non deriva da ciò, deriva dall’esatto contrario: dal considerare valido un presupposto capitale che, se fosse valido, imporrebbe di incoronare la filosofia come la regina delle scienze e dei saperi in genere.
Il presupposto in questione riguarda la condivisione della fondamentale credenza, ‘nonostante tutto’, che debbano per forza esistere principi fondamentali di nobile fattura concettuale dai quali si possa desumere il funzionamento profondo della realtà o addirittura il senso o addirittura la missione dell’umanità.
Il presupposto in questione implica cioè sorprendenti travisamenti e incomprensioni, secondo arcaici modelli vetero-filosofici (che, ripeto, se fossero validi proietterebbero filosofia e teologia al vertice dell’Olimpo delle scienze), circa il significato filosofico e scientifico della complessità.
Così, grazie all’avallo più o meno tacito degli ‘esperti’, l’uomo comune ritiene che esistano strumenti di controllo infallibili tali da zittire ogni fumosità filosofica (promossa o declassata a ideologia) quando proprio l’inesistenza di quelle fumosità, buttate dalla finestra come ciarpame filosofico, ma nel frattempo rientrate dalla porta come imposizione teologica, decreta la concomitante inesistenza di controlli infallibili.
Tutto ciò può apparire ingeneroso, oltre che presuntuoso e dilettantesco, nei confronti della mentalità tecnica oggi più diffusa, ma forse la cosa va vista al contrario: è la mentalità tecnica oggi più diffusa a essere ingenerosa, oltre che presuntuosa e dilettantesca, nei confronti della mentalità filosofica.
In ogni modo non c’è motivo di preoccuparsi: se un singolo privo di particolari lignaggi nobiliari giudica pazza una società o addirittura una civiltà, nessuno (escluso, ma solo in parte, lo stesso singolo) giudicherà pazza la società o civiltà invece del singolo.
Un colpo di scena al riguardo potrebbe essere giudicato divertentissimo, ma solo da singoli pazzi.
Dal novero degli esilaranti colpi di scena deve però essere tassativamente esclusa ogni evenienza di un futuro lontano (ammesso che sia ancora proponibile), dato che è estremamente ovvio e banalissimo che i benemeriti e prestigiosi intelligenti dell’oggi saranno i mostri latini o perfino i babbei di qualche domani, il che vale indifferentemente per conformisti e iconoclasti e dipende solo dalla relatività dei valori secondo le urgenze emergenziali e/o le accentuazioni idiosincratiche dei vari luoghi e momenti.
Solo i vizi non abusati (i bacchi, i tabacchi e le veneri tenuti al guinzaglio) rendono una vita media stabilmente tollerabile e perfino piacevole.
Beninteso, i bacchi, i tabacchi e le veneri si declinano espletando tutto il proliferante e capriccioso campionario di cui ci rendono testimonianza gli studi storici e sociologici su lussi, mode e costumanze, i trattati di sessuologia più o meno patologica, la manualistica su hobby o, se preferite, manie e molto altro ancora (vi basta fare zapping con il telecomando se vi è dolce naufragare in quello mare).
‘Vizio non abusato’ evoca del resto riferimenti semantici rispetto a una classe di fenomeni psico-fisici con cui ciascuno fa i conti a suo modo.
Ogni essere umano, per esempio, possiede un certo grado di religiosità (che non ha nulla a che vedere con la fede istituzionale) e qualcuno potrebbe ritenerla un vizio abusato quando entra in conflitto con certi istinti naturali e non abusato se vi si armonizza.
Il linguaggio comune e convenzionale è altamente allegorico e impreciso, sfugge alla banalità solo quando accetta i rischi connessi alle ricche ambiguità delle risonanze intuitive, altrimenti o riesce ad approdare a forme di tecnicismo assiomatico o sprofonda nella chiacchiera conformista della socialità stereotipa riservata ai circoli confessionali (in senso lato) poco o tanto estesi e diffusi.
Le opinioni pubbliche di volta in volta dominanti all’interno di una nazione non rappresentano altro che i più estesi tra i circoli confessionali.
Muoversi nella terra di nessuno tra i sogni artistici o morali e una elementare precisione logico-matematica, cercando di catturare qualcosa della trascendente complessità dell’esistenza senza abdicare del tutto a una precisione incontrovertibile, sempre più si manifesta difficile quanto indispensabile: è la cultura propedeutica al Progetto.
La politica vaneggia oppure diventa oggettivamente e pragmaticamente una ‘cosa sporca’ quando ogni politico non può evitare di mentire spudoratamente in merito al grado effettivo di pertinenza, univocità e chiarezza dei propri comunicati, il che diventa perfino obbligatorio se la platea degli ascoltatori e magari i politici stessi non dispongono di una cognizione adeguata delle generiche prassi comunicative e del loro rapporto con la ‘realtà’ o quando quella cognizione è consapevolmente adulterata per motivi di utilità e opportunità.
Per qualsiasi politica non progettuale, ora come sempre e ora più che mai, diventa impossibile instaurare sistematicamente un rapporto onesto e conseguente tra parole e azioni, a meno che le parole si limitino ai testi di legge e alla loro molto relativa trasparenza ed efficacia.
Questa specifica sezione, se non addirittura l’intero testo, non si propone fini politici, ma filosofici, ricerca metodi preliminari necessari a qualsiasi prassi di conoscenza effettiva, non ricettari procedurali, e la sua corrispondenza ai più svariati ‘stati di cose’ può solo essere valutata dal generico, eventuale lettore in base alle proprie specificità e competenze.
Può sembrare ambiguo e contraddittorio che la predicazione del Progetto non si dedichi soprattutto alla messa a punto del Progetto, ma il Progetto di Stato Stazionario deve scaturire da un lavoro collettivo la cui praticabilità richiede prima di tutto un atto di concezione generale e sintetica e questo, essendo ovvio ed elementare quanto abnormemente assente dalla scena politica anche come semplice ipotesi, già solo con tale inesplicabile assenza dimostra le enormi distorsioni filosofiche e culturali indotte dall’azione mirata e pregiudiziale delle concezioni dominanti.
Però è anche vero che, nell’ambito di un’antropologia sovrana (un’antropologia non patologica ‘ma anzi!’), non esistono distorsioni nel senso espressamente indicato, ma solo applicazioni della natura umana nei meandri delle storie e delle geografie.
Ma allora la domanda è: un rispetto sostanzialmente religioso di tali applicazioni può prescindere da possibili esiti catastrofici conseguenti a un esercizio troppo disinibito del ‘vizio umano’?
Escludere esiti catastrofici deve dipendere soltanto dal calcolo delle probabilità e da una definizione sensata intorno ai limiti di valori accettabili e prudenziali: in assenza di qualsiasi disponibilità ad affrontarne una qualsiasi stima, diventa pregiudizio ideologico.
Dicevamo del vizio non abusato: il suo corrispettivo antitetico è appunto quella virtù codificata di cui ineluttabilmente abuserebbe ogni consesso umano sufficientemente organizzato se solo riuscisse a definirne contorni generalmente condivisi.
Questa pubblica e comune aspirazione a una nebulosa e surreale virtù si rivela tanto più nefasta quanto più qualsiasi parte sociale si propone di precisarla arbitrariamente a prescindere dai disegni concepiti da altre parti.
Una dialettica degli interessi arbitrata da una complessità fluidificante e ripianante rimane l’unico principio guida e criterio fondante di una società moderna e allora i guai seri cominciano quando la complessità si tramuta in un destino insidioso e imperscrutabile e i rimedi per arginarlo, causa anche una generale e desolante mancanza di fantasia, si riducono a sperequazioni e polarità.
Poiché ogni essere umano meritevole dell’appellativo conosce abbastanza bene il vizio di cui non dovrebbe abusare mentre si mostra di solito molto velleitario e pasticcione in merito alle virtù con cui ambirebbe nobilitarsi presso il prossimo suo (corrispettivi puramente economici a parte), riteniamo di aver posto un primo punto fermo e aver ben demarcato la linea di partenza per elucubrazioni politiche fondate su un minimo di riferimenti concreti invece che sulla solita aria fritta di auliche inconsistenze.
Stabilito che l’analisi dei vizi risulta tecnicamente molto più utile rispetto a quella delle virtù per addivenire a distinzioni significative, poniamo ora la seguente domanda: quali fenomenologie di vizi possono essere utili per distinguere una weltanschauung di destra da una di sinistra e come possiamo adibirle in una interpretazione spassionata dei presenti flussi elettorali?
Ci stiamo muovendo in una sorta di empireo ideografico che si propone di addivenire a categorizzazioni antropologiche che prescindano, almeno in prima approssimazione, da sostanziosi e inequivocabili interessi materiali, impostazione che risulta attualmente molto più che lecita e perfino obbligata, se riflettiamo che tali interessi, esattamente come le adesioni alle fedi religiose, si dividono e si irradiano ormai, secondo pesi pressoché equanimi, su entrambi i versanti dell’antica ripartizione parlamentare, al punto che parlare di destra o sinistra in riferimento a retaggi economici o propensioni confessionali risulta un puro non senso.
Non nascondendo un certo comprensibile orgoglio per l’adozione molto promettente di una metodologia rigorosa e innovativa, cominciamo a raccoglierne i frutti e per far questo procediamo senz’altro a una enumerazione di vizi che possono validamente caratterizzare una impronta antropologica iscrivibile alla tradizionale dicotomia appena delineata.
Vizi tipici della psicologia (conservatrice o riformatrice) destrorsa: egocentrismo e vanagloria emendati, con valenze di presentabilità sociale e schermo difensivo o mediatore, da rigidità dogmatiche, schematismi assiologici, un senso più o meno artefatto o strumentale della disciplina e del dovere.
Formula icastica e riassuntiva: il manico di scopa infilato lungo la schiena come asse di un esibizionismo impositivo votato a una unanimità acclamante in assenza della quale non si ritiene possibile alcuna autentica coesione sociale.
Vizi tipici della psicologia (specularmente riformatrice o conservatrice) sinistrorsa: una sensualità sociale lussureggiante di accorti egoismi e remunerative generosità, emendata per esigenze di produttività concreta da un realismo pragmatico sempre in cerca di giustificate durezze.
Formula icastica e riassuntiva: sesso, droga e rock and roll (amore, gastronomia e Pavarotti...) accanto a un senso metafisico di un sopravvalutato spirito comunitario nel cui ideale si vorrebbe temperare e assolvere qualsiasi nequizia privata e individuale.
Vizi comuni alle due psicologie: una religiosità astratta e malleabile, la mistica della comunicazione come sostitutiva della sostanza da comunicare, l’esaltazione del contatto umano come palestra di scambio e manipolazione.
Commistione e fusione delle due categorie: la macedonia continuamente rimescolata delle psicologie oligarchiche all’interno delle classi maggiormente determinanti per quelle strutturazioni e funzionalità che reggono le società complesse.
Commistioni e fusioni molto più banali riguardano indecisioni, flessibilità e promiscuità delle singole storie, più o meno soggette a scivolare verso una zona di sovrapposizione centrale o a estremizzarsi, privilegiando in vario modo e spesso a corrente alternata il polo ‘molle’ delle sensibilità individuali o quello ‘duro’ delle concrezioni collettive.
Arrivati a questo punto posso bene immaginare che almeno qualcuno di voi, esimi signori lettori, potrebbe sentirsi spazientito, riconoscere magari un certo virtuosismo da schizzo efficacemente descrittivo alle precedenti disamine, ma considerarle una sorta di delirante anti-manicheismo manicheo del tutto inconcludente dal punto di vista di un’analisi politica seria.
Invece no: io intendo proprio dimostrare che una suddivisione psico-antropologica e solo psico-antropologica tra destra e sinistra (come già detto, qualsiasi altra caratterizzazione risulta ormai del tutto ininfluente, perfino quella tra industria e finanza) taglia definitivamente le gambe a qualsiasi possibilità residua di una conduzione politica che non si limiti a una mera amministrazione dell’esistente sotto lo stretto controllo degli autentici padroni del sistema, ovvero le forze economiche dominanti.
E’ bene puntualizzare in via preliminare che, qui come in qualsiasi altra parte del presente testo, i sottintesi etici e morali delle varie formulazioni prescindono totalmente da qualsiasi giudizio intorno a qualità personali e soggettive (che, a parte simpatie o antipatie di genere puramente episodico e idiosincratico, reclamano a buon diritto una insindacabilità obbiettiva passibile al più di distaccati e neutrali commenti di tipo naturalistico), mentre rimandano a valutazioni intorno a risvolti pubblici e funzionali dotati di un senso utile e perspicuo soltanto in una prospettiva olistica e progettuale.
In particolare, il termine ‘vizio’ non comporta alcuna stima di carattere valutativo prevaricante sugli aspetti esistenziali effettivi (l’apporto di godimento o sofferenza relativo a una specifica situazione esistenziale), riguarda bensì meri riscontri sul piano della fenomenologia sociale: nella particolare accezione in cui lo si adotta in questa sede, si riferisce a una indebita interferenza e contaminazione di indoli e temperamenti privati in questioni che solo un trattamento freddamente analitico potrebbe rendere feconde di sviluppi positivi.
Il nocciolo di tutta la questione concerne alla fine un intreccio assolutamente assurdo quanto assolutamente ipocrita tra vizio e ideologia, ovvero il modo in cui inclinazioni istintive ed emotive e complessi psichici attitudinali, travalicando la sfera privata, cercano di monopolizzare la scena pubblica previa artificiosa trasfigurazione in cosiddetti Valori, questi vigilanti armati che pretendono d’imporre il loro ordine al di sopra e al di là dei dispositivi legali ufficialmente codificati, cani cerberi che, tra di loro, usano abbaiarsi senza mordersi quando presentano contrassegni diversi e abilmente assortiti, ma di fatto onorano giudiziosi il nocciolo duro di poche e fondamentali direttive opportunamente combinate secondo priorità di ordine superiore.
Un valore proclama, per esempio, ‘prima gli italiani!’, un altro ci mette la faccia e urla ‘l’imperativo è salvare vite!’, ma la sostanza in gioco, come sempre sulla scena pubblica, è economica e solo economica e concerne un giro di iniziative e di soldi riguardo al quale i maestri di etica arroccati ciascuno sulla propria vetta spirituale condividono una visione comune del resto obbligata.
Quanto questa visione sia obbligata lo dimostrano, per esempio, tipologie congiunturali esemplificate dal caso Arcelor-Mittal e l’alternativa che spalancano davanti al ‘potere politico’: o farsi impallinare dagli elettori per uno sfracello occupazionale o calarsi le braghe dietro le mentite spoglie dei soliti compromessi di facciata.
Nella situazione in cui siamo giunti, il potere politico in presenza dei potentati finanziari e industriali ha sempre torto, affronta la partita già con la sconfitta a tavolino decretata per leggi superiori del mercato e questo non solo per un brutale bilancio dei rapporti di forza o i privilegi derivanti da una concezione metafisica e mistificante dell’iniziativa privata, ma in base soprattutto ad avvertenze di ragionevolezza ed equanimità: una impresa si basa sul profitto e non può essere chiamata a compiti vicari di salvaguardia dei diritti comuni in soccorso al ruolo deficitario di pubbliche amministrazioni impotenti; quindi il profitto diventa ‘valore’ e anzi, come determinante e motore della mitica Crescita (il massimo dei valori concreti nello zoo o giardino botanico dei valori idealistici, fantasiosi, fittizi), la Madre di tutti i Valori.
Le contraddizioni, prima che da malversazioni e abusi, derivano dall’evoluzione dei meccanismi sistemici che instaurano le condizioni di sopravvivenza delle aziende private accanto al ruolo teoricamente regolatore e ridistributivo, ma purtroppo sempre più velleitario e strutturalmente ‘biforcuto’ (per necessità elementari di finanziamento) della pubblica amministrazione: sarebbe perlomeno curioso che il sistema non mostrasse crepe irreparabili quando non presenta alcuna contromisura automatica che impedisca a un numero di persone (o famiglie) migliaia di volte superiore al numero di stati presenti sulla Terra di accumulare singoli patrimoni personali che da soli risolverebbero per parecchi anni di seguito le difficoltà di programmazione economica del medio stato terrestre.
Queste concentrazioni private e personali diventano sifoni aspiranti di una sempre più risicata ricchezza pubblica e comune.
Nel loro risucchio continuo la macchina pubblica può conservare soltanto il minimo indispensabile per agire come burocrazia coadiuvante coordinata e indirizzata dalle fonti di finanziamento primario del gioco politico (una complessione di cui la pedina ordinaria, l’elettore sovrano, vede solo la punta dell’iceberg e solo quando non è avvolta dalla nebbia).
Il sistema non permette contromisure perché qualsiasi contromisura è incompatibile con il Sistema: il libero mercato non può in alcun modo essere condizionato senza essere nel contempo deformato e stravolto, il ‘libero mercato’ si deforma e si stravolge solo attraverso i propri dinamismi intrinseci, acquisendo un sostanzioso tot di virgolette ogni anno fino a diventare il ‘‘‘‘‘...libero mercato...’’’’’ del comunismo mandarino anti-comunista e quindi del partito unico che dirige la farsa dei partiti pluralisti e casinisti.
Questi meccanismi sono gelosamente celati nelle pieghe di quelle politiche monetariste di destra che (ma solo se opportunamente centralizzate!) sono osannate soprattutto a sinistra, ma per certi elementari aspetti sarebbero visibili anche attraverso fette di salame sufficientemente sottili, per esempio considerando come potrebbe essere facile (in realtà di molto facile non rimane niente in regimi sempre più complicati) per una holding sufficientemente grande organizzare le cose in modo da gonfiare il proprio potere condizionante attraverso acquisizioni di aziende in perdita portate di fatto a buon fine scalando i buchi di bilancio dai proventi dovuti allo stato di competenza come tasse sui profitti.
Almeno teoricamente (il ‘teoricamente’ è d’obbligo dato che ormai, nella giungla delle legislazioni liberiste, è impossibile stabilire a quali entità giuridiche appartengano i soldi veri e con che diritto, altra tipica caratteristica comunistica dell’anarchia liberista), grazie alle file di fiscalisti, sistemisti e tecnologi di cui una holding può disporre (compresi collaboratori esterni pagati dalle università per concorrere a Nobel, medaglie Fields eccetera (che hanno viste d’aquila per i dettagli interni, ma, come tutti, non possono vedere attraverso i muri e quindi stabilire la direzione che prende la loro collaborazione oltre la porta del laboratorio)), la stessa holding può distribuire i propri utili all’interno delle varie ramificazioni internazionali o calibrare le perdite con altre ramificazioni e accidenti, lievitando nel mentre che privano di apporti vitali le casse dei singoli stati (con vantaggi per sé e magari, se è il caso, di uno ‘stato madre’), all’unica condizione che i vari stati siano sani, ovvero abbiano il sommo pregio di essere democratici e non autoritari.
Il volume pazzesco, incredibile, vertiginoso delle ricchezze individuali di punta, valutato secondo una visione analitica e realistica della forza condizionante del denaro nella conduzione degli affari economici, socio-politici e amministrativi, non può che rendere estremamente scettica qualsiasi persona onesta e raziocinante sull’autentico significato del concetto di uguaglianza davanti alla legge e perfino sul valore etico effettivo della vita umana.
Inoltre, visti e considerati i mediocrissimi livelli di felicità che in quei modelli eccelsi si esprimono e soprattutto quanto di essi viene trasmesso e diffuso a una comunità più vasta, ce n’è ben donde per moltiplicare un fondato pessimismo intorno ai potenziali di felicità o comunque gradevolezza concessi all’esistenza umana in contesti generali che tendono ormai a porre il dinamismo economico in antitesi profonda rispetto a un minimo di qualità esistenziale.
Questo tipo di considerazioni diventa particolarmente spinoso se si riflette che l’ordine di eccedenza dimensionale delle grandi ricchezze rispetto alle dotazioni medie è diventato ormai paragonabile (in realtà è di molto superiore) a quello della complessità strutturale di un essere umano rispetto a un insetto, per cui, quando un comune mortale uccide volontariamente una mosca fastidiosa e, da filosofo amletico e poco sbrigativo, si interroga abbastanza accademicamente sui risvolti morali e l’effettivo peso causale di un simile atto, dovrebbe anche interrogarsi se certe enormi concentrazioni di capitali e i poteri che vi si correlano, una volta acquisita la necessaria giustificazione legale, non possano schiacciare una vita umana ordinaria con la stessa sostanziale indifferenza.
Forse, la preoccupazione per episodi dilaganti di razzismo è ben fondata, ma forse, se non la si inquadra a dovere, delinea solo un modo di affrontare un problema reale in modo sbagliato, focalizzandosi su questioni morali di dettaglio mentre si trascurano fenomeni ben più generali e lo sfondo predominante, tutto quello che porta insomma a considerare fascismo o nazismo come sviluppi immanenti e sbocchi congeniti riferibili ai problemi insolubili del capitalismo avanzato.
Una cosa è certa: in una tecnocrazia sperequante, ceti bassi e al limite dell’emarginazione possono ritenere d’istinto e in modo non così facilmente confutabile come pretendono le menti illuminate e illuministe che regimi autoritari e brutalmente semplicisti comportino situazioni comunque migliorative delle loro attuali condizioni, se non altro perché, al posto di abilitazioni e attestati di idoneità contraffatti da disuguaglianze che moltiplicano il carico di fatica in proporzione agli svantaggi delle condizioni iniziali, premiano la fedeltà e la disciplina indiscriminate con attestati, molto più accessibili, ‘comodamente’ collegati all’appartenenza etnica e ideologica.
Il ‘popolino’, nella parabola discendente del liberismo economico globale, non diventa filo-fascista per ignoranza o deformità morale: lo diventa perché, senza correttivi adeguati ed efficienti, per molti e svariati versi e almeno su un piano istintivo, gli conviene.
I tedeschi reduci da quel bel capolavoro della Repubblica di Weimar propiziato dalla lungimiranza dei vincitori della prima guerra mondiale hanno optato per il nazismo in base a un semplice calcolo del pro e del contro e se Hitler fosse stato più genio del male che psicopatico ce ne potremmo accorgere ancora adesso.
Forse, il fatto che di psicopatici parziali o completi ne esistano a iosa, ma di geni del male neanche l’ombra, produce esiti calamitosi più dell’inesistenza di geni del bene, in ogni modo, dotti colleghi liberali e democratici, è veramente ora di finiamola con le illusioni da ex vincenti alla fine di un ciclo favorevole nel torneo a gironi della Storia.
In assenza di alternative credibili a una ambigua e stramazzante mobilità liberale, soluzioni autoritarie e filo-fasciste rappresentano opzioni oggettivamente razionali sia per masse incolte e svantaggiate, sia per fasce economiche di livello medio-alto le quali, lottando con complicazioni indistricabili, si trovano costantemente esposte al rischio di cedere posizioni: si tratta di una incombenza reale che va molto al di là dei razzismi da stadio dei discriminati arruolati per trame ancora non ben definite sotto mentite e aggressive spoglie di discriminanti.
D’altra parte, signori belli, è inutile ciurlare nel manico: se voi foste un imprenditore modesto, ma serio, che bada al sodo senza inutili remore e, non disponendo di nessun’altra informazione sulle qualità individuali, dovesse scegliere un operaio di basso livello tra un bianco latte indigeno da più generazioni o un nero cioccolato di recente immigrazione, che cosa scegliereste?
Ovviamente il nero cioccolato ed ecco qua il principio di ogni discriminazione e contro discriminazione effettiva: un nodo di convenienze differenziali che altera la par condicio tra soggettività che non possono mai invocare l’assenza di categorizzazioni preventive.
Per dinamiche elementari e incontrovertibili degli intrecci causali ‘scale free’, quel tipo generalissimo di interazioni che presiedono alle strutturazioni di un grande numero di elementi fondamentali inizialmente poco differenziati, ogni fluttuazione di base tende a rendere le risultanze perfettamente casuali non più perfettamente casuali indirizzandole nella direzione della fluttuazione medesima, il che diventa inesorabilità direzionale al di sopra di un certo valore di soglia che fluttua casualmente e perde casualità sopra un certo valore di soglia che… ci siamo capiti.
Le simmetrie presiedono agli sviluppi del reale rompendosi secondo alternative quantitativamente commisurate al grado di simmetria che si rompe: più è potente la simmetria, più è imprevedibile la rottura e più è imprevedibile la rottura più il solco segnato da quella si approfondisce per l’assenza statistica di solchi vicini in grado di fungere da attrattori.
Marginalisti e teorici dell’equilibrio economico ci raccontano quello che succede in regime di mercato perfetto e lo fanno in modo abbastanza inoppugnabile: peccato che i loro risultati dipendano da uniformità iniziali astratte e surreali (l’equilibrio instabile della matita che cade diritta sulla punta e così rimane) e da una razionalità comune altrettanto perfetta e agente in regimi di totale informazione paritaria.
Inserisci nel sistema i più lievi meccanismi casuali, distribuiti in pianta stabile e secondo dislocazioni diffuse altrettanto casuali, e quelli, dando tempo al tempo, romperanno le perfette omogeneità di partenza introducendo squilibri che si accentueranno oltre ogni dimensione compatibile con la persistenza dei meccanismi di base.
Pretendere, nel lungo termine, un efficiente utilizzo di mezzi e risorse in regime di giustizia sociale da una economia di mercato è atteggiamento fondato e credibile come puntare su una preponderanza di pareggi in un torneo calcistico dopo che sono state introdotte regole secondo cui: 1) all’inizio di una partita si lancia la monetina per decidere quale delle due squadre avrà diritto a un uomo in più; 2) ogni volta che una squadra segna un gol ha diritto a mettere in campo un giocatore aggiuntivo; 3) l’arbitro riceve un rimborso spese, una diaria e un premio discrezionale solo dalla squadra che vince.
D’altra parte se uniformità e giustizia fossero al centro delle preoccupazioni di Dio, la Terra sarebbe liscia e levigata come una perla e non esisterebbe alcuna rete di organismi complessi capaci di organizzarsi per qualche tempo in un insieme di incroci e di nodi prima di dissolversi e distribuire le componenti nelle fluttuazioni dei nodi successivi (con probabilità vicinissima a 1 ciascuno di noi umani in questo preciso istante contiene più di un atomo presente nel corpo di Gesù Cristo mentre stava sulla croce).
Ecco qui una delle più clamorose fake news, meritevole di stare al centro anche della sezione successiva: che le grandi imprese e le grandi fortune derivino dalla creatività e dalla eccellenza umane.
E’ vero esattamente il contrario: livelli altissimi di intelligente consapevolezza gestiti da una razionalità media di altissimo livello ostacolerebbero la hybris di sperequazioni e fanatismi (ripianata dalle leggi di conservazione necessarie a un bel gioco di squadra automatico), che viene enormemente favorita invece e resa ineluttabile da sventate incoscienze e fiduciosi trasporti voluttuosamente offerti allo strapotere dell’aleatorietà più assoluta.
Davanti a contraddizioni insolubili tra le esigenze del profitto (o più modestamente dei conti in ordine) e quelle della giustizia sociale, un tipo di soluzione apparirebbe incontestabile, ritornare al sistema ‘anni 60’ delle partecipazioni statali, ma qui il vizio di destra non può cedere al fascino della sua ideologia liberista e privatista e il vizio di sinistra è respinto dalla consapevolezza delle tremende quanto irresistibili tentazioni di edonismo sindacale e sindacalizzabile (vedi alle voci lemon principle, moral hazard ecc.) che minano alla base qualsiasi funzionalità quando non c’è un padrone con il vizio di destra da mettere alla berlina o coadiuvare in cambio della mezza, almeno nei sogni se non nei fatti.
Passo dopo passo, il padronato con il vizio di destra, grazie anche e soprattutto alle ‘distrazioni’ degli autentici viziosi di sinistra, diventa sempre più cumulativo e monolitico, ma il vizio di sinistra, per quanto ‘integerrimo’, non può opporsi per davvero: non solo perché ogni concentrazione si trascina dietro un vasto ventaglio di complicità e alleanze che irretisce pariteticamente viziosi di destra come di sinistra, ma anche e forse soprattutto perché una concentrazione oligarchica, mentre logora l’obbrobrio o l’ircocervo di un mercato cosiddetto liberale, assume sempre di più caratteri di un oligopolio internazionale (liberista, ma pur sempre internazionale), qualcosa che, per ragioni diverse (per profumo di oligarchismo o internazionalismo), seduce il cuore sia del vizio di destra che di quello di sinistra, mentre niente del genere procura la tutela dell’ambiente (nemmeno di estensione planetaria) e una corriva salvaguardia qualitativa delle vite individuali (di ogni singola vita), obbiettivi che insieme, nell’immaginario collettivo, paragonati, per esempio, al dio-uomo conquistatore della Luna o di Marte, compongono qualcosa di simile a una sbiadita vignetta parodistica da american dream fricchettone.
Gli incontinenti frequentatori del vizio di sinistra, per non soccombere alla Sodoma e Gomorra di un vizio di destra molto più confacente, per ironia della sorte, ai desideri istintivi delle masse incolte e popolari, avrebbero a portata di mano un’altra soluzione quasi disarmante nella sua irrisoria evidenza: liberalizzare droga e prostituzione e acquisire, ipso facto, le entrate fiscali necessarie all’impianto di una imprenditoria nazionalizzata gestita dal tipo di uomini che, negli anni ‘60, l’associazione Vaticano – Grandi Famiglie Industriali preferiva mettere in galera invece che in cattedra o al comando.
Nossignore, il vizio di sinistra si oppone un’altra volta: probabilmente più della metà della classe dirigente di sinistra fa un uso privato di ‘sostanze psicotrope’ (a destra, forse, un po’ meno, ma a destra la liberalizzazione ripugna al Super Ego Divinizzato tenuto bello eretto dal manico di scopa al posto della spina dorsale): una liberalizzazione imporrebbe di rendere pubblica l’usanza, con probabili ricadute negative sul fronte della credibilità e fianchi scoperti rispetto all’accusa, abbastanza fondata, di doping professionale e concorrenza sleale nell’esercizio dei normali disbrighi competitivi.
Eh sì, caro cicciolino lettore: uno dei motivi più influenti per cui il fallimento della decima o undicesima economia del mondo non si potrà mai scongiurare definitivamente (per quello che può servire, dato che il pericolo maggiore oggi si rivela essere il fallimento di tutto il pianeta) risiede nella seguente successione di eventi: 1) una classe dirigente ha bisogno di stimoli; 2) la competitività comporta una escalation nel vigore degli stimoli; 3) gli stimoli indispensabili per chi non produce abbastanza endorfine naturali superano le barriere imposte a una competitività legittima; 4) la violazione delle regole di competitività si allarga a macchia d’olio comportando la complicità di una intera classe dirigente preposta alla salvaguardia della competitività; 5) la competitività soggiace a parossismi che impediscono di trovare convenienze logiche e obbiettive per conservare una competitività equa sul piano personale e sostenibile su quello nazionale.
Il paragrafo precedente riporta uno dei tanti esempi di come la benemerita, dinamica, virtuosa creatività del libero mercato possa diventare l’esiziale, contorto, vizioso fanatismo dell’ideologia mercantile.
Vedete bene di che gran pasticcio si tratta, sfido chiunque a uscire dalla frenesia di quegli intrecci orgiastici senza un bagno purificatore nella fonte limpidissima dell’ispirazione kolibiana.
Purtroppo i kolibiani, a prescindere da immancabili difetti e cadute di tipo comunemente aneddotico (stuzzicadenti in presenza delle travi che accecano i promotori della propaganda di regime), sono i veri santi e tutti gli altri sono peccatori, il purtroppo si riferisce alle compagini, assolutamente maggioritarie, che lodano i santi ma amano i peccatori, il che sarebbe molto meno disdicevole se il grosso dell’umanità (che del resto sembra non sia nemmeno in grado di leggere e interpretare come si deve un qualunque articolo serio di qualunque giornale serio almeno una volta al mese) sapesse distinguere con un minimo di attendibilità tra innocui vizi privati e pericolosissime pubbliche virtù.
La gente è però molto abile a comprovare d’istinto attraverso il voto chi ha mobilitato generosamente grandi masse di denaro in un’ondata di esuberanza politica e chi invece è stato remissivo e taccagno al punto di umiliare con disprezzo snobistico un desiderio sincero di partecipazione popolare al grande spettacolo della democrazia così autentica che più autentica non si può, neppure con un divo di Hollywood o Bollywood che introduca un comizio cantando come Bocelli mentre si produce in acrobazie da circo.
La gente è pronta a premiare il grande istrione che la eccita e la emoziona quanto a punire il grande istrione quando non eccita e non emoziona più.
Del resto la gente è visionaria per vocazione, ma realista per istinto di pedestre convenienza e, sotto sotto, paragona con facilità la forza del denaro a quella dell’anima, per esempio quando, nei confronti di una squadra di calcio, confronta l’afflusso dei finanziamenti con quello delle prestazioni a prescindere dall’abilità di silhouette perlopiù simboliche e teatrali che si agitano sul mucchio alto o basso dei quattrini, oppure constata come, senza una capitalizzazione iniziale di 2 miliardi di dollari a fondo perduto, sia ben difficile confezionare quelle filmografie rutilanti che infondono l’eccitazione del videogioco senza alcun dispendio di fatica nervosa.
Quelle creazioni mirabolanti, giustamente, nel corso di un decennio, moltiplicano il capitale sociale tramite coefficienti che, adattati al caso dell’imprenditore tapino che parte con cento misere migliaia di euro o di dollari, non gli consentirebbero nemmeno il necessario per vivere, se egli non si conferisse un prelievo mensile a fronte di ammanchi variamente addebitabili, prima o poi (ma solo se la gestione è attenta e rigorosa!), a una comunità più allargata.
Fortunatamente, come già puntualizzato, le concentrazioni di capitali generano costantemente eccedenze di utili da investire in società le cui perdite provvidenzialmente impediscono la dilapidazione del capitale in donazioni fiscali allo stato e contribuiscono invece a potenziare l’estensione e i muscoli della miriade di tentacoli insinuati nei più diversi settori.
Naturalmente, con i soldi, il vero imprenditore non può limitarsi a vivere: deve anche risplendere e se non risplende, decade.
Veloci accenni come questi sono già sufficienti a delineare un altro potente canto e incanto che la sirena del capitalismo liberista esercita sui portatori del vizio di sinistra: il movimentismo orgiastico di quella grande baldoria finanziaria.
Essa, manco a dirlo, incoraggia anche l’inclinazione del vizio di destra verso una volontaria cecità o programmatica ignoranza riguardo ai meccanismi convulsi e sregolati che si aggrovigliano al di fuori del ristrettissimo cerchio di luce divina che circonda e glorifica la parte più meditata e cosciente del reverendissimo Ego o specchiatissimo Sé e di tutta la sua corte dei miracoli.
Poniamoci ora la seguente domanda: dovendo scegliere il male minore dopo avere avuto oscuro, ma inequivocabile sentore di tutte quelle complicate convulsioni da domare o almeno attutire, il ‘popolo’ (ammesso che esista), duramente oberato di necessità, sceglierà istintivamente il vizio di destra o quello di sinistra, il sottile e perverso sado-masochismo dell’ordine e della legittimità o l’effervescenza libidinosa delle vitali forze spontanee?
La risposta è facile e rallegra tutti gli autentici viziosi di sinistra, felici davanti alla prospettiva di rinunciare definitivamente alle fatiche di governo per dedicarsi alle mansioni che meglio si addicono a una indole libertaria specializzata in un tipo di opposizione accademica assolutamente indispensabile per la credibilità di ogni simulazione formale di democrazia rappresentativa, una opposizione specializzata nel difendere i valori umanitari, una opposizione che consente ai governi volitivi e fattivi (i governi del ‘fare’ disdegnosi di teatrini che non staccano biglietti) di liberarsi dell’intralcio dei valori umanitari limitandosi al rispetto almeno formale dei surrogati fabbricati dall’opposizione per fare opposizione.
Ogni buon praticante del vizio di destra deve conoscere i principi generali dell’economia, sapere quindi che il rispetto, non dei valori, ma dei portatori di valori acchiappa due uccelli con una fava o una rava: crea alleati sotto mentite spoglie e consente scorciatoie procedurali che solo i pedanti avversano.
I leader del vizio di destra devono temere una sola categoria di persone: i viziosi di sinistra redenti, quelli che, pur conservando le vesti esteriori, hanno ormai abiurato nel profondo della carne al vizio patronimico e non si accontentano più, nell’intimo, di nobilitarsi all’opposizione restando distanti dalle fonti effettive della ricchezza e del potere, lucrando al massimo sui fondi per i beni culturali e le iniziative benefiche.
In attesa che prenda forma e sostanza l’alternativa kolibiana, al momento il governo di ogni nazione si divide tra iperattivi viziosi di destra e rinnegati e abiuri del vizio di sinistra, tutti ricondizionati e dipinti (per ora!) come belle statuine del centro moderato e non kolibiano.
Centro moderato e non kolibiano che si distingue per un particolarissimo vizio condiviso sul lato destro come su quello sinistro, benché, anche qui e ancora una volta, con ritocchi e sagomature che sembrano delineare ai due capi atteggiamenti opposti che in realtà sono solo complementari.
Questo particolarissimo vizio che ora andremo velocemente ad analizzare si potrebbe definire ‘razzismo elegante’, dove l’aggettivo ‘elegante’ può essere sostituito da ‘cauto’, ‘avveduto’, ‘presentabile’, ‘perbene’ e via di questo passo.
Questo tipo di ‘razzismo’ costituisce il prototipo di tutti i razzismi praticabili abitualmente al di fuori di ogni deriva degenerativa e in qualche misura psicopatica, un prototipo così praticabile da essere effettivamente e universalmente praticato, anche se la sua azione comune e frequente si riconosce soltanto in resoconti storici di vicissitudini passate e non nel presente, dove tende a essere mascherata, per considerazioni di prudenza e opportunità, dietro ai costrutti sovrastrutturali dei cosiddetti valori, quelle ipostasi di pseudo-sacralità attraverso cui ogni gruppo sufficientemente organizzato e coeso tende a immunizzare i propri interessi collocandoli in un’area di rispetto obbligato .
Mentre situazioni e priorità si modificano con il passare del tempo, gli schematismi costruttivi delle maschere si rivelano, la nebbia di mistificazione che li avvolge si assottiglia gradualmente fino a dileguarsi del tutto e i principi compositivi e motivazionali delle infiorettature etiche diventano accessibili in prospettiva e a distanze non troppo ravvicinate.
Relativizzare i valori nella visione catastrofista kolibiana non significa cedere alla forza bruta del disfacimento anarchico, se mai il contrario: significa prevedere come i valori in condizioni di crisi e fratture insanabili dei corpi sociali in men che non si dica si trasformino (alle velocità raggiungibili dal movimento franoso oltre l’apice del ‘tipping point’ lentamente e faticosamente raggiunto), da supporti basali in parte condivisi e in parte mediati, a pretesti di contrapposizione radicale e violenza dispotica, occasioni di razzismo non più verticale, tra un livello gerarchico e l’altro, ma orizzontale, tra una fazione e l’altra.
Relativizzare o sbugiardare i valori correnti per sostituirli con altri porta a forme di messianismo come quello integralista o quello marxista; relativizzare intelligentemente quanto definitivamente i valori porta invece al Progetto, ma non quello della Dea Ragione: il Progetto dell’ordinaria ragione di una specie animale dotata della sola dotazione speciale che non si traduca in qualcosa di assolutamente incongruo e calamitoso, dotata cioè della capacità di amministrare tutte le altre problematicissime dotazioni speciali.
C’è un solo tipo di valori (se esistono, il che risulta tutt’altro che certo) opponibili al razzismo che coloro i quali venerano i valori della cerchia sociale di appartenenza implicitamente manifestano verso chi li rifiuta o li considera con indifferenza: il tipo dei valori pratici e tecnici che consentono il sostentamento materiale delle singole esistenze senza pregiudizialmente annientare o deprimere in modo intollerabile le possibilità che quelle pervengano a un sentimento individuale di libertà interiore.
Che ogni valore, quando non consente le libertà del liberalismo autentico, o è fasullo o è razzista o entrambe le cose, deriva da semplicissime considerazioni logiche.
Un valore sociale autentico, non convenzionale e non pragmatico (non disposto per statuto al fine di regolamentare la docilità del gregge), bensì fortemente interiorizzato, valorizza i membri del gruppo portatore al punto che essi, se privi di qualsiasi soggettività autonoma e originale (vista come un peccato e anzi ‘il peccato’) non possono ritenere una vita priva di quel valore degna di essere vissuta.
Questa tautologia, nelle moderne società occidentali, è stata sventatamente dimenticata per banali ragioni di ordine congiunturale legate al materialismo del benessere relativamente facile, un’opzione che quando comincerà a recedere (e probabilmente lo sta già facendo) rivelerà tutte le contraddizioni e i fraintendimenti di un’assunzione sbadata e superficiale dei presupposti metafisici insiti in qualsiasi tipologia di organizzazione sociale e in qualsiasi metodologia di sopravvivenza in comune.
Di fatto, in Occidente, l’aspetto inquietante e potentemente distruttivo dei valori è stato occultato sotto strati di ordinario classismo o di più generale competizione tra paradigmi attitudinali, come quelli adombrati dal vizio di destra o da quello di sinistra.
Di fatto esiste una vera e propria insofferenza di tipo razzista tra due caratteristici rappresentanti della destra e della sinistra radicali, ma l’economicismo diffuso e il substrato tecnico-organizzativo che presiede a ogni impianto funzionale di una certa importanza tende a sfumare le contrapposizioni o a relegarle in secondo piano in modo più o meno arbitrario.
Purtroppo, il razzismo primario dei valori si annida anche e soprattutto in qualsiasi pretesa di controllo tecnocratico del futuro, una visione in apparenza distaccata e scientificamente neutrale, in realtà intrisa di prosopopea mitologica.
Mentre il vizio di destra e il vizio di sinistra sopravvivono nelle pieghe grasse e inerti di popolazioni sempre più esautorate da qualsiasi effettività decisionale, le classi dirigenti del centro-destra e del centro-sinistra tendono ad ammassarsi al centro-centro tenendo viva una retorica divisionale che serve soltanto a vivificare il vuoto formalismo del gioco elettorale, l’unica finzione liberale a cui il liberismo non può rinunciare pena l’abbandono della maschera e il suo rivelarsi una versione maldestra e ritardata di ‘comunismo’ (le virgolette non sono mai troppe in questo caso) alla cinese (sempre a rischio di trasformarsi in fascismo da tropa de elite sudamericana).
Benché esista ancora qualche storico e sociologo (pochi, in verità, almeno tra quelli seri) che ritengono che la caduta dell’impero sovietico abbia segnato la vittoria del dinamismo liberale sull’oscurantismo burocratico, il suddetto passaggio epocale, alla luce degli sviluppi successivi, si è rivelato niente altro che una specie di conversione di due percorsi oligarchici, separati per ragioni storiche ed etniche, nel segno di una comune e superiore convenienza a muoversi verso un mondialismo coloniale dei potentati economici, prova ne è che il modello vincente non è certo l’antica, illusionista, antinomica economia di mercato, ma una gerarchizzazione di tipo confuciano che eleva pinnacoli su enormi distese spianate dove, statisticamente parlando, si fa sempre più fatica a distinguere la piccola impresa privata dalla manodopera proletaria.
Così accade che, mentre il popolo bue, nella parte che politicamente conta ancora qualcosa (un’altra parte è ormai considerata defunta in seguito a una sorta di harakiri inspiegabile) insiste a pavoneggiarsi esibendo i contrassegni del vizio di destra o di sinistra, il ceto declinante dei vecchi amministratori politici mercanteggia sulle rispettive quote di voto e intanto i poteri effettivi, quelli dei grandi comitati occulti di affari, delle grandi concentrazioni finanziarie e industriali, dei centri governativi con poteri di effettivo condizionamento coloniale sul flusso di merci e risorse strategiche, impongono l’ossequio dei nuovi valori fondanti e di tutte le discriminazioni razziste correlate.
Si tratta di quelle doti di coraggio, intraprendenza, apertura mentale, brama di conoscenza e di scoperta che distinguono il vero uomo esploratore dalla sanguisuga immobile e parassitaria: esse inducono il suddito maturo, responsabile e meritevole ad approvare la destinazione dei grandi investimenti verso imprese gloriose come la conquista di pianeti, satelliti e asteroidi, mantenendo il flusso dei soldi ben temprato e al sicuro nei forzieri intercomunicanti della ricchezza a circuito chiuso, in modo che tutto quello che viene sottratto a stati sempre più indebitati tramutando le tasse in investimenti feudali non si disperda in imprese di basso livello come quelle che renderebbero vivibile la vita a chi non se lo merita perché è un essere malaticcio e rinunciatario.
Naturalmente questa visione non sarà condivisa da persone moderate e assennate, le quali, implacabilmente affette dal vizio di sinistra, ancora raccomandano il rispetto di ogni singolo essere umano in nome di vetusti ideali pseudo-democratici, ma d’altra parte anche loro devono riconoscere che l’umanità che non si sparge per la galassia è ben misera cosa e colonizzare la galassia non è precisamente alla portata di tutti.
I valori della tecnocrazia rappresentano allora i soli autentici valori futuri in grado di soppesare e qualificare le vite umane, ma, lo vedete bene anche voi, depravati amici lettori che partecipate all’infamia di questi sproloqui invece di temprare un potenziale di virtù vittoriose: sono valori per pochi.
INTORNO ALLE CLAMOROSE ‘FAKE NEWS’ INTORNO AL FENOMENO SOCIOLOGICO DELLE CLAMOROSE ‘FAKE NEWS’
Si sostiene la tesi che fake news e news e basta non possono differenziarsi in modo sostanziale se le visioni del mondo si rivelano inevitabilmente parziali e prospettiche e l’enorme macchinario che sostiene e informa la tecnologia dell’informazione mette capo a un’azione ideologica di filtro preventivo riferibile a poteri discrezionali disponibili in proporzione alla potenza di fuoco industriale e finanziaria.
Ogni questione non affrontata secondo i canoni dell’epistemologia scientifica, ovvero senza un apparato logico ed esplicativo sufficientemente vasto e complesso da costringere chi lo prende in considerazione ad attivare una dose corrispondente di energie culturali e intellettuali, amalgama verità e menzogna in modo inestricabile.
Ciò non significa ovviamente che una tesi debitamente elaborata sia veritiera: significa che essa dichiara onestamente il legame tra premesse e conclusioni e quindi può consentire ai dissidenti di affrontare altrettanto onestamente l’analisi dei marchingegni argomentativi.
In assenza di tali puntuali e purtroppo noiosi confronti e riscontri la dialettica cosiddetta democratica e il pluralismo politico risultano pantomime accademiche ed esercizi teatrali confezionati su misura per la società dello spettacolo, non fanno che ribadire il chiodo del ‘così se vi pare’ o portare alla conclusione che torti e ragioni vanno equamente divisi tra le parti e quindi chi decide unilateralmente ha torto e anche chi si oppone unilateralmente ce l’ha, ma quest’ultimo non è responsabile di quello che non decide.
La comunicazione artistica e letteraria esula evidentemente dal discorso essendo una trasfigurazione individualistica e quindi fantasiosa che, quando riesce a coinvolgere altri individui opportunamente sensibilizzati, assume il carattere della rivelazione soggettiva e quindi di un suggestivo impasto di codici linguistici iniettato come ricostituente a una sempre sciatta, stanca e ordinaria realtà: vi concerne un tipo di libertà legittimamente sottratto ai vincoli dell’obbiettività.
Il grado di partecipazione della gente alle discussioni sarebbe molto meno importante di quanto una concezione ipocrita e fasulla della democrazia tende interessatamente ad accreditare, se ‘specialisti’ ed ‘esperti’ delle varie discipline (ciascuno dei quali rappresenta almeno in parte una sorta di enclave sigillata e impermeabile di verità relative, socialmente inagibili senza interventi mirati), invece di lasciare libero corso agli schiamazzi del pollaio per poi calarvi in mezzo, dall’alto, le sentenze che interessano al loro datore di lavoro (decreti i cui fili si perdono in un dedalo di complicazioni invisibili e che tanti fabbricatori di fake news, perfino legittimamente, giudicheranno fake news come tante altre), si sforzassero di sintetizzare, più che i risultati, le controversie relative ai risultati delle ricerche, nonché le cruciali differenze di opinioni degli aventi causa e ciò in modo non semplicistico eppure chiaro e comprensibile per un cosiddetto ‘grosso pubblico’, che peraltro non si può certo definire esente da pecche e nequizie.
Faciliterebbe molto la fertilità dei vari dibattiti una preminenza di televisioni pubbliche e private meno votate a varietà e talk show e più a servizi e documentari di autentico spessore culturale: si dà invece il caso che, in termini di ascolti, predominino canali creati a immagine e somiglianza dei Maestri Comunicatori e di tutta quella nuova massoneria che potremmo definire ‘piacioneria’. In fondo, però, anche questi canali, a cui la Bibbia Kolibiana è utilissima per mettere a fuoco le idee più pericolose e impostare la contraerea, potrebbero favorire interessanti esercizi di pensiero: basterebbe interpretare la reale natura dei messaggi e metterci il segno di inversione o complementazione davanti.
Per farla breve e concludere questo preliminare, poiché esistono gradi diversi di fake news e solo un teorema matematico certo al 100% non è al 100% fake news, il tipo di fake news che più interessa un kolibiano attiene alle falsificazioni di destra e di sinistra riferibili ai cambiamenti climatici.
Se una nazione detiene una vastissima area (in proporzione all’estensione complessiva) tra le più inquinate (oltre ogni limite di guardia) del mondo e inoltre una percentuale complessiva di territorio a rischio idrogeologico abbondantemente superiore al 50%, se detta nazione ha registrato negli ultimi decenni le escursioni termiche più elevate tra quelle delle fasce planetarie temperate, questa nazione si candida al titolo di massima produttrice di fake news se, in perfetta antitesi con quanto accade per la lobby cattolica, non presenta partiti non lillipuziani o frange interpartitiche che giudichino tali questioni della massima priorità. Non basta di sicuro che a tali deficienze sovvengano le lobby delle energie rinnovabili o alternative quando proprio la confusione tra movimenti politici e movimenti industriali rappresenta, non certo a caso, uno dei pericoli più insidiosi da cui dovranno sempre più guardarsi tutte le Grete del mondo.
Al fine di mettere a fuoco gli aspetti più specificamente politici della questione, non bisogna mai dimenticare che, in Italia, le previsioni quasi perfettamente azzeccate dei ‘catastrofisti’ degli ultimi decenni del secolo scorso erano avversate soprattutto da ambienti della sinistra sociale e/o cattolica, i quali all’inizio del presente secolo hanno ceduto il testimone dell’avversione massima alla destra liberista e/o cattolica.
Secondo quelle anticipazioni ormai classiche, ora saremmo giunti a un punto cruciale, gli anni da cui dovrebbe rendersi sensibile l’impennata delle varie escursioni; diventa dunque interessante verificare quanto gli studi analitici successivi, ripetutisi nel tempo con mezzi sempre più sofisticati (così almeno ci auguriamo tutti) riusciranno a correggere visioni a cui finora, in base ai riscontri reali, può ascriversi un solo difetto: quella mancanza di ottundente diplomazia che oggi i vari comitati internazionali di controllo esigono come avvertenza preliminare e inviolabile.
Dove, all’interno di quella diplomazia, si situa il confine tra una ragionevole cautela e l’arte dì imbastire fake news soporifere secondo il sapiente virtuosismo del marketing pubblicitario?
D’altra parte, il marketing pubblicitario ha sempre ragione: quando indizi sempre più preoccupanti dovessero ingenerare il sospetto che il punto di non ritorno è stato superato, i Maestri Comunicatori suoneranno il gong del cambio di registro e dopo un mese dal gong, grazie alla grande abilità comunicativa dei Maestri Comunicatori, chi si ricorderà più che i Maestri Comunicatori, che avrebbero dovuto suonare il gong almeno una decina di anni prima, un mese prima suonavano una musica molto diversa?
Nella presente sezione, non ci si propone di negare l’evidenza incontestabile di strategie comunicative impostate su un uso programmatico e strumentale della menzogna costruita ad arte, bensì l’esatto contrario: evidenziare come, senza che nessuno se ne accorga, simili strategie siano ormai così generalizzate da coincidere con le attuali tecnologie di diffusione mediatica secondo il banalissimo e dunque profondissimo slogan di McLuhan ‘il mezzo è il messaggio’ (una verità troppo banale per essere evidenziata e rimarcata dopo la fine dell’era pionieristica in cui i mezzi mediatici in oggetto potevano ancora esibire una certa aria di novità).
Il concetto di menzogna non ha infatti alcun senso se non è riferito a quello di verità e quest’ultimo non ha alcun senso se non è riferito a uno specifico ‘stato di cose’, il quale non ha alcun senso se non è riferito a uno sfondo di realtà oggettiva indipendente dal processo enunciativo della menzogna o della verità, il quale processo si pone invece in primo piano e divora tutta la scena quando diventa fondamento esistenziale degli interessi, delle inclinazioni e dei costumi e quindi pura e semplice antropologia giudice esclusiva e assoluta di se stessa.
Le varie individualità scorrono allora libere e incondizionate tra gli argini delle moderne società liberiste e le individualità scambiano quel flusso limaccioso per libertà, ma un corretto concetto di pubblica libertà non riguarda il flusso, bensì la disposizione degli argini.
Intesa, in senso politico, come libertà di indagine e di accertamento, la libertà di quello che scorre è niente rispetto alla geometria che organizza i corsi dei gorghi e delle correnti, qualcosa che non dipende mai, se non accidentalmente, da singole individualità per quanto preminenti e prevaricatrici possano apparire.
Se, a prescindere dalle difficoltà che epistemologie e filosofie analitiche e del linguaggio hanno già abbondantemente snocciolato, non si riesce a emancipare una ipotetica ed enigmatica realtà di base, una ontologia imprescindibile e quindi ‘divina’, da un contesto sociologico che la evoca alla stregua di una propria epifania cerimoniale, parlare di verità e menzogna è un semplice non senso.
Se tale compito è impossibile come sembra esserlo ora come sempre e ora più che mai, se ogni manifestazione verbale o comportamentale rimanda a un sortilegio retorico che funge di fatto da auto-rinforzo della comunità di origine, non esistono più verità o menzogne, ma solo atti d’invenzione che, secondo i punti di vista, appaiono a volte terapeutici e rigeneranti, altre insidiosi e perfino sabotatori, ma sempre, rigorosamente, ‘pro domo sua’ sia nella dinamica motivante che negli effetti desiderati o valutati.
Per la politica, internet, i social media, il mercato sedicente libero, i grandi apparati burocratici, le associazioni di rappresentanza professionale e ogni articolata struttura socio-economico della modernità tecnologica, né più e né meno di quanto accadeva nell’ambito dei poteri teocratici del passato (né più e né meno???? Sì, né più e né meno!!!!!) diventa illusorio e fuorviante il semplice parlare di verità o menzogna, dato che ogni complesso non si rapporta a qualche realtà che non sia prima e sopra di tutto la propria natura autoreferenziale e le condizioni per la sua persistenza e riproducibilità.
Il complesso che dovesse rinunciare a giostrare sulla scena del mondo unicamente per conservare una propria indispensabilità e rilevanza, sparirebbe dalla scena del mondo come una specie impossibilitata ad adattare all’ambiente i tassi di prolificità ripetuta.
Rispetto al passato, la differenza sostanziale verte sul numero e la pluralità interna dei domini autocratici e sul capovolgimento di principi ordinatori fondati sulla molteplicità e non più sull’unità: togliete le paratie tra gli scomparti dove i fedeli adorano il proprio Grande Ombelico intessendo complicate trame difensive o aggressive e il caos avanza galoppante, l’entropia va alle stelle, l’unico rimedio resta il vecchio, caro dispotismo dell’uomo forte e miracoloso, miracoloso perché è forte in proporzione alla propria ignoranza intesa come cecità deliberata o cecità punto e basta.
In fondo, niente meglio di una profonda vocazione all’ignoranza come stato edenico e imperfettibile, un’avversione costituzionale verso la curiosità e il sapere, può favorire una illusione di solidità e costanza nello stato generale determinato dal caotico coacervo di domini ciascuno con le proprie presunzioni sconnesse di verità parziale, ciascuno detentore di proprie dosi di scienza e di tecnica diluite nel calderone delle mitologie scongiuranti.
Senza Progetto sarà sempre così, senza Progetto stigmatizzare il fenomeno delle fake news imporrà di confezionare tante verità piccine nel pacco regalo della madre di tutte le fake news, quella che, mentre chiama fake news solo le leggende metropolitane della cialtroneria popolare oppure, su un altro fronte, i sotterfugi machiavellici di servizi segreti deviati o ortodossi, giudica comunicazioni creative le trappole psicologiche ordite dagli stregoni del marketing e della pubblicità, prima dissimulando il plagio paralizzante della propaganda sofisticata nella generica cultura neutrale del perbenismo acritico rassegnato ai diktat di sistema e poi considerando quest’ultimo una via assolutamente ragionevole e d’altra parte obbligata.
Questo perbenismo ipocrita è la foglia di fico di una intelligenza sempre venduta a necessità di sopravvivenza o, per chi è più fortunato, di carriera, è sempre moneta di scambio per la rispettabilità sociale e mai valuta quotata ai fini di generali e indiscriminate valenze ideative e costruttive.
La colpa non va addebitata a singoli individui, ma al Sistema, il manicheismo psicologico rappresenta la fregatura fatale con cui il Sistema stuzzica le vanità e le presunzione private, fornisce i falsi pretesti per auto-assolversi e poi ergersi a giudice, scatena il circolo vizioso di paralogismi per cui il Sistema non funziona perché c’è troppa gente inadatta al Sistema.
In un Sistema ‘cattivo’ (e prima o poi tutti i Sistemi politici e sociali diventano cattivi sistemi così come, in una scala più dilatata di tempi, tutte le specie zoologiche diventano specie incompatibili rispetto all’ambiente) la colpa, in base a considerazioni non etiche, ma di logica elementare, non può essere dei ‘cattivi’, se mai dei ‘buoni’: è dei ‘buoni’ che un sistema , buono o cattivo, ha bisogno, mai dei ‘cattivi’, il che alla fine, poiché ciascuno è un miscuglio di buono e di cattivo che possono sempre scambiarsi di posto, conduce a un solo risultato sicuro: predomina chi, soprattutto se aiutato da retaggi, pedigree, portamento, riesce a fingere bene di essere buono per il presente come per qualsiasi altro Sistema.
In fondo esiste una sola, gigantesca, egemonica notizia truffaldina, quella che ha coinvolto nel crollo del muro di Berlino i punti fermi delle critiche negative di tipo marxiano agli allevamenti del sentimentalismo sovrastrutturale e dell’ottimismo obbligatorio, come se la scarsa efficacia pratica nel passare alla fase costruttiva (prima, non dimentichiamocelo mai, della vera e propria rivoluzione informatica!) fosse ragione sufficiente a minare il carattere di quasi ovvietà che ne emerge non appena si fa la tara alle accentuazioni di tipo strumentale e partigiano.
Quelle critiche erano sostanzialmente condivise, con la salutare aggiunta di molto maggiore impegno realistico e disincantata obbiettività, dal liberalismo autentico e non confessionale, ma la leggenda imbastita dai vincitori morali e culturali dietro al piffero dei Chicago Boys (ricordiamo, tra i loro maggiori successi, la conversione del Cile di Allende nel Cile di oggi...) ha preferito dimenticarsi l’intelligenza dell’alternativa perdente e salvaguardare una finta dialettica ‘democratica’ tramite l’edulcorazione dell’edulcorabile con tutto il canzoniere della paccottiglia ‘positiva’, quella generica e inconsistente farneticazione umanistica che, sognando dell’umanità liberata, dimentica sempre che l’umanità non può liberarsi se, docile sotto la frusta dorata e ingioiellata dei suoi massimi campioni, ammorbidita di lucentissimo gel, rimane tiranna di se stessa e del pianeta.
Una cultura di sintesi avrebbe dovuto estrarre lo scientismo analitico dalla teologia marxista e combinarlo con l’individualismo metodologico dell’economia di mercato: chissà perché e per la convenienza di chi o di che cosa, ha preferito rifabbricare le trombonate ecumeniche e palingenetiche predicate dall’attivismo poco disinteressato dello spiritualismo fanatico, fondendo e ricondizionando elementi del campo perdente nei più efficaci modelli del campo vincente.
E così il liberalismo ingenuo diventa liberismo tecnologico e il comunismo povero delle nomenklature comunismo ricco dei ricchi, qualcosa di non disprezzabile e non privo di tratti geniali, se fosse procrastinabile a oltranza con il beneplacito del nostro generoso pianeta.
La più clamorosa e assurda delle fake news sostiene appunto che quel beneplacito esiste o si possa sempre contrattare senza alcun bisogno di un Progetto centrale e universalmente vincolante.
In realtà, non esiste alcuna frottola, sapiente o becera, che lo sostiene apertamente: lo si lascia trasparire come uno scontato sottinteso, salvo l’insorgere sempre possibile di difficoltà rispetto alle quali i mezzi e le risorse di Sistema sapranno comunque, in qualsiasi momento, qualora se ne presentasse l’inderogabile necessità, attivare le giuste contromisure.
Prendiamo, per esempio, la storiella dei 560 ppm di anidride carbonica restando sotto i quali dovremmo tutti sentirci salvaguardati da escursioni termiche incontrollabili e altre disastrose incombenze climatiche.
Se così fosse potremmo organizzare con tutta calma un futuro sereno e malleabile di inevitabili transizioni, ma è così?
A parte l’affidabilità apodittica di tale valore, che qualsiasi seria cognizione di causa sull’evoluzione di sistemi spropositatamente complicati rispetto alle capacità di sintesi (sequenziale!) del cervello umano dovrebbe revocare in dubbio (in presenza di accelerazioni che di per sé rappresentano il vero quid problematico a prescindere dai progressivi, rinnovati traguardi), il problema fondamentale riguarda l’enorme questione di stabilire come e quando la composizione dell’atmosfera sfiorerà quel valore in termini di effetti equivalenti ( se già non l’ha superato...).
In primo luogo, un gigantesco punto interrogativo si collega al principale gas serra dell’atmosfera (la molecola più eroica, non scordiamocelo mai, accanto a ozono e biossido di carbonio, per la vivibilità di un pianeta non ridotto a una palla di neve) ovvero il vapore acqueo, il quale cresce parallelamente all’aumento di qualsiasi gas serra, dato che pervade l’atmosfera (presenta concentrazioni di saturazione) in quantità percentualmente crescenti in proporzione diretta all’escursione termica (ciò, già di per sé, vale come potenziale innesco di processi auto-catalitici con opzioni aperte di evoluzione esponenziale).
La questione viene trascurata con la scusa di ritenere le formazioni nuvolose e i connessi dinamismi chimici e fisici più rilevanti e decisivi, il che, se consideriamo che finora non è stato possibile modellizzare adeguatamente tali dinamiche (anche se sta prevalendo l’opinione di un feed-back positivo e non negativo e quindi di effetti aggravanti più che mitiganti!) equivale a trascurare un problema, parzialmente ben definito e autonomo, perché si collega a una complicazione maggiore.
Il secondo punto fondamentale è che qualsiasi attività produttiva umana su qualsiasi scala produce esalazioni di un tipo o dell’altro, la cui quantità dipende ovviamente dalla estensione e qualità dei processi chimici implicati e dalla energia di cui si avvalgono.
In molti casi, l’emissione molto ridotta rispetto ad altri forzanti può apparire tranquillizzante, ma purtroppo esistono di sicuro composti chimici, immessi nell’aria da particolari lavorazioni, che raggiungono un potere calorifico (un’azione schermante sui raggi infrarossi riflessi dalla superficie terrestre) centinaia o addirittura migliaia di volte maggiore di quello dei gas serra tradizionali.
Tali composti chimici possono produrre gli stessi effetti della CO2 in concentrazione corrispondentemente minore e allora la domanda è: possono essere rintracciati senza prevedere in partenza la loro specifica composizione molecolare? Oppure: quante di queste analisi non sono mai state eseguite per il semplice motivo che determinate molecole non sono mai state inquadrate dal mirino di specifiche attenzioni scientifiche?
Magari alcuni di tali composti fuoriescono, in misura per ora limitata, proprio dalla produzione industriale o dal funzionamento corrente di strumenti, risorse e ausili indispensabili per l’uso di energia ‘pulita’ e ‘rinnovabile’, energia che già preventivamente coinvolge effetti termici non nulli, anche se inferiori, almeno sulla carta, a quelli indotti dai combustibili fossili (pensiamo, per esempio, alle conseguenze, sull’effetto albedo delle superfici terrestri, di enormi estensioni di celle fotovoltaiche).
A sua volta, questa energia, come ogni altro tipo di energia, presenta un aspetto calorifico e un aspetto entropico inversamente correlati.
Ogni energia produce cioè nel sito di applicazione un effetto termico e un effetto demolitore: o genera calore aumentando la temperatura ambientale o destruttura l’organizzazione di determinati sistemi trasformando in entropia il cosiddetto ‘calore latente’ o qualche altra forma di energia potenziale.
Calore e ‘molecole sciolte’ generano in tempi successivi nuovi complessi strutturali, ma solo in conseguenza di quello che metaforicamente potremmo definire un bilancio complessivo di ordine / disordine in perdita rispetto al passato e più o meno deficitario in rapporto allo stato di salute e stabilità della rete di connessioni generali che costituiscono in un determinato momento la biosfera planetaria.
Quella salute e stabilità, è perfino pleonastico ripeterlo, sono fortemente compromesse e squilibrate dall’incongruenza ecologica del fenomeno ‘uomo’ a prescindere da qualsiasi tipo, anche mirabolante, d’inventività non organicamente e programmaticamente olistica.
Naturalmente l’ordine tende al minimo previsto dalla relativa equazione di stato (dipendente dal volume totale di energia) solo in sistemi chiusi e isolati, mentre può anche aumentare in presenza di apporti continui di energia come quella solare, a patto che il disordine circostante aumenti in quantità proporzionalmente maggiori.
La minima velocità di discesa del rapporto ordine / disordine si ottiene in regime di stato stazionario, cioè a livello di ordine stabile e non crescente, quindi (parafrasando in modo audace, ma tutt’altro che insensato) in assenza di progresso tecnologico, il che vale ovviamente come situazione media e non impedisce che una nazione altamente tecnologizzata si costruisca il proprio paradiso in corrispondenza di adeguati inferni posizionati altrove.
Né i coefficienti calorici, né i coefficienti entropici possono essere trascurati nell’applicazione economica su larga scala di qualsiasi tipo di energia.
Chi lo fa in base ad argomenti non stupidi o pregiudiziali, in genere prende termini di riferimento sbagliati: commisura gli effetti cumulativi energetici dell’attuale civiltà industriale all’apporto complessivo di energia radiante fornito dalla cosiddetta costante solare (espressa in watt per metro quadrato), una quantità di circa mille volte superiore al volume totale del forcing antropologico.
In realtà, il confronto, per poter dare indicazioni dotate di un minimo di significato, dovrebbe riguardare l’utilizzazione che dell’energia solare fa l’intera biosfera e qui da ordini del millesimo si passa a uno virgola: l’attuale civiltà industriale muove un’attività materiale ed energetica paragonabile, se non superiore, a quanto è implicato nella sussistenza di tutte le altre forme viventi.
Un ottimismo lecito e non insulso, fatuo, ingannevole dovrebbe accompagnarsi a una teorizzazione sufficientemente attendibile dell’inesistenza di limiti intrinseci e impossibilità strutturali rispettando i quali in quasi un miliardo di anni e fino all’altro ieri la biosfera avrebbe dovuto limitarsi, come in effetti ha fatto, a utilizzare frazioni così basse dell’energia disponibile.
Qualsiasi visione rilassata dovrebbe anche sforzarsi di fornire motivazioni valide per non trovare abnorme e sproporzionato che in pochissimi secoli un sistema organizzato per centinaia di milioni di anni su un’ampia varietà ben distribuita e uniforme di specie (concatenate in un intreccio capillare di correlazioni reciproche grazie ad automatismi darwiniani e sistemici) finisca per coagularsi intorno a una unica specie dominatrice senza smarrire del tutto i caratteri di integrità coesiva e armonica funzionalità.
Per questioni siffatte, non è più sufficiente l’intelligenza pragmatica, procedurale, manipolatrice, tutta sbrigatività concreta e assidua focalizzazione intorno ai singoli contesti: occorre anche un minimo di cultura generale, sensibilità filosofica, capacità di sintesi olistica e soprattutto ci vogliono prassi e modalità di coordinamento e comunicazione tra settori molto più articolate e molto meno segmentate e condizionate per fini puramente economici o di prestigio / potere.
Concentrarsi sugli effetti calorici dell’energia (oltretutto valutati a spanne e tentoni) trascurando quelli entropici determina approcci del tutto deficitari, ma, per rendersene conto, occorre una percezione realistica della complessità, ci vogliono nozioni credibili e calzanti sulla reale natura della vita e dell’ambiente planetario che la ospita.
Se il futuro rimane affidato a visioni che sposano la più meticolosa raffinatezza tecnologica a concezioni spiritualiste e perfino magiche delle realtà primarie, l’aggiramento delle catastrofi si fonda sostanzialmente sul fattore K (il Kulo!).
Tali K-culture non riusciranno mai a farsi una cognizione adeguata delle complessità e di come gli equilibri e le simmetrie omeostatiche a esse correlate richiedano l’assenza di polarizzazioni e violazioni di soglia, proprio quei disturbi potenzialmente catastrofici di cui il dominio umano sul pianeta ha bisogno per riprodursi con intensità inevitabilmente accelerata e ciò sia sul piano politico e sociale (egemonia delle grandi ricchezze e autocrazie autoritarie per evitare tempeste nelle distese spianate dal mercato globale) che su quello ecologico e climatico (distruzione inevitabile della biodiversità accanto all’appiattimento sistematico delle individualità animali improduttive).
Ci si può concentrare su singoli tipi di risorse e su singole fonti di stress, ma i problemi riguardano tutte le risorse e tutti gli stress, perché da qualche parte calore ed entropia devono andare e il prossimo nemico mortale non sarà così facile da scoprire come l’anidride carbonica.
Riassumendo:
a) il topos polemico incentrato sul tipo di comunicazione sociale etichettata sub specie ‘fake news’ rappresenta l’ennesima mistificazione di un neo-perbenismo astutamente censorio incentrato su una propaganda retorica commissionata da esigenze predominanti di prevenzione e controllo;
b) in una società che diplomaticamente e pedagogicamente deve travestire di cerimoniosità spettacolari le istanze più dure e indigeribili, tutto è almeno parzialmente contraffazione, travisamento e menzogna, ma tale impostura è proporzionalmente più grave sul piano dell’onestà intellettuale quanto più è spacciata per prodotto di onesta delicatezza e meditabonda responsabilità, come nel caso dell’esclusione pregiudiziale dalle discussioni sedicenti serie di quelle ipotesi catastrofiste che invece appaiono come prospettiva almeno probabile in trattazioni specialistiche (riservate agli ‘esperti’) che estendano il proprio orizzonte temporale al di là di poche decine di anni (rapporti ufficiali di commissioni ONU altrettanto ufficiali, secondo interpretazioni e traduzioni molto più che plausibili, stimano una percentuale intorno al 5% che l’umanità si estingua (ripeto: che l’umanità si estingua) entro un secolo!);
c) i commentatori ‘seri e responsabili’ sono pronti a brandire un fermo cipiglio inquisitorio verso le etnologiche panzane dei gruppi settari più disparati che si sguinzagliano più o meno pateticamente sul set del web in cerca di proprie specifiche riserve mitologiche (aspirazione comprensibile da parte di unità anomiche e spersonalizzate, anche se spesso irta di preoccupanti deliri polemici), ma gli stessi irreprensibili fustigatori avvalorano poi panzane incommensurabilmente più grosse e pericolose (anche se di una pericolosità diversa e meno caratterizzata da difetti di censo e di classe) come quando in saggi dei futurologi autorizzati si raccomanda la colonizzazione della galassia per evitare che l’umanità si estingua allorché, tra qualche miliardo di anni (sic! In realtà il sole diverrà troppo caldo molto, ma molto prima) la Terra sarà avvolta dagli strati di una gigante rossa;
d) tutto l’ottimismo tecnologico che sciorina le proprie orge di enfasi gloriosa al di là del singolo secolo non è che il festival della presa per il culo e invece è santificato come l’omelia del cardinale che, in termini di realismo metafisico (ma di certo non economico, né socio-politico) non sarebbe così male se prendesse lezioni dai testimoni di Geova o altre sette messe generalmente in berlina;
e) in una società della pubblicità e dello spettacolo dove i requisiti fondamentali di verità e legittimità derivano in toto dalla bella presenza anche spirituale (un bella presenza è tanto meno sessualmente caratterizzata e tanto più spiritualmente connotata quanto maggiormente si regge su robusti investimenti in denaro padronale e creatività manageriale) nessuno con un minimo di credibilità scientifica da spendere e un minimo di senso dell’opportunità e dell’umorismo da conservare oserebbe stigmatizzare il fenomeno delle ‘fake news’, anche perché ormai tutta la lotta politica (quella che non si svolge lontano dalle telecamere, anche se, probabilmente, quella che si svolge lontano è molto peggio) consiste in monolitiche erezioni e vulcaniche eruzioni di fake news ed è assolutamente grottesco che gli aventi parte in quel circo delle meraviglie in cui predomina l’esibizionismo istrionico e manipolante allestito con i soldi di pudici, remissivi e riservatissimi sponsor e impresari osino parlare di cose come diffamazione e macchine del fango: se anche tutto quello che si dicesse su di loro consistesse in invenzioni gratuitamente denigratorie, potrebbe essere visto come il risarcimento della parte oscuramente intuitiva e consapevole di un popolo impotente per essere stato esautorato da ogni possibilità di influenzare concretamente la macchina del comando, un po’ come le pasquinate nella Roma dei papi nepotisti e simoniaci, scritte o cantate da quelli che sapevano bene interpretare il concetto di potestà vicaria per elezione divina;
f) quando poi a prendersela con le fake news sono vecchie cariatidi convertite alla razionalità capitalista dopo essere state lanciate nell’olimpo dei mass media dalle vetuste e sconclusionate retoriche tipiche delle pseudo-rivoluzionarie anime belle, l’ossessione intorno alle fake news si rivela chiaramente per quello che è: la disgraziata incontinenza, da tenere a freno a ogni costo, di un desiderio subliminale di libertà sfuggito a meccanismi di rimozione freudiana, una suppurazione ideale la cui cura necessita di sforzi meticolosi e concentrati che, per spostamento e riconfigurazione del fine repressivo, si rivolgono al di fuori del sé.
In conclusione credere alle ‘fake news’ come prodotto specificamente anomalo invece che prassi diffusa denuncia o una smemoratezza opportunista e ipocrita o quella palese carenza di consapevolezza critica che induce qualcuno a credere che quello che crede di regolativo e importante (senza dedurlo in modo scientificamente corretto da premesse precise quanto parzialmente arbitrarie) non deriva da interessi per quanto oscuri e istintivi, ma da una verità percepita o trasmessa da virtù naturali e insindacabili.
Naturalmente il modo più sicuro e meno indolore di fissarsi in certe credenze induce naturalmente a credere che la verità inattaccabile di quello che si crede consiste soprattutto nella verità profonda dell’atto di credere in quella verità.
E’ una vera fortuna per la prosperità generale di tutti gli allevamenti di fake news che, a contatto con la perfetta e tetragona circolarità degli atti di fede sociali, anche le più malevoli fake news, davanti alla pellaccia coriacea delle convinzioni correnti, ricadano senza scalfire come frecce lente e spuntate.
Vi posso infatti assicurare, adorabili cicciolini lettori, che, anche quando fake news, così etichettate per disposizione di ordine superiore, invadono proditoriamente il territorio della scandalosissima verità (vedi alla voce Assange, Snowden eccetera) non risultano minimamente in grado di disturbare le coscienze più valorose e integerrime, servono anzi a legittimare e irrobustire uno spirito di campagna preventiva contro la famigerata piaga sociale delle fake news.
3 OTTOBRE 2019
EPICEDIO IN PROSA DEDICATO ALLA PRESENTE CIVILTA’ (NON SI SA CON QUANTO ANTICIPO) SOTTO LA FORMA AULICA DI UNA SOLENNE PERORAZIONE AVVOCATESCA
Riassunto delle tesi principali (coadiuvate da sorridenti frecciatine satiriche che prendono benevolmente di mira certe curiose usanze comportamentali di esemplari significativi del campionario sociale non kolibiano):
l’atomismo della realtà è del tutto simile a quello della logica: fatti e regole elementari si combinano in strutture estremamente complesse;
se l’atomismo della realtà non fosse simile a quello della logica, non potremmo pervenire ad alcuna nozione sensata di realtà e di relazione tra i due ordini di fenomeni;
la differenza fondamentale tra logica e realtà e che la prima è sequenziale, la seconda sequenziale e parallela insieme;
passando dalla sequenzialità al parallelismo, quantità di ordine n diventano quantità di ordine esponenziale n;
l’organo biologico del cervello umano è costruito in modo da interpretare in economia la realtà attraverso la capacità di sintetizzare e manipolare interi blocchi di regole;
le sintesi che il cervello umano è capace di adibire efficacemente si commisurano agli ambienti della sopravvivenza biologica, ma producono effetti collaterali sul piano della conoscenza pura;
le conoscenze che il cervello è in grado di acquisire vengono applicate all’ambiente determinando un accumulo di effetti paralleli e intanto la conoscenza che il cervello umano è in grado di gestire rimane sostanzialmente sequenziale;
l’umanità si immerge e si dipana negli ambienti che la ospitano e che produce esattamente come il cervello si immerge e si dipana nelle connessioni e azioni molecolari di cui è costituito;
antinomie e teoremi limitativi della logica, teorie del caos, certi esoterismi quantistici e , last but not least, i principi della termodinamica (per quanto finora se ne sa, validi, mutatis mutandis, anche su livelli microscopici dotati di statistiche peculiari) rientrano in formulazioni riconducibili a un atomismo primario di regole e fatti elementari la cui azione parallela, estesa a tutto l’universo, determina la complessità dell’esistente;
si tratta, alla fine, di una deduzione naturale e immediata ricavata da due sole premesse: la teoria quantistica dei campi covalenti come collante essenziale sia della fisica delle particelle che dello spaziotempo e la validità della tesi di Turing-Church sulla calcolabilità effettiva;
un quadro semplice ed essenziale come quello appena riportato non può non lasciare perplessi tecnologi e studiosi che affrontano difficoltà e sottigliezze estreme lungo anni di studio in rami specialistici;
qui non s’intende affatto sminuire certi contributi o contestare particolari abilità e meriti;
qui si ribadisce il fatto semplicissimo che tutti, compresi i guru della tecnologia, pensano in modo sostanzialmente sequenziale mentre intanto contribuiscono a complicare invece di semplificare la realtà dei parallelismi (come si deduce inequivocabilmente dagli eventi concreti a dispetto delle mirabili intenzioni di un illuminismo tecnocratico che, come l’entropia negativa della cellula vivente, vale solo in ambiti ristretti e solo grazie a iper-compensazioni esterne);
questo, in miliardi di anni, è quello che è riuscita a fare la Natura: è veramente difficile pensare in modo plausibile che l’uomo possa forzare quei limiti;
tutti, mentre seguono un destino che chiamano libero arbitrio, ignorano quelle impossibilità che chiamano destino, ma la differenza tra destino e libero arbitrio nella considerazione comune sta tutta nell’informazione che si possiede in relazione al contesto in cui ci si muove;
il destino, ovvero la non visibilità degli eventi progressivi, dipende dal flusso di energia e quindi dalla potenza impiegata nella circoscrizione in esame (che nella fattispecie è l’intera superficie del pianeta), non dalla qualità particolare di quella energia;
il destino diventa tanto più imperscrutabile, anche statisticamente, quanto più è bassa la temperatura a cui gli eventi si svolgono;
una conferma dei predetti rilievi pone una classe dirigente di qualsiasi genere davanti a una semplice alternativa di fondo: o ignorare il tutto nella speranza che i tempi di maturazione di eventi catastrofici (non esattamente quantificabile per le proprietà dinamiche dei sistemi complessi) si pongano ben al di là dell’orizzonte delle vite presenti o intervenire drasticamente sul sistema;
a conti fatti bene, la libertà di mercato prima o poi diventa ingestibile, pertanto: o ci si rimette nelle mani di Dio o ‘Dio’ o si opta per un tipo o l’altro di comunismo tecnocratico (che può benissimo risultare ‘comunismo’ finché è sulla carta e ‘fascismo’ quando è tradotto in natura o anche (e perché no?) viceversa);
il tipo kolibiano è l’unico effettivamente democratico e liberale;
qui si cerca di delineare un tipo concreto di kolibianesimo: non è detto che ci si sia riusciti o che non ne esistano altri;
non è nemmeno detto, ovviamente, che le analisi e i ragionamenti prodotti siano inconfutabili.
Signori della Corte, il mio assistito kolibiano richiede comprensione, rispetto e infine clemenza, ma con che diritto, viste e considerate le sue scarse propensioni… umane?
Chi mi ode e non mi legge potrebbe pensare che l’esitazione prima dell’ultimo aggettivo preluda a virgolette che più o meno ironicamente lo avvolgono.
Invece no, Signori della Corte, per ora le virgolette non le ho messe e non appaiono neppure nei periodi seguenti.
E’ umano, molto umano ritenere che non esista niente di totalmente non umano, che dove l’umanità inerisce e interagisce le necessità di questa interessenza costituiscano sempre e comunque condizioni pregiudizialmente importanti e decisive.
Non saremmo umani se non ritenessimo che non esistono sporco e soluzioni impossibili e che la ritualizzazione sociale dei problemi costituisca di per se stessa almeno metà della soluzione.
Né saremmo umani se, prima o poi, non rinunciassimo ritualmente alle ritualizzazioni accusandole di ideologia ogni volta che non risolvono qualcosa e, così facendo, non fanno almeno altrettanti danni di quelli che risolvono.
E se addirittura arrivassimo a ritenere che certi vincoli logici e oggettivi ci obblighino a deporre o ridimensionare o a impostare diversamente, su un fronte come su un altro, aspirazioni, pretese o speranze, saremmo cionondimeno umani?
E’ umanissimo associare sofferenze, sforzi e fatiche a una idea di dignità.
E’ ancora più umano evadere da sofferenze, sforzi e fatiche cedendo al massimo il superfluo (che quasi sempre non esiste per definizione) per contenersi entro limiti di dignità umani che sportivamente e generosamente concedono la santità agli altri.
L’importante è che la santità esista: reprobo non è colui che non è santo, (‘non sono un santo!’ proclama orgogliosamente la persona invaghita dei propri caratteristici difetti), reprobo è colui che nega l’esistenza della santità.
La santità è qualcosa che partecipa dello spirituale e del tecnico, rifugge dalla contemplazione estetica ed esige operosità.
Alla fine, indefettibilmente, ogni domanda di santità crea la propria offerta.
Non saremmo umani se per ogni vezzo scaramantico, accorgimento compensativo, traduzione sublimante, per ogni narcisismo o allegoria del pubblico e del privato, non si creassero classi anche professionali di simpatizzanti, addetti o coadiuvanti, con tutte le conseguenti strutturazioni sociali.
Né lo saremmo se, per ogni pericolo o minaccia, non dessimo per scontato che già gli opportuni incaricati aventi voce in capitolo ci stanno pensando, rallegrandoci quando una manifestazione pubblica, che sia di propaganda o di protesta poco importa, ce ne fornisce conferma indiretta.
E’ umano anche aggirare indizi sgradevoli e inquietanti rifugiandosi sotto il manto di una cecità collettiva!
Non è perspicacemente umano rinunciare a quel manto solo quando l’evidenza diventa innegabile e schermarsi allora dietro il vigore di speranzosi propositi che erigono ariose e imponenti architetture di carta?
Quanto è inequivocabilmente e ineluttabilmente umano che la convenienza non sia mai uniforme e comune, ma differenziata per classi e individui!
Di certo è profondissimamente umano collegare un rimedio a una convenienza particolare e non vedere come si colleghi a convenienze diverse e specifiche, sia particolari e personali che generali e comuni.
Umano, troppo umano, illudersi di districarsi dal male e dai fili che lo collegano alla nostra natura profonda per oggettivarlo in simboli negativi da esorcizzare con ritualismi e scongiuri, da soli o insieme ad altri neo-liberati.
Altrettanto umano è farsi una idea di democrazia che non possa che essere umana secondo la propria specifica umanità individuale e di gruppo, legandola alla persistenza della presente civiltà in modo che più quella durerà e meno possibilità avrà quella successiva se mai ci sarà.
Umanissimo è irridere alla magia popolare e ai poteri parapsicologici, evidenziare come ogni manifestazione al riguardo sia stata prima o poi sbugiardata da studi accurati e poi confidare in soluzioni ingegnose che si avvolgono come lucenti strati di cipolla intorno a un nucleo di moti perpetui di prima e di seconda specie.
Umanissimissimo ritenere che gli effetti dell’energia si possano spedire sottoterra o nello spazio senza spedire sottoterra o nello spazio l’energia e (solo simbolicamente!) chi ne concepisce i miracoli.
Enormemente umano, infine, legare ecologismo e internazionalismo in modo tale che i confini aboliti moltiplichino il tasso entropico, esso moltiplichi l’inquinamento a dispetto di ogni comportamento virtuoso e i populisti anti-migranti, che prendono un quarto dei voti in regioni sarmatiche o balcaniche, prendano il 60% in Italia (sontuosamente orlata di coste accoglienti protese verso la ribollente Africa) e possano così dare la stura alle grandi e piccole opere e ai relativi flussi in denaro (trasparenti o meno), con somma goduria delle lobby liberiste e senza frontiere che alla fine guadagnano di più premendo il pedale alternativo dell’anti-internazionalimo anti-ambientalista che diffondendo le proprie pianificazioni ecumeniche.
Veniamo così ai delitti di diffamazione e lesa maestà commessi dal mio cliente.
Non un reato contro persone e istituzioni, molto di peggio, un reato contro la divinità che, senza distinzioni di razza, ceto, cultura, partito o religione, a tutti è fatto obbligo di onorare e glorificare: l’umanità, appunto.
Il mio cliente kolibiano ha avuto la temerarietà di affermare che la causa principale e irrimediabile dei disastri ambientali è una e una sola: un eccesso di umanità.
Orrore! Un crimine contro l’umanità!
Ma ‘umanità’ legata a ‘eccesso’ non significa, nella specifica accezione kolibiana, umanità in senso morale: designa invece una specie zoologica.
L’umanità, secondo il kolibianesimo a cui il mio cliente aderisce, è il male perché ha superato limiti che non doveva superare e soprattutto perché, senza modificare a fondo gli stili e le filosofie di vita dominanti, non potrà in futuro evitare di eccedere ulteriormente quei limiti.
Il mio cliente, però, forse per mostruosa e ingorda presunzione, forse in una sorta di gioco sfuggito di mano e diventato infettivo, non ha nascosto questa sua avversione sotto i crismi e gli incensi di un’artificialità sacrale che affida simbolicamente al pugno insindacabile di Dio l’arbitrio decisivo e punitivo.
Rifuggendo anche la finta sobrietà dei moderati d’assalto o di logoramento, quel pullulare di estremismi raggelati nell’ambra, si è messo incongruamente a predicare la liberazione dell’individuo dall’umanità e la trasformazione di ogni sedicente dignità e nobiltà umana in una sorta di nuova animalità coerente con le leggi fondamentali della Natura e quindi naturalmente solidale con tutte le altre forme di vita del pianeta.
Il mio cliente ha offeso l’umanità perché non ha riconosciuto valido ogni contrito atto di umiltà verso poteri immani e trascendenti, vi ha rinvenuto anzi la sottile perfidia del figlio seduttivo che approfitta di genitori imbelli e permissivi, della creatura che con moine e lusinghe miscelate ad arte in elisir diabolici di religione e scienza intende condizionare volontà soprannaturali per ottenere il nulla osta e il via libera ai più scriteriati soprusi di tiranno planetario.
Ebbene sì, Eminenti Magistrati, la presuntuosa, proditoria, tracotante umiltà che il mio cliente ha offeso è quella estorta a forza dall’individuo prima prostrato e poi offerto come capro sacrificale al Super ego di quella umanità divinizzata che si riconosce in una o l’altra divinità umanizzata.
Vedete bene come sia arduo il compito per un modesto avvocato come me: difendere certe prese di posizione dall’accusa di obbrobrio etico-antropologico senza accusare al tempo stesso le opinioni diffuse e il comune sentire di obbrobrio filosofico-ontologico.
Un compito, più che difficile, impossibile.
Si può affrontare solo tralasciando il lato umano delle cose per concentrarci su quello metafisico, solo impedendo alla scienza buona e provvidenziale di zittire quella giusta e indifferente, solo allentando gli aspetti morali per evidenziarne le dipendenze dai meccanismi oggettivi: si può affrontare solo rassegnandosi all’ignominia di ciò che è razionale, troppo razionale.
Devo provarci, mi tocca, spetta a ognuno la propria croce e la propria missione.
E allora...
Non è mai accaduto che la gente sia scesa in piazza per rinunciare e non per chiedere e non è mai accaduto che la risposta dei governi, almeno in senso lato, sia stata quella di dare qualcosa a qualcuno senza toglierla a qualcun altro oppure a tutti.
Non è mai accaduto perché ovviamente non può accadere: in natura non esistono pasti gratis.
Non è mai accaduto perché il pianeta non è uno scrigno inesauribile e lo stato stazionario non è mai esistito perché non è mai stato progettato.
Lo stato stazionario non nasce da un’esplosione di profondo e spontaneo afflato umano: lo stato stazionario o si progetta o non esiste.
La magia è sempre magia bianca, all’inizio: s’incupisce nel prosieguo per la scarsità dei risultati che ottiene, esattamente come una democrazia resta tale finché funziona, poi lo diventa sempre di meno.
Una oligarchia o magari una dittatura non funzionano meglio di una democrazia: semplicemente riducono a discrezione il numero di esigenze da soddisfare.
Una oligarchia e soprattutto una dittatura rappresentano un metodo palliativo intellettualmente molto al risparmio e praticamente molto rozzo e sbrigativo di instaurare uno stato stazionario (che dura al massimo fino alla prima rivolta insopprimibile).
Si può ritenere che sia l’unica opzione realisticamente aperta, ma affermare che essa risulti per questo efficace e funzionale costituisce un puro e semplice paralogismo, per evitare il quale in questa sezione ci metteremo a ripassare un po’ di logica elementare.
Chiedo scusa, Signori della Corte, stavo dimenticando la forma metaforica programmaticamente adottata e quindi la vostra Insigne Presenza.
Parlavo di logica, signori della Corte, e allora lo confesso: in un punto specifico della sezione precedente, ho volutamente barato schermandomi dietro una logica fasulla.
Ma… un momento! Io vi guardo, Signori della Corte, e mi sento costretto a divagare.
Se si tratterà poi di pura divagazione o premessa indispensabile, starà ancora a Voi deciderlo, purtroppo o per fortuna.
Di sicuro è una fortuna che, per il sistema giudiziario in vigore in questo angolo di mondo, io possa rivolgermi direttamente a Voi e non a una giuria.
Ma… un momento! Non sono del tutto sicuro che si tratti di una fortuna.
E’ vero che, come impone una certa prassi pedagogica e disciplinare elaborata a partire dal manuale delle giovani marmotte kolibiane, le argomentazioni che andrò a sviluppare sono convulse, fitte, intricate e richiedono un livello culturale mediamente più accessibile a una corte che non a una giuria, ma è anche vero che le filosofie di base manifestano gradi variabili di compatibilità reciproca, per quanto sia poco igienico e perfino, forse, considerato oltraggioso affermare che si guardino in cagnesco.
La mente collettiva di una giuria potrebbe esporsi al mio eloquio avvocatesco a difesa del mio assistito kolibiano (che in questo caso specifico coincide con me stesso) alla stregua di una tabula rasa, tramutando oscurità e incomprensioni in echi di strani risvegli intuitivi e invece la mente meno collettiva di una corte potrebbe frapporre il filtro selettivo di una ben diversa impostazione culturale ed esistenziale.
‘Logico, ma non giuridico!’, diceva un mio professore, e quindi io mi domando se la logica qui serva solo a mettermi con la testa nel sacco per poi darmi la zappa sui piedi.
Chi ha molti valori, sentimentali o economici, da sovrapporre a una logica di regole chiare e inviolabili, potrebbe adattare i valori alle circostanze e usarli o non usarli con mille avvedute cautele, ma proprio questo tipo di comportamenti, in fondo, dimostrebbe solo soverchie premure e attenzioni rivolte alla preservazione dei valori medesimi dal logorio di attriti e tensioni.
I valori si preservano intatti e permettono sempre, in un secondo tempo, di ripulire la coscienza che magari ha dovuto sporcarsi un po’ per motivi di forza maggiore.
Come ha recentemente sottolineato un autorevole rappresentante della Comunità Episcopale Italiana, l’umanità sta perdendo il lume della ragione a furia di usarla laddove è inutile per la presenza di valori ben rilassati, prosperi e in salute: dovunque, cioè, viga l’obbligo di rispettare avvertenze di tipo economico o l’obbligo di compensarne l’assenza.
Queste avvertenze, poi, per una sorta di provvidenza e giustizia soprannaturali, molto di rado per non dire mai si trovano in conflitto con il nucleo vero e vivo dei Valori con cui interagiscono, ragione per cui (vera ragione di cui non si deve mai spegnere il lume) determinate categorie di agenti sociali, come, per esempio, medici o sacerdoti, devono scansare come la peste visioni del mondo che depotenziano il proprio ruolo funzionale e le proprie valenze rappresentative a detrimento dell’armonia d’insieme, per la cui conservazione si rivela appunto prezioso e irrinunciabile il contributo dei segretari nazionali di tutte le varie categorie di volta in volta interessate.
Oh, so bene, Signori della Corte, che chi s’impappina con presunte regole chiare ed evidenti e con diritti di libertà elementari al posto di una prudente obbedienza rischia alla fine di palesarsi soltanto uno sprovveduto e ingenuo dilettante o, con una sola parola, un fesso.
Per questo il politico furbo confeziona o non confeziona le leggi lasciando in un caso come nell’altro lacune predisposte ad arte per essere colmate da ponderose profondità umanistiche: così l’esercizio indipendente per Costituzione della magistratura è chiamato a sopperire ai vuoti cum grano salis, gli avvocati di alta caratura dei clienti importanti possono sbizzarrirsi come hacker virtuosi e libertari messi continuamente alla prova da eccessi di giustizialismo e ogni operatore legale può appellarsi a una supervisione etica superiore che aiuti a togliere le castagne dal fuoco prima che diventino squallidi pezzetti di carbone.
Almeno così spera molto comprensibilmente il politico accorto a cui l’impazzare della complessità può porre in qualsiasi momento l’alternativa tra correttezza e successo, il rappresentante degli elettori che certa magistratura a volte sembra avere in uzzolo di inquietare.
Ripianate le dovute eccezioni, l’esercizio indipendente per Costituzione della Magistratura e l’esercizio imbrigliante per Vocazione e Natura della Politica in genere, almeno in questo paese di antiche e gloriose memorie, preferiscono sottomettersi per ogni esigenza congiunturale di un certo peso a un Supervisore Etico Superiore concordato insieme dalle forze governative in atto o in potenza.
Tutto ciò ovviamente vale esclusi i presenti, dato che, Signori Giudici di questa esimia Corte, non avrei mai osato permettermi i predetti rilievi se non avessi visto trasparire dalle vostre nobili fattezze il vigore e la valentia di una volontà che non ammette subordinazioni a dogmi di qualsivoglia natura, bensì intende affidare il meticoloso vaglio di ogni delibera a una sola forza discriminante interiore, ovvero il tribunale gerarchicamente supremo della propria libera e incondizionata Coscienza, proprio quella mirabile cosa che, come si diceva, solo i valori veri e incontaminati ripuliscono se ben contemperati da un dono dell’indulgenza e del perdono che io non posso certo criticare nel momento stesso in cui sono costretto a invocarlo per il mio cliente.
Ecco il potere che qui vige sovrano e a cui speranzoso mi appello: quella Coscienza a cui con successo ricorrono nei momenti di ulteriore e non predeterminata incertezza le compagini istituzionali tanto concordi nel nominare un Arbitro unico dei valori assoluti sopra il balbettio incerto e confuso delle leggi che costano parti difficili, quanto in disaccordo circa la natura, i lineamenti e i limiti dell’arbitro stesso.
Alla Coscienza e alle evidenze spesso sgradevoli che Ella denuncia sono costrette obtorto collo a piegarsi anche le astuzie mediatiche al servizio dei poteri più egemoni.
Non è più consentito, ormai, nei giornali e telegiornali che contano, trattare punto e basta le magnificenze delle gerarchie i cui membri sviluppano consumi energetici pari a più di cento volte quelle di un animale della stessa taglia (in modo tale che, se tutti gli umani appartenessero a quella cerchia, la corrispondente popolazione biologica ammonterebbe all’equivalente di qualcosa come mille miliardi di individui): si deve prima di tutto denunciare qualche disastro ecologico ed elevare moniti su quel riscaldamento globale che colpirà soprattutto i tapini (quelli responsabili di uno sviluppo energetico di dieci volte o poco più il comune esemplare biologico inferiore), in modo che costoro, o almeno i più poveri di spirito (ai quali, come si sa, è riservata ogni preminenza nel futuro regno dei cieli), traggano dal confronto con l’apparizione dei fasti celebrati nel servizio successivo la sensazione netta e indomabile che una classe di semidei che vive per suo esclusivo merito in un mondo asettico e ordinato, grazie alle proprie miracolose ed esclusive attitudini, stia vegliando sul loro destino e risolvendo ogni questione relativa a una possibile catastrofe globale.
Da bastian contrario e sezionatore di capelli in cinque o dieci (chi è senza peccato scagli la prima pietra), approfitto dell’esempio citato per rimarcare un piccolo difetto, senz’altro emendabile, di quella Coscienza Direttiva: tende, per comprensibili fini educativi, a esagerare le doti intellettuali dei propri campioni.
Di fatto l’unica soluzione escogitata finora (l’unica realista e percorribile senza ridiscutere il Sistema!) non è poi tanto geniale e consiste nel dimezzare come minimo il dispendio energetico dei due terzi che spendono meno: basterebbe trovare il coraggio di divulgare apertamente questa somma trovata e / son certo, amici cari, / che i due terzi in oggetto / tolti pochi somari / plauderanno al progetto.
Una variante ancora più geniale, anche se latrice di qualche complicazione aggiuntiva, prevede che il risparmio energetico dei due terzi suddetti non comporti particolari aggravi rispetto al presente nei rispettivi tenori di vita, comportando però un ulteriore carico di produzione energetica da parte degli strati più alti, la cui composizione numerica dovrà quindi essere ridotta a meno di un terzo e i cui poteri discrezionali andranno di conseguenza incrementati.
L’incremento di tali poteri discrezionali è indispensabile, nella visuale di chi vorrebbe ridurre l’impronta dell’umanità sul pianeta senza rivoluzionarne gli stili di vita: tali propositi implicano infatti la sostituzione del volume attuale complessivo di energia prodotta globalmente con un volume di sicuro maggiore, ma dagli effetti termici contenibili o presunti tali, il che, per la nota proporzionalità inversa tra temperatura ed entropia nel consumo di energia libera, delinea scenari non proprio tranquillizzanti di rinnovata e imprevedibile creatività su tutti i fronti delle vicissitudini umane e non umane, motivo per cui è bene prevedere una capacità ferrea e volitiva dei controlli riservati ai vertici.
Si deve naturalmente escludere, se non altro per evitare una epidemia di depressioni e magari suicidi, che tutto poggi su un colossale e disastroso equivoco imputabile alla separazione delle varie culture: artistiche, letterarie, antropologiche, filosofiche, religiose, socio-politiche, giuridiche, economiche, matematiche, scientifiche eccetera, ciascuna con le proprie particolari branche e sotto-discipline.
L’equivoco, in sostanza, deriverebbe (ma non è così, non può essere così!) da un patto di suddivisione e spartizione degli ambiti di rispettiva competenza stabilito ignorando il nodo problematico cruciale, ovvero se esista un nucleo di ontologia primaria e ineluttabile che tutto integra e coinvolge fino a permettersi, in modo pacchiano e, diciamolo, gravemente offensivo e lesivo dei diritti umani primari, di ignorare le fondamentali necessità didattiche, coesive e organizzative che attengono al corretto espletamento delle mansioni istituzionali da parte della specie padrona per diritto divino.
E’ assolutamente impossibile che a un fine intellettuale, un economista, un matematico o uno scienziato, che traggono il proprio sacrosanto profitto da studi oltremodo esoterici e da una collezione obbligata di sudatissimi trofei (come attestati, frequentazioni o pubblicazioni di respiro internazionale), possano sfuggire constatazioni elementari intorno a teoremi limitativi, vincoli stringenti, trappole inesorabili, nodi scorsoi della statistica, attrattori inevitabili dei sistemi complessi, cortocircuiti implacabili tra energia e disordine, tossicità tassativamente dipendenti da flussi che non si vuole ridurre, le minacce irremovibili in fondo a vicoli ciechi già imboccati, i disastri già prenotati nel giro di pochi decenni dall’hybris prometeica di cui si nutre la presente civiltà globale.
Ogni tecnologo che si rispetti è perfettamente consapevole che, se simili accidentali dimenticanze dovessero capitare a lui perché tutto sommato non trova un soverchio interesse per siffatti sofistici intrugli e garbugli, di sicuro non capiteranno a qualche suo collega in condizioni professionali simili alla sua.
Volendo insistervi, precipiteremmo in un puro paradosso inconseguente: ciascuna categoria si trova così bene adattata nella comoda nicchia della propria specializzazione, si impegna con così enorme tenacia per estrarre frammenti di profondo sapere da scambiare con le nicchie dei colleghi, che possiamo ritenere assolutamente impossibile il travisamento dell’evidenza elementare per eccesso di concentrazione e puntiglio, l’obliterazione totale della foresta perché ci sono gli alberi davanti.
Queste impossibilità derivano da dogmi intrecciati con dipendenze cosmiche e si risolvono nella lapalissiana certezza (un teorema di logica elementare) che i Mercati trovano sempre la soluzione per i guasti che generano: i guasti infatti creano esigenze e le esigenze creano i Mercati che creano i guasti e le esigenze che creano i Mercati e così all’infinito e fino alla fine dei tempi.
Le forze propulsive dell’economia si legano in un circolo virtuoso ai progressi della conoscenza costruttiva ed è assolutamente ovvio che meccanismi generativi e meccanismi applicativi trovino un pieno riscontro armonico su tutto il ventaglio delle pirotecniche fenomenologie antropologiche e naturali: se così non fosse, i poteri economici dominanti interverrebbero attraverso i Mmercati a sanare le incongruenze e le incongruenze a sanare i Mmercati.
Perfino se, per assurdo, ciò comportasse a un certo punto una contraddizione insanabile tra sopravvivenza delle capitalizzazioni private e sopravvivenza del pianeta... niente paura: anche in questo caso del tutto improponibile i Mmmercati troverebbero la soluzione generando dei mmmmercatini legittimi al posto dei mmmercatini bastardi che nessuno riconosce più.
Si sacrificherebbero un po’ le aziende e le finanziarie più precarie da una parte e gli habitat e i domini ecologici più fragili dall’altra, un colpo al cerchio e l’altro alla botte, sempre utilizzando le mazze e i martelli più tecnologicamente esoterici e sempre con molto discernimento e intelligente gradualità.
L’azienda debole, morendo, rinforza l’azienda forte e l’ambiente ecologico debole, morendo, rinforza quello forte: è una legge fondamentale della Natura.
Non esiste incompatibilità tra tempi, ritmi e scansioni dei vari ordini di fenomeni: se esistessero, non esisterebbe la razionalità tecnocratica!
Del resto, Signori della Corte, parliamoci chiaro: se anche un centomillesimo (una percentuale enorme!) degli sforzi e dei capitali devoluti a ricercare artificialità sofisticate da impiegare in brevetti che arricchiranno la cerchia sibaritica delle multinazionalità organizzate venisse devoluta allo studio delle criticità incombenti nella persistente generalità degli assetti socio-economici attuali, ritenete sinceramente che si possa arrivare a qualcosa di diverso di dubbiose, amletiche, rosicanti percentualizzazioni di rischio capitale?
E quantunque queste ipotetiche percentuali arrivassero anche a sfiorare il 50% (ma probabilmente nessuno si azzarderebbe mai oltre un 20 o 30%) di crollo catastrofico in… diciamo mezzo secolo... chi, tra quelli che contano, si giocherebbe la carriera per percentuali così ridicole?
Ma torniamo alla confessione preannunciata in apertura e al peccato logico da me commesso.
Forse non esistono viaggi organizzati del turismo responsabile che comprendono tra le mete Shangri-La, ma anche nella più caotica delle città tentacolari lussureggiante di baraccopoli uno può radere tutti e soli i barbieri che non radono se stessi: è sufficiente che non venga ufficialmente considerato un barbiere.
Anche un dio (assoluto come ogni altro dio paritetico), se vuole creare tutte e sole le creature che non creano se stesse, può farlo, purché abbia energie sufficienti e soprattutto prediliga il divertimento un po’ torbido alla perfezione e alla pace: egli non è creato da altri e nemmeno da se stesso e quindi non è una creatura.
Egli infatti spiega se stesso (nessuno comprende come: se lo comprendesse, possiederebbe la potenza di penetrazione di un dio!) e quindi spiega tutte le creature che non spiegano e non creano se stesse, anche se non può limitarsi a spiegare e creare solo quelle: deve spiegare e creare anche qualcosa molto più importante di quelle (talmente importante che alla fine spiegare quelle diventa una sinecura), benché in un modo che le creature medesime non possono minimamente penetrare e neppure sfiorare.
Ogni gagliardo spirito indipendente disdegnoso di paletti e recinti che lo allontanino troppo da cigli pericolosi e affascinanti protesi verso un ricco e scintillante repertorio di totalità infinite più tutto un moltissimo altro da sommare a tutte quelle totalità può così tirare un ultimo e definitivo sospiro di sollievo.
Basta un aggiustamento dei termini, una lisciata alle definizioni, sgrossature o slittamenti nei dizionari, tutti gli accorgimenti, insomma, di una vivace e umanissima dialettica ed ecco che ogni contraddizione è costretta a deporre la sua fiscale vanagloria e venire a più miti consigli con un’agile e fattiva saggezza.
La fertile e vulcanica inventiva umana escogiterà sempre un qualche espediente per tradurre la logica ontologica in dinamismo sociale, un teorema aristocratico in una chiacchiera parlamentare, la scienza minimale ed essenziale nella sfarzosa coreografia di una Teoria del Tutto orgogliosa delle proprie assurdità, i limiti invalicabili nella nebbia effervescente che li cancella e che inebria senza ubriacare.
Anche un barbiere che rade 1500 barbieri che non radono se stessi non è, a rigore, un barbiere come un altro se opera a domicilio oppure non è pagato dai barbieri che rade, ma dall’Istituto mutualistico che vigila sull’igiene dei barbieri.
Va bene, d’accordo, lo ammetto, non posso che piegarmi umile e disfatto davanti alle mirabili e profondissime astuzie di una logica superiore (una non-logica che irride le impotenze delle logiche matematiche) ma io mi permetto, signori della corte, di riformulare la domanda.
‘Può un barbiere radere tutti e soli i barbieri che non radono se stessi?’ diventa: ‘Può una cosa esistente spiegare tutte e sole le cose esistenti che non spiegano se stesse?’ oppure: ‘Può un complesso comprensibile relazionarsi a tutti e soli i complessi comprensibili che non si relazionano a se stessi?’ oppure: ‘Può un atto di pensiero concettualizzare tutti e soli gli atti di pensiero che non concettualizzano se stessi?’
Qui, dato che non siamo in video, ma in un testo di dottrina sapienziale, devo accennare allo sguardo intrigante e significativo che rivolgo alla corte in un cadenzato intervallo d’intensa sospensione.
Certo che può o che possono! E’ sufficiente che concetti come quello di esistenza, comprensione, pensiero sfuggano a qualsiasi tematizzazione teorica (magari attraverso qualche magia quantistica alla Penrose) e si collochino remoti e inarrivabili in quel mondo dell’inconcepibilità razionale che ormai rappresenta, nella religione come nella scienza alla moda, la garanzia più certa e incrollabile dell’inesauribile e sempre in qualche modo vittoriosa ingegnosità umana.
In fondo, se io dichiaro razionalmente che qualcosa è inconcepibile e ciononostante la ammetto tra le cose esistenti compio un atto massimamente razionale o massimamente irrazionale?
Potrei ammettere un mondo intero in quel modo: finché non professo di poterlo comprendere o addirittura controllare (con atti divinatori, scaramantici, di stregoneria o simili) non sarei falsificabile.
Quel mondo, però, non rifiuta soltanto il linguaggio scientifico: proclama una censura e una cassazione assolute verso qualsiasi tipo di linguaggio, anche quello delle esortazioni e delle prediche.
Anche quello che semplicemente lo nomina.
In conclusione, signori della corte, permettetemi di ritornare con un balzo all’origine storica del paradosso di Russell e quindi al suo impatto dirompente sulle pretese di fondazione del sistema di Frege.
Permettetemi di riformulare così la domanda finale: ‘Può un concetto o un’essenza o un principio (o un insieme di quelli) fondare tutti e soli i concetti, le essenze, i principi che non fondano se stessi?’.
Se rispondete positivamente alla domanda, dovete ritenere il mio assistito kolibiano colpevole di vilipendio alla santa religione poco mistica e molto pragmatica, se rispondete: ‘no, è impossibile’, sancite una incompatibilità netta e inguaribile tra razionalità indagante e ottimismo palingenetico e quindi trasformate il presunto vilipendio in una pura constatazione di fatto.
Dirò di più: il mio cliente, ricorrendo alla vera sostanza dei paradossi logici elementari (accanto a quello di Russell, possiamo sciorinare senza tema di smentita tutti gli altri paradossi storici: quello del mentitore, di Berry, di Richard, di Burali Forti eccetera), dimostra l’impossibilità di teorizzare Dio con metodi razionali, il che, giustificatamente, potrebbe non fregare niente a nessuno se non si desse concomitantemente il caso, ulteriormente da delucidare, che ridare a Dio quello che è di Dio, ovvero l’assoluta trascendenza incomprensibile, implica la detronizzazione di quella onnipotenza tecnologica umana che deriva come corollario dall’assunzione aprioristica e mai esplicitata del prodigioso salto categoriale di una intelligenza umana in sostanza e di fatto trascendente rispetto all’intelligenza biologica ordinaria.
Vediamo se sono in grado di spiegarmi meglio.
I paradossi citati si possono tutti ricondurre, da una parte, agli utilizzi delle varie versioni delle diagonalizzazioni di Cantor utilizzate da Godel,Turing & C. e dall’altra al principio di non contraddizione della logica classica inteso, senza alcuna esagerazione, come il plinto portante della totalità di tutto lo scibile umano (‘X = X’, dicevano gli antichi, aggiungendovi ‘non (X e non X)’ senza aggiungervi altro, a parte altre inezie del tipo ‘X o non X’ (‘o’ disgiuntivo), principio del terzo escluso inviso ai costruttivisti, oppure la bella trovata che, se esistono separatamente due cose, ciascuna esiste anche per conto suo).
Ciò è sembrato sempre disdicevole o comunque poco commendevole a chi ritiene che, come minimo, una scienza degna del nome debba come minimo fornire abilitazioni e autorizzazioni dirette a un uso libero e spregiudicato dell’infinito, uso positivo se apre territori vergini alle esplorazioni più disinteressate e non mistificanti, ma negativo se prelude all’obliterazione di premesse che, nonostante la loro modestia e finanche trita volgarità, possiedono un contenuto di verità semplice e assoluta.
Per evidenziare queste verità basta esplicitare il vero significato del principio di non contraddizione e formularlo così: se voglio teorizzare qualsiasi cosa, non posso teorizzare niente di specifico e sensato, se invece voglio teorizzare qualcosa di specifico e sensato, qualsiasi cosa sia, devo vietarmi di pensare entro una totalità onnicomprensiva ovvero al di fuori di un contesto chiuso, limitato e specifico.
Devo anche rinunciare alla univocità e alla chiarezza se non restringo attentamente e dettagliatamente il campo di azione, questo perché ogni procedura di calcolabilità effettiva non è categorica e quindi una medesima sequenza di 0 e di 1 può essere ripartita diversamente tra istruzioni di elaborazione e dati da elaborare, questo finché non si esplicitano in dettaglio regole che impediscano allo specifico strumento materiale utilizzato per il calcolo di fare confusione.
Il cervello umano è uno specifico strumento materiale utilizzato per il calcolo e, nell’ipotesi che non fosse vincolato ai suddetti limiti, non potrebbe comprendere come riesca a non esserlo.
Le procedure che possiamo adottare per calcolare effettivamente qualcosa sono infatti numerabili, mentre, data una qualsiasi sequenza finita di numeri, le proprietà che possiamo ipoteticamente attribuirvi sono molto più numerose dei numeri di cui la sequenza si compone, anche se non hanno alcun obbligo di diventare concrete e reali e soprattutto di fondare armonie globali al posto di armonie parziali separate da laghi di casualità illeggibile.
Quando però diventano reali, allora aumentano i numeri della sequenza, cioè le possibilità di calcolabilità effettiva, in ragione aritmetica e i numeri delle possibili proprietà strutturanti in ragione geometrica o addirittura esponenziale, anche se Malthus non c’entra o c’entra molto alla lontana.
Per non ingenerare equivoci è bene però precisare che ogni proprietà strutturante è anche destrutturante, costruisce da una parte per disfare dall’altra, in ossequioso omaggio al volume comunque limitato dell’informazione globale (se l’informazione fosse infinita, le infinite farfalline, con i loro leggiadri battiti di ali, sprofonderebbero il mondo nel caos o lo condannerebbero a una mistica immobilità di tipo eleatico).
A tutto ciò il cervello umano non è affatto estraneo: la sua grande duttilità e versatilità deriva alla fine da principi elementari analoghi a quelli appena descritti a grandi linee, cioè dall’accesso a olismi e parallelismi generatori di risonanze incrociate ed echi polisemici, una grande macchina euristica a cui mancano però quei fondamentali elementi di coerenza e di controllo che possiamo rintracciare soltanto nelle procedure sequenziali a una dimensione.
Viene immediatamente da chiederci a quali criteri generali sia subordinato il funzionamento effettivo della realtà.
Bene o male, se tutto non è soltanto presa in giro o illusione (pensate a quante sonore risate ci potremmo abbandonare nell’aldilà se un dio simpatico e burlone si divertisse a svelare alle nostre menti trasfigurate come è riuscito a ingannarci!), dobbiamo considerare che: a) la realtà deve sottostare in qualche modo al condizionamento di leggi scientifiche localmente determinabili; b) si suddivide in strati o livelli gerarchici interdipendenti, ciascuno con le proprie leggi diverse, ma compatibili; c) è idealmente suddivisibile in strutture individuali complesse che permangono transitoriamente prima di perdere stabilità e coerenza.
L’unica concezione dell’universo compatibile, oltre che con tali requisiti, con più generali istanze di comprensibilità e computabilità, rimanda alla nozione di automa cellulare, declinabile in forme più nobili attraverso una teoria generale dei campi quantistici descritti da relazioni di conservazione e simmetria intrinseche, valide cioè a prescindere dalle coordinate locali adottate.
Teorie delle stringhe e gravità quantistica a loop alla fine costituiscono versioni più sofisticate e ortodosse di un generico automa cellulare: l’unica differenza categoriale delle rispettive tipologie fa capo a quell’indeterminazione sostanziale, quel probabilismo ontologico che in un automa cellulare è assente in versione limitata, ma automaticamente instaurato, come più avanti espliciteremo meglio, dalla trasmissione a velocità finita delle interazioni e dalla compresenza universale delle stesse, secondo modalità molto più esplicative, ma anche molto meno addomesticabili, di quanto la linearità e le simmetrie dei formalismi fondati su spazi vettoriali complessi non prospettino.
Del resto, l’indeterminismo quantistico è dato a priori, assiomaticamente, e ricade sotto formalismi in cui non è difficile ravvisare una fenomenologia di tipo statistico confermata dagli esperimenti (una sorta di emergenza da livelli ontologici più fini), mentre l’indeterminismo del computer universale è intrinseco e strutturale, anche se la reciproca congruenza delle due formulazioni è garantita dall’adattabilità di un automa cellulare a macchina di calcolo universale.
Ragionando diversamente, occorre spiegare da dove scaturisca la meccanica infallibile delle probabilità, altrimenti il concetto stesso di probabilità risuona assurdo e antinomico.
Quanto al famoso fenomeno dell’entanglement, proprio alla luce di quanto detto finora, a me non appare tanto misterioso, anche se è possibile e forse probabile che io abbia frainteso il nocciolo duro di tutta la questione.
La predisposizione degli apparati sperimentali determina, nel formalismo quantistico, quella che, con modalità qualitativa e analogica, potremmo interpretare come la direzione (nello spazio delle fasi a n dimensioni delle variabili di sistema) di una freccia di probabilità (un vettore in uno spazio di Hilbert) relativa a valori che non è possibile ricavare in forme ‘classiche’: mi sembra ovvio che, in queste condizioni, anche un eventuale substrato fisso di proprietà relative a livelli molto più profondi (per esempio alla scala di Planck) nel corso della sperimentazione concreta fornirebbe riscontri ambigui se osservati con la lente di un determinismo ingenuo.
Del resto, la violazione della disuguaglianza di Bell si può concepire anche in processi stocastici di tipo macroscopico.
GEDANKENEXPERIMENT!!!!! Consideriamo due dispensatori di pillole che, a ogni singolo clic di un temporizzatore, fanno cadere in contemporanea, tra quelle che scorrono allineate a caso in due file, una singola pillola ciascuno in una singola vaschetta di quelle allineate a caso in due file che scorrono sotto ciascun dispensatore a una velocità opportunamente sincronizzata; le vaschette contengono soluzioni chimiche di vario genere, assortite casualmente, e le pillole, assortite pure casualmente, contengono dosaggi di ingredienti tali da determinare per reazione fotochimica, quando cadono nella vaschetta, un lampo di luce rosso, verde o blu, forte o debole (R+, R-, V+, V-, B+, B-), determinato dal tipo di pillola e di soluzione; supponiamo che, prima di entrare nel dispensatore, le file si affianchino e intervenga un processo che modifichi l’organizzazione interna delle pillole in modo che la possibilità di una pillola di irradiare a contatto con una certa soluzione lampi di un determinato colore, per esempio il rosso, venga sistematicamente posta in opposizione con la pillola dell’altra fila e quindi, dopo l’avvicinamento, due pillole corrispondenti procedano verso il dispensatore presentando una la proprietà R- e l’altra R+ o viceversa, escludendo quindi R+ R+ e R- R- ; supponiamo inoltre che a questa azione si accompagni una modifica degli assetti molecolari interni tale da instaurare una certa probabilità di emissione di lampi rossi complementari a prescindere dalla soluzione chimica contenuta nella vaschetta.
Risultato: analisi della successione di lampi e delle coincidenze, possibile violazione della disuguaglianza di Bell graduando opportunamente gli effetti rispetto alle uniformità iniziali delle pillole, ‘entanglement’ tra le proprietà quando il tipo delle due vaschette coincide, ma nessuna conseguenza per i principi di realtà, causalità e località.
Portiamoci ora sul fronte della logica pura e della filosofia matematica, prima di far confluire le varie analisi in una concezione generale nientemeno che dell’intera realtà.
Il tentativo può apparire ambiziosissimo, ma i kolibiani hanno sempre pensato in grande, l’hanno fatto però in maniera specularmente inversa e antitetica a quello che predica la retorica liberista, aziendalista e/o spiritualista.
La grandiosità che i kolibiani perseguono non è quella dell’umanità, ma di Dio o ‘Dio’, cioè della Natura, e non si propone grandi imprese a cui sacrificare la qualità della vita, bensì grandi restrizioni nel rispetto dell’imperscrutabilità divina, da compensare con una sapiente salvaguardia progettuale della qualità delle singole vite.
La weltanschauung kolibiana è autenticamente e genuinamente religiosa, molto più della stragrande maggioranza delle religiosità che si vedono in giro, in quanto, idealmente, non ammette alcuna frattura netta tra una concezione del mondo in cui l’umanità è immersa e la conduzione economica e politica che configura i modi della sua presenza sul pianeta.
Se l’uomo desidera un assetto sociale rispettoso di certe esigenze esplicite e indispensabili, deve progettarlo; se spera che un certo assetto sociale storicamente determinato mantenga la propria integrità e coerenza affrontando nuove esiziali emergenze e nuove indispensabili esigenze generate da fondamentali meccanismi intrinsechi al sistema, si rimette nelle mani di Dio senza sapere che cosa il nome significhi, come del resto, con profetica intuizione, prevede la Costituzione Statunitense.
Con linguaggi e predilezioni diversi, qualcosa del genere hanno detto Sant’Agostino e Marx, ma non è necessario ricorrere all’autorità di pensatori famosi o famigerati per trovare supporti: basta il dato di fatto empiricamente accertato che le civiltà e le specie non sono eterne.
E non è nemmeno vero che le specie durano mediamente più delle civiltà, se invece del tempo vero, certo e matematico di Newton passiamo al tempo proprio e alla geometria intrinseca della relatività ristretta e generale, se commisuriamo cioè l’unità di misura del tempo alle velocità e accelerazioni dei processi che vi si svolgono.
Goedel, tanto più lodevole in quanto agiva contro la sua vocazione profonda di credente in nuce, dà scacco matto in tre mosse: a) prendere non come una burla da luddisti, ma sul serio e alla lettera, le contraddizioni elementari enucleate dalle antinomie essenziali; b) sviluppare una versione tecnica dell’autoriferimento attraverso il raddoppio speculare, per così dire, del linguaggio aritmetico; c) legare il vincolo di non contraddittorietà all’esistenza di un limite.
Se andiamo a vedere ogni mossa da vicino, ciascuna recita una sorta di ‘così è se così appare’ non molto diversa da quanto, nello spirito di Copernico e Galileo, avevano fatto non da molto o stavano facendo fisici come Einstein, Heisenberg, Bohr o Dirac: riconoscere e formalizzare la beffarda resistenza della natura alle pretese di un ingenuo quanto presuntuoso antropomorfismo.
Quello è stato il periodo d’oro della scienza pura prima del trionfo della tecnologia, dopo di allora l’antropomorfismo si è messo a inseguire e ha proseguito sullo slancio in direzione opposta, ma comunque eccessiva: alle illusioni di una saggezza istintiva e partecipe di agevolazioni divine si sono sostituite quelle di una intelligenza ipervitaminica e nutrita di anabolizzanti costosi.
Quando si eccede, prima o poi viene il momento di scegliere tra disintossicarsi o perire, il momento che potremmo definire ‘della natura che si stufa’.
I ragionamenti concreti che evadono dalla parca sobrietà comandata dalla logica di base sono solo travisamenti concreti dell’unico modo serio di ragionare a prescindere dalle ovvie difficoltà che impediscono un’assiomatizzazione adeguata della comunicazione ordinaria tra uomini che usano una lingua naturale.
Tramutare una impossibilità asseverata e ineluttabile in sogni di possibilità indefinita, ma inesauribile e illimitata, come in modo sibillino e subliminale (e proprio per questo efficacissimo) sussurra alle orecchie dei sudditi un connubio raffinato di tecnocrazia e religiosità, costituisce soltanto un atto di magia comunicativa slegato da qualsiasi risultato certo e affidabile.
E’ inutile ingegnarsi a forzare le ombre e gli abissi che ci circondano, qualsiasi universo decifrabile, di cui si possa accennare qualche lineamento e contorno non fantasioso, nasce caratterizzato da numeri arbitrari, assurdi e inspiegabili, teorizzarne l’assoluta necessità significa sprofondare in un vuoto infinito che possiamo soltanto etichettare con un nome come Sparatrak o Mumbazzù o tastare con una manina da stringhista che si bagna in un oceano lussureggiante di opzioni alternative.
Spiegare tutto evoca inesorabilmente la tautologia dell’autoriferimento e quella produce soltanto la positività inerte dell’autoaffermazione che proclama ai quattro venti che, se nego la presenza formulante di me stesso, formulo una contraddizione.
Tra lo spiegare tutto e lo spiegare soltanto ambiti artificialmente limitati, non esistono vie di mezzo e il motivo è tutto sommato banale: una scienza per esistere deve presupporre leggi e concatenazioni causali che prevedono una trasmissione delle influenze a velocità massima limitata (premessa indispensabile alla leggibilità del mondo) e questo massimo invalicabile, riferito a una totalità universale, implica che un concetto assoluto di simultaneità, indispensabile per ammettere un tipo di coerenza universale accessibile all’intelletto umano, non esiste: la simultaneità è sempre relativa e dipende dalle distanze tra i fenomeni e dai movimenti reciproci.
Credere in Sparatrak o Mumbazzù, reggitore e garante, il primo, della potenza tecnica secolare, il secondo della spiritualità infinita, può dare gratificazione e sollievo, diminuire l’ansia o aumentare la sicurezza o altro, ma le salvaguardie che la scienza ci consente di attuare implicano divisioni, argini e attenuazioni delle influenze, non atti di apertura fiduciosa verso vastità assolutamente enigmatiche e incontrollabili.
I benefici individuali, se particolari circostanze lo consentono, possono anche trasferire effetti similari a una determinata temperie sociale, questo è possibile, rimane comunque impossibile che la fede in Sparatrak e Mumbazzù influenzi le leggi di una ontologia di base e, per esempio, consenta ai problemi climatici di evolvere favorevolmente in presenza di apporti causali permanentemente peggiorativi.
Il mio cliente non ha affermato che una Provvidenza Naturale, prospettata da economisti o tecnologi più che da monaci o sacerdoti, non esiste, bensì che, se esiste, non è comprensibile né tantomeno governabile, cosicché, ineluttabilmente, qualsiasi affermazione al riguardo è puramente campata per aria, arbitraria e soggettiva (almeno finché un’autorità costituita o la pressione di una maggioranza numerica non la eleva al rango di legge ovvero di convenzionalità impositiva, nel qual caso trionfa l’evidenza assoluta e inattaccabile della verità per decreto e stramazza, insieme al libero pensiero, qualsiasi esercizio di democrazia effettiva), anche se non è necessariamente una bestemmia, dato che la nozione stessa di bestemmia ripugna alla gente assennata.
Anche se, a ben guardare, il miracolo italiano (poderosa conferma di una trascendenza divina accanto al miracolo preliminare o collaterale o conseguente del comprendere tutto senza comprendere niente) testimonia di come si possa evitare la sentenza di pena capitale per una democrazia attraverso ineleganti patiboli semplicemente ponendo a fondamento di una nazione una regola non scritta, ma non per questo meno ferrea: è vietato legiferare sfidando l’ostilità aperta o delle Grandi Commissioni Tecnocratiche Internazionali del federalismo opportunistico o dello stato indipendente del Vaticano, ramificato nella nazione ospite attraverso le lobby cattoliche interpartitiche: due formidabili condizionamenti che si trovano sempre in qualche modo concordi.
(Qualche decennio fa quelle ostilità si potevano sfidare, ma allora in Italia come nel resto del mondo esistevano due blocchi e religioni contrapposti: il confessionalismo pseudo-liberale e il comunismo ‘asiatico’)
Rispettando quelle regole sovrastanti salviamo capra e cavoli, anche se il lupo che viene traghettato per secondo sparisce prima del terzo approdo e attendiamo con qualche apprensione le modalità della sua ricomparsa.
Il lupo probabilmente ricomparirà quando i kolibiani avranno fondato la loro autonoma enclave conquistando l’influenza che si meritano e rendendo impossibile legiferare in aperta violazione delle loro preferenze.
Forse però, il non sottoscritto e modestissimo avvocato del movimento manifesta qui un pessimismo eccessivo: da una parte, in fondo, kolibiani e cattolici o kolibiani e guru delle grandi imprese visionarie sono molto meno agli antipodi di quanto sembrino, forse stanno dicendo addirittura le stesse cose con linguaggi e sfumature diverse.
Neppure sul fronte del confessionalismo tecnocratico internazionale, questa suprema orgia di laicità palingenetica, gli orizzonti potrebbero essere tanto oscuri come il mio cliente kolibiano li ha dipinti.
Sparse ovunque nel mondo esistono fondazioni senza scopo di lucro dichiarato e diretto, sostenute da dotazioni finanziarie enormi (chi e che cosa c’è dietro la Greta Internazionale, del resto, non è molto chiaro) e facenti capo a personalità che le desolanti storie e regressive delle parabole esistenziali che tutti sanno come vanno a finire pongono davanti al grosso problema di come impiegare tanto denaro con il poco tempo che resta, cercando possibilmente di salvaguardare la sola cosa di sé che rimarrà a tempo scaduto: la memoria collettiva di un simulacro individuale.
Allo stato attuale delle cose, Grandi tecnocrati e Grandi Santoni rivelano molti tratti comuni e nel tessuto oligarchico principale la trama degli interessi presenta qui e là aree di cangiante e nebulosa opacità in un senso come nell’altro.
Signori della Corte, lo confessiamo, io e il mio cliente non abbiamo idee chiarissime su come impostare l’itinerario del Grande Progetto di Stato Stazionario: sappiamo solo che ogni proposito al riguardo dovrà comparire in modo esplicito e trasparente sulla scena del mondo e dopo il proposito, prima dei lavori collegiali di costruzione effettiva, si dovranno impostare le relative strategie propedeutiche per la preparazione del terreno e la raccolta dei materiali e degli strumenti operativi.
Lapalissiane ovvietà, certo! Forse è per questo che sono così assolutamente e clamorosamente disattese.
Perché qualche tycoon redento e passato a miglior vita terrena o qualche santone della prima ora non mettono all’ordine del giorno queste banali ovvietà?
E’ probabile che gusti, attitudini, inclinazioni istintivi, emotivi, psicologici del kolibiano tipo non si armonizzino affatto con quelli dell’oligarca medio e neanche, per cantarcela chiara e fuori dai denti, con quelli dell’attivista ordinario, il che è molto grave, ma, Signori della Corte, conveniamone: quale mai potrà essere, al riguardo, il grado di coincidenza effettiva tra due cattolici o cristiani o taoisti o mussulmani o eccetera presi a caso e dopo aver fatto la tara ai condizionamenti ambientali e culturali?
E tra due tycoon reduci vittoriosi dal campo di battaglia e in vena di tutt’altre imprese nel segno del filantropismo ecumenico?
Se i profili fisiologici sono destinati a costituire barriere invalicabili sulla via di qualsiasi progetto comune, beh… allora, signori cari, non rimane che l’uomo forte e il capo che gli dà ordini diretti, cioè Dio senza virgolette.
Nessuna società complessa si sarebbe sviluppata senza un florilegio di impronte e attitudini diverse, senza ispirazioni e aspirazioni l’una verso l’altra estranea: questo bisogna scrivere a lettere di fuoco sui nastri di partenza, non i soliti pii abbagli sulla solidarietà e i ponti che riuniscono.
Ogni storico degno del nome (uno storico coi controcazzi!) non può non convenire che tutta o quasi la storia secolare del potere ecclesiastico all’interno del Bel Paese alla fine si svolge all’insegna di un assioma fondamentale: la dottrina non conta un accidente, a contare sono solo… le Opere (bianche, rosse o nere o di qualsiasi altro colore).
Il Vaticano, come i comitati occulti delle eminenze grige, non si regge sulla profondità di pensiero, di visione e di ideali che si effonde dalle rispettive formulazioni teoriche ufficiali (ci mancherebbe solo quello per chiedere asilo politico alla luna!): si fonda su un particolare e sofisticato modello di socialità organizzata.
Il Vaticano non argomenta e teorizza un Progetto, come sono costretti a fare i Kolibiani in attesa di costituire il proprio stato almeno virtuale: la sostanza politica del Vaticano è già di per sé un Progetto.
Suvvia, amici filo-clericali: perché non prendere in considerazione la possibilità di eleggere a papa un kolibiano, magari quello autentico e originale?
E voi amici tycoon: perché non far confluire qualche miliardino di euro nelle casse dell’Associazione Mondiale Kolibiana, che così potrebbe emettere il primo vagito?
Il problema è che il modello tecnocratico predica soluzioni che sono peggiori dei mali (incrementi di una energia che ripulisce tutto tranne il danno peggiore: se stessa), il modello cattolico è genialmente schizofrenico e oscilla continuamente tra l’opzione di una simbiosi sistematica e funzionale con i poteri economici vigenti e una radicalità sociologica di tipo movimentista o marxiano: un miscuglio politicamente accorto e perfino diab… intendo dire… funambolico, ma che mostra la corda in presenza di un tipo di emergenze che per un cattolico, come per ogni altra figura confessionale, non meritano alcuna considerazione attenta, dato che ricadono completamente nelle competenze e discrezioni di Dio.
Alla fine, senza cambiamenti di rotta radicali e anche per vocazioni intrinseche, l’enigmatico e paradossale incesto tra generico confessionalismo e generico illuminismo che si sta creando rischia di incoraggiare e legittimare le degenerazioni incombenti sia sul fronte politico-sociale, sia su quello ambientale.
Sul fonte politico sociale, perché rientra nelle corde profonde di ogni attivismo umanistico fiancheggiare un’aristocrazia dominante che sovrintenda alla disgregazione ordinata di un ceto medio sostituito da masse più informi di individui standardizzati, caratterizzati da bisogni elementari e schematici più facili da accudire, più docilmente riconducibili del consumatore tradizionale nell’ambito giurisdizionale di astrazioni normative e spiritualità canonizzate.
Sul fronte ambientale perché una visione antropocentrica e una filosofia anti-naturalista non permettono una corretta valutazione dei pericoli e ostacolano sentimenti di combattiva adesione e solidarietà verso le forme viventi non umane.
D’altro canto, se non sei un animale politico è ben difficile che ti sappia muovere bene sul terreno della lotta politica, il che non appare poi così scontatamente anodino quando l’unica via che non porta al disastro richiede di ridiventare in buona e ottima parte animali della natura e non della società.
Si tratta, alla fine, di identificare e incoraggiare, a prescindere da suddivisioni superficiali e scelte di campo episodiche, le fenomenologie culturali più adatte nell’ordine di un utopismo vincente, ma le fenomenologie, culturali o no, esistono come tali molto di più di quanto non si possano forgiare e la loro evoluzione o involuzione si svolge in tempi che ormai è un errore considerare più veloci dei ritmi naturali.
Se un pianeta alza la voce perché ‘non ne può più’, quella voce va considerata la voce di Dio e sovrapporvi una voce superiore non rappresenta certo il modo migliore di ascoltare i messaggi più urgenti.
Certi Kolibiani (ma non certo il mio assistito!) si sono spinti al punto di riferirsi alla teologia ‘razionalista’ come a una sorta di blasfemia offensiva dei principi inviolabili di sostanziale trascendenza, comprensibile o meno, ma, come già accennato, deve ripugnare a qualsiasi kolibiano degno dello specchiato nome permettersi la minima obbiezione verso un misticismo irrazionale che non si opponga in modo pregiudiziale e dogmatico al Progetto razionale di stato stazionario.
Per approfondire le varie questioni aperte, chiedo umilmente venia a Voi, Signori della Corte, che già il mio occhio furtivo vede reprimere un più che giustificato sbadiglio, e ritorno ad argomenti più prettamente logici e filosofici.
Tra gli addetti ai lavori, è opinione diffusa (anche se non esclusiva) che il logicismo abbia fallito almeno gli obbiettivi più ambiziosi.
Ci apparirebbe allora molto strano se l’impossibilità di fondare la matematica su pochi principi logici chiari ed evidenti non condannasse definitivamente le analoghe pretese di ogni scienza, filosofia o religione, includendo nel novero i sogni di cosmiche architetture fondate su travature e aggetti di leggi e teoremi a cui non abbisognano per calarsi concretamente nel mondo inesplicabili riscontri desolatamente avvinti a numeri affetti da una inguaribile accidentalità.
A differenza (perlopiù... non sempre) di una scienza o di una filosofia, una religione cerca di sottrarsi al relativismo dell’interazione perenne e assoluta che di volta in volta, ovvero di universo in universo (qualcuno ipotizza che ce ne sia uno per ogni buco nero) estrae a sorte le cifre dei biglietti vincenti.
Una religione può ben permetterselo (buona parte dei proventi derivano del resto da elemosine e donazioni), ma una religione si appella a una tautologia autoreferenziale il cui contenuto in termini di pubblica pedagogia sarà anche encomiabile (come spiegare altrimenti tanta influenza nella pubblica istruzione?), ma quanto a capacità esplicative della natura del mondo si palesa inferiore a un qualsiasi sasso presente su un qualsiasi sentiero.
Un qualsiasi oggetto disperso per il mondo, nel suo infimo, rimanda infatti a un nugolo di relazioni immediate che si collegano a rapporti più vasti e significativi: il tutto che risolve tutto... nemmeno a quello.
Il tutto che risolve tutto rimanda solo a un tutto che risolve tutto in omaggio alle pretese di sedicenti risolutori di tutto con un tutto.
Perché la matematica congegnata da sofisticati cervelli non si possa fondare su grandi principi fondativi (da non confondere con umili e laboriosissime regole di base) è altrettanto facile da capire: perché nel cosmo che ospita quei cervelli esistono organismi viventi emersi da una strabiliante epopea filogenetica e quindi la logica degli sviluppi di base innesca una complessità libera e impregiudicata di eventi costruttivi e combinatori che trascendono la logica stessa senza rinnegarla, fenomeni per cui valgono tipi di impossibilità necessari al superamento dei freni e dei vincoli di una statica perfezione.
Le varietà dei processi implicati, già preconizzate a livello logico elementare dal metodo diagonale di Cantor e dal regressus ad infinitum di una collezione di insiemi che si aggiunge inesorabilmente a se stessa, si possono schematizzare astrattamente e genericamente nel passaggio da una logica del primo ordine (in cui i quantificatori agiscono solo su variabili individuali) a una logica di ordine superiore (in cui ai quantificatori soggiacciono anche le classi e i termini proposizionali) perché già da qui, senza aggiungere altro, se ci accontentassimo, sorgerebbe e insorgerebbe tutta la trascendenza che desideriamo per arrenderci al fascino del mistero, tutto il festival di incompletezza e indecidibilità di cui abbisogniamo per lenire l’ostilità degli istinti profondi verso la sequenzialità incatenante del ragionamento algoritmico.
L’uomo può pensare e scrivere soltanto in senso progressivo e unidirezionale cercando poi, con grande fatica, di connettere e intrecciare le varie file con procedure altrettanto sequenziali, ma tutto quello che gli accade intorno è una immensa elaborazione parallela.
Già da qui si può intuire, rivolgendoci al nostro specifico universo, come unità fondanti, ineffabili nella loro surreale semplicità, inneschino una proliferazione ora progressiva e ora regressiva di entità derivate che possono essere viste come unità fondanti a un livello superiore, il tutto restando compatibile con un substrato unico di leggi fondamentali senza il quale non potrebbero esistere leggi di alcun tipo.
E’ precisamente questa trascendenza oggettiva di livelli che le nostre logiche non riescono a cogliere se non attraverso generiche analogie e tavole di verità non univoche o addirittura ‘fuzzy’ e allora la mente umana adombra la propria impotenza sotto invenzioni di pura magia dissimulate con arredi e vestiari sempre in qualche modo rispettosi delle mode correnti.
La mente umana esige degli oggetti e delle verità: se trova invece probabilità e statistiche ricerca gli oggetti la cui abnorme numerosità disegna le curve di distribuzione, ma sotto ogni distribuzione non ci sono oggetti, ma altre statistiche di livello inferiore, statistiche che fino a un certo punto possono essere ignorate quando si descrivono i fenomeni al livello superiore, in altre circostanze specifiche determinano invece effetti riscontrabili anche lì, come quando si è costretti a dividere la statistica di Maxwell-Boltzmann in quella di Fermi-Dirac e Bose-Einstein.
Alla fine, sotto quell’immane coacervo di statistiche possono solo resistere i semi durissimi e perenni di poche regole elementari: niente altro.
Può darsi benissimo che non sarà mai possibile procedere oltre una vaga intuizione quando si ricercano le modalità fondamentali di come il singolo evento si combini con altri eventi per generare complessi che si auto-riproducono esercitando intorno a sé effetti coordinati e cumulativi (basta pensare a una molecola di videogioco come la formica di Langton per farsene una idea), generatori di un interscambio continuo tra moduli producenti e moduli prodotti, ovvero, in termini informatici, tra registri di elaborazione e programmi elaborati oppure, in termini di fisica fondamentale, tra campi e particelle, tra reti di simmetrie e reti di interazioni.
Sarebbe molto curioso che il cervello umano riuscisse a formulare qualcosa di effettivamente conclusivo al riguardo (a parte le ovvietà in senso limitativo e generico che ho appena enunciato), almeno finché lo si considera perfettamente omogeneo ovvero parte fusa e integrata nella realtà che si illude di affrontare come soggetto autonomo mentre vi sprofonda amalgamandosi alla comune ontologia di base.
Qualsiasi paradigma, compreso quello molto di moda fino a qualche anno fa fondato sul concetto di informazione mutua tra sistemi inter-operanti (‘it from the bit’), in apparenza fornisce una modalità più tecnica di esprimere certe fumose analogie, ma alla fine non vi si distacca granché, dato che, come già accennato, il problema del tempo è insolubile insieme al problema del coordinamento delle parcellizzazioni e delle scansioni che frazionano l’universo, riferibili, per esempio, al tempo impiegato dalla luce per percorrere la lunghezza di Planck.
La temporizzazione del computer universale ci è definitivamente preclusa dalla caduta già segnalata del concetto di simultaneità decretato dalla relatività ristretta, il che, in una visione olistica di tutto l’universo come interazione continua e globale, coinvolge inevitabilmente la nozione di causalità insieme a quelle di determinismo o probabilità, di casualità o struttura.
In sostanza, analogamente a come ‘nulla’ e ‘caso’ rappresentano paralogismi assurdi se considerati fenomeni a se stanti e non caratteristiche implicite e consustanziali della semplice esistenza (perlomeno quella che consente l’apparizione di ‘osservatori biologici’), possiamo concepire le nozioni di casualità e di probabilità proprio perché tutto ciò che avviene è causato, interdipendente e per ciò stesso imprevedibile (non appena ricade sotto una concomitanza di cause diverse implica una ramificazione di interdipendenze che prima o poi si disperde nel dedalo di presenti estesi sciorinati da sconfinate rotazioni nella geometria spaziotemporale di Minkowski).
Queste rotazioni infatti non possono valere solo per l’uomo che le ha formalizzate: in un modo o nell’altro (il solito enigmatico, impenetrabile modo che attiene al paradossale concetto di realtà in sé e per sé) devono valere per ogni singolo evento, allo stesso modo in cui valgono per i neutrini solari e qualsiasi altra particella in moto, devono valere come l’effetto di una carica elettrica o di un bosone di Higgs o di qualsiasi altro quanto di campo, a prescindere che di tutto ciò, tradotto in termini di realtà indipendente, non conosciamo e non conosceremo mai la natura ‘assoluta’.
La scienza ha scoperchiato il vaso di Pandora e non può tirarsi indietro, non può ritrarsi davanti alle inquietanti trascendenze oggettive che ha evocato per lasciare il posto a consolanti trascendenze di fantasia.
Ogni scienziato serio queste cose le sa, ma non le racconta perché ogni società seria e responsabile glielo impedisce imponendo l’obbligo tassativo di un generale ottimismo di pragmatica.
Uno scienziato serio può anche svelarcele in parte, queste cose, ma deve prima genuflettersi e fare atto di adesione almeno formale al dogma ovunque imperante dell’eccezionalità del fenomeno umano, questo florilegio trascendente di creatività che controlla e amministra indefettibilmente se stessa.
Chiunque non rispettasse tali profilattici obblighi di liceità e conformismo regalmente sovrani, dovrebbe concludere che o si segue il flusso degli sviluppi storici e sociologici come si convive con la propria fisiologia corporale o si cerca di intervenirvi con una razionalità guardinga, difensiva e semplificante.
Questa razionalità trasuda da ogni angolo negli ordinari disbrighi delle faccende umane, peccato che sia perlopiù limitata a cerchie privatiste nonché spesso adulterata in atti scaramantici di psicologia apotropaica, mentre in ambito pubblico e nazionale ci si limita ad amministrare il nuovo che avanza o che inciampa, accettando con certosina e tenace pazienza i profluvi di complessità combinatoria che qualsiasi contesto dipana in modo direttamente proporzionale all’estensione delle varie influenze.
Anche questo però non è del tutto vero: le oligarchie dispongono a propria discrezione dei cervelli più fini, quindi sanno che la partita vera, come ai tempi del tardo impero romano, si gioca sulla gestione oculata di masse indifferenziate che vanno create e amministrate ad arte e il cui impatto ambientale ed economico va armonizzato con l’integrità delle sperequazioni vigenti.
In fondo ogni oligarchia una idea chiara ce l’ha: il ceto medio di un’astratta democrazia liberale rappresenta ormai una dittatura intollerabile delle maggioranze, il che non è nemmeno sbagliato (Von Pauli): è giunta l’ora che vi subentri, fatta salva la struttura fondamentale di una economia di mercato adeguatamente gestita dall’alto, un socialismo tecnocratico che ai diktat ideologici sostituisca la vaselina del controllo religioso.
Si tratta, lo vedete bene, di qualcosa di simile a un progetto, ma non di un progetto kolibiano.
E’ un progetto che si adegua all’esistente e quindi non è un vero e proprio progetto, dato che l’esistente va manovrato e per manovrarlo, volendo sintetizzare in termini metaforici le analisi precedenti, occorre distinguere tra software e hardware della realtà.
Un progetto che ricreando ex novo semplifica opportunamente, aprendo una nuova pagina, non dovrebbe invece fronteggiare quelle necessità insormontabili o perlomeno le affronterebbe su un terreno molto più favorevole.
L’impossibilità di distinguere tra hardware e software deriva in ultima istanza dall’impossibilità di dirimere le dinamiche atomiche da quelle combinate e in fondo (divagazione!!!) una fisica fondamentale che meritasse veramente il titolo di Teoria del Tutto o, almeno, di Grande Unificazione, dovrebbe cercare semplicemente e in via preliminare un qualsiasi aggancio concettuale tra località e globalità ovvero a che condizione processi elementari tra singole cellule di realtà possano avviare dinamiche complessive sorrette da molteplici regolarità olistiche, magari tenendo conto della ineluttabilità di ordini strutturali parziali e relativi in una prospettiva come quella della combinatoria di Ramsey: opzione, come già argomentato, definitivamente e irrevocabilmente preclusa per quanto concerne un ambito di azione effettiva ovvero una adeguata risoluzione dei dettagli, ma forse teorizzabile in un contesto astratto minimale.
Che tali risultati finora si siano prospettati vagamente avvicinabili soltanto attraverso tecniche di matematica sperimentale molto più che con modelli teorici forse non denuncia soltanto limiti di praticabilità effettiva: forse rivela modi comportamentali effettivi della signora realtà.
Oggi la matematica di avanguardia esplora vertiginose astrazioni di pertinenza quasi cosmica, metafisica e spirituale, mentre la tecnologia di avanguardia si insinua in microscopiche circoscrizioni vertiginosamente isolate nella loro sorprendente singolarità: la distanza tra le due formulazioni sembra talmente sconfinata che tutto quello che avviene nel mezzo sembra appartenere a un altro universo e invece, anche nei suoi fatti più banali, rappresenta a pieno diritto e con ben più ampi poteri la matrice comune dei fenomeni indagati da matematici e tecnologi di avanguardia, matrice che include a tutti gli effetti il cervello degli stessi matematici e tecnologi.
Intendiamoci bene, non è certo la prassi e la mentalità scientifica che i kolibiani avversano come del resto dimostrano le loro argomentazioni: è l’assoluta mancanza di trasparenza negli impieghi finanziari che sostengono l’impresa gigantesca che si connette alle relative ricerche, la confusione inestricabile che avvolge il coinvolgimento e la destinazione di capitali pubblici e privati e il conseguente imponderabile miscuglio delle ricadute positive per quanto attiene a una chiara discriminazione tra costi e vantaggi pubblici e diffusi e costi e vantaggi privati ed elitari.
L’orgoglio e l’ammirazione per certi mirabili risultati sono comprensibili e condivisibili, ma il clima quasi religioso e perfino pseudo-religioso e fideisticamente connivente che vi si connette… molto, ma molto di meno: per giustificarlo non dovrebbe bastare la scintillante e funambolica esibizione di certe abilità, vi si dovrebbe accompagnare una dimostrazione molto meno vaga dei loro effetti concreti in relazione a qualche predefinito concetto di pubblico interesse e a un futuro più sereno e gestibile.
Che la scienza non comporti solo esattezza e rigore, ma anche virtuosismi da circo delle meraviglie, risulta a volte evidente perfino senza uscire dai meandri delle specifiche elucubrazioni scientifiche.
Le varietà di Calabi-Yau, per esempio, rappresentano soltanto una singola categoria nelle miriadi di spiragli possibili all’interno della topologia algebrica, accanto a moltissimi altri che non sono stati ancora scoperti e forse non lo saranno mai, forse più per il fatto di essere molti e per molti versi equipotenti, che per una inaccessibilità effettiva: eppure, benché rappresentino un risultato importante, ma per certi versi episodico e casuale, sono state subito ingaggiate nelle ricerche di fisica teorica come un portale di primaria grandezza al fine di accedere ai più profondi misteri della natura.
Forse, come ha sostenuto qualcuno (Wolfram, tanto per non fare nomi) quei profondi misteri sono molto più banali di quello che appaiono (quindi sono veri misteri e non complicazioni, così come il vero male è la banalità del male della Arendt, non Lucifero o Belzebù).
Forse, i motivi principali dei traguardi a volte effettivamente sorprendenti raggiunti dalla scienza non fanno capo soltanto all’ingegnosità umana: forse richiedono come essenziale condizione di base che i nodi risolutivi nella trama della realtà siano molteplici e diffusi al punto che incorrervi è quasi inevitabile nel corso di sforzi sistematici energeticamente impegnativi, anche se ciascun nodo o gruppo di nodi non è risolutivo e impedisce non solo di comprendere, ma anche di manovrare la realtà se non per infimi sprazzi spaziotemporali.
L’ingegnosità di tipo scientifico appartiene comunque a singoli individui e anche strani, non a tutta l’umanità, a cui compete invece qualcosa di profondamente diverso, ovvero una grezza, ma nondimeno tenace e inventiva, capacità di sopravvivenza a oltranza.
Finora ingegnosità nonché incentivazioni individuali e creatività e remunerazioni sociali non sono riuscite ad armonizzarsi senza apportare al comune contesto terrestre gli sconquassi di una esasperazione energetica.
Un kolibiano non pensa che, all’interno dei sistemi vigenti, tale concatenazione possa essere spezzata senza compromettere le precarie e problematiche armonie che sorreggono vivibilità e praticabilità provvisorie.
Un kolibiano non pensa neppure che una esasperazione energetica di qualsiasi genere (combustibili fossili, fissione nucleare, energia pulita, fusione nucleare o altro) possa evitare il tracollo ambientale.
Un kolibiano non è pessimista, è integralmente progettuale nel senso della semplificazione generale e del conseguente stato stazionario.
TAVOLA SINOTTICA N.5
30 luglio 2019
Questo superbo e imponente testo, conosciuto in tutto il mondo sotto la sobria definizione di Bibbia Kolib, in una meravigliosa lingua quasi estinta e una eccellenza grafica che sbugiarda le più seduttrici leziosità dei moltissimi venditori di fumo, si propone un massimo di relativa sgradevolezza (per la gente che si definisce ‘perbene’) accanto a un massimo di relativa verità (per chi crede nel concetto senza riceverlo passivamente dall’alto), in un connubio che possiamo riassumere nella conversione a tenaglia di due grandi vie complementari di argomentazione teorica: a) una filosofia di base che ricerca una sintesi semplice e inconfutabile di ciò che l’impresa scientifica ci dice effettivamente sul mondo; b) un’antropologia politica che rintraccia l’evidenza quasi logico-matematica di disastrose contraddizioni elementari.
Il tutto viene adibito a sostegno dell’atteggiamento oggi più aborrito e oggi più salutare: un sano catastrofismo, propedeutico alla soluzione oggi più aborrita e oggi più salutare: una sana progettualità democratica.
L’atto di aborrire non va riferito a maggioranze (su cui influisce una metodica ignoranza coltivata in vitro e si disegna quindi un rotondissimo punto di domanda), ma a coloro che hanno i mezzi e i modi (ma non le motivazioni!) per intendere e promuovere.
Poiché questo testo ripugna all’ideologia più egemone, totalitaria e assoluta che mai sia apparsa sulla faccia della terra, vale a dire il buon senso borghese della mediazione infinita in vista dell’immobilità sostanziale di una frenesia sistematica, si vota, da una parte, al cupio dissolvi di un auto-azzeramento sacrificale, dall’altra alla presunzione di inneschi molteplici della propria dissoluzione seminale.
Eppure questo testo sorge sullo stesso terreno culturale che l’ideologia più egemone, totalitaria e assoluta sta volgarmente tradendo con radici diventate venefiche: quello del liberalismo.
Comunque sia e comunque vada, mai e poi mai questa Bibbia accantonerà in via pregiudiziale e metodica l’illusione della Verità e della Realtà e non lo fa né lo farà mai perché nessun’altra rinuncia serve tanto servilmente gli interessi del Potere, con la ‘p’ maiuscola di turno, a prescindere dagli stilisti ai quali è stato affidato il taglio e le rifiniture delle divise obbligatorie, stilisti non trivialmente predefiniti nel grado di raffinatezza e a cui quindi è elegantemente concesso perfino mettersi le dita nel naso o defecare in pubblico se la coreografia di moda lo prevede.
Non aver compreso e neanche superficialmente intuito che proprio l’annichilimento del concetto di verità scientifica, lungi dallo scalfire anche poco il potere della tecnologia prezzolata, avrebbe spianato la strada ai dispotismi di qualsiasi colore segna con il marchio dell’ingenuità indelebile i ribellismi degli ultimi anni ‘60 e poi getta ombre inquietanti sugli autentici obbiettivi delle successive contestazioni politicizzate.
Anche o soprattutto per questo, il presente non si propone come testo rivoluzionario nel senso fattuale ed energetico del termine e, prima di prendersela con i più autorevoli campioni di individui-maschere, se la prende con quello che il Potere stravolge, riadatta ed esalta a mo’ di formidabile strumento promozionale e propagandistico: i difetti consustanziali dell’umanità.
Gli individui-maschere (tra i quali possiamo già includere fin da ora i futuri condottieri kolibiani, se mai ci saranno) sono segnati sempre, in qualche modo e nella misura in cui meritano o meriteranno una qualsiasi ribellione, da valenze di paradossale tragicità nobilitante e intanto il Potere è tutti e nessuno, non appartiene veramente a qualcuno ma assomma e concentra, con il segno più o il segno meno davanti, le proiezioni simboliche di tutti.
Quanto ai difetti, sono poi gli stessi, alla fine, che rendono cani e gatti così simpatici, non sarebbero difetti se l’uomo si accontentasse nel pensiero e nei fatti di essere un animale: purtroppo (e alla fine questo potrebbe rivelarsi il difetto fondamentale) l’uomo pretende di essere una specie soprannaturale e soprannaturale risulta quindi il suo potere distruttivo.
Questo scritto è fondamentalmente uno scritto contro l’umanità e a favore dei singoli individui chiunque essi siano.
Questi ultimi dovrebbero fungere e servire secondo modalità dettagliatamente esplicitate dal Progetto e per il resto essere assolutamente liberi nei limiti del non nuocere.
Liberi, non buoni.
Una professoressa di lettere delle medie sottolineò una volta che ‘uomo buono’ designa una personalità nobile, ‘buon uomo’ designa un pirla (ella usò un appellativo diverso, ma equivalente).
Oggi, a testimonianza dei sottili mutamenti antropologici nel frattempo intervenuti, la bontà è più sfaccettata e birichina e assomma una più generale tempra di doti individuali, ma la non commutatività dell’aggettivo possiamo considerarla ancora significativa e significa che uno può vedersi attribuiti tratti individuali positivi solo se appartiene a una casta adeguata, altrimenti deve lottare e dannarsi l’anima per essere cosparso di santità ovvero di indistinta, ma preziosa umanità.
L’attuale versione più efficace e producente di razzismo (che è poi una varietà trasfigurata e dissimulata di classismo in un senso o nell’altro, cioè dall’alto rivolto in basso o dal basso rivolto in alto) ammette i turbamenti e le anomalie del carattere soltanto in abbinamento ai contrassegni del benessere e di un minimo di successo, altrimenti il massimo che si può sperare, per non ricevere solo schifata indifferenza quando va bene, è di appartenere al mucchio di una specie superiore contraddistinta da laboriosità, docilità, simpatia, ottimismo e conformismo, un buon animale di compagnia, insomma, ma più utile.
Chi è etichettato con la definizione generica di umano e non può aspirare ad altro (un buon uomo, non un uomo buono!), ha diritto alle relative franchigie soltanto se dimentica di essere quello che tutti manifestano di essere in completa solitudine: uno strano, anomalo, inqualificabile, auspicabilmente innocuo, immutabilmente mutevole individuo.
Arriviamo al dunque: le qualità che contraddistinguono l’individuo buono (super-umano o semplicemente umano) da quello cattivo (sub-umano), variabili per epoche e luoghi, subiscono accelerazioni metamorfiche proporzionali a tutti gli altri ritmi involutivi e impronte di nobile tradizione come indipendenza di pensiero e spirito critico non vengono di sicuro risparmiate.
Oggi, a titolo precauzionale, per evitare diffamazioni e sabotaggi di un prioritario spirito di coesione e di efficienza, ogni spirito critico deve esibire tessere e credenziali a testimonianza del pedigree, senza le quali si procura soltanto sospetti e diffidenze sia presso giovani (attuali o da poco ex) rassegnati al ruolo di signorsì che li attende nonostante tanti patetici sogni di start-up (uno su mille ce la fa, cantava Gianni Morandi), sia presso attuali o imminenti anziani spaventati dal venir meno dei valori eterni che li hanno aiutati nella carriera.
Quelle tessere e credenziali sono rare, preziose e soprattutto miracolose: nel momento stesso in cui autorizzano, invertono il senso delle autorizzazioni nominali.
Tuttavia, per invocare la liberazione degli individui e obbligare l’umanità a servirli, si deve accettare il fatto di essere ‘umani’ e quindi sviscerarne il significato profondo.
Qui si scoperchia un pericoloso vaso di Pandora, ma non si può evitarlo se si intende rimanere fedeli al fantasma della Verità barra Realtà
In alternativa e salvo rare eccezioni, o si pretende di fare tecnica o empirismo o aneddotica purissimi o si muove un’aria fritta e afosa di chiacchiere e banalità con la ventola del nebulizzatore profumato che sparge quell’ipocrisia fintamente analitica che è sempre più indispensabile per ottenere udienza in quella gerarchizzazione sistematica degli interessi indispensabile a un certo controllo (sbagliatissimo!) della complessità.
Ora ‘le chiacchiere stanno a zero’ o poco ci manca, ma le chiacchiere non sono o non erano un male in sé e per sé: lo diventano o lo sono diventate a causa dell’ambiguità insita nella privatizzazione e nella lottizzazione della tecnologia mediatica ovvero della perversa e automatica dipendenza che in quei circuiti si instaura tra vastità della diffusione, semplicismo moralistico o ipocrita e conseguente coagulo degli interessi.
Chi, dentro o fuori, pensa di rimanere immune da quella triade diabolica o è un fesso o un ballista.
D’altra parte, giocare un altro gioco richiede di collocarsi fuori dalla società, il che è possibile solo astrattamente (in un dominio virtuale che tra poco cercheremo di definire metaforicamente), almeno finché non prende piede l’idea di una riscrittura totale degli impianti e delle regole.
Tale riscrittura appare vertiginosamente utopica solo a coloro che non considerano una pletora di evidenze fattuali che per il momento riassumo brevemente in due grandi categorie: 1) una gigantesca, vergognosa e non più sanabile contaminazione delle leggi ufficiali dello stato da parte di interessi privatistici che tramite l’azione delle lobby hanno comprato, comprano e compreranno sempre di più una condiscendenza legale, legalizzata o legalizzabile delle parti politiche; 2) una totale inettitudine dei sistemi vigenti a evitare rischi incredibilmente elevati di catastrofe imminente.
Sia come sia, ogni cultura che non voglia ridursi a un mero surrogato della tecnica dovrebbe almeno provarci a giocare un altro gioco.
Una cultura che non ci prova diventa un mero surrogato della tecnica e se la cultura diventa un mero surrogato della tecnica è semplicemente perché la maggior parte delle influenze determinanti vuole così, ma queste influenze, che siano venerate (o subìte) come fonte metafisica dell’ordine o come meccanismi evolutivi di una socialità sovrana, possono dettare il ritmo e l’elasticità dei passi ideali, non la direzione concorde verso la quale si muovono.
La direzione può predisporsi soltanto con il Progetto (kolibiano o men che kolibiano): un qualsiasi sistema se ne trova una diversa in varie parti del proprio organismo (nel cervello, nella pancia, nel culo...) e deve seguirle a turno cercando di evitare di smembrarsi.
Ovviamente non tutti possono permettersi la tetragona coerenza della Bibbia Kolib senza cadere nei rozzi massimalismi che rappresentano il più fido alleato dei dispotismi sottili e raffinati: occorre ampiezza di vedute, solidità di appoggi, ricchezza di riferimenti, tutte cose che io… cioè i Kolibiani... eh, eh, ce le hanno.
Poiché pochi altri che non siano i Kolibiani quelle cose eh eh ce le hanno, alla lunga (ma non tanto lunga), conservano una voce udibile nell’agone sociale soltanto coloro per i quali tutto è come appare, tutto merita di essere preso alla lettera per come si dichiara a prescindere dai rapporti di forza e dalla voce ventriloqua delle mani nascoste infilate nella marionetta da dietro e da sotto in su e di più (oh, sì, ancora di più!), al punto che pensarla diversamente significa alimentare una dietrologia bieca e disfattista.
Passa così in secondo piano e anzi scompare del tutto il fenomeno socio- economico più importante e decisivo nella storia recente di democrazie con o senza le virgolette, che cioè i pilotaggi, per molti versi e in certa misura ineluttabili, non vengono più casualmente diretti e confrontati in base a qualcosa di analogo a una legge statistica dei grandi numeri implicita nel fitto intreccio delle relazioni su vari livelli: manifestano invece, con precisione crescente, orientazioni prevalenti le cui convergenze e inalterabilità si consolidano progressivamente in qualsiasi processo rispettoso della continuità.
Questa tavola sinottica esplicita in modo quasi didattico la dicotomia del primo paragrafo.
Cominciamo dalla metafisica.
Davanti agli occhi c’è un muro, l’unica finestra è un metro sopra la testa.
Per sapere dove ti hanno portato prima di toglierti la benda (in una campagna, una città, un deserto…) devi trovare qualcosa nello spoglio stanzone da mettere sotto la finestra per salirci sopra.
E’ l’inizio di un videogioco: se la guardi bene, se la esamini con la lente giusta, tutta la Bibbia Colib è una specie di videogioco, un videogioco che non usa immagini, ma solo parole.
Data una particolare ambientazione naturalistica, storica o sociale e un insieme di personaggi compatibili, un videogioco cerca di sviluppare al massimo particolari combinazioni di avventure.
Data una preesistente e indipendente ontologia di base non antropologicamente condizionata e alcune premesse razionali abbastanza ovvie e inevitabili, la Bibbia Colib ambisce a un massimo di pensiero non arbitrario riferibile alla consistenza effettiva di quella totalità.
Quella totalità è uno strano fantasma che non può essere concepito indipendentemente dalla mente che lo concepisce eppure è molto meno fantasma della medesima mente, per la quale vale esattamente una considerazione identica senza che si possa giovare di una concomitanza di conferme al di fuori di se stessa.
Qualcuno (in realtà quasi tutti) troveranno noioso il videogioco Colib, eppure i personaggi, per esempio i fantasmi già menzionati Tutto e Mente, sono degni di quegli horror e quei noir che spesso danno spunto a performance da best seller e, inoltre, a ogni protagonista del gioco non mancheranno oggetti prodigiosi di cui andare alla ricerca, come specchi magici che rendono trasparente la pelle di chi ci si specchia rivelando parvenze meravigliose e inquietanti, nonché attività continue, insospettate e frenetiche.
Gli atti del giocare e del pensare per il kolibiano doc, mop e dop sopportano molte più analogie e similitudini di quanto si usi comunemente ritenere e forse, in genere, vi si crede così poco perché il pensiero riguarda sempre meno ciò che è e ciò che si può progettare e sempre di più ciò che deve essere perché a determinati interessi conviene così e così conviene che convenga a tutti.
Quegli interessi potrebbero anche rivelarsi i meno peggio, qualsiasi interesse (perché in fondo non si tratta mai di valori e di ideali, ma solo di interessi), anche se migliore sulla carta, potrebbe rivelarsi alla prova dei fatti equivalente o addirittura peggiorativo: non è questo il punto.
Il punto è che quando si scrive è la verità o non verità della scrittura che conta e quando si pensa è la verità o non verità del pensiero che conta.
Altrimenti, signori cari, rimane solo l’antropologia dei comportamenti e quei suoi paesi dei balocchi e delle meraviglie che ben conosciamo.
Con balocchi e meraviglie autentici si dovrebbe sempre cominciare a costruire la vita di un uomo e con i giochi il bambino intelligente prima o poi impara che senza regole esterne e oggettive non ci sarebbe divertimento.
Lo stesso bambino potrebbe imparare che il pensiero autentico e non campato per aria è un gioco di costruzioni che usa i mattoncini lego dei concetti, ma in giro ci sono troppi maestri che vedono nel pensare la ricerca di solenni e decisivi fondamenti validi in ogni epoca e luogo.
Il videogioco che preferiscono non è quello dove bisogna concludere una missione schivando insidie e nemici, s’impernia invece sulla conquista della terra promessa attraverso la risoluzione dei quiz disseminati in giro da un demiurgo pedagogo.
Probabilmente il videogioco della realtà contempla ambedue i generi, dato che di aspiranti demiurghi e perfino di dei unici e veri il mondo trabocca: si tratta di individuare quelli più adatti ai tempi e ai luoghi in cui ci si trova.
Il peggio è escludere dal pensiero ogni forma di gioco, il che non porta rigore, ma il contrario: una drammatica confusione rispetto a quello che si può effettivamente e rigorosamente pensare.
Torniamo adesso al muro e alla finestra.
Ecco qua la conclusione della metafora: chi non ha mai preso in considerazione il problema delle leggi non ha neppure cominciato a costruirsi la predella necessaria per farsi una cognizione non contingente sulla propria posizione e il proprio ruolo nel videogioco della realtà (la realtà concreta e metafisica, non quella sociale, che è un palese castello di carte).
Il problema delle leggi potremmo formularlo così: perché le leggi sono tanto importanti eppure così poco visibili?
Se le leggi fossero visibili gli uomini primitivi avrebbero cominciato a parlare di leggi molto prima che di spiriti e di dei.
Gli uomini hanno parlato di spiriti e di dei per rendersi visibili e vivibili le leggi, senza soffermarsi a valutare che non appena una legge diventa visibile diventa oppressiva e quindi poco vivibile.
Sostituire una legge della natura con la corrispondente legge di un dio significa sostituire una legge invisibile con una legge oppressiva.
Una legge invisibile come un batterio o un virus è anche una legge pericolosa e la sicurezza esige sempre un tributo in termini di libertà.
Quel tributo, nel caso delle leggi di natura, è sprecato: una legge fondamentale, agisce (finché agisce) sempre allo stesso modo (altrimenti non sarebbe una legge) e la sua visibilità nella prospettiva dell’osservatore, a dispetto dei teologi che interpretano le scritture quantistiche, è ininfluente.
Una legge convenzionale abbozzata dagli stessi osservatori come ipotesi di lavoro può essere comoda, ma la natura non ne rispetterà gli orpelli puramente strumentali, bensì i nuclei di corrispondenza profonda, se esistono.
Per quanto riguarda questo ultimo tipo di leggi, riuscire a limitare la loro apparizione là dove già si manifestano leggi altrettanto cogenti, ovvero nel dominio delle necessità, delinea la sola e unica via percorribile dal ‘liberalismo giusto e solidale’, altre non ce ne sono.
Il dominio delle necessità è il dominio dei corpi e il dominio dell’umanità, non quello del singolo uomo.
Ogni singolo uomo o vive tutta la sua vita bendato o prima o poi deve arrivare a questa per certi versi drammatica e per altri versi stupefacente conclusione: la maggior parte della sua vita non esiste!
Siccome è la parte più importante, spetta a chi la vive decidere se ciò sia una fortuna o una sfortuna.
Non esiste alcun tipo di legge che indirizzi la scelta: ci troviamo qui nel dominio fantastico della piena libertà.
Se esistessero leggi di Dio sopra quelle della natura sarebbero anch’esse o invisibili o oppressive, a meno che uno non sia fatto ‘a immagine e somiglianza’ di Dio.
Tutti, più o meno, si ritengono fatti a immagine e somiglianza di Dio e così si sentono giustificati se non riescono a vedere le leggi.
Non vedere le leggi comporta forme di libertà assolutamente fasulle, la vera libertà consiste nel conviverci in un porto franco.
Le leggi non si vedono ma ci sono e il mistero da risolvere riguarda appunto il rapporto tra quella importanza fondamentale e quella sparizione sistematica.
Tale rapporto rimanda agli unici due tipi di conciliazione possibile tra località e globalità: l’assurdo programmaticamente irrazionale o il determinismo integrale.
Nella presente sinossi, li giustificheremo entrambi
La natura della legge e il rapporto tra locale e globale evocano a stretto giro di posta quella che forse è la più emblematica tra le questioni epistemologiche, ossia la possibilità di definire una linea di transizione tra casualità e struttura.
Tradotto in termini filosofici, uno dei teoremi più profondi e al contempo più ovvi ed elementari della matematica di base potremmo formularlo così: ciò che non si può risolvere in termini descrittivi più semplici è casuale e una legge, in quanto tale, non si può risolvere in termini descrittivi più semplici.
Che cosa sia una casualità dirimente, direttiva, strutturante (il datore di lavoro del programma che si ferma!) e che cosa sia casualità e basta non può essere deciso a prescindere dal contesto effettivo di applicazione delle regole, ma d’altra parte contesto e regole non sono separabili o, perlomeno, la mente umana non lo può fare.
Un insieme di leggi fondamentali è alla fine una casualità minimale irriducibile tale da produrre una preponderanza esponenziale di casualità sorrette dall’esile scheletro dell’insieme totale di specifiche casualità irriducibili.
Se il ruolo delle casualità fosse mobile, cioè parte dei meri fenomeni potessero diventare programmi e parte dei programmi diventare fenomeni, un universo di un multiverso infinito evocherebbe davvero la famosa metafora delle scimmie dattilografe che battono a caso sui due tasti della loro personale macchina da scrivere sequenze di 0 e di 1.
La vera storia delle scimmie dattilografe la conoscono in pochi e io qui voglio svelarla per la prima volta in un documento ufficiale.
Una volta quelle scimmie cercavano di generare a caso altrettanti capolavori della letteratura in formato ASCII, poi, su ordine di Re Scimmione, hanno completamente cambiato tecnica, si sono messe a battere a caso per generare programmi di computer e la cosa incredibilmente ha funzionato.
Quando a Re Scimmione è subentrata Scimmia Regina, grazie al superiore intuito e spirito pratico delle femmine di primato si sono avviati nuovi programmi di ricerca e alla fine si è scoperto che la migliore tecnica di simulazione degli universi consisteva semplicemente nel generare numeri sempre più grandi aggiungendo 1 al numero precedente.
Il Primo Scimmione Filosofo, con la tipica scriteriata ambizione del maschio di primato, arrivò a ipotizzare che, quando si fosse raggiunto l’infinito, le scimmie avrebbero potuto evolversi in esseri superiori, che egli però intuiva solo nebulosamente non essendo in grado di chiamarli ‘uomini’.
Ora che vi ho messo al corrente della vera storia delle origini, variamente storpiata dai noiosissimi miti primordiali delle varie tradizioni religiose, vi invito a fare un passo ulteriore e rispondere alla seguente domanda: se un particolare numero irriducibile e quindi casuale rappresenta il top di quanto potremo mai asserire intorno a un universo di cui sia possibile asserire qualcosa di sensato, come potremo mai farcene almeno una pallida idea senza comprendere in che modo i numeri casuali e quindi incomprimibili, sussistendo in quantità esponenzialmente superiore a quelli comprimibili, possiedono parte preponderante di quella strutturazione che una sequenza di numeri sviluppa in modo potenzialmente più che numerabile?
Siccome quando tratto queste cose vado sempre di fretta per evitare che i miei clienti… no, scusate! … i miei lettori... si stufino e si rivolgano altrove, mi porto qualche pagina di spiegazioni tecniche più in là e aggiungo in fretta e furia altre domande interessanti.
a) Che cosa sono effettivamente, in sé e per sé, le unità elementari di spazio, tempo e massa? b) Data una macchina universale di Turing, il tipo di equazione diofantea che ha risolto il decimo problema di Hilbert e l’automa 110 di Wolfram (altre versioni delle modalità di calcolo universale andrebbero altrettanto bene), come si suddividono concettualmente i vari elementi in programmi o algoritmi o software, da una parte, e ingranaggi o circuiti o stati finiti interni (hardware), dall’altra? c) Come, all’interno di ogni concezione e da una concezione all’altra, si correlano in modo quantitativamente esatto i vari ordini di elementi?
Dimostrare che almeno una di queste domande è algoritmicamente insolubile (magari sancendo in qualche modo l’equivalenza con una questione famosa che sembra in qualche modo evocare sottili analogie, sto parlando del problema di corrispondenza di Post) significherebbe dimostrare una volta per tutte che per l’uomo è assolutamente impossibile comprendere i concreti meccanismi fini e dettagliati della realtà, dato che non può farlo in una versione tanto semplice ed elementare da suscitare il malcelato disprezzo degli ‘infinitisti’.
Complimenti agli ‘infinitisti’ felici di dover ricorrere a Dio!
Purtroppo per loro, ogni riduzione di casualità che dilata la filigrana portante non apporta valore: distrugge solo quella ricchezza di fenomeni che potremmo tradurre in una definizione metafisica di ‘libertà’’, rendendo l’universo sempre più rigido e vincolato mentre in concomitanza le leggi diventano sempre più complicate e inesprimibili al punto di coincidere con la semplice presenza del tutto.
E forse è propria questa semplice compresenza di un tutto vastissimo eppure limitato, semplicemente estratto a sorte da un canestro di infiniti universi, a simulare così bene un immenso orologio a cucù che a ogni cucù richiama con martellante tenacia l’intervento di un orologiaio a cucù.
Perché, infatti, un qualsiasi fabbricante di universi-orologio dovrebbe accettare di farsi prendere per un orologiaio a cucù che viene chiamato a cucù?
Se ogni cucù apportasse valore, quel valore dovrebbe essere formulato in termini finitisti che lo ridicolizzerebbero oppure fondato su un valore superiore inesprimibile, il quale a sua volta o rimane un’asserzione vuota di contenuto e di senso o inaugura una catena di rimandi infiniti.
Una catena di valori non infinita si chiude nell’anello di una perfetta immobilità.
Un anello di valori non è un valore superiore, è semplicemente un oggetto tra gli altri o magari un cosmo tra gli altri e se si prova a convalidarlo tramite valori assoluti ogni valore preso in considerazione in termini comprensibili solleva la domanda ‘ma che cazzo di valore è?’, se si è impulsivi e scostumati, oppure ‘ma che razza di valore è?’, se si è persone più civili.
Prima o poi si giunge alla conclusione che: o si è anime ispirate da Dio che comprendono tutto senza comprendere niente (prova vivente, quindi, dell’esistenza dei miracoli!) o si arriva alla conclusione che, se non ci troviamo in un universo estratto a caso da infiniti universi, non abbiamo e non avremo mai la minima idea su dove ci troviamo.
Tutto ciò può rappresentare una critica distruttiva della religiosità ufficiale o uno spottone a favore della religiosità autentica… dipende dai gusti.
Spiegare tutto, infatti, non solo non è necessario: è assurdo ovvero auto-contraddittorio.
Nemmeno a Shangri-La, uno può radere tutti e soli i barbieri del posto che non radono se stessi, al massimo può radere solo i barbieri che non radono se stessi (se non rade se stesso) o radere tutti i barbieri che non radono se stessi (se rade se stesso).
Se però un regista di grido intendesse girare un film a Shangri La dove si riprendono uno dopo l’altro tutti e solo i barbieri che non radono se stessi, credergli o non credergli di averlo fatto dipende dal suo prestigio presso pubblico e critica: il film è suo e sarebbe strano che un altro potesse decidere al suo posto che cosa vi accade o non accade, almeno finché i produttori non si appropriano dell’opera in base a una poco attenta gestione contrattuale da parte degli avvocati incaricati dal celebre regista.
Similmente, se il concilio direttivo di un importante istituto confessionale stabilisse il dogma per cui il Dio di loro proprietà ha creato tutte e sole le creature che non creano se stesse, perché non dovremmo prestargli fede visto che hanno tutto il diritto di asserire che quella religione è cosa nostra cioè loro?
Spiegare razionalmente non sarà mai importante quanto evitare di dire fesserie quando si gode di un decisivo sostegno politico e morale, ma come può dire fesserie chi è incaricato di mansioni influenti e gode di un vasto consenso e prestigio in base a quello che dice e che fa?
Qualcosa che può essere spiegato per intero, dopo che è stato spiegato non assurge a un empireo di gloria suprema e ineffabile, proprio no: ricade inerte nel novero delle mere presenze (o anche scemenze… a volte… non sempre).
Gli empirei gloriosi non si salvaguardano cercando di assurgervi (il che li svilirebbe anche solo ricordando la sentenza di Karl Marx (detto ‘Groucho’) sul club che, se accetta la nostra iscrizione, non è degno di annoverarci tra gli iscritti); si mantengono vivi e intatti solo in un al di là irraggiungibile da lasciare con un sospiro sullo sfondo mentre ci rassegniamo a giocare al gioco del pensiero nel solo modo possibile: con assiomi e regole di inferenza riconoscibili e condivisibili.
Fino a prova contraria ovvero a esibizione di esempi plausibili diversi, un atomismo di entità minimali non meglio identificabili, una legge d’interazione locale tra atomi di esistenza e una compresenza e concomitanza universale di atomi e interazioni assolve almeno in potenza ogni concepibile armonia tra regolarità parziali e momentanee e varietà proliferative di eventi sufficientemente ricche.
Prego sottolineare il ‘concepibile’.
Chiudendo opportunamente il tutto intorno a sé (pensiamo per analogia a uno spazio con curvatura positiva in n dimensioni) vi si possono far rientrare condizioni iniziali di vario genere, una storia evolutiva che differenzi opportunamente l’azione della variabile tempo e ogni plausibile vincolo di simmetria o conservazione.
Se quello che contano sono le interazioni e zero interazioni definiscono uno spazio vuoto, lo spazio globale può rimanere piatto senza troppi problemi, il che forse implica due tipi contrapposti di energie.
Tutto ciò, conviene ripeterlo, concerne le possibilità di concezione umana, non la natura effettiva di un Essere che non può essere concepito e nemmeno, a rigore, nominato, al di fuori di quella concepibilità.
Kant ha già detto tutto il possibile al riguardo e se in questa Critica della Ragione non kolibiana è stato criticato, è avvenuto perché il kantismo (‘scuola’ di cui il nostro esimio collega e prossimo amico nell’ al di là beninteso non è affatto responsabile) dopo un lavoro epistemologico neanche disprezzabile (neanche falso! sentenziava Von Pauli), si è dimenticato di avvertirci che veramente importante non è l’epistemologia, ma quello che quella non riesce nemmeno a nominare.
Tutto quello che può essere concepito in termini quantitativi e scientifici concerne la nozione di calcolo e quindi di algoritmo e deve quindi rispettare, fino alla scoperta di una valida confutazione per ora inesistente, i teoremi limitativi della logica e la tesi di Turing-Church, anche se quest’ultima, più che un teorema, è una constatazione empirica.
Stranamente, poi, i teoremi negativi della logica risultano meno restrittivi di quelli positivi: il teorema di completezza di Godel, stabilisce che tra deduzione sintattica e verità in un modello (conseguenza logica) c’è piena sovrapposizione (se il sistema assiomatico è completo) e quindi riconduce alla logica quello che molti fisici, compreso Einstein, consideravano un processo extralogico, ovvero il confronto tra teoria astratta e riscontro sperimentale: le ovvie difficoltà che sorgono appartengono quindi alle nostre inadeguatezze o alla natura inafferrabile del mondo reale e non a facoltà non logiche che si possano comunque considerare di tipo scientifico.
La natura non mentale del mondo reale rimane definitivamente e irrimediabilmente inafferrabile, ma noi, mentre possiamo inventare e spacciare per vero tutto quello che vogliamo, possiamo arrivare a conclusioni certe e condivise solo attraverso gli strumenti della logica classica, senza i quali, se è ancora possibile, in casi e contesti particolari (come in molti scenari della meccanica quantistica), operare in modo pratico e produttivo, è però impossibile capire che cosa si sta effettivamente facendo e capendo.
Se il mondo fosse costruito secondo una logica di ordine superiore al primo (e quasi sicuramente è così, dato che uno degli assiomi dell’aritmetica (quello di induzione) richiede una logica del secondo ordine, ciò comporterebbe l’impossibilità del cervello di esaurire la realtà in modo analogo a come qualsiasi automa a stati finiti non può regolare volontariamente e programmaticamente in modo esaustivo e mirato la combinazione dei propri stati: ciò sancisce una trascendenza oggettiva e uno iato incolmabile della realtà rispetto all’organismo che la interpreta, ma non depone in alcun modo a favore di un mondo incompatibile con la logica del primo ordine.
Se le corrispondenze oggettive previste dalla logica del primo ordine risultassero dei puri fantasmi, tutta l’evoluzione biologica diverrebbe ipso facto un mistero definitivamente incomprensibile.
E’ ormai ora che l’umanità la pianti di tradurre le proprie deficienze inguaribili e le proprie impossibilità costituzionali in trascendenze di pura fantasia in cui si proiettano le istanze insolubili e da cui rimbalza indietro al creatore umano una speranza sempre viva di soluzione miracolosa.
Si può concepire Dio come integrato nell’universo o trascendente l’universo, ma nell’una come nell’altra concezione, indifferentemente, non è permesso sentirsi rassicurati da alcuna comprensione.
Il dogma ‘incomprensibilità uguale certezza’ non è alta filosofia: è la barzelletta dello struzzo.
Quanto alla possibilità di deduzioni intuitive e sentimentali, ce ne possiamo fare una idea ricordando l’aneddoto di quel tale che, sotto l’effetto di allucinogeni, ebbe la sensazione di ricevere una straordinaria rivelazione intorno a verità soprannaturali, afferrò carta e penna, scrisse a lungo in preda a un senso di esaltato e appagato adempimento e alla fine si addormentò stremato e felice.
Al risveglio, svaniti gli effetti delle droghe, cercò di rileggere quanto aveva scritto, ma si trovò davanti solo sgorbiature senza senso.
Peccato che sbracciarsi gioiosi per ore e fondersi in un grande corpo mistico di estasi saltellanti non consenta tentativi di prosa esegetica a coloro che si pervadono nel fluido mistico che s’irrora dal palco delle grandi convention musico-spirituali: quali climax di preziosa dottrina vengono così dissipati in mezzo ai rifiuti accumulati nel desolante silenzio del dopo!
Tutto ciò potrebbe essere invalidato se esistesse la possibilità di formulare razionalmente e scientificamente una qualsiasi ipotesi di infinito locale.
Tale possibilità ci è negata.
Caos fisico e infinito microscopico non possono coesistere in un mondo di osservatori: il caos tenderebbe verso una unità e coerenza assolute, incomprensibili, ‘divine’, oppure l’infinito distruggerebbe sul nascere qualsiasi ipotesi di forma, organizzazione, struttura.
La premessa capitale di qualsiasi conoscenza scientifica si basa sulla possibilità di definire quantitativamente e sperimentalmente parametri che compaiono come costanti nella formulazione matematica delle leggi.
Questi parametri sono dimensionali, ovvero sono espressi in unità di misura relative a entità concettuali assunte come primordiali e irriducibili, ma si possono combinare in modo da generare numeri puri validi per tutti i riferimenti e tutte le unità.
Una combinazione di questi numeri è indispensabile per sostanziare le relazioni interne di qualsiasi macchinismo effettivo in cui occorrano dinamiche non lineari, questo perché le relative curve cambiano forma cambiando arbitrariamente le unita di misura.
Si constata che variazioni minime di questi valori (frazioni dall’uno per mille in giù, tanto per intenderci) stravolgerebbero ogni aspetto dell’universo conosciuto e renderebbero impossibile la comparsa nel corso dei processi evolutivi di organismi biologici e quindi di osservatori umani.
Come detto, questi numeri adimensionali derivano dalle costanti dimensionali delle leggi e queste costanti si possono depennare dalla formulazione delle leggi medesime (cioè si possono ricondurre al valore uno) adottando semplicemente particolari unità di misura per tutti i concetti fondamentali irriducibili (nel caso dello spazio e del tempo parliamo di cose dell’ordine dei milionesimi di miliardesimi di miliardesimi di miliardesimi, ovviamente rispetto alle unità di misura... a misura d’uomo)
Questa apparizione di un limite assoluto di commensurabilità è essenziale per la salvaguardia del concetto stesso di legge scientifica, dato che, cambiando le unità di misura, cambiano le curve che descrivono l’evoluzione dei fenomeni e queste curve, per non rimanere puri svolazzi artistici in una linea di pensiero idealista, devono corrispondere a correlazioni e dinamismi di oggettività indipendenti dalle scelte arbitrarie delle unità di misura.
Nel caso di funzioni trascendenti (non polinomiali) non esistono neppure corrispondenze di scala tra curve relative a unità di misura diverse.
Senza unità di misura assolute espresse da verdetti naturali, ogni legge scientifica non potrebbe in alcun modo concretizzarsi in azioni cogenti effettive, il che vale anche al contrario: una scienza incapace di caratterizzare in modo univoco e stringente le unità di misura dei propri riferimenti concettuali non può definirsi scienza quantitativa.
Semplificando (ma neppure tanto), la fisica di base si traduce interamente negli schemi d’interazione tra oggetti definiti dalle cellule elementari in cui si possono suddividere enigmatici fatti onnicomprensivi come il tempo, lo spazio, la massa.
In sostanza la fisica di base si può tradurre idealmente in un tipo o l’altro di automa cellulare e tutto quello che vi potrà mai essere compreso e compresso troverà un perfetto equivalente in questo o quell’altro abbinamento di macchina universale con programma universale, abbinamento a volte sorprendente, come nel caso di una singola equazione diofantea (in apparenza molto complicata, ma in realtà quasi elementare se paragonata alle complicazioni dei contesti reali), utilizzabile inserendo nell’equazione un singolo numero, quello che vi compare come parametro variabile insieme a un altro che funge da risultato, mentre tutte le altre incognite fungono da registri di elaborazione.
Si può notare di passaggio come, se è lecito basarsi sul semplice intuito (più che sufficiente del resto, secondo alcuni, a definire la forma di tutta una trionfale eternità) non appaia soverchiamente proibitivo cercare di dedurre dalle caratteristiche di tale equazione diofantea assimilabile, per intenderci meglio, a una macchina universale di Turing, un abbozzo generale delle regole di trasformazione tra i diversi tasselli dell’automa cellulare costituito dalla totalità del presente universo.
Anche se, così facendo, per qualche teorema di impossibilità fallissimo miseramente una cognizione effettiva di come funziona la rete della realtà che include ogni cosa compreso il nostro mirabile cervello, ci saremmo comunque avvicinati alla sua essenza nel modo più economico accessibile alle capacità umane.
L’equazione diofantea di cui sopra potrebbe oltretutto aprire uno squarcio formidabile su come semplici leggi di potenza sono sufficienti a saldare in uno stesso tessuto di natura frattale un rapporto oggettivo tra locale e globale, al di là di molta nebbia sollevata da equivoci per il cui chiarimento basta considerare le versioni più semplici e immediate della meccanica quantistica, come la somma su tutte le storie o integrale dei cammini nella versione di Huygens-Feynman.
Non escludo affatto che qualcuno possa ravvisare in questo tipo di strategie cognitive una sorta di di denigrazione della qualità metafisica del mondo, ma una tale difesa di ufficio suonerebbe quantomeno balzana a un orecchio kolibiano esperto, uso a valutare il mondo indipendentemente da fini e pregiudizi umani.
L’umanità non ha i mezzi né le autorizzazioni per valutare ciò che l’ha generata, men che meno sindacando su una presunta nobiltà delle cause.
I limiti del mondo relativi al giudizio umano sono limiti di comprensibilità: l’umanità non può aggirarli sostituendovi quello che rimane al di là delle sue capacità razionali; se lo fa, commette niente altro che un assurdo peccato di presunzione, come quello di valutare una filosofia non per il contenuto di verità che contiene, ma per gli aspetti glorificanti ed esortativi.
Bisogna aggiungere che una filosofia che non si rende conto di come certe situazioni possano richiedere non esortazioni esaltanti, ma freni riflessivi, sottovaluta scriteriatamente gli aspetti materiali della presenza umana nel mondo per sopravvalutare in modo grottesco le sue valenze etiche e concettuali.
Del resto, per ritornare a elementi più tecnici, quasi tutte le leggi fisiche sono espresse da equazioni differenziali le quali esprimono rapporti locali i quali, riportati al modello di situazione oggettiva descritta, non ricevono alcun tipo di perspicuità effettiva (eufemismo per dire che cadono in un buco nero di oscurità) dalla fondazione assiomatica classica dell’analisi del continuo, con tutti i suoi numeri reali innominabili che dividono file infinite di razionali (uno per ogni due file!) ma sono infinitamente più numerosi degli elementi di tutte quelle file, le quali però, messe insieme come si deve, funzionano, non danno contraddizioni (così il reverendo Berkeley può stropicciarsi le mani e dire: va bene, ma adesso tocca a me!).
E pazienza per il teorema di Lowenheim-Skolem e per tutti i teoremi che valgono la domenica, ma non i giorni feriali o viceversa.
Per altri versi la soluzione di ogni equazione differenziale è una curva in un particolare spazio delle fasi e, dato il grado di precisione accessibile attraverso le attrezzature strumentali, la forma matematica polinomiale, potendo approssimare qualsiasi curva con un’approssimazione piccola a piacere, non solo è sufficiente in linea di principio: è infinitamente sufficiente!
Tutto ciò non è opinione, ma constatazione ottenibile (se non ci si piega al galateo culturale imposto da certi obblighi di nobiltà e di non ingerenza riservati ai maestri ufficiali di stile e di pensiero) utilizzando la sola metodologia che consente una descrizione non fantasiosa o arbitraria della realtà.
Tale metodologia, per quanto si possa arzigogolare sulle più che ovvie ambiguità e oscurità che vi si accompagnano inevitabilmente, è stata, è e sempre sarà una metodologia a cui una vastissima comunità di praticanti e fruitori attribuirà concordemente la qualifica di procedura scientifica (risvolti sociali, successi o insuccessi, vantaggi o svantaggi, manipolazioni, appropriazioni indebite o frodi più o meno palesi esulano ovviamente dal discorso).
Un possente sostegno complementare all’inesistenza fisica dell’infinito locale (presupposto più che sufficiente ad avvalorare le tesi appena argomentate) è fornito dai test sperimentali che dirimono un confronto tra i risultati delle equazioni differenziali (fondate sul continuo dell’analisi matematica) e i risultati delle corrispondenti equazioni alle differenze finite (scandite da un temporizzatore di stadio o di fase), quando le prime forniscono una curva univoca e le seconde biforcazioni a cascata, orbite o cicli limite multipli e infine attrattori caotici: da una giusta calibrazione e sensibilità delle attrezzature non emerge la curva perfetta, ma il caos.
E va bene, potrebbe a questo punto interloquire il mio antagonista magico, ammettiamo pure che un gioco di piccolissime palline, come nell’universo di Democrito, generi un facsimile di anima immortale: noi pseudo anime immortali, durante il nostro sogno ordinario e quotidiano che ci avvolge e non può abbandonarci mai, dovremmo occuparci di palline o di anime immortali?
L’antagonista sottintende, non chiedetemi come faccio a esserne così sicuro, che dovremmo occuparci di anime immortali, ma io dico no, niente affatto, perlomeno finché si tratta di impegni pubblici che riguardano una materialità condivisa come quella del balletto delle merci o delle modifiche ambientali.
In privato ciascuno faccia quello che vuole, il privato non si difende e valorizza permettendo che ci entri continuamente il naso degli altri senza il permesso del titolare, bensì dilatando il tempo da concedere all’arbitrio non invadente e non invasivo del singolo individuo, detentore dei diritti legittimi.
L’agone pubblico è un’altra cosa e l’unico modo per impedire che ricada nella potestà assoluta di chi poi alla fine si arrogherà anche i diritti delle pseudo anime immortali, dettandone il decalogo inderogabile delle regole più importanti, non comporta l’affidarsi a quei sogni irrealizzabili che per la tecnologia sofisticata è uno scherzo da ragazzi plagiare fino a farne altrettanti trainer di burattini: esige l’asciutto, ma in qualche modo epico, disincanto di un’autentica filosofia naturale o scientifica.
Se una metafisica (ogni cosa che un essere umano pensa o dice e quindi fa è metafisica, almeno dal lato accessibile all’attore medesimo) potesse produrre risultati non casuali dimenticandosi della realtà, la Storia non sarebbe così divertente e noi vivremmo già in un noiosissimo paradiso terrestre.
Una possibile dimostrazione dell’inesistenza del Dio tradizionale non deriva dalla sua natura irrazionale (essa costituirebbe, se mai, una specie di prova, dato che ciò che è incomprensibile è irrazionale o almeno a-razionale, anche se il viceversa non vale): deriva dagli esempi forniti dalle soluzioni religiose e dalla mediocrissima natura di una razionalità fondata sulla tautologia della superiore saggezza donata dalla fede religiosa, una saggezza che può fare a meno di regole minuziose e dettagliate perché risolve ogni cosa attraverso il volo meraviglioso di un istinto connaturato.
Qualcosa del genere potrebbe anche esistere, peccato che non si vede, non si è mai visto, e non lo vede neppure il credente di destra quando giudica quello di sinistra o quello di sinistra quando giudica quello di destra.
Forse, senza scomodare categorie più impegnative, non lo vede neppure il credente a cui piace il mare quando giudica quello a cui piace la montagna (e viceversa).
Se si astrae dalla dimensione intima e privata e si cerca di identificare gli effetti principali sul piano della propedeutica socio-economica esercitati concretamente e nella sostanza dall’atteggiamento religioso, penso sia difficile ignorare la preponderanza dell’azione di consolidamento dottrinale e dogmatico di cui hanno sempre usufruito come integratore e ricostituente le classi dominanti, soprattutto aristocrazie guerriere e, più tardi, compagini imprenditoriali, accanto ai non trascurabili effetti persuasivi, di conciliazione e pacificazione, rivolti alle classi inferiori.
D’altra parte, per l’uomo di fede, un qualsiasi stato o evento di eminenza o di successo non può essere sgradito a Dio, secondo il punto di vista dall’alto, o non finire sotto la lente per compensazioni presenti o future, secondo il punto di vista dal basso.
Ma c’è un altro aspetto molto più interessante e preoccupante di tutta quanta la faccenda a prescindere dai riflessi politici e antropologici: se tale e tanto è il potenziale esplosivo di complessità insito in meccanismi schematici ed elementari, quale record mondiale dei casini può restare fuori dalla portata della biosfera dopo la culminazione nelle ultime migliaia di anni di una nuova e mirabolante specie imperatrice, davanti alla quale tutti i dinosauri riuniti insieme sembrano una innocua farfallina?
Sembra arduo del resto optare per un approccio progettuale in via calcolata e preventiva a scanso di possibili minacce catastrofiche se la fiducia nell’efficacia dei metodi umanistici tradizionali poggia sulla mitologia di una creazione architettata da un demiurgo che sa il fatto suo e tiene tutto sotto stretto controllo.
Se non ci si interroga nemmeno sul significato filosofico di termini come ‘comprendere’ e ‘spiegare’ e si confida in non meglio specificati principi etici ed estetici superdotati di un valore ontologico universale (qualcuno vuol provare a stenderne una descrizione almeno sommaria così finalmente si accorge di poter formulare solo bazzecole?), il principio antropico debole, ovvero la semplice constatazione che un osservatore deve osservare intorno a sé un mondo che consenta agli osservatori come lui di esistere, apparirà un deporre le armi della conoscenza, un arrendersi senza riserve all’assurdo, quando delinea invece il confine di un minimalismo invalicabile da ogni raziocinio degno del nome, oltre il quale la definizione del valore dipende da una soggettività che si limita a giudicare (prendendo spesso, anche lì, delle topiche spaventose) ciò che la rende nobile e felice oppure no.
Se l’umanità, il cui concetto astratto non si identifica con la somma dei singoli individui, fosse una cosa seria (e (intendiamoci bene!!!) non è detto che non lo sia, a dispetto di tante disfattiste, insultanti e denigratorie testimonianze della pettegola signora Storia), le sue creazioni e rappresentazioni risentirebbero di banalissime scemenze molto più che di soprusi, infamie, deviazioni, nequizie, obbrobri, malversazioni, storture...
Soprusi, infamie, deviazioni, nequizie, obbrobri e così via non si possono infatti contrabbandare sotto mentite spoglie senza che prima o poi la effettiva identità venga svelata; le scemenze invece si possono camuffare da valori supremi e pochi tra quelli rapiti dal loro incantamento ravvedono in sé la necessità di cogliere differenze che in genere sono molto più sottili e sfuggenti di quanto comunemente si ammetta.
La tecnologia moderna, la più possente concentrazione di intelligenza algoritmica mai sviluppata da sistemi neurali, può servire altrettanto bene la causa della verità come quella della falsità, il che è molto grave, ma mai quanto il fatto di confondere pregiudizialmente verità e falsità alla fonte stessa di qualsiasi realtà, riservando le sentenze utili e produttive (sì, funziona; no, non funziona) soltanto ai detentori e manovratori della tecnologia stessa.
Un popolo (parola che oggi suona quasi grottesca) che non si appropri della tecnologia in nome di pincopalla x ovvero del singolo individuo qualunque si riduce prima o poi a una collezione di bande che lottano una contro l’altra in nome di cose assurde e fantasiose che vengono chiamate fedi o ideali.
L’ideale più irreale e calamitoso di tutti è ovviamente quello della solidarietà e dell’uguaglianza, il quale diventa credibile solo quando è enunciato per esteso e allora significa solidarietà verso i capi e uguaglianza sotto i capi e a discrezione dei capi.
Molte tribù primitive e alcune società arcaiche avevano escogitato un antidoto molto efficace a questo tipo di garbugli antinomici: un capo era garante verso gli dei di una situazione generale e quando quella degenerava denunciando un supremo scontento, si offriva alle divinità la testa dell’intermediario come segno di ammenda e riparazione.
La crescita ipertrofica delle collettività fino alla dimensione statale e oltre, con il conseguente sviluppo della tecnica e della burocrazia, ha sbarrato quasi dappertutto l’accesso a simili democratiche conciliazioni: le élite antiche o moderne diventano troppo differenziate e numerose e anche se il popolo le sovrasta come quantità di massa, il loro sacrificio esigerebbe la sostituzione delle élite padella con le élite brace, queste ultime senza dubbio peggiori in quanto raffazzonate frettolosamente senza criteri adeguati e utilizzando perlopiù la parte più infida e trasformista della élite precedente.
L’inesorabilità di tali meccanismi un popolo la intuisce solo oscuramente se non la sperimenta sulla propria pelle, ma una élite la conosce a menadito e occupa buona parte del tempo che dovrebbe dedicare al miglioramento delle condizioni di vita dei propri sottoposti a educare cerimoniosamente e simbolicamente costoro su come sia malsano e controproducente cercare di rovesciare l’aristocrazia al potere senza utilizzare i mezzi democratici costruiti e gestiti dall’istituto sostanzialmente autoreferenziale dell’aristocrazia al potere.
Si devono dunque escogitare altre vie per ristabilire la ragione primaria e sostanziale del processi democratici.
Purtroppo, il migliore e più urgente provvedimento legislativo a tutela della salute pubblica e del contesto di una solida democrazia probabilmente non comparirà mai nel codice di procedura civile di qualsiasi comunità nazionale o internazionale.
Dovrebbe stabilire l’obbligo procedurale di registrare per intero ogni discorso tenuto da una personalità carismatica davanti alle folle calorose dei simpatizzanti e dei sostenitori, delegando quindi appositi organi incaricati affinché, in modo canonico e facilmente accessibile, mettano a disposizione la solenne concione dopo averla affidata all’eloquio freddo e neutrale di una voce del tutto priva di espressività, artificialmente scandita con mezzi elettronici, senza d’altra parte alterare una sola parola o una sola frase del testo.
Il provvedimento dovrebbe estendersi a ogni genere di processo retorico e a ogni tipologia celebrativa, promozionale o encomiastica, senza discriminare scopi e motivi del raduno o la sua particolare coloritura, prescindendo così dal carattere ideologico e qualitativo sia che si tratti di assembramento politico o di spettacolo d’intrattenimento o di raduno religioso o altro.
Perché mai (secondo i Kolibiani o almeno secondo il loro monarca assoluto eletto ad interim in attesa di tempi migliori) un tale dispositivo dovrebbe apparire un toccasana irrinunciabile per la profilassi e l’igiene del corpo sociale?
Perché aiuterebbe a spostare molta parte della dialettica antropologica dal dominio emotivo a quello razionale, fornendo reperti immediati e concreti per ‘constatare con mano’ la vera sostanza delle questioni su cui è usanza comune accapigliarsi.
Per rendersi pienamente consapevoli della posta in gioco occorre però alzare l’entità della puntata o, per meglio dire, non sottostare a quelle minimizzazioni ingannevoli che tendono a disinnescare le problematicità in atto o per baloccarsi con edonismi faciloni o, al contrario, per dissimulare le trame effettivamente tramate.
Una democrazia di tipo elettorale e rappresentativo non comincia mai a cedere davanti a vessazioni conclamate: viene infettata, corrosa e infine disgregata dalle manifestazioni ‘libere e spontanee’ della gente che converge in massa verso i grandi raduni incentrati sui trascinante prestigio di quel mostruoso (in senso latino) ircocervo che è il politico di successo.
E perché il politico di successo sarebbe un mostruoso ircocervo? Perché il politico di successo è la colonna portante dell’istituto di rappresentanza concepito in una economia di mercato e quindi, in sostanza, di quella che potremmo chiamare la democrazia dello spettacolo, per cui rappresenta una contraddizione palese e irrimediabile tra quello che dice di essere ovvero il portavoce di istanze diffuse, e quello che effettivamente è, ovvero un uomo specializzato nel conseguire quel successo che, almeno in sede economica come politica, si consegue rispettando regole rigorosamente improntate a un egoismo di tipo darwiniano, ovviamente infarcito di generosità e altruismi modulati secondo la dimensione della famiglia, delle amicizie, degli alleati, del clan e di altre sezioni varie ritagliate nei gruppi e nelle parti sociali di riferimento, ma mai e poi mai (attenzione, siore e siori, perché è questo il punto fondamentale) della parte maggioritaria della popolazione.
Un successo che, in un modo o nell’altro e anche solo di riflesso, appartiene alle maggioranze assolute, disegna una di quelle contraddizioni assolute che questa sezione si propone di mettere in rilievo.
La decretazione, il condizionamento e l’utilizzo del successo appartengono sempre alle minoranze influenti, mentre la maggioranza che il successo conquista e illude è quella di quelli che non se ne rendono conto nonostante l’evidenza perfino imbarazzante.
Con generosità e altruismi darwiniani (mirati e focalizzati) l’umanità non inventa nulla di nuovo, giacché l’altruismo, in natura, con buona pace di tutti i pedanti, può contribuire in svariatissime circostanze ad affilare la fitness competitiva: lo dimostrano, tra tanti altri esempi già ruminati dalla sociobiologia, proprio i vampiri.
Il placido lucore di tali ovvietà è stato spesso oscurato dal pregiudizio retorico della natura ‘rossa di artigli e di zanne’, ma la natura non è crudele: è divinamente distaccata e imparziale nel segno di una ‘belle indifférence’, il che per l’umanità rischia di essere il massimo dello smacco.
Che la crudeltà e la sofferenza non possano rappresentare motivi dominanti e preferenziali negli sviluppi di natura, ma solo fluttuazioni casuali, lo dimostra molto semplicemente il carico di dispendio energetico e inutile turbamento che vi si assocerebbe con tutte le conseguenti diminuzioni dei potenziali riproduttivi: meccanismi lenitivi degli stress, dei terrori e dei dolori rientrano di sicuro tra gli espedienti tutt’altro che secondari nella generalità delle strategie biologiche.
Dobbiamo metterci il cuore in pace: solo l’umanità su questo pianeta può ambire al titolo di campione universale di crudeltà e sofferenza, grazie al volume di dilanianti effetti psichici parossistici sviluppati in poche migliaia di anni nel sistema nervoso di propri membri e soprattutto nei sistemi nervosi di specie diverse.
Anche per simili consapevolezze, più o meno inconsce, il contrario di una ideale e idealizzata democrazia di tipo occidentale ormai non si configura più come fascismo o comunismo, termini ormai usurati e quasi insignificanti, non più di quanto attenga a un astratto arbitrio oligarchico ovvero autodeterminazione riservata a esigue minoranze di controllo.
Capire che cosa accadeva di fatto in passato è, sul piano delle risonanze psicologiche ed emotive, praticamente impossibile (la mentalità di un uomo del Rinascimento o del medio evo o dell’antichità greca o romana eccetera rimane al di fuori di qualsiasi possibilità di immedesimazione reale), ma capire che cosa accade oggi agli stessi livelli fenomenologici non è difficile: quando una qualsiasi parte (politica, artistica, religiosa o altro) convoca le proprie trionfali adunate, una restante parte della popolazione, quella che non rimane indifferente, prova un senso di fastidio e repulsione.
Dovunque cumuli impressionanti di persone si riuniscono per ufficiare e consacrare un forte senso di comunanza, consonanza e compartecipazione, lì e proprio lì e in nessun altro luogo si comincia o si continua a scavare un profondo solco divisorio che minaccia la coesione e la consistenza dell’organizzazione sociale.
Quando la causa della manifestazione, o quello che è, nasce da un forte senso di disagio, di ribellione o di protesta, una società sana ne trarrà spunto per aggiustamenti e correzioni di rotta; quando il motivo di fondo si riconduce a esortazioni esaltate, virtuosismi esibizionistici, promesse di mirabolanti soluzioni (occasioni sempre e comunque autocelebrative di individualità sacrificate a stereotipi unificanti) la fisionomia del contesto più generale mostra sintomi molto preoccupanti, diciamo pure che non ha una buona cera.
Più una parte monetizza meglio l’aspetto propagandistico e di baraonda sentimentale delle proprie convention (partitiche, religiose, musicali, teatrali o quello che sono), più un’altra parte, quasi di sicuro più numerosa, ne trae motivo di avversione, ma in una società viva viva e quindi positiva, l’impatto minoritario ‘positivo’ dato dal risultato netto delle celebrazioni, supera sempre quello maggioritario ‘negativo’ delle resistenze e dei disgusti almeno quanto il fastidio psichico inteso come mole cumulativa supera la gratificazione: ciò fornisce suggerimenti preziosi ai generici detentori di quote di controllo circa un utilizzo non solo produttivo, ma soprattutto ricco di calore umano e di fervore spirituale, del fluido energetico più idoneo ad attivare l’effervescenza naturale di certe spontanee iniziative dei settori più attivi e propositivi di una certa popolazione: parlo di soldi, liquidità, potere finanziario.
Una economia di mercato traduce sempre i termini ‘positività’ e ‘negatività’ in corrispettivi monetizzabili, quindi compra la positività utile anche se determina un’eccedenza negativa molto meno effettuale: se non lo fa, se non sottolinea i climax celebrativi mentre spazza nel mucchio le dilaganti nevrosi, non è una economia di mercato che merita rispetto.
Attraverso gli effetti speciali della tecnologia un potere acquisisce l’ubbidienza e il rispetto delle moltitudini di nevrosi vergognose di se stesse, con la conoscenza logica e scientifica e quindi con la filosofia naturale raccoglie solo una diffidenza di individui isolati che potrebbe essere dissipata soltanto inoculando la sensazione di un sincero desiderio di verità e di franchezza, qualcosa di estremamente costoso, non solo da attuare: anche solo da fingere.
Una democrazia di tipo occidentale non deve occuparsi soltanto di masse, ma anche di individui, quindi, per la sua stessa sopravvivenza, deve privilegiare un concetto di individuo che si armonizzi con la governabilità delle masse.
Si tratta di una fragrante contraddizione o comunque di un equilibrio instabile: se non quello impossibile di una matita sulla punta, quello di una matita con la punta, e solo la punta, infilata in un substrato molle.
Il punto è, al fine di farsi una idea delle possibilità di cui dispone il progresso culturale per stare al passo del progresso tecnologico, che la tecnologia si nasconde facilmente dietro le sontuose apparenze delle sue produzioni, la conoscenza che ne è alla base, priva di illusionistici maquillage, non può nascondere le scabrosità del territorio.
Stordire o istruire, questo è il dilemma quando è in gioco il modo più facile e comodo di governare le masse, ma si tratta ovviamente di un dilemma retorico.
La tesi che troppa scienza meramente tecnologica e troppo poca filosofia fa effettivamente rincitrullire l’umanità, se sostenuta con gli argomenti pseudo-filosofici del ribellismo umanista produce null’altro che un confronto / scontro tra visioni del mondo: per cercare l’impresa disperata di una convergenza fondata su una comune intelligenza, la stessa tesi richiede metodi e risultati di ascendenza empirico-naturalistica e fisico-matematica.
Serve molto meno, comunque, che una procedura logico matematica in forma di vero e proprio teorema: è sufficiente sgombrare il campo dai fraintendimenti che impediscono una corretta accezione del concetto di contraddizione.
Il risultato dovrebbe evidenziare come ogni tecnologia priva di filosofia aggiunga equivoci religiosi e sottragga chiarezza scientifica.
Gli equivoci religiosi non riguardano mai un concetto trasparente e irreprensibile di religiosità, di cui peraltro i Kolibiani si ritengono interpreti e portavoce: se mai, bensì e piuttosto i travisamenti volontari o meno legati a funzioni di manipolazione sociale.
La regina di tutte le manipolazioni sociali, l’equivoco capostipite di tutti gli equivoci, il mostruoso semenzaio generatore della maggior parte delle maggiori cantonate di pertinenza politico-organizzativa, mette capo a quella che i Kolibiani considerano l’assurdità di tutte le assurdità: l’iscrizione dell’etica profonda e fondamentale nel dominio della religione a fronte di una legislazione dei moduli costruttivi consegnati a metodologie di ordine politico che dispongono degli strumenti scientifici a loro discrezione e piacimento.
Detto più schematicamente: la politica (in senso lato) dispone dei mezzi scientifici (in senso lato) e la religione (in senso lato) dispone i fini.
Il rovesciamento così delineato determina un possente qui pro quo antropologico: la religione, che dovrebbe fondare l’ambito della più pura libertà psicologica fino all’autodeterminazione assoluta di un individualismo opportunamente riservato e autonomo (in un rapporto esclusivo tra singolo uomo e totalità divina), diventa l’ufficio esazioni e tributi dei dogmi segnaletici e prescrittivi, la politica, che si finge ancella dei ‘valori’ finché le conviene e aggrada, elevata alla santa trinità insieme a una religione e a una scienza ineffabilmente concordi, si trasforma da pratica di giurisdizione razionale pubblicamente condivisa ad arbitrio dei ‘Sommi Saperi e Poteri’ (non in un tutto da subito, con gradualità, come già detto ci vuole pazienza).
Con tale impostazione, la razionalità sociale non può che fondarsi sulle funzionalità delle scienze disciplinari (incluso quindi l’ambito delle cosiddette ‘scienze umane’) selezionate e subordinate dal filtro preventivo di ideali ispiratori, controllori e selettori ritenuti di portata universale e oggettiva.
Quanto appena detto vale, con modulazioni e accentuazioni diverse, per ogni nazione e società esistenti e si è reso sostanzialmente valido in ogni periodo della storia umana, ma in nessun altro periodo della storia umana si è resa tanto necessaria una fusione e armonizzazione delle diverse istanze nell’ambito di una gerarchia unificante.
Finché, attraverso soprattutto la globalizzazione economica, tale traguardo non manifesti una impellenza capitale, le questioni sollevate dai Kolibiani (i Kolibiani stessi se ne rendono conto benissimo) rivelano una sostanza nascosta di pura lana caprina, aspirano addirittura al Guiness dei primati della pignoleria cervellotica.
Non appena la globalizzazione economica richiama a gran voce una piramide di valori strutturanti, l’insanabile contraddizione delle ideologie correnti più diffuse e del loro nucleo comune si rivela con drammatica palesità e lampanza, mentre le pedantesche cavillosità kolibiane assumono di colpo la consistenza del diamante puro.
In sintesi: le strutture comunitarie s’imbevono di contraddizioni e ai kolibiani basta riportarsi all’abc di una epistemologia essenziale per coglierle al volo.
Il senso di siffatte, quasi miracolose trasmutazioni e trasfigurazioni, si coglie appieno soppesando le potenzialità sempre più esigue e illusorie degli stratagemmi pragmatici e delle pratiche improntate a un accorto, prudente, salamandrico o salamandresco buon senso man mano che si dilata l’ampiezza degli orizzonti di riferimento e l’intrico delle relative interazioni.
Quando la tecnica del colpo al cerchio e dell’altro alla botte non funziona più per le risonanze incontrollabili di cerchi e botte correlati, una generica saggezza si rivela un palliativo insufficiente, ci vuole anche un’autentica religione, ossia una nozione ontologica sensata intorno alla natura del vero e unico Dio.
Le scienze umane sul fronte antropologico, politico e sociale, quelle empiriche e descrittive in ambito naturale e le logiche fisico-matematiche a fondamento delle scienze ‘dure’ convergono tutte verso una stessa conclusione: etiche e morali di portata universale e oggettiva non esistono e quelle scienze che si fanno governare da sedicenti valori della più squisita fattura spirituale accettano di sottostare alle invenzioni di fantasmi inventati.
Il vero e unico Dio, invece, in un modo o nell’altro continua a esistere a prescindere da quanto quel modo o quell’altro possano essere deludenti, inquietanti o problematici e a prescindere di quanto pochissimo decifrabile rimanga quella divinità.
Questo lo intuiscono più o meno tutti, anche le menti più becere, quelle che adesso accettano che il mondo vada in malora confidando nella tutela e supervisione del Sommo Amministratore, e poi, quando il mondo sarà andato in malora, addebiteranno agli infedeli la colpa di aver suscitato l’ira e la giusta punizione del Sommo Amministratore.
Interrogarsi allora sulla vera natura dei valori supremi e irrinunciabili predicati dai massimi pulpiti non denuncia più la sindrome di un tortuoso e oscuro ribellismo, è invece il frutto di dubbi precauzionali quasi obbligatori, da esprimere preferibilmente in forme che non possano diventare facile preda di istanze patologiche esclusivamente sovvertitrici.
Tra le invenzioni dei fantasmi inventati rientrano beninteso anche i sogni del puro interesse, dato che non può esistere un interesse razionale fondato sulla sostanza dei sogni: al massimo possono esistere speculazioni giocate su calcoli di probabilità bayesiana, al punto che, nel presente andazzo, il giocatore da bisca clandestina o da casinò regolamentare rappresenta la somma vetta della razionalità riflessiva.
Purtroppo le regole della bisca o del casinò universali non sono dettagliate in un tabellone all’ingresso o in manuali di facile consultazione: possiamo farcene una distorta o pallida idea soltanto fidandoci dei sedicenti interpreti e delle loro millantate credenziali oppure interrogando direttamente ‘il grande libro della natura’, il quale, con la sua semplice esistenza e persistenza prima ancora che con qualsiasi regola fondamentale che possiamo cercare di ricostruire, ci avverte che la bisca o il casinò non possono tollerare gli ammazzasette e gli sfondatori del banco.
Qualsiasi interesse, che sia considerato subdolo o meritorio poco importa (dipende comunque dal particolare interesse giudicante), può pure dispiegare tutte le dotazioni delle sue sfrenate ipocrisie (attrezzi essenziali nella sua scatola del piccolo imperatore), oppure gonfiare i muscoli di qualche facsimile di potenza economica e militare: rimane comunque vincolato alla grande lotteria metafisica che costituisce la premessa capitale di ogni avventura biologica.
Se consideriamo (accanto alla contraddizione sovrana insita in una presunta fondazione etica dei modelli generali di problematica convivenza) le molteplici contraddizioni derivanti dai dettagli delle realizzazioni effettive, le aleatorietà degli interessi spiccano per evidenza tra i fenomeni che, addensandosi ai margini della scena attuale, si propongono per una predominanza futura.
Non è neppure necessario al riguardo scomodare le limitazioni logiche capitali, quelle che non piacciono ai tecnologi e soprattutto ai loro committenti perché spargono cartelli segnalatori con la scritta: ‘di qui non si può passare’.
Di sicuro quelle limitazioni offrono scorciatoie riservate a chi non soffre di certe allergie, ma nei fatti storici, nonostante numerose eccezioni e ambiguità, si possono trovare esemplificazioni molto più prolisse, ma anche molto più divertenti, fondate sull’onnipresenza dell’onnipotenza dell’eterogenesi dei fini appena si procede di un ette o di un epsilon oltre i confini dell’ordinaria amministrazione.
Un kolibiano, per potersi fregiare del titolo, deve conoscere a menadito un numero sufficiente di contraddizioni fondamentali.
Dovendone scegliere un’altra per continuare, opterei per le necessità di sopravvivenza che obbligano un sistema politico basato su una economia di mercato e l’istituto astratto della rappresentanza elettorale a svuotare di senso e di valore la base sociale idonea a sostenere un concetto sensato di democrazia elettorale rappresentativa.
Perfino coloro che possono manovrare con maggiore sicurezza la gestione dei propri interessi, vale a dire i numi dell’oligarchia produttiva, intellettuale e finanziaria, dovrebbero perlomeno avvertire un certo imbarazzo davanti al fenomeno inesorabile e progressivo dell’arretramento economico e culturale del ceto medio ovvero di quella formazione sociale senza la quale non è neppure concepibile una democrazia di tipo occidentale tradizionale, la quale si basa su una nozione di scelte elettorali diverse dall’equivalente di estrazioni a sorte degli istinti rimescolati all’interno di un pancino o di un pancione.
Una contraddizione strettamente correlata verte sul collaterale allargamento e la collaterale decadenza di un’aristocrazia, che di fatto si sostituisce al ceto medio riducendolo alla base instabile e oscillante di una gerarchia sempre più svasata verso l’alto e appuntita, mentre percentuali quantitativamente dominanti diventano un coacervo informe che, pur essendo privo di una definita caratterizzazione sociale, pesa sul pianeta con una impronta ecologica sempre più intollerabile, contropartita non negoziabile alla sua pacificazione.
Una élite delimitata da incerti confini permeabili alle più diverse infiltrazioni concorrenziali non può rappresentare un’autentica élite e di fatto si fonda su peculiarità comportamentali che dal punto di vista antropologico si collocano agli antipodi dell’autentico spirito aristocratico: brama paranoide di riconoscimenti, volgare ricerca di approvazioni plebiscitarie, culto delle apparenze e del successo.
Un’aristocrazia diffusa che prostituisce ogni altra dote a tali doti di competitività darwiniana, da un lato inclina a un disprezzo razziale proprio verso l’esemplare umano più desiderabile nell’ottica di un futuro non catastrofico, cioè quello privo di ambizioni prevaricanti, dall’altro tende a costituire strati sociali asserragliati nell’autodifesa di quella circolarità di aiuti e sostegni che costituisce il campo di prova prioritario di ogni abilità.
Il risorgere, nella giostra dell’eterno ritorno, ovviamente con nuove calzature, vesti e cappelli, di tipologie conflittuali anticamente legate a dinastie paranoiche e alla forza bruta delle masse popolari svuota ovviamente l’istituto elettorale e lo rende simile a un caleidoscopio di passioni
Paradossalmente, però, proprio a quell’arretramento si deve un senso provvisorio di generica sicurezza dovuto al fatto che ormai solo ambizioni e programmi in sintonia con l’igiene oligarchica possono accedere ad alfabetizzazioni tollerabili dai centri attivi di selezione censoria, ingenerando così la falsa credenza che modalità più primitive e gutturaloidi non rappresentino un cumulo di petizioni ed esigenze in fase pericolosamente crescente.
All’inganno che ne consegue, attivamente imbastito e promosso dai mezzi di comunicazione a larga diffusione, congiurano gli antidoti più diffusi alla degenerazione del livello intellettuale delle masse più rappresentative, le quali, colpevolizzate per la presenza di interessi elementari e indotte a celare le rinascenti cacofonie di base sotto il lessico posticcio di ritualità leziose e formalistiche, sono stimolate ad abbandonare una base fisiologica di priorità naturali in cambio di edonismi e individualismi da palcoscenico televisivo.
Negli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso, analoghi meccanismi sociologici venivano stigmatizzati in modo veemente e allarmistico dalla maggior parte dei cosiddetti intellettuali, oggi la maggior parte dei cosiddetti intellettuali collabora a quei meccanismi.
Quei meccanismi erano allora prepotenti, pericolosi e perversi e adesso sono marginali, limitati e sporadici? Ovviamente no, dipendono dalla tecnologia soprattutto mediatica e da chi la manovra e la tecnologia da allora si è sviluppata in modo esponenziale e così hanno fatto le concentrazioni economiche di controllo.
Dunque?
La soluzione dell’enigma è ovvia: il mondo allora era diviso almeno in due e divisa almeno in due era pure la fonte delle provvigioni (per esempio, un esempio maleducato e maligno, CIA e KGB, ma ovviamente ce ne sono molti altri come, per esempio, alcune fondazioni integerrime); oggi il flusso dei guadagni procede da un solo tipo di vertici e quelli bisogna ingraziarsi per continuare a lavorare nobilmente e dignitosamente.
Non vorrei però che, da quanto ho appena detto, qualcuno traesse la conclusione che l’intellettuale non appartiene a una razza superiore: come chiunque può facilmente constatare, esulerebbe dal mio interesse, sarebbe come darmi la zappa sul piede e sputare nel piatto dove mangio fino ad abbuffarmi.
Ritengo piuttosto importante sottolineare come l’instaurazione di un regime di concorrenza, se in ambito puramente economico è solo un perverso succedaneo del Progetto, in ambito culturale potrebbe giovare alla salute mentale di un popolo promuovendo la varietà dei centri di… stimolo creativo, ragione per cui un effettivo regime di concorrenza culturale, mentre ci si ammazza per vantaggi molto più seri e concreti, viene tollerato negli strati produttivi medio-bassi che discutono se nel reality è meglio l’ex cantante x o l’ex calciatore y e viene invece estirpato dai regimi di produzione più eccelsa, ovvero quelli della creatività e del pensiero libero e indipendente..
Quando un centro viene stabilizzato politicamente (in sostanza per mancanze di alternative garanti di una continuità di base), ma destabilizzato socialmente, una democrazia tradizionale non si basa più su un effettivo consenso sociale, ma sulla capacità delle eccedenze aristocratiche di colmare le falle e le crepe più pericolose ovvero di ridurre al masticamento il rumore delle bocche intorno ai tavoli dei ricchi Epuloni.
Allora, forse, qualsiasi crisi dei modelli di convivenza o, più in generale, delle risorse disponibili grazie alla generosità di un tartassato pianeta può avere da un certo punto in poi effetti di natura imperscrutabile, amplificati da instabilità e non linearità climatiche come da antinomie di tipo marxiano che riemergono dopo decenni o un secolo di automatismi compensativi più o meno mirati e coordinati.
La critica distruttiva marxista, praticamente scomparsa agli albori del presente secolo, si basava sostanzialmente sul concetto di contraddizione sociale.
Il marxismo come categoria rivoluzionaria è defunto e anche giustamente perché, basandosi sul concetto di contraddizione, lo ha snaturato, annacquato e del tutto edulcorato attraverso una forma strumentale di pensiero che alla fine si è rivelata una sorta di caricatura della logica tecnica: ha partorito il mostro a decine di teste della logica dialettica con le sue tre leggi tratte dalla scatola del piccolo papa, che insegna a come moltiplicare i pani, i pesci e le leggi.
Le contraddizioni della dialettica non sono autentiche contraddizioni ovvero nodi di crisi e di frattura insanabili attinenti al ragionamento come alla realtà: sono strumenti retorici estremamente flessibili a disposizione del potere che temporaneamente vince e perfino trionfa in base a cause in parte inesprimibili e quindi in parte a-logiche e pseudo-casuali.
Al kolibiano interessano le contraddizioni autentiche, non le ‘complicanze’ da azzeccagarbugli dialettici che piacciono tanto ai poteri religiosi in senso lato.
Una contraddizione vera denuncia cruciali difetti di metodo e richiede interventi di ristrutturazione profonda, ovviamente riferiti al contesto di pertinenza: non si placa con gli atti scaramantici della politica carismatica e comunicativa e nemmeno con mitologie rivoluzionarie, riformiste o conservatrici.
Una contraddizione vera prima o poi presenta il conto mentre non concede mai quei titoli di riscossione che il politico avveduto spesso ricava dall’uso scaltrito di una contraddizione dialettica.
Non è difficile capire come mai, dopo la morte del marxismo duro e puro, la scatola del piccolo marxista ha avuto accesso allo scaffale dei giochi degli scalatori sociali in fieri accanto a quelle del piccolo dittatore o del piccolo Gesù.
Una contraddizione è semplicemente un muro che non si può né scalare né aggirare: dice nel modo più diretto possibile che non si può procedere oltre, si può solo camminarci a fianco o invertire la marcia.
Una contraddizione è come la parola divina dei monoteisti: non resta che prenderne atto e se riesci a farlo con gioia, come i monoteisti insegnano, sei un gran furbacchione, ma non fai comunque del male.
Al male contribuisce, volontariamente o no, chi non vede e non sente le contraddizioni ovvero la parola di Dio.
Se una popolazione diventa sempre più anziana e meno garantita, l’inflazione diventa una epidemia mortale; se la competizione aziendale diventa più agguerrita anche per l’allargamento dei contesto e l’abbattimento dei confini, l’assenza di inflazione la rende intollerabile.
Si tratta di una contraddizione che blocca la strada al mercato ideale o perfettibile e rende obbligatorio seguire i cartelli predisposti dalle oligarchie.
Se una democrazia rappresentativa segue un percorso obbligato per non entrare in conflitto con la propria base economica, una democrazia rappresentativa può evitare contraddizioni disastrose, però non può continuare a chiamarsi democrazia rappresentativa, altrimenti qualsiasi regime ha eguale diritto di reclamare quel titolo e questa libertà assoluta relativa alla definizione dei concetti primari, almeno finché vogliamo conservare una logica che rimanga attinente alla ‘realtà delle cose’, implica una contraddizione capitale insanabile.
Ricordate gli antichi maestri: ex absurdo sequitur quodlibet.
Ogni volta che un qualsiasi sistema politico riesce ad appianare una contraddizione reale, modifica se stesso e più contraddizioni gravi risolve più si trasforma e diventa qualcosa di completamente diverso da quello che formalmente dichiara ancora di essere.
Naturalmente un sistema politico serio si fonda su priorità, eminenze, valori assolutamente irrinunciabili, imprescindibili, non negoziabili, ragione per cui, mentre l’arte della dialettica e della mediazione si impegna su problemi reali e situazioni concrete, priorità, eminenze e valori assolutamente irrinunciabili, imprescindibili, non negoziabili subiscono revisioni radicali di cui è accademico e arzigogolato occuparsi.
Tutte queste considerazioni fanno parte integrante del bagaglio tecnico del buon oligarca, ma un buon oligarca oggi deve conoscere anche la scienza della comunicazione e quindi saper convincere una intera popolazione a rendersi parte attiva nei processi di trasformazione democratica senza disperdersi in dettagli tecnici e affaticarsi di conseguenza nella decifrazione della natura precisa degli eventi che si stanno forgiando nei cantieri che sono diritto e appannaggio di tutti.
Come i grandi filosofi e i grandi scrittori del passato, soprattutto delle grandi civiltà orientali, hanno scoperto da secoli, l’esercizio del potere è un gioco inevitabilmente perverso, ma anche intricato e sottile.
La più grande scoperta della modernità è il taglio dei nodi gordiani per non farsi venire mali di testa e di fegato generalmente improduttivi quando si dispone degli enormi mezzi che la tecnologia può mettere a disposizione.
In certi casi, non è nemmeno necessario che tali mezzi siano reali: a volte basta la fantascienza.
Qualsiasi viaggio spaziale e successiva colonizzazione della destinazione celeste, perfino quando si tratta della vicinissima Luna, rappresenta tuttora un azzardo dalle mille insidiosissime incognite, ma la gente preparata vede bene che è più realistico di qualsiasi salvataggio della Terra dalle catastrofi prossime e venture e la gente meno preparata può considerarlo una opportunità per migliorare l’affollamento e l’occupazione delle nuove generazioni anche se si dovrà fare sacrifici perché i figli inanellino almeno tre lauree specialistiche di secondo livello e cinque master qualificati nelle università che contano.
Insediarvisi con le dovute attrezzature non sarà certo facilissimo, ma d’altra parte è più che evidente che la Luna rappresenta un possente concentrato di ricchissime miniere: la teoria più accreditata sulle sue origini, infatti, ipotizza l’impatto tra un corpo celeste delle dimensioni circa di Marte e la proto-Terra, il che ha messo in orbita una gran quantità di materiale poi aggregatosi a formare il nostro satellite ed è evidentissimo come l’insieme di simili dinamiche, utilizzando la sola forza centrifuga, propizia concentrazioni puntuali di elementi con meccanismi simili a quelli della tettonica a zolle invece di disperderli lungo strati sottili di corone prima circolari e poi sferiche, che non è facile decidere quanto siano profonde in ragione inversa alla pesantezza dato che prima o poi alla selezione centrifuga sopravviene il gradiente gravitazionale.
Non trovate che doni conforto e un senso estremo di sicurezza il potersi affidare al parere di esperti futuristi che, dopo le opportune analisi, sanno come muovere i capitali ed effettuare gli investimenti più sicuri e produttivi?
TAVOLA SINOTTICA N.4
17 MAGGIO 2019
Eh, sì, gentili amici lettori, se ancora non avete recepito il punto di vista kolibiano, il vostro incaricato personale ve lo ribadisce a lettere chiare e papali papali papali: o si mette il pianeta a ferro e fuoco entro qualche imprecisato numero di decenni o si attua per virtù o per necessità una forma o l’altra di comunismo ascetico (se equo o sperequato, se programmato in modo democratico e tecnologicamente sofisticato o imposto da forze maggiori in tutti i sensi, si vedrà)
Il particolare anarchismo italico, in tempi lontani faro ispiratore di più ampie estrosità latine, oggi purtroppo relegato a un ruolo piuttosto marginale, al solito si muove non per virtù, ma per necessità e, proprio per questo e solo per questo, anticipa i tempi e tasta il polso o palpa alla cieca la ciccia di nuove soluzioni, buttando inesorabilmente al vento ogni buona occasione.
Se si fa guidare dagli eventi sintomatici più recenti, un kolibiano è, guarda caso, costretto a registrare niente altro che un rimescolamento della stessa vetero-minestra stracotta, raffreddata, magari ricca di verdure grezze, ma scondita.
Nuova creatività sindacale, inclinazioni mafiose, rigurgiti mussoliniani e la solita pasta grossa vaticana che ricuce le fila e riattacca i fili: ecco da che cosa lo sventurato estremista di centro è subissato non riuscendo neppure più a localizzare quell’amena campagna arata in mezzo alla giungla degli opposti estremismi che un tempo costituiva il terreno solido e affidabile in grado di accogliere e nutrire gli antichi centristi probi, savi, posati e riflessivi, oltre che naturalmente non demagogici.
Non è facile scegliere il meno peggio tra un sindacalismo che, pur nella condivisione assoluta delle ragioni di base, spara sul bersaglio una rosa di pallini larghissima, ma sembra colpire tutti meno i destinatari più ovvi, un elitarismo che non riesce a pararsi il deretano con un sistema assistenziale decente e deve ricorrere alle corporation multinazionali specializzate in opere caritatevoli o in merci proibite e infine i tirocinanti impegnati nei master di comunicazione per gerarchi, non si sa se foraggiati dai massimi esperti televisivi oppure no.
La solita zuppa insomma, gli escamotage del pauperismo mitologico e sentimentale o del fiero rivendicazionismo ‘di base’ che tagliano lacci e lacciuoli della legalità fredda e insensibile e la reazione del legalismo offeso che richiama a gran voce la legge e l’ordine violati: la combinazione perfetta per la tecno-nomenklatura che, invece di doversi affaticare alla ricerca di un sistema legislativo ‘equo e sostenibile’, si trova servito su un piatto d’argento il doppio binario del sovvenzionalismo autogestito con tanto di circuiti regolatori del caos deterministico inclusi nel modico prezzo, accanto a una fioritura di pretesti, da ripulire e rendere presentabili se e quando sarà il momento, per un giro di vite che ai veri democratici dispiace assai e li fa sospirare filosoficamente sul dilemma proposto da un autentico senso di responsabilità allorché esige dall’uomo giusto che accetti di sporcarsi le mani.
Una economia ‘che tira’ o che, pur non avendo erezioni da Torre di Pisa, non diventa moscia e impotente del tutto, in fondo non può rinnegare aspetti carnali rozzi, ma allo stesso tempo vitali: che ne sarebbe degli indici dei prezzi e dei consumi senza la spesa dei proventi criminali? E dei più sfortunati senza la miriade di iniziative cattoliche? E’ vero che la tassazione delle entrate, prima delle spese e delle prestazioni, in ambedue i casi è molto deficitaria e lacunosa mentre gli utili finali sono certi e incontestabili, che molti degli incassi relativi alle suddette attività trasvolano direttamente all’estero, che senza le donazioni per garantirsi l’ingresso in paradiso gli eredi sciamannati e scialacquoni potrebbero contribuire ai consumi e quelli accorti e ponderosi allo sviluppo degli investimenti, è altresì vero che un sindacalista che non dovesse tener conto di risvolti politici, tattiche elettorali e rapporti di forza dovrebbe avere molto da ridire sulla regolazione interna dei contratti di lavoro, ma d’altra parte la tassazione è sempre una fatica di Sisifo dai retroscena cupi e nebulosi, i pagamenti in natura non sono mai disprezzabili e l’efficienza concessa dal petulante perfezionismo sindacale sappiamo bene fino a che punto può arrivare.
Ovviamente (una persona mediamente colta e intelligente può arrivare a capirlo, per altri non garantisco) non sto facendo una comparazione etica tra le iniziative dello stato indipendente del Vaticano (che comunque, a ogni buon conto, è qualcosa pur sempre di diverso e perfino alieno rispetto a una confessione religiosa punto e basta) e quelle della criminalità organizzata: sto configurando una equiparazione sistemica nella prospettiva esclusiva dell’utilizzo di entrambi da parte di un apparato statale che necessita per sopravvivere dei supporti esterni di forze e dinamismi autonomi e super-organizzati, tra i quali rientrano a pieno diritto anche i vincoli e le costrizioni derivanti da provvidenziali e opportunistiche cessioni di sovranità a organizzazioni sovranazionali come la comunità europea.
La sovranazionalità laica (più o meno legale o legalizzata), e quella religiosa (più o meno idem) rappresentano ormai il porto sicuro degli intoccabili, l’empireo circonfuso delle supremazie poste al riparo da ogni discrezionalità politica, la banca centrale dei valori indiscutibili e delle unanimità sacramentali: a giustificazione di tanta immunità culturale devotamente riservata alle somme reggenze, bisogna d’altra parte considerare che, affidata, non a esse, ma alla pasticciona burocrazia dei singoli stati, perfino la panacea universale della tecnologia pubblica e privata, questa immensa e superba dissipazione di scienza e intelligenza propedeutica all’invasione aliena dei giocattoli viventi, potrebbe apparire ai blasfemi soltanto una luminosa e pirotecnica parabola destinata a spegnersi nel puro illusionismo: per salvare una grande illusione, si rende quindi necessaria un’altra illusione più grande, ma non si deve temere che per salvare quella ce ne voglia una più grande ancora, perché i giochi finiranno prima che ce ne sia bisogno, in un modo o nell’altro.
In un modo o nell’altro, ma senza mai dimenticare il fattore K.
La questione cruciale di fondo, regolarmente travisata o interrata a bella posta sotto cumuli di lutulento moralismo, concerne d’altra parte il governo o almeno il controllo della complessità: la modestissima opinione kolibiana si limita a giudicare perlomeno dubbi gli espedienti, le deleghe, i conferimenti e le abdicazioni adottati, sia perché, se anche turano infinite falle, su un piano più elevato non controllano e non governano alcunché a parte il sacro diritto dei privilegi maggiori e alla lunga aumentano solo nostro fratello santo il casino, sia perché non tengono minimamente conto dell’incomodo che, secondo, quinto o decimo che sia, si prospetta come quello veramente importante e decisivo.
Per parlare appunto di questo convitato di pietra, torniamo allora ai decenni del primo paragrafo: Il numero esatto che manca al verdetto finale non lo conosce nessuno, neanche Dio o ‘Dio’, rimanendo non prevedibile da intelligenze totalmente incluse nel presente universo (si desume da risultati fisico-matematici del tipo di quelli che, chissà perché, vanno sempre di traverso ai tecnocrati duri e puri che non li buttano nel cesso o li chiudono in cantina, ma, pur di malavoglia, si sforzano almeno di darvi un’occhiata).
Siccome è imprevedibile, la partita vera si gioca su due fronti: quello di quelli che ritengono possibilissimo (con la variante minoritaria del ‘perfino probabile’) che il tracollo possa avvenire in tempi molto rapidi (il singolo decennio o giù di lì!) e quello di quelli che escludono evenienze simili, anche molto più moderate, dal novero delle faccende di cui le persone serie debbano seriamente preoccuparsi e occuparsi.
Come in tutti i periodi storici di crisi e di svolta, la questione si ridurrebbe in sostanza all’alternativa tra continuità e rivoluzione (con la vittoria scontata, dopo sobbalzi e capriole vari ed eventuali, della continuità con o senza rivoluzione), ma questa volta, disgraziatamente o forse per fortuna (vista e considerata la qualità delle ‘libere’ scelte ‘umane’) la partita non sarà disputata e arbitrata soltanto da poteri ‘umani’, bensì anche e soprattutto da poteri ‘superiori’.
Da un punto di vista superiore, il verdetto sarà emesso in un modo che gli storici del futuro, se esisteranno, potrebbero definire ‘drammatico’, ‘solenne’, ‘epocale’ etcì etciù; dal punto di vista delle cose ‘umane’, il verdetto potrebbe favorire invece una parte importante delle maggiori ignoranze coinvolte: il Culo (il fattore K: Culo infatti, in versione metafisica, si dice Kulo).
Il concetto di culo sarà immediatamente recepito da chi non si farà respingere dalla sua ficcante energia iconica e saprà tradurlo nei termini di una fortuna immeritata, il concetto di ignoranza sarà meglio argomentato nel seguito della presente sezione, del concetto di comunismo ci occupiamo brevemente ora.
Il comunismo (kolibiano o tradizionale o shumpeteriano o millenarista o vattelapesca), è ovviamente il destino di ogni civiltà, una fatalità che non viene recepita semplicemente perché il termine ‘comunismo’ è frainteso: quando la parola designa la messa in comune dei beni individuali nell’ambito di una comunità, suscita implicazioni negative e di orrore istintivo (da parte di chi qualche bene, anche piccolo, ce l’ha); quando i beni appartengono ancora nominalmente ai singoli, ma alle condizioni dettate da poteri prevaricatori o addirittura dispotici, la definizione non desterebbe particolari ripulse, ma viene considerata impropria e anzi inapplicabile.
Se però ci si sofferma, non sulla taratura e caratura astratta dei significati categorici, ma sulla loro traduzione effettiva in fatti storici e sociali, entrambi le accezioni terminologiche del precedente paragrafo risultano del tutto legittime.
Viste così, le differenze tra fascismo, liberalismo (che non esiste nemmeno o, per meglio dire, resiste pochi anni, magari con sporadici ritorni di fiamma, e poi ricade nel liberismo) e comunismo diventano questioni di gradi e sfumature, perlomeno se tralasciamo la cosa più importante in assoluto, ovvero il livello tecnico-produttivo e le ricchezze materiali consentiti da un certo tipo di sviluppo storico-culturale e di organizzazione sociale.
E’ anche facile capirlo se non si ha la mente ridotta al lumicino di tre o quattro stereotipi, ma occorre prima ‘mettere tra parentesi’ I fenomeni estremi come Hitler e Stalin e tutte le successive derivazioni dall’efferato volto umanissimo e farsi invece sciorinare davanti il Bioscopio Mondiale della Grande Babilonia che comprende (citando frettolosamente, alla rinfusa e con molte lacune) maccartismo, Cuba, Vietnam, Democrazia Cristiana, Jugoslavia, peronismo, Nasser, Allende, Reagan/Thatcher, Tibet e Cina, narcostati, Turchia, Venezuela, striscia di Gaza eccetera.
Del Messico, per esempio, che cosa si deve anteporre: un conteggio di morti da guerra civile normalizzata e permanente o la splendida gestione dei fatti culturali? E come si combinano i due aspetti tra di loro e con le inevitabili influenze dei confinanti, sviluppatissimi Stati Uniti di America?
Non tutto è oro quello che luccica e non tutto è merda quello che si spiaccica e poi c’è sempre la zuppa e il pan bagnato.
Se nazismo e stalinismo sterminano venti milioni tra ebrei, contadini ucraini e oppositori veri o presunti, l’enormità dell’orrore diventa una pietra angolare a cui si deve perennemente avvincere la preveggenza di tutti, d’accordo, ma la storia è cronaca distorta dalle fortune o sfortune della fama e la maggior parte delle nequizie che vi si consumano (nella cronaca che non diventa storia) non assurge a dimensioni apocalittiche per quegli stessi motivi di fondo che rendono i temporali fenomeni ordinari molto più frequenti degli uragani.
Il liberismo può ascendere al cielo delle nobili idealità sopra l’inferno di nazismi e stalinismi, ma i pretesti per trionfalismi celebrativi dovrebbero importare molto meno della ricerca dei motivi per cui un temporale diventa un uragano e che cos’è poi il liberismo senza quella ricchezza tecnica e materiale che tra un po’ (quanto?) il pianeta inevitabilmente addenta rabbiosamente e sputa per il disgusto?
Meditate, gente, meditate!
Non è comunque importante riscattare certi termini dalle connotazioni negative che vi si sono incrostate in seguito alle vicissitudini specifiche con cui certe concezioni si sono concretamente calate nella storia: no davvero, importante è impedire che tali concrezioni negative vengano assunte a pretesto per sbarrare la strada a qualsiasi deviazione dall’ortodossia che impone un mercato libero, liberissimo, tanto libero da essere libero anche nelle società a partito unico, anzi! ... magari in quelle è più libero ancora!
Definire comunista la società progettuale appare una provocazione eccessiva? Chiamatela come volete, purché sia chiaro che in un assetto felicemente sottratto alle schiavitù e al ricatto del progresso è ben difficile che non si sia costretti a stravolgere (che non vuol dire abolire) i caratteri e le valenze dell’iniziativa economica privata.
Rimane divertente constatare come quelle culture che usano termini double face e anche multiple face dal significato proteiforme, ambiguo, instabile, volatile, impreciso, barcollante, farfallone tendano poi a immunizzarli, tesaurizzarli, blindarli.
Nessuno sa esattamente che cosa significhino i vocaboli più usati dalle politiche, dalle morali e dalle religioni correnti, ma quando detti vocaboli escono dalle catene di montaggio dei processi di santificazione o demonizzazione tutti possono toccare con mano la loro flessibile fruibilità generica nonché efficacia pratica e pragmatica.
I Kolibiani sanno che i veri anticomunisti con le palle grosse così (autentici liberali che tollerano le terze vie italianiste perché non disturbano gli affari, ma non il rigorismo conservatore che invece li disturba) in fondo hanno un cuore tenero, sono gli ammiratori devoti e sentimentali delle cause vere e profonde che determinarono la svolta del 1988, quando, dovendo scegliere tra corruzione o Partito, la nomenklatura del Partito ha scelto la corruzione.
Ciononostante e nonostante i molti preoccupanti segnali al riguardo già perpetrati sul fronte delle manipolazioni e delle censure e illustrati da minculpop e uffici della salute mentale ideologica in versione brillantemente televisiva od opacamente burocratica, i Kolibiani non sono ancora così estremisti di centro da ritenere che soluzioni come il fascio-comunismo all’acqua di rose e Chanel numero 5, i comitati di occupazione permanente delle élite manageriali, le rivoluzioni in elegante stile Congresso di Vienna con annesso salone del design e così via e così sia, siano già diventate effettive: probabilmente lo diventeranno, non siate impazienti!
La pulce kolibiana è già entrata nelle orecchie delle maestranze più nervose e sensibili, grandi manovre sono in corso e molto dipende dalla consistenza reale di nuove e strane figure e idee che si stanno affacciando sulla scena pubblica, dall’esistenza o meno di burattinai in incognito in grado di esercitare un tasso di manovrabilità ombrosamente concreta, da quanto i burattinai si rivelino poi burattini degli oscuri processi sistemici dell’intelligenza sociale con tutti i suoi andirivieni misteriosi, intrecci sotterranei, coincidenze insospettabili, sbocchi imprevedibili.
Soprattutto imprevedibili (da qualsiasi analogo cerebrale del solo universo di cui sappiamo qualcosa).
Può essere quasi un sollievo constatare come certi andazzi si ricalibrino come per vis vegetativa autonoma in totale indipendenza dalle volontà che vi si spendono trafelate al punto da generare inflazionistici effetti di scurrilità: il rodomontismo itifallico, per esempio, sotto le forze attrattive di campi che ricordano il destino centripeto di qualsiasi moto secondo Aristotele, si sta ricongiungendo finalmente alla sua patria ideologica naturale, che ne rivendica giustamente il possesso dopo che partiti seri e rispettabili hanno per anni e anni e perfino decenni cercato di intascare, falsificando i documenti di proprietà, i vantaggi dei relativi esibizionismi, manovra maldestra e truffaldina che non ha portato voti ed è riuscita soltanto a macchiare lo stile peraltro irreprensibile di una pedante vocazione professorale.
Ma, al di là di queste funamboliche coloriture del folklore nostrano, in linea di massima e semplificando assai l’alternativa si rivela sostanzialmente binaria: bisogna scegliere tra un vetero-comunismo dei consigli aristocratici con programmi ambiziosi e altisonanti quanto, per forza di cose, autoritari, costrittivi e probabilmente fallimentari e un neo comunismo che cerca di contrattare con strumenti programmatici tecnicamente sofisticati una sottrazione generalizzata di lusso, vanità e fregola consumista in cambio di effettiva qualità esistenziale.
Va da sé che ogni via rilassatamente esperita (ovvero intrapresa in assenza di urgenze drammatiche causate dai colpevoli ritardi dei soliti inguaribili ottimisti maestri di fortificante e vivificante virtù e scientemente e programmaticamente ignoranti come ignare e innocenti capre (vedi poi la definizione di ignoranza che riscatta le capre) si manifesterà all’insegna di compromessi al ribasso e se questi saranno sufficienti o meno non dipende dai Kolibiani.
Intendersi poi in che cosa consista la qualità esistenziale citata nel penultimo paragrafo, come si possa individualmente configurare rispettando le differenze irriducibili tra le persone e sensatamente connettere e articolare in un disegno funzionale coerente… beh, non è questione che i Kolibiani, a differenza di molti altri, si sono mai permessi di sottovalutare.
La differenza dell’approccio kolibiano rispetto ad altri più diffusi e canonici si rivela semplicemente nel ribaltare la classifica delle priorità concrete ponendo in testa alla lista quello che il fanatismo ideologico degli educatori civici e civili più seri, autorevoli e responsabili (ne esiste almeno una specie per ogni tradizione etnica, geografica, politica o culturale) pone di solito all’ultimo posto: la qualità della vita appunto.
Intendersi in che cosa consista detta qualità, quali siano i suoi requisiti minimali indispensabili, trovarne una formulazione che metta d’accordo la stragrande maggioranza degli elettori (tutti non è possibile anche se gente come sadici criminali e pedofili potrebbe sensatamente sostenere la tesi che, se Dio li ha fatti così, ci sarà pure una ragione!): ecco la mossa più concretamente propedeutica a un’azione sociale effettivamente costruttiva e conseguente.
Preoccuparsi invece e soprattutto del rispetto, della dignità, della valenza morale eccetera di una persona (termini adatti al costume occidentale, variamente tradotti, fino alla irriconoscibilità più totale, qui e là per il mondo) significa ritrovarsi prima o poi con una moltitudine di affannati sovrappeso che trotterellano con volonterosa tenacia dietro le file progressivamente distanziate dei predatori più dotati e anche più istintivamente agili a capire la verità più inoppugnabile di tutta la vicenda umana: rispetto, dignità, valenza morale eccetera dipendono dal livello di vita economica e materiale, ma il viceversa non vale o vale meno.
Il problema nasce quindi quando rispetto, dignità, valenza morale eccetera, espressi nelle lingue più varie, più si diffondono e più lasciano sempre più macerie e terre bruciate dopo ogni successivo giro di turno lungo qualche cerchio massimo della maratona planetaria.
Si è sempre guardato alle utopie come a passatempi per i momenti liberi e gli intervalli creativi di menti più o meno acculturate, al massimo della sua carriera qualcosa di simile poteva diventare col tempo l’ossessione di scalmane bipolari diventate unipolari.
Oggi stanno per finire o magari sono già finiti da un pezzo i diritti a quella vacanza etico-religiosa con cui l’esemplare tipico della specie homo ss ha dipinto, decorato e cosparso di ninnoli il nocciolo di violenza essenziale del proprio colonialismo di specie animale egemonica: oggi l’umanità deve seriamente prendere in considerazione un progetto alternativo di qualità della vita immunizzata dai criteri tipici dell’individualismo economico, tutto ciò non per gusto poetico, ma perché rappresenta l’unica via che non conduca a sconvolgimenti catastrofici seguiti da dispotismi assoluti o dilanianti anarchie.
La nuova utopia obbligatoria richiama scelte eminentemente politiche e di funzionalità strutturale, la morale o l’estetica non c’entrano un fico secco.
Naturalmente è inutile illudersi e contare sull’impellenza della necessità per l’avvio di iniziative che esigono un cospicuo dispendio di energie istituzionali contrarie a una massa dominante di interessi pesati in valuta corrente e non in numero di sudditi.
Sono inutili perfino considerazione del tipo: ‘la catastrofe riguarda tutti’: la catastrofe è certa, ma non sono certi né i tempi né i modi.
Un certo tipo di capitalismo potrebbe aver già condotto in porto le sue previsioni (le previsioni dell’imprevedibile, quelle previsioni che, cercando creativamente di avverarsi, caratterizzano la pirateria economico-finanziaria) e di conseguenza avere già elaborato scenari e strategie speculative di controllo dei nuovi, più o meno mostruosi, mercati.
Una di tali strategie riguarda sicuramente la creazione entro un quarto di secolo di trust imperniati sulla produzione di energia ‘rinnovabile’ (che, come dicono le virgolette, non esiste) in cui saranno investiti i guadagni ottenuti dalla massima accelerazione possibile nello sfruttamento di combustibili fossili in via di esaurimento, con il risultato che il superamento delle soglie di tolleranza, se non è già avvenuto, diventa praticamente garantito in un futuro molto prossimo nel quale una concentrazione opportuna di ricchezze potrà dedicarsi a fornire i costosissimi palliativi che le emergenze sorte nel frattempo renderanno irrinunciabili e tassativi per chiunque a prescindere dalle capacità economiche di ciascuno: chi c’è c’è, chi non c’è ciao, lo vedete bene anche voi che si tratta di emergenze per cui non è colpa di nessuno.
E pazienza se una sostituzione non graduale degli idrocarburi potrebbe dare il colpo di grazia al pianeta abolendo di colpo la schermatura di inquinanti (che, dopo la fine delle immissioni, persistono in aria molto meno di quanto non vi permangano i gas serra) e compromettendo le coltivazioni prive della patacca del bollino verde o rosso o blu e dei costi della qualità raffinata!
Avviene così che mentre progettisti e programmatori della società futura stanno nelle aule universitarie quel tanto che basta per prendersi uno stipendio dello stato a carico di tutti i cittadini, ma riservano genio e creatività per i sussidi delle fondazioni e le commesse dei molto big troppo big per fallire, le piazze si riempiono di baldi giovanotti che rivendicano la svolta già programmata nelle alte sfere: quella svolta che, con paternalistica benevolenza, viene lodata e benedetta dai poteri assennati e perbene, i quali, manco a dirlo, dall’alto della loro immensa saggezza, raccomandano anche ai nuovi eroi (sottinteso: se vogliono avviare una soddisfacente carriera) quella paziente ponderatezza indispensabile a rendere proficui le maturazioni e gli spostamenti dei capitali investiti.
Beata quella società che non ha bisogno di eroi, diceva più o meno B.B., e si tratta di un aforisma azzeccato oltreché immancabilmente attualissimo e pungente.
La morale diventa davvero decisiva e influente nei destini di una società soltanto quando cominciano i guai e allora si può stare certi che verrà idolatrata e assolutizzata da parte di chi i guai li infligge e non da chi li subisce, anche se, per non essere troppo manichei, si può ammettere una fluidità di ruoli e un interscambio delle parti, ciascuna con la propria morale da far valere quando è giunto il proprio turno di colpire (quelli a cui quel turno non tocca mai possono consolarsi pensando che da ultimi saranno i primi nel regno dei cieli).
La tipologia umana che più corrisponde a un profilo morale autentico risulta quella dell’omicida seriale.
In pochi altri casi troviamo infatti una esemplificazione tanto esasperata di che cosa significa rimanere fedele alla propria natura a prescindere da ogni ragionevole e inderogabile vincolo esteriore.
Una moralità che esige dal suo stesso propugnatore un prezzo di sacrificio e sofferenza, se viene vissuta come un privilegio risulta, secondo i casi, una sorta o di raffinato edonismo o di contorta compensazione, altrimenti esige dagli altri, che condividano o meno tale morale, un pegno similare.
Disinnescare i deliri della morale dovrebbe rivelarsi allora e comunque uno dei compiti tutt’altro che secondari di ogni attività legislativa condotta secondo criteri minimamente razionali.
La morale potrebbe sovrapporsi alla legge soltanto se la norma basilare posta alla base di qualsiasi convivenza pacifica, esprimibile in modo esaustivo e sostanziale come ‘non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te stesso’, potesse estendersi alla versione positiva, ovvero: ‘fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te stesso’.
E’ sufficiente riferirsi all’ambito sessuale (che oltre a essere tutt’altro che secondario trasmette con essenziale e anche cruda immediatezza una testimonianza vivida e inconfutabile della specificità psichica di ognuno) per rendersi conto che dobbiamo accontentarci della prescrizione negativa, perché quella positiva non funzionerà mai.
Le differenze profonde e irrimediabili tra complessi psichici diversi non manifestano superficialità accidentali, al contrario: costituiscono le basi strutturali della complessità sociale.
Appianare le divergenze in modo fisiologico e non violento implica l’esercizio della democrazia intesa come confronto/scontro degli interessi contrapposti e mediazione tra esigenze individuali e requisiti olistici di funzionalità.
Una democrazia elettorale, come del resto dimostra la storia recente, configura allora una soluzione ovvia e ineluttabile (l’altra è la guerra civile) come ovvio e ineluttabile è l’inclinare delle democrazie liberali verso il prevalere di un solo tipo di libertà sostanziale, quella economica, seguito dallo svilimento della medesima libertà quasi esclusivamente economica a causa della darwiniana ineluttabilità dei processi di concentrazione oligarchica.
La Cina dimostra al di là di qualsiasi ragionevole dubbio che la caduta del muro di Berlino e la fine dell’impero sovietico si iscrivono in quelle false accelerazioni della Storia, quasi divagazioni incongrue o fluttuazioni casuali, che, spargendo equivoci, abbagli o illusioni, sbilanciano temporaneamente processi di evoluzione e di convergenza graduale destinati comunque a pervenire a un risultato abbastanza prevedibile almeno a grandi linee: un capitalismo di gruppi dominanti in cui la preminenza o ingerenza statale e così il potere di un parlamento oppure di un partito unico nominale vengono variamente declinati e pesati senza snaturare nella sostanza il quadro complessivo.
La scelta del partito unico (dove i voti si contano come in qualsiasi altro contesto) oppure di un parlamento come sede delle decisioni rientra quasi del tutto nelle ascendenze e tradizioni storiche e culturali di nazioni e di aree geografiche e quasi per niente nei meccanismi strutturali e sistemici degli sviluppi globali, anche se non si può evitare, ovviamente, che le due serie causali interferiscano con effetti spesso inopinabili.
Analizzando tale interferenza, risulta poi del tutto scontato che l’unico modo per impedire che i vari nazionalismi intervengano in un qualsiasi momento nel liberismo planetario come elemento di disturbo potenzialmente esiziale fino a costituire la famosa fluttuazione oltre i limiti di soglia implica il loro riconoscimento programmatico e costitutivo nelle logiche degli sviluppi cooperativi comunque allargati (la nazione holding come base di una economia globale sostenibile e quindi stazionaria)
D’altra parte, abolire nazionalismi e localismi rappresenterebbe un obbiettivo prima di tutto impossibile, in secondo luogo assolutamente folle e sciagurato come folle e sciagurata sarebbe la lotta contro differenze naturali che coinvolgono sempre, accanto agli aspetti folcloristici, tratti di primaria importanza etica e culturale.
Le differenze strutturali irriducibili tra conformazioni psichiche costituiscono nelle società umane l’analogo della biodiversità in natura: se riconosci questa verità elementare sei a metà della democrazia liberale, se riconosci che questo comporta anche interessi concreti, sei al 90% almeno, se ci mischi valori eterni indelebili hai compromesso il tutto, quanto gravemente varia secondo i casi.
Solo la struttura produttiva ed economica generale va radicalmente irregimentata nel senso di una semplificazione essenziale, ma non perché è cosa buona, giusta, santa e salutare, ma semplicemente perché altrimenti il pianeta si rompe e diventa un posto inabitabile.
Considerazioni ambientali devono dettare i criteri decisivi sul tipo di semplificazione da scegliere e sembra molto arduo concluderne che una semplificazione che assecondi lo sviluppo automatico dei processi socio-economici in atto, vale a dire una semplificazione oligarchica, sia sufficiente a evitare o almeno ad attenuare esiti catastrofici.
Secondo i Kolibiani, una semplificazione di tipo oligarchico ( se comandata da parlamenti o da partiti unici non cambia la sostanza delle cose), una semplificazione basata sullo strapotere delle concentrazioni inesorabilmente crescenti, non solo rimanda la soluzione dei problemi ambientali, non solo lascia la situazione invariata: impedisce la soluzione e peggiora la situazione.
Di sicuro, non predispone alcun assetto difensivo che attutisca l’impatto di fenomeni degenerativi nell’ipotesi, tutt’altro che improbabile, che tale degenerazione sia ormai inevitabile.
Delle ultime affermazioni esistono addirittura dimostrazioni fattuali.
Quali? Semplicemente tutti gli eventi degli ultimi quindici o venti anni.
Probabilmente il termine ultimo per varare misure incisive contro il precipitare di crisi ecologiche e climatiche dai possibili esiti calamitosi è scaduto da almeno una decina di anni, ma le decisioni che le élite sono state in grado di assumere hanno condotto soltanto a un aggravamento progressivo della situazione, il che è tanto più disdicevole se si considera che, in tale lasso di tempo, l’argomento dello sviluppo sostenibile non è stato promosso e agitato da frange marginali di contestazione culturale (praticamente inesistenti!!!), ma da settori delle élite perfettamente integrati nell’establishment complessivo, spesso interessati economicamente a una rivoluzione delle fonti energetiche, settori riguardo ai quali non si può nemmeno dire che non abbiano ottenuto successi: hanno ottenuto i massimi successi compatibili con la sopravvivenza della logica di sistema.
Scaduto molto probabilmente il termine per prevenzioni efficaci e, inizialmente, non troppo peggiorative (per non affidarsi a speranze mal riposte di sollievi immediati, basta pensare al raffreddamento da schermatura esercitato da aerosol, polveri e altri inquinanti e al contributo all’agricoltura dei combustibili fossili), anche il tempo concesso alla stesura di piani di emergenza in vista del peggio sta scadendo.
Quelle pianificazioni preventive, infatti (kolibiane o men che kolibiane), richiederebbero, ai fini di una stesura generalmente condivisa, un lavoro preparatorio e una catena estenuante di elaborazioni e mediazioni (un compito degno di commissioni europee che fossero stanche di fare i cerberi del liberismo e i dobermann delle multinazionali): se e quando la crisi ambientale diventerà inequivocabile, si paleserà l’urgenza, ma nel frattempo verrà messo in pericolo il livello minimo di civiltà indispensabile.
E intanto di Progetti trasparenti e democratici come dei progetti covati nelle stanze segrete (che di sicuro esistono, a meno che il gotha dell’aristocrazia sia diventato nel frattempo uno scalcinato olimpo di pavoni sussiegosamente anarchici) in giro non se ne parla, si ricomincia solo a parlare di manifestazioni di piazza.
Un kolibiano può solo sperare che quelle finiscano per richiedere a gran voce il Progetto invece di accedere alle solite camere di transazione dove si forgia la capacità e la tempra dei nuovi dirigenti o si impiantano presidi sperimentali per il ribaltamento della frittata, per negativi che diventano brutte fotografie o brutte fotografie che diventano negativi.
Mi dicono, non so se sia vero, che Greta Thunberg è affetta da sindrome di Asperger: è uno dei pochi elementi, finora, che mi fa intravedere un po’ di luce in fondo al tunnel, un piccolo incoraggiamento che mi concedo per diradare la nebbia plumbea dei sospetti riguardo alla ripetibilità irrimediabile dei copioni metastorici, all’abbonamento obbligatorio che ogni tot ci somministra per legge, a mo’ di sfiatatoio, qualche magniloquente sceneggiata tipo primavera araba o in stile classico ‘manfrina sessantottina’.
Forse si tratta di una splendida invenzione del caso per risparmiarci una volta tanto la condanna al narcisismo dei leader dalla volontà di ferro e dalla comunicativa travolgente, i campioni della protesta indomabile che nascono già predisposti, ritagliati e confezionati per assumere il primo ruolo vacante nel macchinario artificiale di pesi e contrappesi predisposto ad arte da poteri sempre più egemoni per creare l’illusione di una vitalità sociale sempre più democratica.
Questi leader di solito manifestano una strana conformazione dell’intelligenza personale: tanto sono abili, pronti, intuitivi nel muoversi negli intricati garbugli della giungla sociale, tanto sono ciechi, insensibili, refrattari alla nozione elementare dell’indipendenza ontologica di una realtà fondamentale preesistente, inclusiva e oggettivamente, concretamente, sostanzialmente, irrimediabilmente superiore rispetto al fenomeno umano, una nozione assolutamente indigesta e dannosa in ordine alla mobilità e proficuità delle doti che prediligono e li fanno risplendere, al punto di configurare, lontano da quelle, qualcosa di simile a una vera e propria stupidità.
A quella trascendenza della natura, a quello sfondo oscuro dell’essere che incombe come una parete impenetrabile, oscuramente avvertita tra uno sketch e l’altro dell’eterna commedia propagandistica, le personalità forti e volitive, appiccicano l’etichetta di ‘Dio’, parola che significa in sostanza ‘potenza amica su cui è bene non ragionare troppo’.
Non stupisce che tali stratosferici livelli culturali alla fine si risolvano in via quasi esclusiva in sfoggi dell’impermeabile aperto, narcisisti e seduttivi presso i fan quanto aggressivi e prevaricatori verso gli oppositori, con la media inevitabilmente vicino a zero che si ottiene sommando l’adorazione esaltata di una parte e la quantità di odio proporzionale (in realtà un poco maggiore per quantità) dall’altra.
Considerando il magro bilancio affettivo che in politica conseguono le somme genialità partitiche super-esperte in pubbliche relazioni, sorgono a volte indelicati sospetti sui caratteri e le valenze effettive di certe abilità nel creare proseliti, al punto che qualcuno potrebbe giudicare le relative squisitezze relazionali un riflesso moderno di arcaiche attitudini tribali dedite a cementare coesioni di gruppo attraverso le avversioni verso i gruppi e le tribù rivali, volto autentico e sinistro tipico di molte pratiche solidali eticamente dipinte e decorate, darwiniana eredità molto utile in passato per debellare neanderthaliani e denisoviani e tuttora non disprezzabile se si tratta di prevalere in una guerra civile.
Forse, l’istituto della magistratura aiuterebbe a migliorare il tono generale della democrazia, se, invece di trovarsi (involontariamente!) in sintonia con interessi delle lobby vaticane e con altri interessi (diversissimi!) delle lobby mafiose, considerasse se è il caso di estendere la medesima severità adottata con i furbetti del cartellino a quei ministri e sottosegretari (rarissimi e forse inesistenti!) che, nel tempo da riservare alle funzioni pubbliche, curano solamente interessi privati o partitici e li curano talmente bene che alla fine quelli si risolvono sempre in questioni di ‘immagine’ e di pesca elettorale.
Grazie anche a leader siffatti (perfino grotteschi in versione liberty e formato televisivo), almeno finora e fino a prova contraria la sola azione in grado di incidere favorevolmente sul dissesto ambientale, benché d’importanza non trascurabile al fine di tenere ancora presentemente la testa dell’umanità libera di respirare fuori dal pantano in cui sprofonda fino al collo, la dobbiamo a una eterogenesi inversa dei fini, quella dovuta alla crisi finanziaria del 2007.
Per attuare i dovuti provvedimenti, non sono insomma mancate consapevolezze, tecnologie e preparazioni adeguate: è mancato semplicemente il sostegno del sistema.
Questo sostegno oggi, anche se tardivamente, si può recuperare?
Direi che c’è una pletora di indicazioni e fattori che rendono la cosa quasi fantascientifica, molto più fantascientifica, secondo i Kolibiani, dei Kolibiani e del Progetto Colib.
Tutti si riconducono alla specifica natura del progresso economico così come, senza eccezione alcuna, si è concretamente realizzato negli ultimi secoli fino all’ultimo, presente minuto.
Si tratta di un progresso che non può evitare di affidarsi a energie frenetiche con forte incisività ristretta e scarsa ampiezza e profondità di visione, un progresso che risparmia energie per reimpiegarle con gli interessi, che migliora la produttività per produrre cose marginalmente migliori che durano sensibilmente di meno; un progresso che necessita di sempre nuove masse di persone spronate da fame e disagio, un progresso che, per non arrestarsi, deve consumare sempre più risorse di materie prime, energie e lavoro, che si basa su una mole crescente di debiti e sull’ansia indaffarata di debitori che, alla prima modesta discesa degli indici, rischiano di restare con il cerino in mano (la mole complessiva dei debiti, se qualcuno ancora non lo sapesse, ammonta a più di dieci volte il PIL mondiale, ma la cosa più spassosa in assoluto (da sganasciarsi fino a morire soffocati) è che, se si contano le garanzie inventate dal genio creativo dei finanzieri più palluti per la copertura assicurativa dei debiti stessi, superiamo di un bel pezzo le venti volte, anche se, a ben guardare, non si tratta di un raddoppiamento del debito, ma di una generosa e imparziale ripartizione dello stesso su intere collettività che così si assumono tutti gli oneri al posto dei debitori più grossi e più furbi)
Questo progresso non può tirare il fiato e accontentarsi, non può produrre sazietà né presso il piccolo borghese con le tasche stressate da meravigliosi giocattoli che invecchiano nel giro di tre mesi, né presso il ricco sfondato che deve distinguersi comprando il capolavoro artistico più unico che raro o, nell’inflazione di grandi ricchezze che asfalta l’orgoglio come nel parterre di un premio Oscar, può guardare il mondo dall’alto solo girando in orbita su una navicella spaziale.
Nessuno che si proponga di brillare su Facebook, Instagram o Twitter potrà mai considerarsi sazio, ma l’impatto di tante vanitose formichine si potrebbe ancora assorbire: il problema vero riguarda l’esagitazione di base legata alla sola tipologia di giudizi che discrimina ufficialmente gli esseri umani e assegna loro una collocazione in una scala d’importanza oggettiva: la caratura economica e niente altro.
Il tipo di giudizi che vi si rapporta non dà speranza, a prescindere da responsabilità e concause, al borghese decaduto che sfiora l’indigenza e la cui unica salvezza dal marchio di Caino (un Caino peggio che cattivo, un Caino incapace!) è lottare con le unghie e con i denti per riconquistare almeno parte delle posizioni perdute, mentre ogni sollecitudine è rivolta a condizioni di miseria strutturale che funge sia da alibi e foglia di fico per le ingiustizie di sistema, sia da sovrappiù costante che abbassa i costi nel mercato del lavoro poco qualificato o molto, in senso numerico, conteso.
Non sono certo gli aspetti morali della situazione a destare obbiezioni, nella vita c’è chi scende e c’è chi sale e favorire chi non è mai salito non solleva certo indignazione: il problema verte sul costo energetico e il potenziale di stress e di disordine che deriva da una precarietà connessa indissolubilmente a una competizione intesa come obbligo ideologico e strutturale e alla necessità d’incrementi demografici senza i quali il Pil barcolla con i passettini incerti dell’ubriaco.
La lamentela sull’invecchiamento della popolazione e la scarsa natalità, se anche fornita di una sua plausibilità abbastanza ovvia (pensiamo solo agli aspetti pensionistici...), non tiene conto purtroppo di un fatto gravissimo e inconfutabile: l’umanità, stante l’attuale livello medio mondiale del… non tanto tenore, che nel computo totale non è certo eccelso… diciamo piuttosto consumo o dispendio per singola vita, presenta numeri assurdi e improponibili e nessuno con un minimo di sale in zucca dovrebbe auspicare aggiunte ulteriori anche moderate, soprattutto delle popolazioni con una economia sviluppata (le altre, se va avanti così, saranno decimate entro qualche decennio e molti, moltissimi dovranno invadere le aree prospere della fascia nordica o temperata, già sovraffollate anche senza incremento demografico).
In una situazione simile, quando un kolibiano sente definire ‘utopistiche’ le proprie convinzioni, subisce sconvolgimenti psico-fisici come quelli dell’incredibile Hulk prima di una trasformazione da garantista omino ss a giustizialista omaccione verdastro.
A volte riesce a evitarlo sbottando in frasi sconvenienti come: “ Ah, sì? Ma allora significa che l’umanità è cretina!”
In effetti, benché tale giudizio appaia poco urbanamente posato, sembra difficile comprendere sia come l’andazzo prevalente possa essere giudicato dalle maggioranze preferibile a un altro che garantisca retribuzioni calibrate per impegni di lavoro assunti per libera scelta rivedibile nel tempo (libera scelta che deve riguardare però soltanto la quantità di lavoro sopra un minimo garantito e obbligatorio e non una qualità da decidersi in base a test, valutazioni e concorsi attitudinali da estendere alla scelta del piano di studi superiori), sia come si possa giudicare proibitivo e anzi impossibile con il livello tecnologico attuale predisporre un disegno dettagliato di società che garantisca livelli plenari di vita apprezzabili in modo stabile, sicuro e non dannoso per l’ambiente.
Che tutti, esclusi i presenti, continuino pure a giudicare utopistica la società progettuale (può darsi benissimo che vedano giusto, dipende dalle reazioni ‘umane’ non dalle difficoltà oggettive): al kolibiano basta, per non trasformarsi in Hulk, che tale giudizio si accompagni alla certezza matematica che, stando così le cose, la civiltà umana attualmente in voga è destinata a essere violentemente sconvolta entro lo scadere di pochi decenni.
Ripeto: qualche kolibiano meno gentile e piacione di me, potrebbe ritenere che solo un cretino possa buttare alle ortiche qualsiasi Progetto alla stregua di una banale utopia e poi continuare a nutrire fiducia nelle attuali sorti magnifiche e progressive, ma non certo io: io non mi azzarderei mai a dare del cretino a qualcuno, nemmeno se fosse effettivamente cretino.
In un testo filosofico è meglio che non esistano i cretini che esistono nella realtà, si tratta di una cautela elementare per dissuadere dal giudicare un cretino chi si sobbarca un testo filosofico in una prospettiva di ritorni pecuniari nulli e perfino negativi.
A ben guardare, letteratura e filosofia non sono da cretini, se uno ci si diverte, ma, soprattutto in quel caso, i dilettanti devono coprirsi il culo da reprimende e censure esemplificate da quello scrittore di successo che, parlando dell’Ulisse di Joyce, ebbe a dire che l’avrebbe sottoposto a un radicale lavoro di editing (sottinteso probabile: con la squadra di ghost writer che conosceva lui).
Non che un kolibiano voglia e possa paragonarsi a Joyce, intendiamoci, ma se tale e tanta è la sentenza dell’industria culturale su quelli che gli ingenui presumono capolavori, che cosa si devono aspettare i carneadi che non rispettano le regole?
Si sta divagando? No, si sta cercando di rigirare le questioni esaminandole da vari punti di vista.
Per esempio, il paragone tra i grandi del passato e gli attuali scrittori di successo può collegarsi per analogia alla differenza tra misticismo e burocrazia confessionale, illuminando, grazie alle sfumature che l’applicazione di un particolare esempio permette di accentuare, caratteristiche molto più generali della fenomenologia sociale.
E allora il grande rivoluzionario kolibiano, che eroicamente sacrifica tutti i suoi talenti alla causa, si domanda: se oggi perfino le opere d’arte vengono costruite in laboratorio secondo tecniche collaudate ed elaborate mediante un lavoro di gruppo (ricordiamoci, a titolo di esempio significativo, certe notevoli serie televisive), se ispirazioni, vocazioni, talenti sono filtrati e sagomati secondo i canoni codificati di raffinati meccanismi sociologici, che altro criterio, se non quello del puro interesse, può giudicare inesistenti margini e opzioni concessi agli esemplari umani per organizzarsi e costruirsi scientemente le basi artificiali di una esistenza biologica che, almeno nel caso umano, è tanto meno nociva e invasiva quanto più è libera e spontanea e può essere tanto più libera e spontanea quanto più sono rigorosamente regolate e sorvegliate le fonti di approvvigionamento materiale?
Solo così guadagneremmo qualche chance alla creatività umana per armonizzarsi con una natura vecchia di miliardi di anni e (povera tapina anch’essa come un qualunque carneade!) rimasta immobile da cinquemila mentre l’umanità compiva passi da gigante.
Conviene all’uomo non alla natura: è l’uomo che è vecchio, decrepito e col fiatone corto dopo una corsa di un paio di secoli scarsi (le classi privilegiate non se ne accorgono ancora, ma solo perché non hanno mai potuto godere in tutto il resto della storia umana di un periodo tanto favorevole e propizio), per la natura miliardi di anni inaugurerebbero una splendida e giovanile maturità, rabbuiata solo, al momento, dalla più disgraziata delle sue invenzioni.
In realtà, il motivo vero per cui oggi la creatività artistica serve principalmente a far girare il carburante dei soldi nella macchina dello spettacolo, ma risulta inutilizzabile sul fronte della costruzione sociale, dipende proprio dall’essere tale creatività artistica un prodotto della mente sociale al punto da incorrere nell’antinomia irrimediabile di fondo per cui nessun sistema può correggere se stesso.
Un sistema non è retto da leggi universali, un sistema è dio (un dio cieco come tutti gli dei e non miope come un essere umano costretto a vedere le ombre delle proprie fragilità), ma è un dio travicello in un mondo politeista di sistemi concorrenziali; senza leggi universali e i principi di simmetria che vi si collegano non vi sarebbero i sistemi, ma le leggi sono genitori che, secondo la natura di casi, esiti e sviluppi, definiremmo liberali e permissivi oppure cinici e indifferenti: dopo il parto della prole non inetta, scompaiono di vista.
La scenografia del pianeta Terra è costruita con le quattro forze fondamentali e i dispositivi delle loro interazioni (così almeno, cioè in forme simili, è costretta a ricostruire lo scenario di base la particolare intelligenza umana), ma per i copioni della quasi totalità degli attori che vi recitano sono sufficienti nozioni confuse e intuitive di dinamica e termodinamica: solo gli animali più evoluti percepiscono qualcosa del fondamentale che c’è ma non si vede, un sistema dei sistemi che a volte chiamano ‘Dio’.
A differenza degli artisti del passato, per i quali esprimere la propria individualità significava congiungersi con una sorta di oggettività trascendente e, in qualche misterioso modo, esprimere (nel senso di spremere da sé) il nucleo vivo di una realtà oggettiva e impersonale, oggi il funzionario culturale (‘artista’ è ormai un vocabolo arcaico) deve sacrificarsi interamente a quell’idolo che è il suo specifico, particolare e circostanziato pubblico, il cui afflusso è orchestrato e diretto da quella casta sacerdotale della religione affaristica rappresentata da esperti di marketing di cui esistono versioni destre e sinistre.
Così il destino dell’artista di successo (il termine successo riscatta l’arcaicità di ‘artista’), se non riesce a godere o almeno non per intero di un disincanto un po’ cinico poco consono al mestiere, è duplice: la spocchia incredibile di chi, completamente appagato, si corrobora ed eleva nel fluido santifico del pubblico osannante oppure le insoddisfazioni, le nevrosi e i sensi di colpa di chi ambirebbe puntare a climax di ben diversa qualità, ma ne è impedito dalle leggi del business.
Oggi ossessioni, fervori, fuochi sacri non assomigliano per niente a quelli di stiliti, eremiti, fachiri o geni consumati dalla passione creativa, la pratica sociale non ammette più origini sacre a cui ricongiungersi, epifanie dell’ispirazione e della vocazione offerte alla percezione di menti fervide e curiose: tutto parte dalla società e rientra nella società.
Le torri di avorio sono state abbattute non perché troppo aristocratiche ed esoteriche (nel qual caso bisognerebbe abbattere anche tutti i tecnologi), ma perché consentivano di guardare la società dall’alto, di acquisirne pericolose visioni panoramiche da fuori.
La consacrazione etica non deriva più da una oggettività esterna e superiore come potevano considerarsi gli dei delle antiche religioni o le leggi universali di una realtà indipendente per il filosofo della natura.
Rimane un solo idolo a cui sacrificarsi: il successo come premio per essersi immolato a quel pubblico pagante o votante che dona il successo.
Molto dell’umanesimo più commestibile dal punto di vista politico ed economico è intriso fino al midollo da peccati epistemologici capitali e uno dei peccati più grandi è il fraintendimento dell’autoreferenzialità, aulicamente tradotta di solito in termini di coscienza.
L’autoreferenzialità non rappresenta alcuna insorgenza epifanica di tipo spirituale: indica semplicemente il superamento di una soglia di complessità oltre la quale un sistema può riflettere nel proprio funzionamento, promuovendone così la stabilità e la durata, eventi oggettivi che circondano il sistema stesso.
Quando la posta in gioco verte sulla trasmissione della sopravvivenza, la cosa che deve sopravvivere distingue tra interno o esterno, ma solo quando sulla cosa si generano (epigeneticamente!) altre cose (scusate, ma sono di fretta), l’oggettività che vale sia per il dentro che per il fuori viene divisa in due.
L’autoreferenzialità è una spia inequivocabile non di autocontrollo e autodeterminazione, bensì di determinismo integrale: un sistema, complesso quanto si vuole, funziona solo tautologicamente, ovvero applicando le proprie regole di funzionamento, che possono prevedere circuiti illimitatamente complicati di riverbero, corrispondenza, riflessione, dualità.
L’autoreferenza sociale implica una varietà enorme di tali circuiti, testimoniati, per esempio, dall’artista innamorato del pubblico che lo ama, dal generoso caritatevole invaghito della solidarietà verso chi gli è grato per la carità ricevuta, dal tecnologo acceso di brama per la tecnologia che spegne o disciplina gli ardori eccetera eccetera etcì.
Più la socialità diventa consapevole di sé e ammaliata dalle proprie trame, più procede secondo automatismi incontrollati e incontrollabili.
Ciò che può controllare un sistema non è il sistema stesso, il quale non può avere scopi e obbiettivi al di là di se stesso, bensì un altro sistema più complicato capace di indirizzare il sistema secondo i propri disegni intrinseci.
Gli sviluppi dei macchinismi politici ed economici non si indirizzano e correggono da soli, possono essere relativamente condizionati dall’esterno nel caso esista un sistema più complesso di loro che possa almeno provare a farlo e uno almeno di questi sistemi si chiama eventualmente ‘cervello umano’.
In quanto organo che implementa una complessità maggiore e al riguardo raggiunge il livello massimo d’intensità conosciuta, molto al di là (ovviamente!) di tutto quello che abbiamo costruito e concepito, compreso lo stesso universo (che, in quanto concepito, non è ovviamente la stessa ‘cosa’ dell’universo reale che comprende il cervello), solo al cervello umano può essere affidata, più o meno utopisticamente, la regolazione di una società, non certo a comportamenti, influenze, energie che sono immersi in quella società con tutta una testa piena di iniziative, testa che purtroppo di solito si rivela (per l’ennesima legge di inesorabilità funzionale) tanto più attiva quanto più è povera di complessità cerebrale.
Non si può, per esempio, affidare il disegno di una società ideale a chi sacrifica una vita per la carità: anche se inconsciamente, spargerebbe mali e sofferenze un po’ dappertutto pur di adempiere alle sue eruzioni di sollecito amore.
Cerchiamo piuttosto, se vogliamo predisporre le basi di una commissione per redigere il progetto, degli sciamannati estrosi e gaudenti, accertiamoci che stiano sperperando solo i loro guadagni o il patrimonio ereditario senza danneggiare nessuno, selezioniamoli in base a test attitudinali per sondarne la genialità e affianchiamogli il giusto assortimento di teste quadrate.
In una commissione per redigere il Progetto, lo sforzo che dovranno esercitare le due compagini per andare d’accordo realizzerà molta più complessità operante di quanta ne possa assorbire l’iniezione di santità congiunta a tutte le morigeratezze alle quali si sia costretti a ricorrere.
Il modo prevalente in cui la filosofia mainstream e perfino, implicitamente, l’ortodossia scientifica, anche e soprattutto fisica e matematica, si rapporta abitualmente al macchinario più complesso dell’universo delinea però qualcosa di incredibilmente paradossale: ne ha fatto una specie di feticcio che in una teca profilata d’oro e diamanti emette la sublime quintessenza di valori, leggi, teoremi, dopodiché non costruisce e non amministra mai niente di concreto perché a quello ci pensano le eredità storiche, le tradizioni etiche e culturali, le somme delle conoscenze acquisite, gli apparati politici, economici e sociali, il tutto avviato, gestito e trasmesso da una comunità di insetti sociali con l’organo principale regolato sul minimo.
Eppure storie, culture, conoscenze e società sono cose immensamente più semplici del cervello umano e dovrebbero valere soltanto in quanto strumenti a disposizione del loro promotore principale: il cervello umano, appunto.
A un esame attento e a una riflessione spassionata, quelle filosofie idealiste che la scienza ha abbondantemente sbugiardato, appaiono per certi aspetti più logiche e concrete di tutta la pletora di cauteloso e arrendevole pragmatismo a cui finiscono sempre per ridursi i dualismi sotto mentite spoglie.
Perlomeno non comportano la svendita continua di una enorme massa di individui biologici concreti al mercato delle vacche dei valori eterni e delle creazioni sublimi da parte dell’ossequio idolatra e servile che le persone serie e responsabili nutrono verso la Dea Mamma dalle grandi tette nutritive, la Santa Società che li onora e li rispetta.
Vediamo di riassumere: la complessità del cervello umano è qualcosa di oggettivamente quantificabile, si pone al primo posto nella classifica dei sistemi oggettivi, ma non ha niente a che vedere con effetti di prospettiva irriducibili come l’autocoscienza o i sentimenti, si tratta di potenza reale impiegabile nella costruzione dei contesti in cui gli organismi collegati al cervello umano conducono la propria vita biologica, contesti molto più semplici del cervello a prescindere da come gli individui li vivono, li percepiscono o se li raccontano.
Questi contesti scorrono secondo i propri determinismi inseriti in determinismi più vasti: da essi non deriva alcuna soluzione possibile, da essi consegue solo purissimo e inesorabile fato: essi, come totalità, si pongono al di fuori di qualsiasi possibilità di controllo.
L’organizzazione economica e produttiva che costituisce l’intelaiatura portante di una società, sarebbe passibile di costruzione razionale attraverso l’esercizio raffinato di tutte le potenzialità di un organo molto più complesso che sia dotato di tutti gli strumenti culturali raccolti nel corso di una storia millenaria, ma la possibilità non viene neppure presa in considerazione.
Perché? Perché l’umanità è una specie zoologica che, a prescindere dalle presuntuose valutazioni che concede narcisisticamente a se stessa, si differenzia soltanto per la micidiale e funambolica potenza di dotazioni applicate senza alcuna cautela, preveggenza, consapevolezza profonda.
Se qualcuno vuole assomigliare a Dio perché non sa che cos’è ma deve essere bellissimo e consente di sfilare a turno tra due ali di folla compiacente, non si può poi lamentare se come semplice animale risulterà immensamente ridicolo e dannoso.
Un popolo ottiene il governo che merita e una specie vivente si costruisce l’ambiente esistenziale a propria immagine e somiglianza: è ovvio, anche se un modo di esprimersi così rozzo e impreciso introduce elementi di intenzionalità su cui ci sarebbe molto da cavillare.
A prescindere dalle ambizioni politiche e umanitarie e dalla natura delle varie socialità, in qualsiasi consesso civile rimane molto difficile, per non dire impossibile, separare i calcolati dogmatismi delle imposizioni autoritarie dai portati di una normatività fisiologica.
Si può perfino discutere se, nel flusso di una quotidianità generalmente accettata, simili distinzioni abbiano senso.
Il trascolorare della discrezionalità direttiva in soprusi sempre più stringenti può avvenire con gradualità impercettibile, ma diventa inesorabile in assenza di metodi alternativi deputati al controllo della complessità e del potenziale di caos che vi si rapporta.
Tali metodi alternativi, come detto, rimangono costantemente esclusi dallo strumentario canonico adottato dalle forze più energiche e propositive di una società, quelle che risultano più determinanti anche se non sempre, per non dire quasi mai, si dimostrano effettivamente le più responsabili e creative.
Ai motivi appena ribaditi, si deve aggiungere che tali forze, siano di destra o di sinistra poco importa, nutrono (con sfumature diverse) una fede cieca nel progresso e quindi non si accorgono che, per una legge elementare di natura adattabile a qualsiasi livello di realtà, niente nell’universo progredisce più dell’ignoranza di una umanità che progredisce.
L’ignoranza di una compagine sistematica rispetto a se stessa risulta infatti nozione sensata solo oltre la soglia che rende possibili simulazioni almeno ideali di sezioni interne da parte di altre sezioni e quando quel limite di complessità viene superato ogni arricchimento del sistema si estende alle parti simulanti come a quelle simulate, ma la crescita delle seconde avviene in progressione esponenziale rispetto alle prime (generalizzazione ovvia di alcuni teoremi fondamentali della logica, dell’informatica teorica, della casualità algoritmica, della teoria dei grafi e chi più ne ha più ne metta).
Alla fine dello strabiliante eppure sempre un po’ deludente padiglione fieristico in cui si aggira ammaliata ma anche smarrita una cogitante coscienza, l’ignoranza di questa pellegrina più o meno devota o accidentale va sempre riferita a un contesto: in quanto giudizio di valore assoluto si palesa concetto insignificante e risibile.
Si può essere più o meno saggi e intelligenti, ma non si può essere più o meno ignoranti: tutti siamo sostanzialmente ignoranti assoluti, dato che un x diviso per un numero inconcepibilmente elevato dà praticamente zero.
Davanti a un complesso di cose intorno alle quali, per urgenze d’importanza fondamentale, occorre sapere 1000 e si conosce solo 600 si è relativamente più ignoranti se ci si confronta con chi, davanti a una congiuntura di cui occorre sapere 10, conosce solo 7.
Quindi un vulcanico, aitante e super dotato (intellettualmente!) tecnocrate di oggi è probabilmente molto, ma molto più ignorante di un contadino medio dell’ottocento.
Ovviamente il complesso di cose o congiuntura di cui si diceva può essere ristretto o allargato a piacere, infilarsi in un ombelico o volare verso l’intero universo: la fisarmonica dell’ignoranza personale suonerà di conseguenza, così accade facilmente che i suoni reputati dal pubblico sovrano tra i più ricercati e sopraffini comportino restrizioni vertiginose del campo armonico e spettrale degli strumenti preferiti.
In effetti e anche purtroppo, qualsiasi movimento capace di aprire prospettive panoramiche non deprime solo la fiducia e l’amor proprio del conoscitore istintivo e intuitivo del mondo: rischia pure di svalutare e declassare i coefficienti di nobiltà delle transazioni intime e private con cui ciascuno giunge a compromesso con le problematiche esistenziali più spinose, quelle che non si riescono a evitare o tacitare per quanto ci si affanni.
Alla fine basta poco, come riproporre l’alternativa tra finito e infinito locali (ovvero tra continuo e discreto), oppure la frazione 1 – 1/e (poco meno di due terzi) per dissolvere ogni promessa di metafisica ineffabilità in un andirivieni incessante tra i due poli dell’incomprensibilità più totale, da un lato, e del gioco di costruzioni fine a se stesse, dall’altro.
L’infinito, per quanto il platonismo matematico possa girarci intorno con i propri turiboli oscillanti nel vapore di uno scintillante incenso semantico, rende definitivamente incomprensibili agli umani le modalità di calcolo della natura, il finito le rende bizzarramente prosaiche (un vero e proprio lusus naturae) e 1 – 1/e (e = costante di Nepero) assesta il colpo di grazia, evidenziando come l’evento più assurdo e improbabile sia quasi il doppio più probabile della sua mancata apparizione dopo un numero di prove pari al reciproco della probabilità, un valore che, per quanto enorme, incommensurabile, sconfinato può sempre ricaderci tra i piedi come un piccolo ninnolo tintinnante dopo una indagine almeno approssimativa nelle dovute profondità ed estensioni degli opportuni scenari fenomenici.
Manco a dirlo, simili valutazioni prestano il fianco a presupposti a loro volta molto aleatori, come quando le cognizioni più diffuse in passato valutavano vicino alla certezza la probabilità che nel nostro universo si creassero ambienti planetari di tipo terrestre, mentre oggi si comincia a nutrire il dubbio che i perfetti bilanciamenti reciproci tra le masse e le orbite di pianeti, satelliti e asteroidi necessari a un minimo di stabilità di ogni analogo del sistema solare (e alla vivibilità delle superfici nella fascia riccioli d’oro) rendano questa evenienza forse addirittura più rara (o comunque di rarità similare) rispetto all’insieme di coincidenze che, nel giusto e rarissimo contesto ambientale, possono generare una cellula vivente in grado di replicare se stessa e dare il via all’avventura della filogenesi.
La probabilità effettiva dei singoli episodi in cui tale filogenesi si dipana, ivi compreso il presunto evento clou, ovvero l’insorgere nell’ultima microbica frazione di tempo planetario della specie in grado di considerarsi l’evento clou della filogenesi, rimane poi accuratamente celata nell’insondabilità sia qualitativa che quantitativa degli scambi genetici delle proliferanti specie inferiori e degli intrecci meiotici della molto più diluita riproduzione sessuale, meccanismi che è necessario quantificare da un punto di vista statistico per farsi una idea almeno vaga del numero di prove messe in atto (i giri di ruota della lotteria) per approdare a risultati la cui stima di probabilità preliminare è ancora più vaga.
Circa cinque miliardi di bit d’informazione, poco più dell’equivalente di un centinaio di bibbie kolibiane misurate a spanne, sono sufficienti a organizzare un essere umano e la sua anima immortale, ma il computo veramente difficile da definire non riguarda il DNA, ma la potenza d’informazione racchiusa nella procedura di costruzione effettiva e quindi in sequenze algoritmiche calibrate attraverso miliardi di anni di calcoli naturali spesi alla ricerca di un programma efficace.
Il DNA rappresenta solo la memoria permanente di bootstrap e una parte importante del sistema operativo, il resto lo forniscono i circuiti del computer messo a disposizione da Mamma o Matrigna Natura e i programmi di volta in volta sviluppati con collaborazioni interne ed esterne nei vari tipi di reti gerarchiche interne, restando la potestà maggiore, dopo la fase embriologica, in delega alle reti neurali.
E’ ovvio che la distinzione tra software e hardware si rivela molto più problematica quando si tratta di fenomeni naturali e non di apparati artificiali e proprio tale problematicità denuncia le schematizzazioni eccessive con cui siamo costretti ad affrontare intrecci ontologici che alla fine risulta sempre più facile manovrare che comprendere, anche se solo parzialmente in un caso come nell’altro.
Il concetto stesso di ‘comprensione’ è fortemente compromesso dagli strumenti usati e uno strumento che cerca di comprendere se stesso cerca di sollevarsi tirando i lacci degli scarponi o il codino come il barone di Munchausen, arrampicandosi sui vetri pur di non ammettere che un insulso giochino di costruzioni potrebbe generare un raffinatissimo strumento di comprensione decisamente troppo raffinato per accettare la giurisdizione di pochi tasselli interattivi e per giunta ammettere che non sono nemmeno quelli importanti, bensì un numero infinito di prove alla cieca.
Un numero talmente infinito che potrebbe perfino generare per caso un qualche dio o Dio o ‘Dio’ anche se poi qui ci dobbiamo fermare perché è letteralmente e definitivamente impossibile che lo strumento che cerca di comprendere se stesso possa anche comprendere come una entità non infinita generata dall’infinito possa manovrare, controllare e dirigere i propri strumenti di volontà e autocoscienza senza modificarli in modo involontario e incosciente ogni volta che lo fa, dedicando all’uopo tutti gli ingranaggi che servono, compresa la totalità dei sottoinsiemi dell’insieme degli ingranaggi, più che sufficienti a garantire che l’insieme dei sottoinsiemi dell’insieme dei sottoinsiemi dell’insieme originale non giochino brutti scherzi (la cosa non è provata al 100%, ma una divinità saggia deve darla per scontata se non vuole complicarsi una vita già grama o mentire ulteriormente a se stessa).
Se consideriamo lo iato inguaribile che sussiste tra azione e conoscenza, la loro imperfetta sovrapponibilità, dobbiamo in parte rivalutare il tecnologo non scienziato né tanto meno filosofo: se sufficientemente avveduto, costui si rivela in fondo un realista blasé e disincantato, pago del proprio orticello professionale e opportunamente fideista solo per quel tanto che favorisce la conservazione di un buon equilibrio mentale: egli fa e produce in base a piani contingenti e minuscoli.
Naturalmente una manovrabilità ristretta e relativa non può evitare vicoli ciechi e, per evitare la dispersione termodinamica di peraltro preziose facoltà e competenze, l’azione dovrebbe inserirsi in piani lungimiranti e globali, ovviamente non privatistici: purtroppo la cessione di competenze e prerogative private all’interesse pubblico richiede contesti opportuni e questi possono deviare dalle impostazioni preesistenti solo a condizione di conoscere le emergenze con un grado di sicurezza stratosferico rispetto alle possibilità reali e allora siamo da capo.
Comunque, tornando all’origine delle specie, ecco la domanda: possiamo considerare rari eventi generati da meccanismi che sembrano predisposti ad arte per favorire l’insorgere di eventi rari e casuali?
In un certo senso, la vita organica, fondata sulla tetravalenza del carbonio, si riflette in modo scheletrico e iper-semplificato in configurazioni inorganiche fondate sulla tetravalenza del silicio e qui possiamo riprendere l’analogia approfittando di una complessità più abbordabile.
Se consideriamo le combinazioni possibili dei vari elementi, le fluttuazioni dei vari rapporti in funzione delle variazioni di scala e dei diversi tragitti nello spazio e nel tempo all’interno degli ampi range litosferici di temperatura e pressione, quanto possiamo considerare raro un certo tipo di roccia?
Se tralasciamo gli exploit mineralogici e gemmologici di quella élite esibizionista che stressa inevitabilmente i più svariati contesti comuni, esiste una pietra rara?
Una pietra rara esiste come individualità specifica, ma come specie no: in una visuale sufficientemente ampia non può esistere la categoria di pietra rara, dato che le pietre rare non sono abbastanza meno frequenti delle pietre comuni per essere così definite.
Le pietre rare, infatti, esistono in migliaia e forse milioni di tipi, la maggior parte priva di denominazione alcuna, le pietre comuni solo in poche decine (si tratta ovviamente di un’affermazione concettuale e non strettamente tecnica).
Per gli organismi viventi il divieto di rarità è ancora più tassativo: una specie vivente o è rara e imprevedibile o non esiste.
Forse, quanto detto, può apparire un sofisma, ma bisogna stare molto attenti a distinguere i sofismi dalle ovvietà non riconosciute: un sofisma è trascurabile, una tautologia trascurata è una tara mentale che stravolge e avvelena un modo corretto di ragionare.
Rifiutandosi, per esempio, di assumere certi punti di vista biologicamente corretti sulle caratteristiche peculiari e profonde del mondo vivente e della selezione naturale si perviene a giudizi del tutto sballati sull’importanza da attribuire al concetto di biodiversità e da qui a minimizzare per certi versi o a esagerare per altri il valore delle singole specie il passo è brevissimo.
La negazione, il fraintendimento o la svalutazione della casualità/causalità di tutti gli eventi della biosfera rappresenta una pecca culturale che si connette in modo addirittura drammatico alla negazione, al fraintendimento o alla svalutazione della casualità/causalità dei dinamismi climatici, in ambito naturale, e delle tecnostrutture in ambito socio-economico.
Una sopravvalutazione invasivamente metodica del concetto di legge rispetto al potere dell’esplosività combinatoria, distorsione mentale inoculata fin dai primi banchi di scuola, oblitera per una sorta di auto-ipnosi sia la natura astratta, arbitraria e semplificante dell’intervento legislativo che l’essenza funzionale della stabilità di sistema.
Un sistema non è un insieme di interazioni sorrette dall’impalcatura di dispositivi immobili e tassativi, è una trama elastica, mobile, riverberante, rigenerantesi e auto-referenziale di dispositivi soggetti a pochi vincoli di valenza universale, uguali per tutti i sistemi.
Un sistema si regge sulla complessità delle sue interazioni; non è mai stabile e non si evolve, semplicemente muta e il grado di continuità o di cambiamento, la conservazione o meno di unità e coerenza, il suo persistere o stravolgersi o crollare, dipendono da quella complessità e dalla sensibilità che quella complessità manifesta rispetto alle fluttuazioni.
Al di là di poche e incredibilmente semplici leggi universali un sistema nasce e vive insieme alle sue leggi specifiche.
Qualsiasi attività cosciente interna al sistema, a prescindere da quelle che possano essere le sue illusioni, fa parte del sistema e di un sistema di sistemi che comprende tutti i sistemi con dipendenze e influenze reciproche.
Niente e nessuno può controllare esaurientemente la realtà di sistemi interattivi sufficientemente complessi, soprattutto se si trova all’interno di essi e perfino quando, entro un arco limitato di tempo, essi possano considerarsi in prima approssimazione un assetto chiuso o isolato.
Un’attività razionale e cosciente (termini che si danno qui come definiti e perspicui, ma che richiederebbero enormi sprechi di attività razionale e cosciente per una focalizzazione sempre incompleta e opinabile) può cercare di consolidarsi e tutelarsi solo attraverso interventi di prevenzione e schematizzazione normative, argini e indirizzi di pertinenza difensiva, filtrante, selettiva o inibente.
Un’attività legislativa umana può proporsi soltanto di correggere le proliferazioni distorsive.
Un’attività legislativa umana che punti a sviluppare energie creative diventa un controsenso, come spegnere il fuoco con getti di benzina.
Nessuno sul pianeta Terra ha mai cercato di spegnere il fuoco con la benzina finché, nell’uniforme, costante e indomabile tumulto degli automatismi produttivi, il verbo liberista è arrivato a sovrastare l’opposizione fisiologica tra una destra attivamente impegnata a regolare e disciplinare le reazioni dei ceti subalterni ed emergenti e una sinistra attivamente impegnata a ostacolare e ridimensionare le posizioni di dominanza economica.
Un governo politico (di qualsiasi colore!) non può prendere sul serio la possibilità di sviluppare una crescita economica equa ed effettiva (effettiva, ma equa!) se non proponendo l’azzardo di radicali riforme di sistema: senza di quelle, sarebbe come debellare una epidemia distribuendo in giro batteri innocui per togliere risorse a quelli cattivi.
D’altra parte, riforme vere e auspicabili possono senz’altro depurare e raddrizzare uno sviluppo sporco e contorto, ma quando si tratta di promuovere la crescita falliscono miseramente nel rendere sobrio e salutare quello che non lo è e non può esserlo: un dinamismo igienico non esiste in forme democratiche e chi pretende di attuarlo, come hanno preteso e pretendono forze egemoni, di destra o di sinistra, si millanta benefattore disinteressato, ma in realtà rappresenta le esigenze espansive di ben determinati interessi.
Qualsiasi autentica volontà riformista non può partire dall’assetto economico vigente, ma da esigenze fondamentali dell’individuo razionalmente individuate (il che naturalmente presume un substrato di umanità comune a fondamento di una razionalità condivisa) il cui complesso deve fungere da bussola di una ricostruzione contrattualista.
Visti i precedenti storici e l’estrema morbilità delle mitologie rivoluzionarie, sempre pronte a contagiare e dissolvere la radicalità progettuale, sarebbe forse meglio non indulgere a certe pericolose speranze, limitandosi alla ricerca di arbitraggi sportivi nella dinamica degli interessi, qualcosa forse di altrettanto leggendario del sogno giacobino, ma più consono al realismo del classico colpo alternato ora al cerchio e ora alla botte.
Il problema è, come più volte ribadito, che per stabilire la necessità di certe scomode intraprese, non si dovrebbero più ascoltare le ‘libere e incondizionate’ inclinazioni di un variegato corpo sociale, bensì ascoltare o auscultare il parere di certe istanze ‘superiori’ del pianeta che ci ospita.
E magari il ‘libero e incondizionato’ parere degli elettori vorrebbe forse meno improvvisazioni episodiche e di dettaglio e più progetti integrali, ma è impossibile saperlo se l’idea non viene neppure timidamente accennata.
A ogni buon conto, questo è più un testo critico propedeutico all’insorgere di quella che, secondo il latore del testo medesimo, sarebbe la mentalità ‘giusta’ e quindi conviene abbandonare per il momento il comodo crogiolo dei sogni e insistere sul versante negativo.
E allora ribadisco: se un sistema non è moribondo al punto da richiedere cure così drastiche da non poter risanare qualcosa senza al contempo pregiudicare qualcosa d’altro, sviluppa naturalmente ogni tipo di vitalità, ma quella che giudichiamo tale si porta dietro, in un modo o nell’altro, un incremento esponenziale di complessità foriera di criticità e ciclicità inevitabili, di brusche frenate e riavvii a scatto che diventano sempre più problematici e la cui risoluzione comporta cure da cavallo distruttive di democrazia sostanziale.
Una crisi denuncia un punto di rottura di una trama intricata laddove un bordo slabbrato dello squarcio in genere manifesta incompatibilità verso i fili dell’altro bordo: sarebbe geniale ricomporre l’unità intessendo fili più numerosi e delicati, ma anche se le volontà e le intelligenze volte in quella direzione potessero acquistare i poteri detenuti da ben diverse mire e aspirazioni, tempi ristretti ed emergenze incalzanti spingerebbero sempre e comunque verso rattoppi sbrigativi attuati utilizzando i filacci più grossi e resistenti di egemonie ancora più compatte e concentrate.
Il male peggiore, dando tempo al tempo, potrebbe rivelarsi proprio una crescita costante di vitalità abbinata a una complessità sempre più incontrollabile, contingenze dinanzi alle quali qualsiasi governo serio, invece di spegnere il fuoco con la benzina, dovrebbe almeno cominciare a interrogarsi sulla necessità di programmare e organizzare la messa in cantiere di una revisione progettuale dell’intero impianto, percependone la richiesta inderogabile in seguito al superamento di soglie pericolose riguardando le quali non è sufficiente l’opinabilità delle scadenze per negare il diritto a elementari e fondamentali principi di precauzione.
Un conto sono le opinioni, un altro l’oggettività delle incombenze: se si rivela un fronte di frana in movimento, non si aspetta la frana per dislocare gli insediamenti a rischio; per quanto la metafora possa apparire sviante o eccessiva, sintomi di evoluzioni almeno preoccupanti si possono cogliere fin da ora nel cuore stesso della dinamicità liberista, ovvero nell’effettivo funzionamento delle reti tecnologiche di pertinenza mondiale.
E’ facile ironizzare sugli economisti che vorrebbero spiegare, come i fisici, il 100% con 5 leggi e invece spiegheranno domani con 100 leggi un 5% del perché quello che avevano predetto ieri è fallito oggi.
La responsabilità delle magre figure degli economisti, categoria professionale che all’interno di singole aziende svolge più che egregiamente il proprio lavoro e che in un modo o nell’altro rappresenta nella stragrande maggioranza un punto di vista esclusivamente aziendale, deriva dalla scellerataggine di una politica che si mette nelle loro mani senza accorgersi che non si può affidare ai giocatori di una delle squadre del torneo il ruolo di arbitri.
Le magre figure diventano a volte iperboliche (anoressia pura) quando entrano in gioco i ministeri legati a questioni economiche, i quali non possono pontificare in piena e coerente parzialità, come, per esempio, è concesso agli organi di stampa della Confindustria o delle associazioni bancarie, ma devono obbligatoriamente credere a una oggettività ecumenica garantita da leggi sempiterne preposte al benessere generale, tutto ciò nel bel mezzo di una palude ventosa in cui l’unico principio di conservazione, quello che garantisce la tenuta e la quasi stabilità toroidale delle traiettorie, si chiama gerarchia del profitto.
Togli quella, ripristina il mercato mitologico dei platonici marginalisti, e va tutto a ramengo: ogni listino di quelli che il ricco investitore controlla trepidamente di primo mattino (azioni, obbligazioni, valute, derivati sull’oro o sul letame, futures sui pannoloni, vendite allo scoperto sui pannolini...) comincia a ballare il ballo di san Vito, qualsiasi fallimento si estende a macchia d’olio senza possibilità di rimedio, l’anarchia sindacale prende il sopravvento e l’imprenditore schiavizzato si danna l’anima solo per mantenere il posto di lavoro a quelle maestranze astute che hanno deciso di mungere la vacca del capitalismo invece di mangiarsela subito e rimanere soli e affamati in compagnia del comunismo.
E’ notorio, infatti, come l’imprenditore compagno di strada, l’imprenditore della porta accanto che vuol farti sentire inferiore sia detestato dalla quasi totalità della popolazione mentre uno come Bill Gates è quasi meglio di un divo del rock o di Montalbano, anche se bisogna dare atto alle televisioni libere di dedicarsi a far capire alla gente che non tutti possono occuparsi di cose belle, vivaci e spiritose o di altissima tecnologia e un imprenditore poco marginalista che può permettersi la barca a Portofino non è poi così male anche se si occupa di ricambi per sanitari invece che di moda, spettacolo o design.
Siano rese dunque somme grazie e solenni lodi ai supremi consigli oligarchici così ben graditi a destre e sinistre entrambi assennate e perbene (del resto, se le cose non cambiano, ha voce in capitolo solo una classe dirigente omogenea e solidale con se stessa, che differenzia l’offerta per puntare ai target antropologici di clientele diverse) purché si valutino attentamente i seguenti punti:
a) una gerarchia del censo non è una corte divina disincarnata: si regge su utili di bilancio e partecipazioni agli utili, quindi su un immane bottino contendibile e conteso che determina il flusso e riflusso incessante di turbolenze insanabili e il caos sistematico delle competizioni di tipo darwiniano;
b) le dinamiche del profitto non ammettono equilibri stabili e neppure attrattori univoci e questo, molto banalmente, perché le forze che vi accedono si commisurano non al rispetto, bensì al sovvertimento delle regole consolidate, la cui riscrittura perenne costituisce l’infido contraltare delle polarizzazioni aggreganti e semplificanti imposte nell’economia reale dai rapporti di forza e nell’economia politica da minimali esigenze di ordine e normalizzazione;
c) come nelle corti dei despoti shakespeariani, l’alter ego di un olimpo egemonico, lo scotto da pagare all’ordine mandatario del privilegio impositivo, per quanto si travesta di amabilità e condiscendenza democratica, risulta sempre l’instabilità bipolare o multipolare, per cui ogni società moderna, oscillando tra l’autoritarismo verticista da una parte e la complessità che entro limiti che nessuno conosce si autogoverna, rischia una rottura che per la prima volta nella storia esula in gran parte dalle facoltà e dalle competenze umane e diventa questione planetaria.
Inoltre occorre non sottovalutare mai gli aspetti più volgari e deteriori, quel grottesco della natura che emerge in modo inquietante quanto ipnotico e affascinante dai migliori documentari naturalistici, quell’orrore pieno di malia che trasferito in contesti umani, benché, a ben guardare, continui a trattarsi di qualcosa di affine, perde ogni malia e diventa orrore puro legato a perversioni, avidità, corruzione, soprattutto corruzione nel caso della politica, dove ci si avvezza a criticare molto le ideologie e mai le borse e i portafogli che le ordinano, dove l’abominio razzista è perdonato se deriva da tattiche elettorali finanziate da eminenze grigie munite di buone e paternalistiche intenzioni.
La mantide che si divora il compagno e un cimitero dei narcos, le fonti vive di cibo nei formicai e la pornografia dei sentimenti con cui si pavoneggiano in pubblico despoti e assassini, esempi che valgono per milioni di altri, caratterizzano un medesimo tipo fondamentale di quella terribilità barocca che un animale applica alla sua infima nicchia, l’umanità a tutto un pianeta.
La differenza cruciale tra il grottesco della natura e quello dell’umanità si può cogliere camminando in boschi abbastanza isolati (ma non troppo) perché la presenza animale superi quella umana (senza esagerare): anche lì è molto più facile trovare cose come tappi di bottiglia o fazzoletti di carta che indizi di diverse presenze, segno che, da un punto di vista… diciamo igienico-sanitario, la natura è pulita, l’umanità molto meno.
L’impronta sul pianeta dell’umanità supera ormai ogni decente e umano concetto di umana decenza.
Le sofferenze procurate ad animali per la sperimentazione scientifica probabilmente superano di diversi ordini di grandezza le nefandezze di nazismi e stalinismi e le medesime nefandezze, ancora probabilmente, sbaragliano l’intero carico di sofferenza dell’intera storia filogenetica precedente all’arrivo degli homo, ma, per nostra comune fortuna, è molto improbabile che tali affermazioni si possano mai provare.
Il Dio dell’universo probabilmente potrebbe, ma altrettanto probabilmente un Dio di qualsiasi universo ha cose più importanti a cui dedicarsi se vuole che un universo, un qualsiasi universo, semplicemente accada.
Eppure, se una persona a cui tengo moltissimo fosse salvata da morte sicura per le virtù di un particolare trattamento e io scoprissi che quel trattamento è stato messo a punto grazie a ricerche di laboratorio eseguite su animali usati come cavie, seduta stante mi ritroverei, né più e né meno come chiunque altro, nello stato d’animo di giustificare l’intero sterminato complesso delle ricerche analoghe.
Esiste prova più decisiva e inconfutabile dell’assoluta relatività di qualsiasi atteggiamento morale come dell’estrema soggettività di ogni giudizio istintivo avulso da qualsiasi considerazione di una oggettività indipendente e neutrale?
Ogni specie biologica gioca la partita a cui in un certo senso è destinata dall’assenza di un piano immanente che non coincida con la partita medesima, ma solo una specie ha avuto finora la possibilità di definire se stessa ‘razionale’ o ‘irrazionale’.
Per questo e solo per questo un tyrannosaurus rex o una tigre con i denti a sciabola sono innocenti, ma gli uomini no: perché razionalità, moralità, innocenza sono concetti umani con cui l’umanità non ha fatto bene i conti.
TAVOLA SINOTTICA N.3
17 MARZO 2019
Non tutti amano i Kolibiani, ma chi non li ama forse non dà il giusto peso a un vecchio adagio che recita: ambasciator non porta pena.
L’ultima ferale notizia che ai Kolibiani o almeno al suo malcapitato capo delegazione tocca ora diramare è la seguente: nel mondo gli scienziati si stanno estinguendo, sostituiti dalla specie intellettuale dei tecnologi, molto meglio adattata al caos sistematico dell’indeterminazione liberista.
A chi sta tirando un sospiro di sollievo al pensiero che non sembra proprio una calamità di cui preoccuparsi, dico che mi fa piacere che non sia turbato, ma inoltro anche l’invito, in modo che possa assorbire in via omeopatica le rivelazioni successive, a predisporsi a una visione meno anodina di tutta la questione.
A chi invece ama la suspense cinematografica e le atmosfere thrilling posso diluire la delusione rimandando a più sostanziosi annunci successivi riguardanti i destini escatologici dell’economia e la regina dei gas serra.
Ci sarebbe anche da dire che, per quanto riguarda le faccende di alto profilo di cui sono soliti occuparsi i Kolibiani e soprattutto il loro massimo campione, niente è più relativo di un’attribuzione di sgradevolezza.
Mi spiego: un kolibiano può ritenere sgradevoli certe mutazioni delle impronte caratteriali necessarie a superare indenni i cimenti e le sfide della vita relazionale e comunitaria che si viene determinando, ma tutt’altro giudizio emetteranno i beneficiari di quei ritocchi, magari kolibianamente criticabili, ma pur sempre, in qualche modo, vittoriosi (della serie: ‘la specie che si adatta ha sempre ragione’).
Analogamente, prospettive del tipo ‘dopo di me il diluvio’ possono suonare tristi, ma anche in qualche inconfessabile modo lenitive dell’assoluta, irrimediabile solitudine qual è per ciascuno l’esperienza, chiamiamola così, della propria morte, per cui il nodo da dirimere riguarda il ‘dopo’ della frase, ovvero se sia effettivamente tale o rischi di diventare un ‘durante’, nebulosa questione nelle cui complicazioni di dettaglio si disperde l’emotività degli echi.
E ancora: ci si deve rallegrare perché, in qualche decennio, i laureati sono saliti in percentuale o rattristare perché nello stesso periodo di tempo i laureati in grado di comprendere e quindi di esecrare a dovere testi multidisciplinari come la Bibbia Kolibiana sono quasi spariti?
Di sicuro non è bello non poter proclamare con forza, per carenza di addetti, che una dimostrazione di una corresponsabilità generale nel genocidio di posteri neanche tanto lontani si affida ad argomentazioni difettose e alla fine racconta soltanto un mucchio di scemenze.
Nel frattempo, per insaporire un po’, sentite anche questa: pare che una buona parte, se non la maggior parte, di questi tecnologi (e magari proprio quelli meno osservanti) creda in Dio (un Dio buono, perché in un Dio indifferente o, peggio ancora, giusto, anche gli scienziati in qualche modo credono).
Come per il termine ‘populismo’, infatti, anche nominando ‘Dio’, le virgolette si possono togliere o mettere a piacere (non in questo caso, però).
Un Dio giusto non si limiterebbe a fare il Ponzio Pilato, un Dio giusto non potrebbe evitare sanzioni derivanti da leggi naturali contro l’hybris in generale e soprattutto contro l’hybris umana.
Un liberalissimo kolibiano, però, non dovrebbe fornire anche il minimo appiglio al sospetto di stigmatizzare qualche specifico tratto psicologico o culturale, ma un liberalissimo kolibiano sospetta, ahimè, che un tecnologo che crede in Dio o ‘Dio’ rappresenti, dietro apparenze esattamente contrarie, l’esemplare massimamente illiberale della specie homo.
Per comportamento liberale, un kolibiano intende infatti, non solo e non soprattutto ‘permettere a un qualsiasi individuo di pensare e dire qualsiasi cosa nei limiti della decenza, tanto poi chi decide si sa’, bensì soprattutto ‘concedere a un qualsiasi individuo possibilità non irrisorie di organizzarsi a suo modo, con tutta la calma e la distensione necessarie allo scopo, alcuni tratti salienti della vita’ o anche ‘non attentare ad alcune condizioni inalienabili ed essenziali ai fini della conduzione almeno parziale di una esistenza spontanea secondo tratti specificamente individuali’.
Ma, prima di procedere oltre, sarebbe meglio chiarire che cosa s’intende con i termini ‘scienziato’, ‘tecnologo’ e ‘Dio’.
Poiché una procedura assiomatica definisce assiomaticamente le proprie entità (una definizione che non costituisca una sorta di assioma complementare o non si definisca implicitamente all’interno degli assiomi non serve) e questo è un testo filosofico-letterario con qualche pretesa assiomatica (un inclassificabile ircocervo del genere) posso solo rinviare al prosieguo del testo il fan volonteroso provvisto di nozioni tradizionali e intuitive sul significato dei vocaboli in oggetto.
Solo una breve chiosa sul termine ‘Dio’: che non si possa definire ce lo insegnano i veri credenti (anche se a onor del vero, in questo sito qualche approssimazione intuitiva per analogia ho provato a proporla contraddicendo me stesso e non facendo neppure un buon servizio ai veri credenti desiderosi di non sapere), ma è l’accostamento a tecnologo che merita qualche chiarimento perché corregge in qualche modo l’apprensione (o non apprensione) consolidata dei singoli termini.
Siccome mi sono già abbastanza avvitato distogliendo dal filo principale del discorso (?) il lettore ansioso di procedere e scoprire altre rivelazioni, con il rischio di incutergli dubbi e timori sulla possibilità materiale di seguire quel filo, mi limiterò alla seguente avvertenza: per quello che io intendo con ‘tecnologo’ (un tecnologo non scienziato), un tecnologo non esiste senza fede.
Ed eccoci allora a dover definire il termine ‘fede’, ma a questo punto non ci casco più, aggiro le trappole disposte ad arte da chi vuole sabotare il mio excursus e vado avanti
Un tecnologo, che creda in Dio oppure no, può essere la persona più mite e disponibile della Terra e, dal punto di vista psicologico, credere in Dio comporta tratti positivi insindacabili: è la connessione tra potere teocratico e potere tecnocratico che spaventa i kolibiani.
Non si può d’altra parte negare con certezza assoluta che un kolibiano, dopo essere morto, potrebbe rimanere sorpreso.
Potrebbe avere tante smentite diverse del suo scetticismo, potrebbe per esempio risvegliarsi al cospetto di un signor Dio che gli si rivolge parlando più o meno così: “Ah, ecco un kolibiano! Complimenti! Come quel ricco che si finge povero per incontrare un’anima gemella che ami lui e non i suoi soldi, ho fatto di tutto per dissimulare il mio coinvolgimento nel mondo e lasciare da solo il mondo (ovvero il prodotto del mio genio e della mia creatività) a parlare di se stesso. Niente da fare! L’unica specie che poteva apprezzare in pieno la mia opera e giustificarla per quello che appare ha finito per arrogarsene tutti i diritti. Dei suoi membri, i più non hanno amato l’opera di cui sono stato capace, ma piuttosto quel potere invisibile che, secondo loro, da qualche parte doveva saltare fuori per forza anche se io l’avevo dissimulato in tutto e per tutto. L’umanità non ha amato il mondo, ma quel potere sul mondo che ha attribuito a me al solo scopo di potersene fare interprete e depositaria assoluta. Per quanto sembra incredibile a dirsi, vista e considerata la media dei comportamenti, l’umanità ha amato soltanto se stessa! Vieni, kolibiano, siediti accanto a me, aiutami a elevare un po’ il tono di questa parodia del giorno del giudizio e insieme sbeffeggiamo queste anime tronfie e la supponenza dei loro cervelli di potersi elevare a padroni e giudici di un intero pianeta. Comminare deliberatamente punizioni è proibito dal Consiglio Superiore degli Dei Assoluti e Monoteisti e poi ripugna anche a me. Li abbuffo di piaceri terreni o li faccio dolcemente e lentamente sciogliersi nel nulla come ogni uomo in condizioni molto critiche dovrebbe, a sua discrezione, poter pretendere alla stregua di un inviolabile diritto previdenziale? E va bene, in fondo se lo sono meritato, hanno lavorato e penato tanto, sono andati in giro dappertutto a scalmanarsi come volonterosi pazzoidi: abbuffiamoli in eterno di piaceri!” E qui si ode una cavernosa, tonitruante risata che riecheggia vibrando e rimbalzando in una rete infinita di volte infinite. L’ultima immagine è uno zoom aereo che sorvola planando un intreccio di spiriti eccelsi oscenamente avvolti in un parossismo di esaltazione orgiastica. Dissolvenza, schermo nero, titoli di coda e applausi.
Un kolibiano è sempre disponibile al dialogo e quindi invita chi intrattiene un colloquio intimo, assiduo, privato, continuo e diretto con Dio a notificargli il motivo per cui all’appuntamento fatidico le cose non potrebbero andare così.
Però, accidentaccio e caspiterina, chi sarà mai un kolibiano per potersi permettere tali presuntuosi e scellerati azzardi alle somme altezze di problematiche così ardue e capitali!?
Ma per un kolibiano autentico e originale dubbi e quesiti del genere semplicemente non hanno senso: se esistono di fatto e non per finta possibilità di indagine culturale e di agibilità democratica non esiste una sacralità riservata a olimpi di varia natura e se esiste una sacralità riservata agli olimpi non esiste di fatto alcuna democrazia o libera cultura, sostituite da iniziazioni e consacrazioni.
Dopo di che un kolibiano si domanda: quelli che hanno voce in capitolo sulle questioni supreme rivelano quasi tutti infallibilmente i segni della trasfigurazione divina mentre pochi, pochissimi, si limitano a uno spiccato talento diplomatico utile a cavalcare le opportunità coltivando abilmente i legami e le alleanze sociali che contano?
Gli spiriti nobili subissano le anguille calcolatrici?
Ricordiamoci sempre Totò, forse l’unico aristocratico che abbia mai veramente incontrato le simpatie del popolino: “….. ma mi faccia il piacere!!!”
Solo il fanatismo invadente e nocivo dovrebbe subire un ostracismo assoluto.
Indegnamente omaggiando un’antica sapienza refrattaria a quella falsa modestia così tipica delle astute mistificazioni moderne, la mia parabola zen (nella prolissa veste occidentale di favoletta allegorica) intendeva proprio instillare il sospetto che con moralità eccelse e discriminazioni gerarchiche infarcite di false tolleranze che si rivelano mere accondiscendenze formali... non si va da nessuna parte.
Soltanto regole e leggi di pertinenza comportamentale e funzionale meritano una considerazione effettiva, vincoli e libertà di ordine sociale non vanno riferiti ad altro, tutto il resto concerne una sfera individuale a cui si deve concedere il massimo coefficiente di arbitrio compatibile con una reciproca innocuità.
Finché si ha a che fare con assassini seriali o sadici psicopatici, in versione politica o meno, è facile tracciare linee di demarcazione nette tra il lecito e l’illecito (del tutto inutili e controproducenti, purtroppo, dal momento che la deviazione psicotica è incitata e non tenuta a freno da tali disamine), ma agli estremi opposti della normalità, nei termini molto più ordinari di giudizi coinvolti con le complicazioni quotidiane, non esistono criteri che permettano di distinguere in modo così facile quali atteggiamenti esistenziali e normative generiche consentano gli approcci più costruttivi e meno indolori per tutti gli interessi coinvolti.
Non esiste etica immune da interessenze sistemiche, come del resto non esiste etica assolutamente svincolata dagli interessi.
Ciò che viene definito ‘etica’ non risulta alla fine che un modo più o meno soggettivo o canonico di misurare e classificare gli interessi secondo procedure inevitabilmente all’oscuro di una miriade tra condizionamenti, casualità, interferenze.
L’etica è un pallido surrogato del Progetto, la finzione necessaria e obbligatoria per ruotare lontano dalla tacca fatale il contatore della bomba a orologeria nascosta in ogni essere umano: è il Grande Fratello benevolo del male minore.
Chi è senza etica può rappresentare metaforicamente una sorta di bomba a orologeria, ma anche l’etica sbagliata al momento sbagliato configura pericoli simili e che cosa è giusto o sbagliato e in quale momento non lo decidono gli uomini, ma Dio o ‘Dio’ e forse Dio a volte non è la stessa cosa (ma forse, qualche altra volta, sì) di ‘Dio’.
Niente sarebbe meglio dell’etica se non dovessimo fare i conti con il giudizio di Dio avverso all’hybris umana.
L’hybris umana va misurata scientificamente, non esistono alternative per fenomenologie così affette da bias cognitivi.
Onestà, trasparenza, profondità e disponibilità scientifiche costituiscono allora il massimo bene e il contrario (ovvero frodi e menzogne scientifiche) il massimo male, il che non garantisce in alcun modo, è inutile illudersi, il traguardo di verità univoche e incontrastate.
Di sicuro l’interesse economico privato intorbida ineluttabilmente le acque delle verità possibili, per rendersene conto basta guardare al dibattito sulle fonti energetiche e alle palesi contraddizioni e parzialità di cui s’infarcisce.
Il rischio maggiore, quando si tratta di interessi economici verticalizzati ed esclusivi, non consiste comunque nelle falsità o parzialità contrapposte, bensì nello scivolamento graduale verso uniformità che testimoniano soltanto la direzione in cui si indirizza la maggioranza dei grandi capitali privati, promuovendo forse e solo in parte l’utile collettivo, ma corrispondendo di sicuro e quasi per intero alle convenienze degli investimenti e dei relativi profitti.
Il presupposto di una convergenza automatica tra interessi economici e bene collettivo denuncia illusioni pianificate e pregiudizi metafisici e ideologici particolarmente pericolosi in condizioni di mercato imperfetto e anzi prevalentemente collusivo e oligarchico.
Non vorrei però che qualcuno degli ultimi giudizi inducesse le persone intelligenti e concrete (che, rapide e agili, arrivano all’osso saltando o fraintendendo il 90% dei paragrafi) a concludere che sto conducendo un’apologia di Hitler o di Ted Bundy e costringesse il liberalismo del ‘pensa e parla come vuoi, ma poi fai quello che ti dico io’ a trincerarsi dietro le diffidenze verso gli intellettuali, le lese maestà inammissibili e quei processi per diffamazione che sono tra gli sport preferiti da parte di chi ha soldi da investire in avvocati (l’unico prodotto finanziario che può offrire probabilità favorevoli di rendita a parte la mungitura dei piccoli investitori attraverso il marketing del raggiro programmatico gestito da appositi istituti).
La morale comune o più diffusa, infatti, consente a ciascuno di pensare e dire quello che vuole, purché non coltivi la pretesa di scalfire valori indelebili che prescrivono una volta per tutte come il mondo deve essere e come vi si deve agire!
Questi valori intoccabili a garanzia di poteri legittimi o, detto più semplicemente, legali, hanno sempre avuto nel corso della storia il valore incommensurabile non di essere valori, bensì di essere intoccabili.
Se un valore può essere messo in discussione da un pincopalla qualunque, che razza di valore è?!
In qualsiasi civiltà, scienza e morale, se progrediscono, progrediscono insieme e alla fine è ben difficile che non finiscano per farsi lo sgambetto almeno in qualche punto del cammino, per questo in qualche modo, prima o poi, bisogna scegliere, ma, mentre i ‘valori veri’ sono intoccabili per definizione, la scienza, anche senza popperiani in poppa, per definizione è toccabile, quindi per i ‘poteri costituiti’, i quali, per guadagnarsi una riverenza fabbricata in economia, necessitano di capisaldi robusti e sicuri, è abbastanza facile scegliere, in particolar modo quando della scienza si rende disponibile un surrogato molto più concreto, affidabile e soprattutto manovrabile: la tecnologia, appunto.
La tecnologia è la ‘scienza del fare’, la scienza dei moderati d’assalto che aborrono i teatrini da cui non possono riscuotere incassi, una scienza che, con le amicizie giuste, fabbrica e comanda: la scienza moderna propriamente detta è nata invece come ‘filosofia naturale’ ai tempi paleolitici di Newton e Cartesio, e tale, per menti che sono fossili viventi, è rimasta.
Per una filosofia e per giunta naturale un re rischia sempre di essere nudo e come fa un re a governare nudo?
Un qualsiasi potere non ha bisogno di filosofia (figuriamoci!), ma di una zecca o una banca centrale che stampi valori sia morali che economici.
Questi valori, al giorno d’oggi, anche quando sembrano religiosi, sono valori del liberismo o dell’anti-liberismo economico, dove l’anti-liberismo nasce con un difetto intrinseco e consustanziale: ha bisogno del liberismo per esistere esattamente come la sinistra extraparlamentare dei bei tempi andati aveva bisogno del fascismo per non precipitare in manicomiali crisi di identità.
Il liberismo, come ogni vera cultura, non permette dubbi su che cosa è veramente importante: un 60% di consensi, per esempio, ben lungi dall’esserlo, rappresenta una specie di epidemia della mucca pazza, riconducibile a un sano e ponderato 30% con il proselitismo delle buone maniere, con quella persuasiva didattica, cioè, che si sostanzia metodicamente di serrate industriali e ricorsi a quella magistratura davvero democratica che sa distinguere gli studi professionali seri dai donchisciotte dilettanti e cialtroni.
Paradossalmente, questo aspetto creativo ed elitario del liberismo piace un sacco alla controcultura popolare quando viene estratta dalle taverne e dai cabaret di periferia per essere consacrata presso il ‘grande pubblico’ delle ‘televisioni libere’, che così confermano la vocazione espansiva e plebiscitaria del folclore alternativo coadiuvato dai giusti finanziamenti.
In fondo, le basi del liberismo o almeno di una sua legittimazione sono state poste dalla critica distruttiva di relativismi e antropologismi culturali che, dopo aver scoperto l’acqua calda delle illimitate acrobazie morfologiche delle azioni e interazioni umane negli abissi e nei labirinti della polisemia comunicativa (un sacco di grandi scrittori, anche delle tradizioni antiche, ci erano già arrivati senza fare tanto baccano), invece di dedurne l’ovvia necessità di una accurata regolazione tecnica e funzionale degli aspetti economici, ecologici, biologici eccetera attinenti alla presenza umana nel mondo, invece di esaminare precondizioni materiali razionali e credibili a un’autentica libertà ‘spirituale’ come rimedio per placare l’ira divina del caos, non hanno trovato di meglio che invocare il sacrificio della mentalità scientifica alla santità etica dell’umanità una, trina e solidale.
L’artista popolare deve ritenersi in qualche modo il figlio beneamato di qualche forma di caos creativo analogo alla scrittura automatica surrealista: come potrebbe altrimenti dimenticare timori e tremori e fissare gli occhi di medusa di quel mostro pluricefalo affamato di individualità da sbranare in cui tumulta con il suo urlo di Tarzan la docile sudditanza al potere del pubblico sovrano?
E’ anche grazie alla progenie degli intellettuali sessantottini se gli scienziati oggi si stanno estinguendo e i tecnologi fideisti traboccano da ogni angolo re-incantando il mondo con gli effetti speciali dei loro stupefacenti giocattoli.
Vuoi mettere il potenziale sovversivo e liberatore di pirotecnici videogiochi accanto alla noia sepolcrale della progettualità sistemica? Questa ultima va bene per scherzare, ma ai videogiochi per comitive e ai cantastorie per concerti in Vaticano o al Quirinale tocca la missione solenne e impegnativa di dettare le linee strategiche e sovrintendere alle palingenesi regnando nelle riserve esclusive predisposte ad arte dalle sezioni ‘Matrix’ del capitalismo mecenate e filantropo.
I tecnologi fideisti, in omaggio al principio di indeterminazione liberista (il determinismo è sempre il nemico e il Dio assurdo e imperscrutabile l’amico) agiscono in un cerchio di luce chiarissima e strettissima.
Più chiara è la luce, più ristretto è il cerchio, se L è la luminosità e R il raggio LR deve essere inferiore o uguale a un kappa molto piccolo.
Così la luce della verità è una solida conquista personale mentre l’immensa oscurità circostante è il regno delle allettanti promesse, ricco di premi per l’abilità e la profondità dimostrate.
In quell’oscurità impenetrabile si può spazzare via con la sovrana noncuranza del piccolo demiurgo di alto lignaggio e generosa famiglia la quota di entropia in eccesso che compensa mediante uguali quote complementari, più commissioni e interessi, l’ordine maniacale di calibratissimi congegni.
Per esempio, necessitando di ambienti impenetrabili a qualsiasi interferenza, anche la più piccola, per non perdere la propria purezza e non cadere nel peccato della decoerenza non voluta (il collasso delle funzioni d’onda senza le autorizzazioni del mago), un computer quantistico effettivamente funzionante, se mai ce ne sarà uno, dovrà ‘naturalmente’ privilegiare sedi aristocratiche ed esclusive da cui potrà analizzare e addomesticare l’anarchia delle reti computerizzate ordinarie, ripristinando per verdetto inoppugnabile della vera scienza tecnologica, la giustezza e santità del privilegio gerarchico.
Per esempio, giovani ingegnosi meritevoli dell’attenzione del venture capital, con qualche buon santo in paradiso e buona dea della fortuna che tifano per loro, possono contendersi i trofei consistenti nei generosi assegni delle multinazionali che come talent scout dal fiuto infallibile si aggirano per le bancarelle del libero mercato mondiale, comprando quello che merita, sia che possa contribuire a consolidare il loro potere sia che possa recargli fastidi e vada per questo sottratto alla libera scelta dei sudditi.
Analogamente, una tecnologia semplice ed economica che conduce a ottimi rapporti costi / prestazioni, potrebbe risultare vincente in una effettiva competizione di libero mercato, ma potrebbe anche disturbare tecnologie più costose e redditizie, risultare non brevettabile o non ripagare comunque gli oneri della ricerca, facilitando troppo outsider e start up: un buon trust che si rispetti deve quindi poter correre ai ripari se vuole soddisfare gli azionisti e dare una ragion d’essere alle lobby che bazzicano i corridoi dei ministeri.
In una effettiva economia di mercato il caso giocherebbe a favore di tutti (per il semplice motivo che moltissime importanti scoperte avvennero, avvengono e avverranno per caso), ma in una economia dove i costi proibitivi della ricerca sono accessibili solo alle grandi corporation il caso è una specie di sberleffo, di pernacchia laida e oscena rivolta a quei cerchi privilegiati in cui si concentrano i grandi investimenti: va quindi abolito, perseguito, demonizzato e quando nonostante ogni precauzione profilattica sfugge a lazzaretti e quarantene, va tolto di mezzo con le buone o con le cattive.
Un buon trust che si rispetti deve inoltre lucrare al massimo sulle novità e gli ampliamenti introdotti, lasciando poi alla collettività e alla libera iniziativa del pubblico sovrano, che si aduna festante a inaugurazioni e premiazioni, i costi, lievitanti oltre ogni limite di guardia, delle conservazioni e manutenzioni di un profluvio di ‘grandi opere’ che prima brillano di celeste splendore, poi si posano sul territorio un tempo incontaminato come tanti culi scoppiettanti di giganti incartapecoriti.
Io sinceramente non ho mai capito com’è e come non è che, se il mercato perfetto rappresentava il sistema migliore in assoluto ai fini di una corretta ed efficiente allocazione delle risorse secondo il credo che per decenni ha predicato l’ortodossia economica, adesso, nonostante la logica basilare non dovrebbe subire il logorio del tempo, il capitalismo oligarchico che sta conquistando i mercati dell’ecumene non rappresenta il sistema peggiore in assoluto ai fini di una corretta ed efficiente allocazione delle risorse secondo il credo attuale e futuro dell’ortodossia economica.
Ma io non sono molto intelligente: non capisco nemmeno perché il concetto di concorrenza e di competitività risulti anch’esso così ballerino, coreografo e ballerino-coreografo: perché, per esempio, abbandoni con acrobatici salti determinati settori per imperversare sempre di più in altri di più modesto, quasi volgare e logoro pregio nonché infima rinomanza, dove diventa un castigamatti e un flagello di Dio.
Se lo capissi, capirei anche come fa la scienza economica ad assecondare con tanta flessibilità le contorsioni convulsive della cronaca e della storia, pur cementando con teoremi inflessibili la stabilità finanziaria del momento espressa secondo il criterio base assoluto del ‘chi è grosso al momento comanda al momento’, ma se capissi tutto ciò dovrei anche concludere che la scienza economica richiede le virgolette: è la ‘scienza’ che indaga e scopre i fenomeni su mandato e commissione del migliore offerente, come fanno tutti gli stipendiati di lusso, in effetti.
Proprio sugli stipendiati di lusso verte il problema (solo uno stupido come me non lo capisce).
Venendo meno la separazione tra proprietà e management nell’impresa privata e quella tra funzione politica e funzione economica nell’amministrazione pubblica, ai vertici qualsiasi criterio di indipendenza nelle valutazioni e di reciprocità nei controlli è venuto a cadere: una certa categoria di professionisti decide da sé i propri emolumenti e siccome l’omo è omo e i soldi non si creano dal nulla, quando le buste paga eccedono mediamente i limiti della misura e della ragionevolezza, per non aggravare disavanzi pubblici di cui ormai si è approfittato al massimo del possibile, il denaro deve essere procacciato acquisendo i fondi da altre categorie che potrebbero trovarsi più in alto o più in basso, se le categorie più autarchiche in quanto a provvigioni non si trovassero al di sopra o al massimo alla pari di tutte le altre.
Se qualcosa si può dire di positivo intorno agli ultimi decenni del XX secolo è questo: i fondi per foraggiare gli stipendi e le future pensioni delle corporazioni operaie e impiegatizie adeguatamente sindacalizzate provenivano indifferentemente dall’alto e dal basso, anche se di fatto coinvolgevano le finanze pubbliche grazie all’evasione fiscale e a una miriade di altri sotterfugi distribuiti bene o male lungo la scala sociale secondo necessità competitive o di sopravvivenza, e intanto carrozzoni e macchinoni statali democraticamente ascoltavano e concedevano oculata udienza alle rivendicazioni più disparate, astenendosi, esattamente come oggi, da ogni giudizio che non fosse la pura e semplice valutazione dei rapporti di forze.
Solo quando i rapporti di forza sono stati sufficientemente testati, sondati, acclarati, è stato possibile identificare quali dei livelli superiori (superiori senza esagerare) si mostravano più idonei a fungere da ufficiali pagatori: il ceto medio delle professioni e attività indipendenti, dei quadri intermedi e della piccola e media impresa effettivamente di rischio (o almeno quelli meno idonei a risarcirsi con espedienti vari, più o meno legali o criminosi).
Così, gli olimpi della nuova aristocrazia hanno preso due piccioni con una fava.
Eh, sì, perché, sfiancato in un primo tempo l’imprenditoria di piccolo cabotaggio, è stato facile in un secondo tempo, prove empiriche di disagio e debolezza alla mano, stemperare le tracotanze sindacali anche e soprattutto grazie all’internazionalismo osannato a sinistra.
Insomma, ecco qua: la grande impresa non puoi farla incazzare perché prende baracca e burattini e si trasferisce altrove, quella media o piccola con troppe tensioni non sta in piedi.
In entrambi i casi la soluzione non lascia molta possibilità di scelta, diciamo pure che è obbligata: impone di saccheggiare i diritti del lavoro in special modo giovanile.
Lascia tempo al tempo e la stratificazione sociale, a grande linee, tende a diventare più o meno questa: olimpi oligarchici che decidono il destino di tutti, il tessuto delle imprese di rischio effettivo a cui è assegnato il compito di genio o di vampiro e la massa crescente di chi conta zero politicamente ed economicamente.
La genialità si manifesta cogliendo opportunità inusitate o accedendo a innovazioni incisive (che poi le multinazionali e la galassia finanziaria in un modo o nell’altro fagocitano), il vampirismo lo applichi nei confronti di uomini, cose e ambienti se hai il pelo sullo stomaco per sopravvivere a una lotta gladiatoria.
La massa, purtroppo, cresce di numero e crescendo di numero diventa pericolosa, ma per fortuna, almeno nelle nazioni maggiormente sviluppate e almeno finora, non è ridotta all’indigenza, può contare sul grasso dell’eccedenza che cola da ogni parte e su vari sollucheri e circenses a prezzo contenuto, almeno finché il pianeta regge la pressione che, per dare anche all’ultimo cesarino quello che è di cesarino, deve accumularsi sulle sue titaniche, ma purtroppo ormai stanche, fibre muscolari.
Il paradossale risultato di tutto ciò è una sorta di antiecologico comunismo delle vacche grasse, il comunismo del paese di Bengodi dei comunisti che più anticomunisti non si può, il comunismo delle nomenklature allegre e positive, della società dello spettacolo e delle televisioni libere, della ricchezza che fluisce nella rete ‘scale free’ concentrandosi negli ‘hub’, il comunismo che per forza di cose prima arriva al limite di sopravvivenza dei nodi più poveri e poi a quello dei nodi naturali.
Purtroppo, mentre più o meno tutti si fanno una idea abbastanza realistica dei limiti della sopravvivenza umana, nessuno può farsi una idea sufficientemente realistica dei limiti e delle soglie di compatibilità relativi a sopravvivenze naturali indispensabili anche per il comunismo di cuccagna, il comunismo delle nomenklature non più illuminate, come in passato, dal dogma ideologico, bensì dalla teologia del censo e del profitto.
Una volta la politica ambiva onorare le istanze che sgorgavano dal cuore pulsante della nazione, oggi ne vorrebbe assecondare i dinamismi economici, ma in fondo si tratta di una medesima categoria di rispetti e ossequi sistemici: la politica del non Progetto, di una insalata di spiritualismo e opportunismo, di idealità e tecnicismi, non merita proprio quella santificazione umanistica che il conformismo culturale le conferisce, almeno finché, al di là del piccolo cerchio di luce su cui si concentra la formichina tecnologa, sussiste una ontologia superiore che dell’umanità… come dire? … non gliene può fregare di meno.
Siccome, per la politica dello struzzo, quando c’è una cattiva notizia basta infilare la testa nella sabbia, è indubbio che oggi uno scienziato serio, al contrario di un tecnologo che non deve confrontarsi con le sfumature della verità, ma con i desideri delle commesse, dispone sempre meno dei titoli che rendono l’ingaggio pregiato, mentre un trust che si rispetti, che si ritiene al sicuro dalla reazione di masse ormai disgregate, sa di poter coltivare a piacimento, pagando gli equi emolumenti, le amicizie e le subalternità che servono.
Volendo anche guardare la cosa dal punto di vista personale, la complessità al galoppo e la necessità degli approfondimenti multidisciplinari non concedono ormai a uno scienziato serio né il tempo né la predisposizione psicologica per interventi estetici e cosmetici che abbelliscano la sua immagine sociale, per cui il massimo che può sperare oltre la carriera universitaria è di essere assunto come tecnologo diventando scienziato-tecnologo, il che concede credenziali buone, ma inferiori a quelle del tecnologo di primo livello, colui che non si palesa soltanto supervisore del lavoro scientifico, ma anche e soprattutto ufficiante teologico del potere.
Per altri rispetti, se la tecnologia diventa scienza e teologia insieme, rilievi del genere sono soltanto le chiacchiere dei menagramo antiquati e disfattisti.
Un tecnologo (al contrario di uno scienziato, il quale procede collegando a un tutto, che va definendo gradualmente forme provvisorie, nozioni imprecise, sfumate, imperfette) raggiunge, in base alla forza dei finanziamenti, risultati con la precisione che ha in precedenza prefissato e li butta nel buio circostante dove c’è qualcuno che se ne serve oppure no, non si sa mai esattamente in che modo.
Lo scienziato è senz’altro criticabile per la sproporzione tra un ideale di conoscenza assoluta e la precaria fruibilità delle nozioni di base, ma qualsiasi sistema in divenire rende mutevole e sfumata la natura dei suoi componenti temporanei e solo una totalità fissa e immutabile (il solito Dio o ‘Dio’, ecché nun te pareva!?) può ovviare all’inconveniente.
Ecco perché il tecnologo deve essere almeno un po’ teologo e credere in Dio non è obbligatorio, ma aiuta: perché solo Dio o la sua traduzione pratica e sbrigativa in altre certezze supreme può infondere a un tecnologo l’illusione di conoscere effettivamente quello che sta facendo.
Ovviamente e banalmente, anche essere, sic et simpliciter, menefreghisti e incoscienti può facilitare la carriera, e/o ritenere (come facevano, con qualche scusante, i Reagan e le Thatcher, e come fanno ancora, però senza scusanti, di certo i Berlusconi e forse ancora i Renzi) quello in cui i Bush o i Trump e perfino i Clinton o gli Obama ormai non credono più: ovvero che basti dare ai ricchi per fare avere ai poveri.
I nomi, è chiaro, sono puramente simbolici mentre quella che potrebbe essere una malignità rivolta a sinistra, non è, secondo me, che il tentativo di segnalare un indice di pericolosità liberista che attualmente (l’andazzo potrebbe cambiare già da domani mattina) è maggiore a sinistra che a destra: a sinistra, infatti, al liberismo internazionale si crede per vocazione, a destra solo in modo condizionato all’interesse.
Chi ha confidenze ideali mal riposte, quando è cocciuto, diventa una mina vagante, chi subordina l’ideale all’interesse crea probabilmente danni minori se e quando, pur essendo cattivello e non buono, è sufficientemente perspicace e incontra una opposizione seria, agguerrita e ugualmente intelligente, sulla cui ammissibilità, in una democrazia sana come non se ne partoriscono più, si dovrebbe poter contare grazie alla presenza ubiquitaria di ordinari, fisiologici e ben bilanciati interessi.
La democrazia non muore quando viene meno lo spirito di valori democratici che non sono mai esistiti, la democrazia muore quando l’alternativa per le maggioranze diventa mettersi al soldo di una élite aristocratica, variamente stratificata, o adire la via dell’imposizione rivoluzionaria.
La democrazia, allo stato attuale delle cose, anche e soprattutto grazie alle sinistre di governo, muore senza dosi cavalline di kolibianesimo.
Volendo fare accademia, forse, se un McCain avesse governato con l’opposizione di un Kerry o di un Gore, la situazione mondiale, forse e sempre forse, sarebbe migliore.
Se si aderisce spassionatamente a un internazionalismo liberista, essere di sinistra può servire soltanto a stendere un velo pietoso e ipocrita sullo spadroneggiare delle lobby in assenza di autentica opposizione.
Nel liberismo dello strapotere finanziario e industriale un’autentica opposizione può venire solo da una sinistra normale (quella che oggi si definisce sinistra radicale): quando governano le sinistre, l’opposizione o non esiste perché non ha bisogno di esistere (nel caso peggiore) o è pura minaccia.
La situazione peggiora ulteriormente quando la cattiva coscienza della sedicente sinistra cerca di recuperare su altri fronti i pesi e i coefficienti identitari persi o svenduti sul fronte enormemente più importante, cioè quello economico, il che comporta un profluvio di compensazioni artificiali volte ad accreditare l’appartenenza a una sorta di antropologia etica superiore, una ridicola e settaria auto-santificazione che sfocia in un vero e proprio razzismo psicologico, recita teatrale oltretutto facilissima da imitare e imitata puntualmente dalla presunta, sedicente, presuntuosissima crème de la crème della concorrenza quando ritiene utile servirsi di scimmiottature che di sicuro riescono con un bel buco morbido e rotondo se intervengono sistematicamente network televisivi a fornire gli strumenti oblunghi per sagomare il buco.
Ovviamente le operazioni che s’irradiano da quei centri nobili devono anzitutto dissimulare il nucleo di razzismo che le anima e che, come ogni vero razzismo che non provenga da turbe patologiche, abissale ignoranza o calcolata azione criminale, si traduce interamente in classismo ovvero in quel disprezzo preventivo e immunizzante che è funzionale a uno sfruttamento economico di classe, particolarmente insidioso quando le classi non sono distanziate da abissi come quelli dell’ancien régime o della Londra ottocentesca in cui scriveva Marx, ma si basano su discriminazioni sottili e ripartizioni strutturali articolate e complesse, in cui intervengono anche elementi anagrafici, demografici, territoriali eccetera (giovani e anziani, città e campagna, centro e periferia...).
Un razzismo autentico ovvero un classismo (anche se complesso e sfumato) basato su privilegi reali, ma di difficile definizione, ha insomma buon gioco a dilatare l’importanza di un razzismo rozzo e schematico riservato a fasce marginali che quando sono effettivamente pericolose vogliono deliberatamente suscitare allarme e attirarsi programmaticamente epiteti ignominiosi per un consolidamento di nicchia.
Tra parentesi, da ciò si deduce il carattere ambiguo, autoreferenziale, forse producente in termini di immagine, ma controproducente in termini di risultati (se si considerano sinceri e non puramente esibizionistici gli scopi conclamati) delle manifestazioni organizzate contro le minoranze criminali: è come chiedere a un assassino seriale di pentirsi, un poliziotto serio non lo farebbe mai, equivarrebbe a una incitazione a delinquere.
Un razzismo autentico o un suo equivalente (come l’odio punitivo dei vincitori della prima guerra mondiale nei confronti dei tedeschi) evoca in opposizione un razzismo grossolano e rabbiosamente posticcio e questo insorge a razzismo effettivamente devastante solo se si imbeve di motivazioni sostanzialmente classiste ed economiche (come la frustrazione e la cupidigia dell’orgoglio nazionalista nei confronti delle ricchezze ebraiche) anche se vi possono senz’altro congiurare deviazioni sadiche, involuzioni culturali e psicopatologie di vario genere.
D’altra parte una sinistra critica che non abbia gli strumenti per tenere a bada lo strapotere delle forze economiche (situazione, allo stato attuale, pressoché inevitabile) rimedia immeritatamente le magre figure di un Carter a prescindere che presenti personaggi degni e rispettabili.
Abbiamo testé esposto molto sinteticamente le ragioni del non voto kolibiano.
Dovreste prenderne buona nota, signori dell’establishment, che freneticamente vi abbeverate ai versetti di questa Solenne Epitome, se non altro perché i Kolibiani, quando non votano, appartengono al primo partito di una nazione tipica del mondo e inoltre, per ragioni che andremo a dettagliare più avanti e che probabilmente gli stessi ‘populisti’ non apprezzeranno granché, (soprattutto a quelli che invocano un taglio di democrazia non per attenuare le minacce climatiche, no: per accentuarle!) simpatizzano con riserva per un governo ‘populista’ che, unico nella storia della nazione da esso rappresentata, sfiora il 60% dei consensi e quindi merita senz’altro, dopo anni di sonnolento beneplacito, l’ostilità veemente e inviperita della parte più responsabile e consapevole della nazione.
Tale inopinabile consonanza con certi aspetti di una presunta ‘anima popolare’ sorprende e preoccupa i Kolibiani per primi e soprattutto il loro sacerdote supremo, sempre così ingenuamente illusi, gli uni e l’altro, di appartenere a un’avanguardia iconoclasta, ma li conforta la considerazione che non è affatto detto che le ragioni degli uni e degli altri, anche quando sfociano in atteggiamenti comuni, siano tanto omogenee, comuni e intrecciate.
Comunque sia, potrebbe sempre intervenirvi il miracolo di un solido anche se non acculturato intuito popolare ad accordarne le note profonde, almeno per una parte preponderante di popolazione.
Non lo so, può darsi, non posso fare un soverchio affidamento al riguardo dato il mio preconcetto e stratosferico ottimismo sulle capacità reattive del genere umano.
Come potrebbe mai qualcuno che non fosse vertiginosamente ottimista cercare di rimettere in funzione l’antico e negletto motore della più nobile prassi politica, dialettica e sociale, ovvero l’utopia intellettuale e ragionante?
E come si potrebbe tentare di rimettere mano agli ingranaggi sommersi dal grasso impolverato senza ripartire dai punti fermi della stesura del progetto abbandonato, da quei capisaldi immarcescibili che possono di sicuro essere identificati nella pars destruens del marxismo e nella critica disincantata dello scientismo liberale? Prima, beninteso, che ci aderissero le sanguisughe dello psicologismo estetizzante, i profeti delle cose che si risolvono da sé perché altrimenti ci si dovrebbe suicidare e invece la vita è preziosa e poi è così bello arrabattarsi in maneggi meschini conservando un’anima pura e lucente.
Che imparino dall’ottimismo kolibiano gli sbrigativi fatalisti che rimettono i loro incerti destini nelle mani di Dio o ‘Dio’!
I Kolibiani, a prescindere dal fatto, per la fattispecie del tutto irrilevante, se siano migliaia, centinaia, centinaia di migliaia, miliardi, decine o anche uno solo, avanzano l’unico tipo di proposta serio e conseguente capace di abbinare una scrupolosa e onesta salvaguardia della qualità di ogni vita individuale al disinnesco dell’esorbitante e proditorio attentato che l’umanità conduce da decenni ai fondamentali equilibri della funzionalità planetaria.
Ovviamente i Kolibiani non rappresentano un partito politico, né un movimento di azione o di opinione: se lo facessero dovrebbero giocare secondo regole che predeterminano gli esiti della partita, indipendentemente da formalismi elettorali che sovrintendono soltanto al ricambio delle élite nel senso di una ridistribuzione di poteri con intenti anche di decongestione e rilassamento delle tensioni tramite meccanismi tipo valvola di sfogo (passato il tempo necessario per appianare in parte e deludere in altra parte certe irritazioni del corpo sociale, i Fregoli dell’aristocrazia, se avranno bene operato in incognito a confondere le carte, potranno deporre le maschere, ma nel frattempo il costo di ogni calcolo sbagliato non mancherà di salire, impennandosi proporzionalmente alla distanza di ogni scelta dal kolibianesimo).
I Kolibiani ribadiscono quanto sopra alla stregua di una pura e semplice ovvietà, senza massimalismi irosi o accorati vittimismi, ritenendo anzi che una tale situazione, almeno fino al giro di vite prossimo venturo, possa rimettere in pista atteggiamenti filosofici e culturali che negli ultimi decenni, salvo eccezioni minoritarie, hanno dovuto spogliarsi di ogni asperità iconoclasta e vis polemica in omaggio a un nuovo perbenismo, hanno dovuto cioè soggiacere, condizione sine qua non, a polarizzazioni ed edulcorazioni propagandistiche, compromessi e subalternità mercantili, speciose forzature di convenzionalità obbligatoria.
La posizione dei Kolibiani si potrebbe addirittura riassumere nella seguente, semplicissima considerazione, relegando tutto il resto a chiosa bizzarramente prolissa nel segno del ‘divertissement’: se qualcuno riconoscesse effettivamente la gravità dei pericoli e desiderasse effettivamente un cambiamento, dovrebbe promuovere al punto primo dell’ordine di qualsiasi giorno la questione di come rivoluzionare metodicamente, programmaticamente, razionalmente la struttura economica e solo economica (con annessi e connessi) della società, costringendosi a riconoscere che la sola modalità per arrivarci passa per un Progetto dettagliato e analitico di cui incaricare commissioni appositamente composte, incaricate e sorvegliate.
Chiunque non sia interessato a proporre qualcosa del genere, o non crede che sia possibile o non ha interesse a farlo.
Se non ci crede, almeno smetta di mostrarsi ottimista e si tolga il sorriso obbligatorio dalla faccia, dato che ciò che non è premeditato o controllato, è subìto; se non ha interesse, ammetta che la sua è una politica di interessi e smetta quindi di vomitarci in faccia i rigurgiti della sua nobiltà etica e morale, si limiti invece a farci capire almeno vagamente i lineamenti tecnici del suo personale progetto, che almeno a grandi linee deve esistere, dato che se qualcuno fa politica senza una sua particolare visione della società, o è un cretino o è un farabutto.
Si è verificato spesso, purtroppo, in passato, che quel politico che riesce meglio nell’intento di farci almeno intuire le linee del suo progetto sia perlopiù un farabutto, ma questo non deve necessariamente portarci a conclusioni affrettate.
I Kolibiani riconoscono comunque ai cosiddetti populisti il merito di avere elevato il tono generale della politica ripristinando una dialettica tra governo e opposizione che, dopo la chiusura per bancarotta, non si sa se fraudolenta o meno, di socialismi e comunismi, si era ridotta a spartizione di mangiatoie con qualche priorità e vantaggio (non esorbitanti per la verità) conferiti dal conteggio degli elettori (a parte qualche effimera esplosione di ostilità a causa della eccessiva spudoratezza di uno o due protagonisti).
Ovviamente, quando un governo è finalmente diviso tra due partiti abbastanza dissimili da controllarsi a vicenda (un sogno che sembra troppo bello per essere vero e che forse vero non è), il successo di uno a danno dell’altro spingerà i suoi componenti a guardare con sospirosa nostalgia la mangiatoia di cui si diceva.
Se non altro, grazie ai populisti, la sinistra di governo o perlomeno di ex governo ha potuto lanciare i suoi strali avvelenati verso i timidissimi tentativi intrapresi per tamponare il disagio economico, lasciando intendere che, quando tra breve riprenderà in mano le redini dello stato, le fasce più basse dovranno aspettarsi ben altri e più poderosi provvedimenti a sostegno, per esempio stipendi di almeno il doppio per nuovi assunti incaricati di passare gli asciugamani e fare massaggi rilassanti ai robot preposti alle nuove sofisticate produzioni, quasi tutte orientate al sollazzo dei più facoltosi.
Naturalmente nessuno va al governo senza essere ottimista e nessuno è ottimista senza credere nelle magnifiche sorti e progressive dell’umanità e di tutte quelle scienze sostenute da una sponsorizzazione in qualche modo divina.
I Kolibiani non pensano invece che un governo o l’altro possa cambiare le cose in modo da sfuggire alle insidie imminenti e future: salvo che nella Città del Sole di Campanella (metafora ironica per le sue assonanze che però non si deve pensare coinvolga nell’ironia il degnissimo filosofo) e posti similari, se una opposizione reale non esiste, esiste un potere centrale forte e consolidato che non può avere niente a che spartire con un’autentica condivisione democratica delle decisioni; se una opposizione esiste, torti e ragioni vanno suddivisi e chi è costretto giocoforza ad attribuirli a una parte sola... per metà circa del suo tempo spara cazzate.
La condizione privilegiata (o magari l’esatto contrario) di un governo rispetto a una opposizione in fondo è tutta lì: nella metà assegnata al compito, un governo di qualsiasi colore le cazzate non si limita a dirle: le fa.
In sostanza, per chi vuole governare con successo senza rischiare la guerra civile, non esiste alternativa tra gestire in luoghi esclusivi, con diversi dosaggi, la pila degli interessi o gestire in comune una progettualità concordata, ma optare per la seconda, se fino a ieri significava corrispondere più o meno a un’ortodossia consolidata, oggi significa denudarsi di tutti gli ottimismi di pragmatica per indossare l’ottimismo più difficile: quello nell’esistenza di una razionalità condivisa.
Il governo preferito dei Kolibiani, che ne conquisterebbe il cuore guadagnandosi la massa enorme dei loro consensi, sarebbe comunque quello che, pur continuando nel frattempo a gestire l’ordinario secondo le prassi abituali, avviasse anche unilateralmente le procedure per cominciare a porre almeno i fondamenti del Progetto.
Intorno a queste tematiche, in questa sezione sinottica, si intende articolare una dimostrazione pro kolibianesimo che i Kolibiani o almeno il suo portavoce unico e ufficiale, osano ritenere massimamente plausibile, dove già l’aggettivo, ‘plausibile’, costituendo una specie di ossimoro, allude a una tipologia argomentativa che, se anche non si può certo definire ‘logico-matematica’ e neanche genericamente scientifica, si lega a una visione del mondo tale da non lasciare molto spazio a conclusioni diverse in presenza di ben determinate premesse.
La condizione necessaria e sufficiente, assurda e inconcepibile oppure naturale e scontata secondo i punti di vista, a cui deve giocoforza soggiacere l’avvio di una siffatta weltanschauung consiste molto semplicemente nella preliminare assunzione (dal nobile lignaggio greco antico) di una epistemologia che non annette alcuna pertinenza fisica e oggettiva all’infinito attuale e traccia quindi un solco incolmabile tra le moderne concezioni religiose e scientifiche.
Non c’è dubbio che si possano trovare strane e perfino assurde tali relazioni, ma certe perplessità o addirittura sbigottimenti forse rivelano forme mentali che, sul piano di una filosofia esistenziale, adottata in modo più o meno conscio ed elaborato nonostante il fastidio che possa indurre la parola ‘filosofia’, si possono senz’altro iscrivere in una generale propensione religiosa piuttosto che scientifica, indipendentemente da ogni attitudine pratica o professionale riservata agli aspetti concreti della vita.
Senza volerne fare in nessun caso una priorità, i Kolibiani promuovono una linea di pensiero che non compromette un misticismo autentico e sincero, del tipo che, al contrario, gli economicismi più in voga mettono in burla dovendo assolutizzare, in un modo o nell’altro, per calcolo e per necessità, l’opportunismo avveduto e calcolatore del clericalismo istituzionale.
Clericalismo e religiosità formalizzata, come del resto quell’economicismo della cui teologia rappresentano un riflesso edulcorato, si legittimano in base alla pretesa di attribuirsi una razionalità diversa e superiore, il che non costituisce una presunzione assurda in una prospettiva puramente organizzativa e gestionale per la quale non contino ontologie e oggettività della Natura, una prospettiva che impone di far valere in via assoluta ed esclusiva l’effettività storica e sociologica dei sistemi produttivi e le socialità che vi si connettono.
La razionalità di tipo confessionale e umanista si concentra così sul disciplinamento e il controllo di complessi antropologici a cui non meglio identificati principi di ordine trascendente dovrebbero garantire assicurazioni sufficienti per potersi abbandonare agli automatismi di una spregiudicata egemonia di specie.
La razionalità logica e scientifica, anche se, adibita nell’ambito professionale dello scambio economico, indulge spesso e volentieri agli accomodamenti di una similare ‘captatio benevolentiae’, impone considerazioni di tutt’altra natura ed esclude tassativamente la possibilità di quelle certezze che molti umani rivendicano ‘dal profondo dell’animo’ ritenendo che tale vocazione naturale a confidare in esse rappresenti una prova della loro esistenza.
Tali conforti sono esclusi in via definitiva e pregiudiziale da principi perfino elementari come, per esempio, quelli adombrati dal metodo diagonale di Cantor, che non per niente si trova alla base dei teoremi limitativi di Godel.
Le tipologie dimostrative di Cantor, che all’epoca furono addirittura accolte da alcuni teologi come una clamorosa conferma delle loro dottrine, sanciscono di fatto una frattura insanabile tra razionalità scientifica e pensiero religioso; la loro importanza non deriva da illusionismi e fuochi di artificio come la famosa scala di infiniti, ma dai limiti tassativi che impongono alle fenomenologie del finito.
Rappresentano insomma un esempio abbastanza sintomatico, utile a comprendere alcune forzature interpretative della meccanica quantistica o certe assurde mitopoiesi tecnologistiche legate alla robotica e all’intelligenza artificiale, di come ciò che dovrebbe infondere un generale senso di disincanto e di misura, si traduce al contrario, a volte, in fraintendimenti fantasiosi.
Addirittura, che venga ammesso l’infinito attuale oppure no, cambia poco o nulla per le limitazioni ineluttabili che stiamo andando a definire.
Se l’infinito attuale esiste, ogni ragionamento parte da premesse incomplete e quindi, ai fini della decifrazione di una realtà indipendente infinita, non è solo difettoso, è anche indifferente e intrinsecamente contraddittorio (dato che a una lista di assiomi forzatamente incompleta si può aggiungere indifferentemente un altro assioma o la sua negazione), ragione per cui qualsiasi affermazione intorno a quella cosa che possiamo nominare ‘Dio’ o ‘Cosmo’ o ‘Tutto’ o ‘Altro’ si rivelerebbe caricaturale e assurda.
Se l’infinito attuale non esiste, presupponendo regole che impiantino autosimilarità e invarianze di scala tra fenomeni interni ed esterni, ogni sistema può rispecchiare, in modo più o meno difforme o deforme, una parte limitata della realtà totale e soprattutto non può chiarificare la natura esaustiva dei rispecchiamenti, dato che non dispone mai di un numero sufficiente di stati interni per poterlo fare.
Ogni sistema finito razionalmente concepibile può solo passare da uno stato a un altro e, in base a ciò, rispondere automaticamente a un input con un output sviluppando le diverse complessità dei circuiti interattivi e degli schemi insorgenti (comprensivi di programmi e dati iniziali implementati): non potrà mai, invece, aggiungere stati sufficienti per promuovere alla coscienza e poi giustificare, catalogare, finalizzare un novero sufficiente di rapporti potenziali tra i sottoinsiemi degli stati ai diversi livelli.
Un sistema che dispone di un numero predefinito (grande quanto si vuole) di stati, non può configurare attraverso quelli una qualsiasi organizzazione generale dei medesimi stati, né predisporre in modo utile, men che meno ottimale o sub-ottimale, facendo riferimento a una matrice di transizione o a corrispondenze strutturali interne, sequenze progressive e combinate in vista di determinati scopi.
Perché? Perché non dispone del numero di stati necessario.
Un sistema può al massimo stabilire modalità interne di rispecchiamento incompleto mediante criteri di priorità e subordinazione relativi, incompleti e in qualche misura arbitrari, dove arbitrarietà e casualità cambiano natura e si orientano verso un facsimile di necessità soltanto in presenza di collaudi esterni da parte di un ambiente circostante abbastanza vasto e influente da elevarsi a giudice insindacabile della esigua trama di assetti effettivamente implementati all’interno di una varietà molto più vasta di assetti possibili.
Gli esperti di intelligenza artificiale se ne sono resi conto di sicuro, ma non rientra comprensibilmente tra i loro interessi farcelo sapere a voce troppo alta.
Gli dei possono anche esistere (e d’altra parte, signori, non è forse ognuno di noi una specie di dio assiso nel regno incantato del proprio cervello?), purché accettino di soggiacere alla lotteria della selezione naturale.
Il rispecchiamento di un sistema rispetto alla realtà circostante può però comprendere tanta più realtà quanto più il sistema è denso in rapporto alla medesima: mentre la densità di materia ordinaria dell’intero universo è circa un ventesimo di quello che sarebbe necessario per farlo contrarre anche in assenza di accelerazioni indotte dalla energia oscura (in media circa un protone per metro cubo), il limite di Chandrasekhar di un cervello umano sarebbe già raggiunto se esso riempisse il volume di una sfera di appena tre volte il raggio solare.
Ciò fornisce una indicazione di come cervelli di dimensione divina potrebbero creare un loro universo: collassando in un buco nero.
Naturalmente il contesto immediato con cui il cervello umano deve fare i conti manifesta mediamente una densità e una compattezza molto maggiori dei valori medi universali e ciò spiega come, entro certi limiti, potremmo anche catturare una maggiore percentuale di verità occupandoci di tutto l’universo piuttosto che di una singola cellula vivente.
L’argomento permette anche di fissare una prima differenza fondamentale tra la filosofia dell’infinito e quella del finito: l’infinito obbliga a non sapere, ma autorizza a credere (nella infinità bontà e benevolenza del creatore supremo), il finito trasmette tutta l’angoscia di non sapere e indica la sola ancora di salvezza possibile: la razionalità profilattica e semplificante.
La risposta alla domanda perché mai una entità posta al di là di qualsiasi possibilità di comprensione debba approvare una particolare concezione del bene e del male (che oltre a variare, in modo spesso radicale, da persona a persona, non coincide di sicuro con quella di creature di altre specie che l’uomo ammazza per propria utilità) rivela la profondità di pensiero dell’uomo medio moderno.
La risposta più accreditata è infatti: perché l’ottimismo è il profumo della vita.
A livello individuale, tale aforisma, potrebbe anche rivelare il massimo di saggezza possibile (e comunque de gustibus eccetera), ma a livello di specie e delle problematiche coinvolte potrebbe anche rappresentare un tuffo suicida in una ciclopica, sconfinata stupidità.
Del resto, chi sostiene che l’uomo dell’era industriale ha sviluppato un’etica sempre più raffinata rispetto alle comunità tribali e alle antiche civiltà, dovrebbe forse sostituire l’aggettivo ‘raffinato’ con ‘comodo’, deporre molti pregiudizi spiritualisti e porre maggiore attenzione ai miglioramenti delle condizioni di vita materiale.
In fondo, gli stermini nei campi di concentramento sono molto più recenti degli spettacoli gladiatori e mettendo in ordine temporale i film e i registi più significativi e rappresentativi della storia del cinema, capaci di restituire con fine intuito e sottile realismo alcune salienti caratteristiche psicologiche e sociali del contesto a loro contemporaneo, è ben difficile conservare la certezza che nell’ultimo secolo la natura umana abbia compiuto passi decisivi sulla via della integrità morale e della profondità esistenziale.
Una volta, è vero, all’uomo buono dell’occidente non spuntavano tanti lucciconi come avviene adesso pensando a chi è costretto a emigrare, ma forse l’uomo buono dell’occidente di allora era meno responsabile, in media, per le cause dell’emigrazione e, sempre in media, ci poteva lucrare meno o riusciva meno a far pagare i costi assistenziali, se esistevano, ad altre categorie, classi, ceti.
Per altri versi, lascia di sasso sentire il cristiano osservante quando dice che ci si deve occupare solo degli anni vicini e i posteri si arrangeranno: evidentemente la sofferenza va pesata come il denaro e ogni anno che passa si deve ridurre in percentuale.
Quanto varrà allora la sofferenza alla fine dei tempi? Meno di un nichelino? Ma non era la valuta di riferimento per comprare il biglietto di accesso al Regno dei Cieli?
Proviamo però a rassicurare subito chi se lo merita, ovvero chi non ha deposto ancora i lumi della ragione (sulle grandi questioni ‘filosofiche’, perché negli affari quotidiani altroché se tutti cercano di tenerseli ben stretti quei lumi a prescindere che ci riescano o meno!) e quindi comincia ad avere timori e tremori pensando che i gusti, le inclinazioni, le preferenze, le attitudini, gli istinti, le valutazioni, i giudizi del signor Dio possano procedere per vie molto poco rassicuranti.
Se un sistema finito disponesse del massimo di stati possibili, ovvero coincidesse con un intero universo, per gli stessi motivi esposti più sopra non disporrebbe degli stati necessari per abbinare un qualsiasi stato presente a un qualsiasi stato futuro, il che si applica razionalmente a qualsiasi entità, anche a quella che chiamiamo ‘Dio’, il quale Dio o ‘Dio’, quindi, privato di obbiettivi, scopi, intenzioni, coscienze, finalità e ragioni, si dovrebbe acconciare (se vogliamo ragionare e non fare mitologia) a un prosaico panteismo di tipo eleatico, qualcosa a cui si può molto più rigorosamente pervenire mediante estensioni ipotetiche di una relatività generale magari convolata a nozze solenni con le teorie quantistiche per l’interessamento di ragionevoli e poco sibaritici sensali come la gravità quantistica a loop (si tratta in sostanza della visione ‘spinoziana’ di Einstein): un surrogato troppo meschino e sbiadito dell’inferno o del paradiso, che potrebbe essere comunque sufficiente a condannare ogni essere umano alla ripetizione della stessa vita in eterno, oppure a variare sul tema senza il lieto o tristo fine della liberazione buddhista dal samsàra.
Qualcuno ogni tanto tenta di invalidare la logica delle suddette argomentazioni tirando in ballo la solita indeterminazione quantistica, ma quella non è che la conseguenza di un brulichio di elementi posti al di là di qualsiasi possibilità di sperimentazione diretta, indica quindi una scienza in un certo qual modo soggettiva, congiunturale, che non potrebbe funzionare se i processi percettivi e mentali dell’osservatore non fossero stati forgiati in profondità dalla selezione naturale per accordarsi alla natura oggettiva del mondo, così da trasformare gli eventi riferibili a livelli di molteplicità invisibili in regolarità fondate, in ultima istanza, su leggi statistiche come quella dei grandi numeri.
Certo che, se si confonde la probabilità di essere in stati differenti con la possibilità di essere contemporaneamente in due stati allo stesso tempo, se si confonde la sovrapposizione in contemporanea delle onde con gli effetti provocati in tempi diversi dalle medesime onde, oppure si ammette che si possa sentire con poteri extrasensoriali la presenza di una particella senza alterarne in alcun modo qualche proprietà (che può essere benissimo diversa da quella che viene specificamente indagata), è facile fare apparire il mondo dei quanti come il regno fatato di Oz.
Si può addirittura specializzarsi in magia se si conferisce ‘oggettività’ ora all’oggetto ‘che impacchetta le onde’ e ora alle onde che rappresentano le proprietà degli oggetti, dimenticando, quando si oggettivano proprietà, che le onde relative potrebbero anche non coincidere tra di loro per determinati spessori ultrafini, al contrario di quanto accade per le onde che insieme vengono convocate a definire un oggetto che tale ovviamente non può essere mai, perlomeno non nel senso ‘classico’ del termine.
Il ‘senso classico del termine’ si palesa poi, dopo un minimo di riflessione, assolutamente assurdo e insensato, come assurda e insensata è una concezione che alla fine, forse perché giocare con mattoncini Lego immensamente piccoli è poco dignitoso, costringe a fissare in un punto ogni punto di una cosa che alla fine si riduce a una collezione infinita di punti e quindi costruisce un tutto infinito, ma ben delimitato, mettendo insieme tanti nulla definiti da numeri reali: quei nulla senza dimensioni, ma infiniti, che la saggezza greco-antica ha cercato disperatamente di evitare, mentre altre sapienze hanno semplicemente rimesso nelle mani di Dio.
Nella migliore delle ipotesi l’opzione obbligatoria dell’infinito si traduce in qualcosa di molto simile a uno snobismo culturale come quello di Schroedinger e di Dirac: il primo dichiarò che avrebbe smesso di fare lo scienziato se avesse dovuto veramente prendere sul serio la discretizzazione quantistica e i valori di probabilità, il secondo considerava l’elettrodinamica quantistica di Feynman & C., che ha raggiunto livelli record di precisione nella sovrapposizione ai dati osservativi, come un ricettario metodologico e non una teoria scientifica.
Dirac, in fondo, aveva tutte le ragioni del mondo, ma forse avrebbe dovuto considerare che un manuale di prescrizioni procedurali può fornirci una visione della realtà fondamentale molto più definita, espressiva e mimetica rispetto a quanto potrà mai consentire una qualsiasi elegantissima teoria.
La violazione della disuguaglianza di Bell non dice molto alla fine sull’esistenza o meno delle famose ‘variabili nascoste’, sia perché un livello celato di realtà composto da elementi ‘quasi infinitesimi’ (l’automa cellulare composto da entità ‘ultra-microbiche’) si rivela sempre e comunque attraverso effetti statistici al punto che potrebbe risultare intraducibile in termini teorici utili, conseguenti, comprensibili, sia perché il paragone con qualità attinte al mondo macroscopico (avere per esempio una certa forma o colore) non sembra pertinente rispetto a proprietà su cui può influire una parziale sovrapposizione o una diversa interessenza di elementi non identificati né identificabili se non per vie traverse e metodi indiretti, i quali condizionano assetti che, in base alle calibrazioni degli apparati, potrebbero tradurre il confronto tra due ben determinate consistenze in coincidenze totali o solo frazionarie di riscontri sperimentali interpretabili probabilisticamente (vedi esperimento delle fenditure, esperimento di Franson, esperimenti sull’entanglement (massimo coefficiente di magia) e sul… teletrasporto (!)).
Non solo il Dio tradizionale dei monoteismi, ma anche il sogno segreto di una onniscienza scientifica perseguita sotto mentite e solo in apparenza antitetiche spoglie, non corrisponderanno mai a qualcosa di razionalmente concepibile.
Se dunque l’inconcepibile e, per certi versi, auto-contraddittorio ‘Essere Totale’ o ‘Dio’ si svolgesse all’insegna del finito, sarebbe comunque enormemente più complesso dello umanamente concepibile (esigerebbe un numero di stati che, dato un numero qualsiasi (non infinito) di stati accessibili al nostro cervello, esorbiterebbe più che esponenzialmente rispetto a essi), senza per questo riuscire ad adempiere alle sue ‘mansioni’.
Se tale Fantomatico Essere fosse infinito, affermare qualsiasi nozione intorno a Lui con gli strumenti verbali di cui disponiamo metterebbe capo solo ad assoluti e irrimediabili sproloqui, il che non smette di valere quando parlano le massime autorità ecclesiastiche, che potranno anche essere (mai però dimostrarsi) infinitamente sagge, ma quando parlano, parlano.
Ovviamente Dio può ascendere la scala cantoriana degli infiniti e anche un mistico che andasse in giro seminudo con un’aquila sulla spalla potrebbe irrazionalmente sognare di farlo, non però un funzionario clericale che si vantasse di quella razionalità superiore che rivendica ruoli dirigenti in una società civile.
Spiegare metafisicamente una qualsiasi realtà globale mediante la presunzione immaginaria di una Volontà cosciente che la comprende e la determina, rappresenta per ogni filosofia seria un puro non senso che follemente insiste ad accanirsi contro il rasoio di Occam, venendone fuori tutto tagliuzzato e malconcio.
Repetita iuvant: un misticismo serio, un misticismo legittimamente e insindacabilmente irrazionale (quello che il conformismo benpensante deride) non si cimenta con l’impresa disperata e blasfema di rappresentarsi Dio, un mistico che vive sopra una colonna si affida alla serietà del silenzio, non tiene comizi in piazza per procacciarsi finanziamenti e voti.
Un misticismo serio dovrebbe ispirare la religiosità più diffusa, ma purtroppo avversa ogni chiesa e ogni moralità indiscussa, quindi al potere non serve.
Se, socialmente parlando, il concetto del divino conserva un minimo di valenza funzionale, lo fa allora in qualità di mero contrassegno simbolico di affiliazione comunitaria sotto la giurisdizione di un’autorità dogmaticamente e burocraticamente riconosciuta, ripartita, potete scommetterci, in una giurisdizione etico-legale e in una economico-produttiva.
Non c’è l’una senza l’altra.
Riteniamo ben difficile che un’autorità che intenda condizionare i tratti psicologici e morali di una persona a fini consociativi e produttivi secondo modelli ritenuti universali e canonici possa collaborare a una progettualità intesa a cedere una pseudo-libertà discriminatoria e puramente economica in cambio del florilegio di tutte le altre libertà esistenziali (escluse ovviamente quelle fondate sul lusso), ma se correnti e comunità autenticamente religiose e quindi mistiche volessero intraprendere il cammino avventuroso di un pellegrinaggio kolibiano, i Kolibiani non opporrebbero nessuna pregiudiziale ripulsa a eventuali stravaganze che non ostacolassero il Progetto Razionale.
Al di là di aspetti che, come certi trionfalismi scientisti, i Kolibiani ritengono appunto importanti solo nella misura in cui vi si coinvolgono mentalità e retaggi culturali ostili al kolibianesimo, la tesi che ci si propone in seguito di dimostrare possiamo sintetizzarla così: non esiste una crescita economica continua e sostenibile.
Di sicuro, esistono sviluppi più sostenibili di altri, ma rimane stampigliato un colossale punto interrogativo sul problema di come si possano confrontare i vari tipi di sviluppo al fine di determinarne il grado di sostenibilità, caratteristica che deve essere riguardata e armonizzata almeno su due fronti diversi: quello politico-sociale e quello climatico- ambientale.
Da entrambi i punti di vista ogni concetto di sviluppo economico risulta fortemente problematico e aderirvi esige una nutrita dose di ottimismo (in che quantità esatta rimane comunque opinabile) circa i tempi che ci separano dalle inevitabili rese dei conti.
Tali ottimismi in genere trascurano premesse capitali, come quella che ogni durata del viaggio va misurata in base alla velocità del percorso e quando questa presenta una progressione esponenziale le durate medesime si contraggono in ragione parimenti esponenziale, analogamente a come la vita media di un organismo animale si commisura al ritmo medio dei metabolismi interni.
Qualsiasi attivismo sincero e bene intenzionato non può ignorare premesse così basilari, e infatti, verosimilmente, premesse così basilari sono di sicuro recepite e riconosciute dagli strati almeno normodotati della cosiddetta classe dirigente, il che solleva molti dubbi per non dire sospetti circa le reali motivazioni delle parti più influenti di qualsiasi popolazione, se teniamo conto dei modi più comuni e diffusi di affrontare le relative problematiche.
I Kolibiani, d’altra parte, potrebbero prendere al riguardo delle solenni cantonate, ma, in presenza di analisi che utilizzano modelli essenziali di portata generalissima, non basta disfarsene con un gesto di sufficienza della mano, occorre prima di tutto invalidare tali modelli e sostituirli con altri più realistici e complessi.
Non si intende con ciò accusare una intera classe dirigente di ignoranza, malafede o irresponsabilità, piuttosto evidenziare come, con gradi molto diversi di consapevolezza e adattamenti alle diverse fasce sociali, di fatto sia già stato adottato uno specifico progetto (risolutore, non risolutore o distruttore, lo decideranno i fatti) e precisamente quello che già in parte riserva e sempre più riserverà le caratteristiche dell’economia di libero mercato a una ristretta cerchia di fruitori appartenenti a ceti privilegiati variamente modulati e gerarchizzati e, per il resto, intende gestire le masse più numerose all’insegna di un socialismo confessionale e solidaristico che in sostanza le esclude da ogni compartecipazione a una ricchezza effettiva, cercando nel frattempo, anche con il contributo di vari circenses, di alleviare e tamponare la pura valenza lavorativa ed energetica a cui in sostanza dette masse si riducono.
Le aporie micidiali e i nessi fortemente contraddittori di certe strategie emergono con allucinante evidenza quando i propinatori di un plagio comunicativo basato su modelli consolatori ed edonisti predicano una teologia del lavoro come fonte di riscatto e di salvezza mentre contestualmente diffondono la sensazione subliminale che l’unico tipo di lavoro che può effettivamente riscattare dalla subalternità avvilente consista nel circuire i potenti, rimanere avvinti per ore al cellulare, rimbambire la gente con chiacchiere sacerdotali e dedicarsi a una sincera dialettica liberale e democratica in cui l’avversario o il concorrente della gente cosiddetta o presunta perbene è ridicolizzato alla stregua di un bruto subumano.
D’altra parte non si può accettare che la consapevolezza di una definitiva esclusione dal benessere diventi troppo comune e quindi bisogna in qualche modo diffondere il messaggio che il lavoro consenta una certa mobilità all’insù, ragione per cui, siccome in merito gli unici propellenti veramente efficaci si chiamano ‘pubbliche relazioni’, occorre fare apparire le classi superiori come un ricetto compiacente e disponibile a ogni manifestazione di affetto, soprattutto quelle più deferenti e leccaculo.
E’ molto opinabile che, almeno a tiro lungo, le varie strategie oligarchiche, secondo le diverse versioni, funzionino dal punto di vista sociale e soprattutto da quello ambientale (in assenza di un progetto scientemente dettagliato e costruito che non può essere avviato se si vogliono conservare le apparenze esteriori del ‘libero’ mercato con tutto il suo bel codazzo di vuoti formalismi egualitari), ma d’altra parte l’opzione appare più realistica di ogni costruzione ritenuta viceversa utopica, soprattutto a chi paventa o ritiene impraticabili interventi programmatici razionali che dirimano la giungla dei diversi interessi.
Ovviamente la giungla dei vari interessi prospera per dinamiche autonome, oggettive e non antropomorfe, e quando s’infittisce troppo viene tosata dagli interessi più forti, se esistono e trovano un accordo, o bruciata dagli interessi contrapposti nel caso contrario.
Già aver chiarito le alternative di fondo al di là dei depistaggi e dei fraintendimenti seminati ad arte da astuti assolutismi apparentemente o effettivamente l’uno contro l’altro armati, costituisce (ma solo per i Kolibiani o almeno per il loro prototipo autentico e originale) titolo di onore e di merito della presente, ponderosa Summa.
Se non altro, il generoso riformista e il diversamente ponderato conservatore che si siano dati la briga di decifrarne il testo adesso sanno come necessariamente si configura la scelta veramente discriminante che un impegno sincero renderebbe obbligatoria in modo preliminare, risparmiandosi (ammesso che lo si voglia fare, cosa del resto difficilissima da dimostrare soprattutto a se stessi) il tristo destino a cui si è dogmaticamente votata ogni forma di attivismo adottato finora: quello di contraddistinguersi, non come itinerario verso una effettiva costruzione sociale, ma piuttosto alla mera stregua di un tirocinio di accesso a una classe dirigente con proprie regole, ritualismi, prerogative e scopi.
Rimane infatti definitivamente assodato e scritto a lettere lapidarie che, a parte eccezioni insignificanti e/o rarissime, ogni dirigente comunque mandatario di qualsiasi associazione o gruppo si rivelerà prima o poi molto più un appartenente alla classe dei dirigenti che a quella di cui deve difendere gli interessi e questo non per difetti o distorsioni delle personalità (dato che a volte sono proprio i dirigenti con aspirazioni di purezza ideale a creare i danni maggiori per le categorie rappresentate), ma per leggi intrinseche alla natura dei sistemi sociali vigenti.
Va da sé che ogni dirigente con voce in capitolo deve pregiudizialmente indossare le vesti dell’ottimismo obbligatorio e confidare nelle proprietà salvifiche e riparatorie sia del corso naturale degli eventi che della spontanea dialettica degli uomini di buona volontà.
Dimostrare che tali proprietà non esistono rappresenta, secondo i punti di vista, lo scopo ammirevole o il disegno criminoso della presente Bibbia Kolibiana.
L’istituto democratico della rappresentanza tende inesorabilmente a diventare una illusione quanto più le trame economiche e produttive della società si fanno complesse.
Già in origine, un’autentica democrazia assume connotazioni in qualche modo sostanziali soltanto in quelle culture dove vige un concetto della responsabilità fondato sulla consacrazione eroica del potere all’insegna del sacrificio.
In tali culture, i cui pallidi retaggi, oggi, nel mondo, sopravvivono soltanto in Inghilterra e nei paesi scandinavi, la monarchia finisce per rappresentare, almeno a livello inconscio, un simbolo trascendente di neutralità, controllo e garanzia rispetto alla bolgia dei conflitti in cui ogni gruppo fa valere nei confronti degli altri i propri, più o meno materialistici, strumenti di persuasione e dissuasione.
Il ruolo tradizionale del Vaticano in Italia, può, sotto certi aspetti, ricordare la missione ideale di certe monarchie del nord Europa, con qualche sostanziale, decisiva differenza: tali monarchie non sono stati autonomi e le loro competenze sono regolate da disposti giurisprudenziali e non da accordi influenzati da suggestioni ideologiche o metafisiche e complicità settarie di gruppi organizzati.
I sudditi che hanno pochi margini di manovra operativa o non ne dispongono affatto possono solo confidare in una coincidenza di interessi con maggioranze puramente numeriche, convergenze consolidate alla bell’e meglio attraverso mediazioni partitiche quasi sempre improvvisate e posticce che poi, quando il compito è assolto (dopo uno scontro, una guerra o una tornata elettorale), si destinano altrove o si vendono ai gruppi che sono in condizioni di avanzare le offerte migliori.
Ogni classe dirigente cova in sé, nei propri meandri onirici, un ideale nobile e monarchico opposto alle burocratiche velleità repubblicane, ma le moralità sono riferimenti impalpabili e volatili, mentre il denaro, l’influenza, il potere si possono tradurre in oggetti concreti.
D’altra parte, ovviamente, etica e valori hanno un senso soltanto in un contesto rigorosamente aristocratico, dato che è solo in tale contesto che si può trovare l’eccedenza (sia ‘materiale’ che ‘spirituale’) da giustificare, effondere o sacrificare.
Dove non esiste eccedenza o comunque non è chiaro che cosa si debba considerare eccedenza oppure no (situazione emblematica della modernità e soprattutto dell’attualità), ciascuno parte dalla propria condizione per definire il minimo indispensabile e da quei confini sicuri si attiva generosamente per offrire in giro l’eccedenza degli altri cercando di incassarne qualcosa per sé.
Anche inseguire nobili cause per vocazione intima e auto-realizzazione personale non può contribuire granché al risanamento strutturale di qualsiasi sistema, soprattutto perché non fa che costituire una parte ineluttabile del gioco di sistema, già prevista e contabilizzata in quella canonica suddivisione percentuale di egoisti, opportunisti e altruisti (rispettivamente e approssimativamente: 20%, 65% e 15%) che, analogamente a tante altre e diverse (per esempio, gay, bisex ed etero), sembra insita nella funzionalità di ogni automatismo sociale e quindi stabilita da impersonali sistematiche evolutive.
E’ curioso e paradossale, ma quei filosofi che sottolineano e amplificano tali banalità, concentrandosi per giunta sugli aspetti puramente culturali, vengono considerati di destra quando non addirittura reazionari.
Quei filosofi infastidiscono perché sanno che in una società di massa l’etica si prostituisce inevitabilmente alla politica e la principale funzione dei valori è fungere da foglia di fico agli interessi.
Quando la foglia si alza per una folata improvvisa e abbandona le relative pudende per scomparire in un vortice, la stessa etica si aggrappa ai lombi denudati proponendosi come ammortizzatore, ma non sempre ci riesce e allora, se fallisce, gladiatori o amazzoni duellano nudi.
Sanno altresì, i filosofi di cui si diceva, che, prima di ogni altra cosa, la verità è ovvia e banale, mentre la vita richiede a gran voce la novità e l’azzardo.
Una importante verità ovvia e banale è allora che le novità e gli azzardi migliori, i più gettonati, sono quelli i cui rischi si possono far correre agli altri.
E’ una vera fortuna, ai fini di riservare interesse e attrattiva alle partite che vengono concretamente giocate ogni giorno, che tutto ciò richieda dei calcoli e i calcoli, a differenza dei sogni e delle invenzioni, si possono sempre sbagliare.
I calcoli conducono poi a esiti imprevedibili, al contrario dell’alea e del caso, che si possono fotografare con la precisione voluta semplicemente dilatando l’entità del campione.
Quando tale entità si è estesa a sufficienza, una moltitudine di dubbiosi pasticcioni diventa un oracolo infallibile e può addirittura azzeccare previsioni impossibili, come fornire d’acchito, senza contarli, il numero di oggetti piccoli e uguali contenuti in una pigna alta come una casa.
Infatti e forse purtroppo, una immensa congerie di calcoli profusi a dismisura produce risultanze casuali che allora si possono prevedere con infallibile e noiosissima efficacia.
Per esempio, ed eccoci ai primi teoremi, gli economisti, mentre fingono incertezze e imbarazzi, conoscono perfettamente gli esiti finali dell’attuale partita se non vengono cambiate le regole del gioco, ma le regole non possono essere cambiate senza sottoporre l’economia all’arbitrato di giudizi e disposizioni non economici, che a quei professori di efficienza che sono gli economisti onestamente non competono.
Gli economisti, quindi, considerano assoluto e immodificabile un sistema produttivo prodotto da accidentalità storiche semplicemente perché non compete agli economisti stabilire le caratteristiche generali di un sistema sociale che dovrebbe essere fondato invece da una decisione politica.
I decisori politici, però, complice lo strapotere darwiniano (e i flauti incantatori) delle forze economiche in campo e a dispetto delle urgenze socio-ambientali, si rivelano assolutamente incapaci di rivedere le regole alla fonte e quindi accettano con fatalismo una egemonia dei grandi poteri industriali e finanziari fondata sui balance of power della giungla competitiva.
Un altro sistema presenterebbe altre leggi economiche e altre normatività produttive, da indagare con i criteri di una scienza economica che dovrebbe adeguarvisi esattamente come uno scienziato deve adeguarsi alle realtà del mondo naturale, ma, come non si può pretendere che qualcuno rinunci spontaneamente alle proprie fortune, non si può pretendere che l’economista medio rifiuti un sistema che conferisce i massimi poteri all’economia.
Gli economisti quindi decidono sempre di più ben sapendo che dovrebbero decidere sempre di meno, in una situazione complementare a quella degli scienziati che si accontentano di decidere sempre di meno ben sapendo che dovrebbero decidere sempre di più.
Che il sistema sia finito in un vicolo cieco autoreferenziale lo dimostrano considerazioni elementari di macro-economia che, con gioiosa frenesia, andremo subito a scoprire insieme.
Consideriamo per esempio la faccenda dei debiti pubblici.
Quello che dovrebbe preoccupare la finanza internazionale e i guardiani di porta o cavalieri Jedi delle varie commissioni europee e internazionali, se un minimo di scienza, logica e perfino buon senso fosse un optional proponibile per la pseudo-razionalità liberista e globalista, non dovrebbe riguardare il rapporto tra debito pubblico e Pil, bensì il rapporto tra debito pubblico estero e Pil.
Se si trattasse infatti solo di stabilità finanziaria, quella figura eponima e archetipale (in una parola mitologica) che è l’investitore autonomo e responsabile dovrebbe preoccuparsi molto di più della sicurezza e stabilità dei propri investimenti e molto di meno delle faccende private che avvengono in case altrui: se certi titoli li ha già depennati dalla sua lista dovrebbe interessargli poco o punto come si comportano nella lista degli altri.
Il rapporto tra debito pubblico estero e Pil è molto più sbilanciato per nazioni come Stati Uniti, Giappone, Gran Bretagna, Germania e Francia che per l’Italia e, per giunta e almeno finora, perfino il rapporto pro capite tra patrimonio (patrimonio, non reddito!) pubblico e privato e debito dei privati è peggiore in quelle nazioni.
Non si pretende qui che dette nazioni siano tartassate come l’Italia il cui debito pubblico per la maggior parte è riversato su creditori interni, soprattutto banche che hanno già ricevuto premi e agevolazioni per tale tipo di sollecitudini: se qualcuno si è esposto con debiti altrui avrà pure avuto le sue buoni ragioni e del resto tra poco le vedremo tutte queste buone ragioni!
Si vuole invece sottintendere che ogni nazione dovrebbe essere libera di organizzarsi internamente le proprie partite esattamente come un’azienda che produca effettivo benessere dovrebbe rimanere autonoma e indipendente da umori e capricci di mercato.
Umori e capricci del mercato, spesso gestiti ad arte da gnomi fattucchieri, non dovrebbero insomma costituire il fondamento di leggi universali.
Purtroppo lo fanno e ciò avviene semplicemente perché l’economia internazionale non è una scienza: è una teologia ovvero il dogma imposto da un colonialismo e (diciamolo!) un imperialismo che schiera in prima linea banche e imprese in modo da coprire completamente alla vista armamenti più tradizionali.
D’altra parte è risaputo che l’economia di mercato altro non è che una economia fondata sul debito e il debito, come creatore di valore, è autoreferenziale.
Se x l’ha sottoscritto e x, come stato o come azienda, appartiene alla categoria ‘too big to fail’ quel debito deve tramutarsi in valore a prescindere che per accumularlo x abbia commesso una cazzata dopo l’altra: lo dimostra la crisi del 2007 e i suoi esiti assolutamente sorprendenti.
Fa debiti nobili solo chi può permetterselo e chi può veramente permetterselo può veramente farli pagare agli altri, nazioni, popolazioni o aziende che siano.
Non vi va bene? Facciamo fallire allora dieci, cento, mille Lehman Bothers: guardate quello che è successo con una e moltiplicate di conseguenza!
Per altri versi, possono permettersi i debiti solo le nazioni così determinate da attuare, se e quando si renderà necessario, una macelleria sociale che faccia pagare tutto il debito al ceto medio residuo e alla fasce più deboli ancora sopra il livello minimo di sopravvivenza (come hanno fatto coraggiosamente e baldanzosamente gli Stati Uniti risollevando l’economia da una crisi addirittura più grave di quella del 1929).
La strategia adottata assomiglia molto di più a quella nazista di Hitler, che non al new deal di Roosevelt, se tralasciamo gli aspetti più marginali e tutto sommato folkloristici (milioni di morti nei campi di sterminio? Che fatica! E a che cazzo servono, poi? Nella Germania degli anni 30 gli ebrei detentori di ricchezza appetibile per le cicale squattrinate e i casinisti repubblichini di Weimar erano enormemente più numerosi dei membri delle attuali circoscrizioni elitarie: se queste cominciano a combattersi tra di loro, in un mese si svuotano anche senza che qualcuna di loro si organizzi per gassificare i membri delle altre).
Molto di più, certo, ma che c’entra? Se ci limitiamo agli ariani puri, era anche più egualitaria! Altrimenti col cavolo che sarebbero state solo 18 su 285 le mancate delazioni, numerologia per cui si rimanda al film ‘Lettere da Berlino’ e che appare estremamente indicativa se si riflette che il 18 riguarda mancate delazioni di anonimi, per cui non si può quindi giustificare lo scarso spirito democratico denunciato dal risultato finale con l’alibi della paura o del ricatto violento.
Roosevelt non discriminava e combinava poco, Hitler discriminava, ma discriminava male: che merito c’è a essere ariano o ebreo? Così si nasce e così si rimane.
Uno invece è ricco per merito suo o dei suoi progenitori
Questa è la democrazia, mio caro!
Ormai, più della metà degli americani rasentano almeno saltuariamente la fascia di povertà e devono anche confrontarsi quotidianamente, per le strade e nei palazzi, con altre persone che sono invece tra le più ricche o almeno benestanti della Terra.
Pensa quanto si sbatterebbero di meno se non avessero problemi di quel genere!
E nonostante si diano tanto da fare, si è creato (miracolo!) il disaccoppiamento tra crescita economica e crescita dei consumi energetici.
E’ vero che, se si riportassero negli Stati Uniti tutte le produzioni che negli ultimi decenni sono state ‘esternalizzate’ cioè trasferite all’estero, il disaccoppiamento farebbe cucù cucù (come gli orologi svizzeri quando non rischiano figuracce come a Crans Montana o congiure come quelle dei Pazzi o dei Borgia), ma questi trasferimenti consentono alle multinazionali di ritornare a se stesse più del 50% di quello che viene speso all’estero e l’altro 50% copre costi che se venissero affrontati in casa propria raddoppierebbero come minimo.
Invece di mettersi a frignare perché i diritti non piovono come manna dal cielo, i ceti impiegatizi e operai statunitensi dovrebbero dichiararsi orgogliosi di performance che tengono tanto in alto l’orgoglio nazionale e inchinarsi davanti a un Patriot Act che difende gli utili delle grandi aziende minacciati dalle assurde pretese, da parte delle popolazioni barbare del mondo, di difendere dalle devastazioni il proprio territorio e i propri tenori di vita.
E’ una vera disgrazia che una buona metà di americani, qui e là nel corso della vita, non possa apprezzare appieno tanto fiero dominio solo perché si trova a vivere stati d’animo simili (ma a volte peggiori) a quelli dell’emigrante economico africano che, illuso dal febbrile e sollecito trambusto di navi ong o in divisa militare, pensa di arrivare in una terra promessa in grado di valutare e valorizzare le sue doti oggettive e indiscutibili di iniziativa e di coraggio e invece scopre che il suo ruolo è quello del sottoproletario cronico a prezzo ribassato o del portatore di stigmate a testimonianza della sollecitudine dei professionisti della carità.
L’emigrante può travestirsi almeno da folk-singer o rap-dancer e sfilare come ospite d’onore in mezzo ai cittadini buoni il cui cruccio maggiore, la spina nel fianco che turba i sonni di una vita peraltro felice, è il razzismo dei cittadini cattivi: il miserabile autoctono, invece, non è più invitato a nessuna festa a meno che non si dichiari immensamente crucciato per un razzismo che riguarda sempre il colore della pelle e mai lo stato delle finanze personali.
Per fortuna, sia gli emigranti economici che i candidati alle nuove e creative forme di povertà, se dispongono effettivamente di capacità stimabili secondo gli insindacabili metri di giudizio dell’economia darwiniana, possono sempre rivolgersi a quella che è di gran lunga la più grande delle multinazionali plenarie e planetarie, vale a dire la criminalità organizzata, una fonte di assistenzialismo spregiudicato e dinamico rispetto alla quale perfino il Vaticano sembra la fiera dei dilettanti.
Ma comunque, scusate: chissenefrega! Gli Stati Uniti, Cina permettendo (quella Cina che non può strizzare troppo i coglioni all’occidente dato che ha le banche strapiene di titoli del tesoro statunitensi e, in minor misura, europei), rimangono la prima potenza mondiale e possono far vedere i sorci verdi, se vogliono, a quelle boriose piattole europee che drizzano tanto la schiena e non sanno nemmeno mettere in riga i vanesi scialacquatori del sud mediterraneo.
Superbe ironie a parte, che le cose erano destinate a finire così e siano destinate ad andare molto peggio nel prosieguo (anche senza qualche superflua accelerazione dovuta ai benemeriti temerari in grado di far esplodere con le loro cazzate crisi di ordine planetario) ce lo confermano equazioni differenziali della stirpe Lotka-Volterra, che descrivono approssimativamente le fluttuazioni delle popolazioni di una specie qualsiasi in un contesto ecologico schematizzato.
Chissà come mai fior di economisti che si sono perfino spinti a concedere qualche credito a solenni patacche ideologiche come le curve di Laffer o di Kuznets (nella più generosa delle ipotesi, forzature ottimiste intese a consolidare grossolani pregiudizi a favore del potere riparatore e salvifico del progresso economico comunque ottenuto, scongiuri scaramantici o sognanti tipici degli anni della reaganomics e della deregulation) non si sono mai degnati di rimarcare le lapalissiane, teorematiche certezze che i modelli ecologici potrebbero sciorinare con clamorosa evidenza.
Basta infatti suddividere il popolo di una nazione qualsiasi (purché illuminata e confortata dagli evangelisti del mercato) in diverse fasce (considerate omogenee) di reddito, assegnare ad alcune il ruolo di predatore, ad altre quello di specie predata, considerare, per esempio (ma qui con agganci, traduzioni, analogie ci si può sbizzarrire) il totale della ricchezza per fascia come il numero di individui della relativa popolazione e poi risolvere le equazioni al computer e vedere che diavolo potrebbe accadere.
Si tratta di una idea un po’ peregrina, ma forse molto meno peregrina di molte altre comunemente accettate o prese come riferimento negli studi economici.
Se applichiamo l’analisi in ambienti stabilizzati da secoli, i responsi che riceveremo sono abbastanza prevedibili, ma una economia puramente nazionale non esiste più, anzi non esiste più una economia nazionale punto e basta e il fatto che il 50% delle aziende apparentemente autoctone abbia ormai preso la cittadinanza straniera ci dà suggerimenti preziosi su come potremmo applicare le equazioni logistiche cercando di stabilire in un quadro internazionale rapporti tra ecosistemi naturali e giungle economiche.
Penso alle specie invasive che sottostavano a specifici equilibri e limitazioni negli habitat originari e, quando vengono trapiantate, accidentalmente o per fini deliberati, possono far valere coefficienti superiori di fitness in ambienti privi di ogni pressione contraria.
Che cosa può essere, nell’accezione interpretativa di simili modellistiche, il capitale di una multinazionale se non una specie predatoria che può ispezionare il mondo intero e accasarsi dove meglio ritiene opportuno in base alla considerazione che nell’area scelta i nemici sono deboli e scarsi (e comunque si possono fare alleati alla faccia dei pannicelli caldi delle leggi antitrust o del lavoro o altro che magari non esistono nemmeno) e il nutrimento è invece ricco e abbondante?
Questa specie predatoria può perfino tenere a bada almeno una parte dei potenziali nemici stabilendo astuti e premeditati legami simbiotici con la fauna locale, per poi minacciare di romperli e creare un danno diffuso se la frazione di fauna locale privilegiata da tanta condiscendenza non accetta condizioni sempre più vessatorie.
Forse i tipi delle simulazioni richiederebbero correzioni e arricchimenti ad hoc, come d’altra parte è molto probabile che i rapporti gerarchici e di dominazione risultino molto più semplici, ma comunque, cari amici economisti, non trovate in queste ultime righe suggerimenti da cogliere al volo?
Noto una certa insofferenza.
Vabbe’, parliamo d’altro, anzi no, continuiamo a parlare di correlazioni tra ambienti naturali ed economia, ma in una prospettiva diversa, che coinvolge un’assoluta protagonista, una diva di prima grandezza in quel tipo di scenari: l’anidride carbonica.
Se mi promettete di rispettare l’adagio del primo paragrafo, vi rivelo il sospetto che le persone più scientificamente avvedute nutrono al riguardo, ovvero che, migliorando le condizioni di vita dell’umanità su ogni livello della scala economica, la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera sarebbe destinata a salire inesorabilmente anche dopo l’abbandono dei combustibili fossili (anche se (forse!) più lentamente).
Ho parlato di sospetto, non di certezza, perché il modello, che potremmo definire ‘diffusivo’, da cui prende le mosse si presenta molto semplice e schematico.
Si tratta però di un sospetto con qualche solida base, dato che tale schematica semplicità non è così facile da invalidare attraverso modelli più complessi e anzi, alcuni raffinamenti e complicazioni che si possono escogitare avvalorano anziché allontanare certe legittime suspicioni.
Il modello diffusivo si fonda sostanzialmente sulle seguenti ragionevoli premesse: a) un flusso costante delle quantità di una particolare molecola attraverso la superficie che separa due sezioni contraddistinte da fasi diverse altrettanto costanti dipende linearmente dalla differenza di concentrazioni tra i due compartimenti; b) si considerano, rispettivamente, l’intera massa vegetale terrestre e la troposfera candidati ideali a svolgere il ruolo dei due compartimenti.
Detto questo e prima di ulteriori precisazioni e commenti, osserviamo, venendo a costruire con ciò un primo solido indizio a sostegno del modello, che dal Rinascimento a oggi, durante il cosiddetto antropocene, la concentrazione di CO2 nell’atmosfera è salita gradualmente di circa un terzo e in proporzioni molto simili si è venuto incrementando il ricambio annuale di carbonio corrispondente a un fissaggio globale da parte di una vegetazione che possiamo considerare, almeno in prima approssimazione e nel medesimo intervallo annuale, stabile.
Detto in modo più espressivo e sintetico: l’umanità ha accelerato in percentuale molto significativa la velocità di turnover relativa al ciclo del carbonio e la presenza di CO2 nell’atmosfera è aumentata nelle stesse proporzioni.
Se questa dipendenza è sancita da immutabili e sistemiche dipendenze strutturali, intorno alle quali l’entità dei flussi secondo la semplice legge di Fick sarebbe una spia indicativa, l’azione dei combustibili fossili delinea una congiuntura collaterale indispensabile al perseguimento di modelli di sussistenza basati sull’agricoltura e l’allevamento intensivi, al punto che senza l’industria degli idrocarburi non sarebbe alla lunga sostenibile neppure una produzione minima di cibo, figurarsi un miglioramento generalizzato dei regimi alimentari.
Stiamo delineando quindi l’inizio della fine? No, stiamo semplicemente affermando che ogni energia alternativa, per non generare sfracelli, dovrà essere implementata accanto a progetti di tipo kolibiano come quello esposto nel brano inaugurale del 2013.
Come al solito, non forniamo i riferimenti bibliografici a conferma delle analisi quantitative per il semplice motivo che questa non è una pubblicazione scientifica, né un saggio analitico, per il quale le convenzioni sociali non ci fornirebbero del resto le autorizzazioni necessarie.
Il presente sito propone tesi, considerazioni, idee: per avalli scientifici che è sempre buona norma ricercare o verificare, ciascuno può interpellare i relativi esperti o consultare la letteratura accademica.
Non si illuda però lo scrupoloso lettore, se esiste, che tutti i riscontri ottenibili concordino sempre e comunque: studi sistematici di meta-analisi perseguiti consultando una moltitudine di ricerche incentrate sui medesimi argomenti e sparse nel tempo sono spesso costretti a constatare molti più errori e contraddizioni di quello che si sarebbe autorizzati a pensare in base alle cognizioni comuni sull’impresa scientifica.
Ciò fornisce anche indicazioni piuttosto sinistre sul rapporto costi e benefici di una impresa tecnologica che non incede con quel passo spedito e trionfale che la pubblicistica corrente tende ad accreditare non si sa mai con quanta ignorante buona fede.
Quel passo (spedito e trionfale) può permetterselo l’industria privata se, e solo se, scarica gran parte degli oneri di studi e ricerche sulle finanze pubbliche universitarie o sul mecenatismo delle sottoscrizioni altrui, limitandosi ad assumere in proprio la prosecuzione degli studi promettenti al fine di accedere a possibilità di brevetto.
Tali considerazioni dovrebbero ridimensionare e di molto l’ottimismo acritico di chi si fa paladino di una libertà incondizionata della scienza a prescindere dall’ambiente economico e sociale che la condiziona, la sorveglia e la sfrutta.
A ogni buon conto, mi sembra di aver fatto sempre riferimento ad almeno due fonti abbastanza affidabili oppure a una rassegna autorevole che cita fonti altrettanto autorevoli, ma prendere sul serio o meno tale rassicurazione non è decisivo.
Decisivi sono i riscontri effettivi che, allarmanti o meno, dovrebbero essere continuamente vagliati da organi appositi e messi a disposizione di tutti con opportuni indirizzi e commenti, avvertenza che regolarmente viene disattesa forse per docile e servile rispetto verso la riscrittura di regole democratiche addomesticate secondo le esigenze delle oligarchie.
Infatti, secondo i concetti di democrazia che vanno per la maggiore, non sono possibilità indipendenti di accertamento intorno a dati critici e sensibili che vanno incoraggiate, bensì smaccate profusioni di fiducia nelle istituzioni.
Non si può compromettere la fiducia nelle istituzioni senza ragioni robuste e inconfutabili, è per questo che si consolida la fiducia nascondendo o addirittura falsificando i dati e le reazioni pubbliche, ufficiali e trasparenti verso i dati.
La vitalità di una democrazia si manifesta con la valvola di sfogo dei movimenti di piazza, non con la conoscenza effettiva che la gente che sorregge striscioni e cartelli detiene effettivamente rispetto alle problematiche in gioco e ai relativi dossier.
Così il tecnologo stravince sullo scienziato: nessuno gli può contestare una conoscenza specialistica che per essere acquisita richiede un decennio almeno di esperienze e studi dedicati, per cui, forti dell’alibi fornito da una ineluttabile ignoranza, ognuno si avvezza alle ragioni del tecnologo sostenuto dal partito che si ritiene difenda meglio i propri interessi oppure (peggio, molto peggio!) rappresenti lo spirito ideale della propria bellezza interiore.
Un tecnologo saggio finisce così per mettersi sempre al soldo di una forza politica, ma non quella che governa o ha la maggioranza dei voti, bensì quella che muove più denaro.
Quando la parte che governa e la parte che muove più quattrini non coincidono più, si può tirare un sospiro di sollievo fino all’instaurarsi della prossima coincidenza, altro motivo per cui i Kolibiani non si strappano gli scarsi capelli se i populisti o i ‘populisti’ fanno qualche progresso o addirittura conquistano la stanza dei bottoni che non c’erano perché erano già stati venduti all’asta e comprati (in parte) anche da quelli che si lamentavano perché non c’erano.
Vedremo poi se i bottoni sono ritornati e in che qualità e misura.
Il tecnologo, rispetto a uno scienziato, ha vincoli meno stretti nei confronti della verità per il semplice motivo che il mondo della tecnologia è un mondo artificiale che può sempre inseguire una propria coerenza attraverso correzioni e aggiunte: se una tecnologia non funziona, per il tecnologo che l’ha ideata, dipende dal fatto che è incompleta, aggiungiamo altra tecnologia, di quella che il tecnologo stesso o il tecnologo amico conoscono a menadito, ed ecco che funzionerà.
Se insiste a non funzionare, è perché non si è aggiunto abbastanza.
Nel frattempo, mentre si continua ad aggiungere, i vantaggi delle varie aggiunte, chissà perché, non ricadono mai a pioggia sul cittadino qualunque, ma, chissà come mai, rimpinguano quei ceti agiati che il gap tecnologico (quello che bisogna sempre colmare educando tutti, perfino i clochard, con interventi che richiedono, guarda caso e chissà perché e come mai, l’aggiunta di altra tecnologia) non lo subiscono ma, al contrario, lo impongono.
Perché il sistema deve per forza funzionare? Oibò, e me lo domandate anche? Perché altrimenti non ci sarebbe altra via che quella di una rivoluzione.
Come volete che risponda, quella parte di popolazione che parte dalle élite più facoltose e arriva a un ceto di piccoli proprietari che ancora lottano dignitosamente con la speranza di conservare un proprio esclusivo decoro, alla domanda se è meglio la tecnologia o la rivoluzione?
Naturalmente la parola rivoluzione potrebbe tradursi in ‘Progetto’, ma al contadino non far mai sapere quanto è buono il formaggio con le pere.
TAVOLA SINOTTICA N. 2
10 gennaio 2019
Esistono affermazioni ovvie e perfino inconfutabilmente banali che nonostante la loro ovvietà e banalità continuano a generare scandalo e repulsione?
Secondo me sì e tale esistenza è una ovvietà o una banalità che nel kolibiano suscita lo scandalo di constatare come la quasi totalità delle persone anche e soprattutto rappresentative e influenti non giudichi la cosa apertamente scandalosa o almeno allarmante.
Naturalmente, i più elementari concetti democratici impongono di arbitrare la partita degli scandali contrapposti mediante una conta dei rispettivi promotori e quindi la mia sparuta schiera non può che ritirarsi in buon ordine accettando i contrassegni simbolici di un marchio più o meno infamante.
Ma i più elementari concetti democratici si attagliano a decisioni capitali quando se ne impone l’urgenza?
Ovviamente e banalmente no, ed ecco spiegato in estrema sintesi il monotono e periodico riapparire di soluzioni dispotiche e autoritarie calate dall’alto (anche quando sembrano spinte dal basso) negli assetti dominanti delle organizzazioni umane.
Si tratta di una conseguenza ovvia e banale derivante da una delle ovvietà e banalità fondamentali inestricabilmente intrecciate alla vita di tutti i giorni, ovvero che nessuno controlla in pieno e padroneggia a dovere le complessità che a essa ineriscono, figuriamoci quanto può controllare il destino di una società, di una nazione, di un pianeta!
Nessuno vuol dire nessuno.
E figuriamoci quanto questo qualcuno/nessuno potrà mai farlo in un regime liberista-globalista di società ‘aperte’ in cui, oltretutto, per avere voce in capitolo di una qualche efficacia occorre superare prove più simili a un concorso di bellezza che a un esame per il master!
Concentrazioni di potere finanziario ci provano, ma un gruppo di pressione non è qualcuno nel senso di mente individuale: è semplicemente un nodo della complessità del sistema
Il nessuno di cui sopra è l’attore principale dei principali avvenimenti del nostro tempo.
Se ci concentriamo, anziché sulla generalità delle tematiche, sulla precisione necessaria per assumere con convinzione decisioni cruciali, nessuno sa, per esempio, fino a che punto crescita economica e sostenibilità ambientale siano compatibili a prescindere dai sistemi di produzione energetica, nessuno sa se crescita e sostenibilità siano gravemente incompatibili anche nell’immediato, nessuno sa se basterà una decina di anni ancora di crescita economica per sfasciare completamente il pianeta, nessuno sa se l’imperativo della crescita economica abbia già sfasciato il pianeta.
Si va avanti finché si può confidando nell’assistenza della normalità (scongiuri di tipo religioso sono bene accetti, ma non indispensabili), quando la normalità si rompe si cerca di ricostruirla in regime di emergenza, quando l’emergenza è troppa si cerca di costruire un’altra normalità, quando un’altra normalità non esiste l’emergenza diventa normalità oppure ci si ferma e amen.
Ovvio e perfino banale.
Il giovane borghese benestante dell’Europa occidentale che brindava al nuovo secolo nei primi minuti del primo gennaio 1900 apparteneva a una classe sociale che in nessun altro momento storico è stata più orgogliosa di sé e più fiduciosa verso l’avvenire che la attendeva: una quindicina di anni più tardi avrebbe avuto grandi probabilità di arrancare nel fango e nella merda delle trincee, partecipe di uno degli episodi che, nonostante una concorrenza molto nutrita di cui la Storia trabocca, possiamo considerare tra le fasi più allucinanti in assoluto della demenza bellica umana.
Elementi di democrazia sostanziale saranno mantenuti finché non ostacoleranno il confronto con le emergenze, in caso contrario il popolo sarà chiamato a gran voce a votare contro i pedanti garbugli da essi provocati: o per neutralizzare istinti ferini sobillati dalla sfiducia verso la bontà divina delle ‘istituzioni’ (sfiducia che in assenza di sbocchi alternativi produce solo danni) o per inaugurare una efficiente e sbrigativa economia di guerra…
Derive simili (ovvio e banale!) si potrebbero prevenire attraverso una semplificazione drastica quanto tecnologicamente raffinata ottenuta per via progettuale, ma dove andrebbe a finire tutto il pathos della storia ovvero l’entropia caratteristica del fenomeno umano?
E’ ovvio e banale che senza stato stazionario e in assenza di crisi (crisi il cui potenziale deflagrante cresce proporzionalmente alla complessità del mondo), sia che le energie siano pulitissime e rinnovabilissime o sporchissime e sprecatissime, in pochi decenni una potenza media dilatata esponenzialmente eccederebbe quei limiti di tolleranza planetaria che la storia della vita sulla Terra sembra addirittura fissare in pochi millesimi dell’apporto energetico solare.
Nessuno sa niente di quello che sarebbe veramente importante sapere, al massimo ognuno ha una sua stima vaghissima delle probabilità ma niente di più.
Nessuno sa neppure a che cosa effettivamente si riferisca quel termine, ‘probabilità’, anche se nei casi comuni una certa idea ce l’abbiamo.
Ripetiamo l’antica domanda: quale entusiasta della vita uscirebbe oggi di casa se il suo personale grillo parlante lo avvertisse che così facendo incorrerebbe, oggi e solo oggi, in un rischio di morte… diciamo del 10%?
Fortunatamente non esistono grilli parlanti e così possiamo tutti insieme continuare indisturbati il nostro comune tran tran.
Questioni più spinose a parte, nell’attuale pandemica società dello spettacolo, ogni marchio, etichetta, attestato sbiadisce in pochi mesi, mentre la vera indelebile ignominia consiste nell’impossibilità di disporre almeno saltuariamente di un pubblico affezionato in qualche modo pagante.
Nelle società dello spettacolo (ovvero in tutte o quasi le società proposte all’analisi e al giudizio degli storici) la vera conta dei voti, quando le armi tacciono, avviene ai botteghini.
I mezzi tecnologici (ovviamente e banalmente) consentono alle attuali versioni di tradurre il barocco di pulpiti, troni, alabarde, cavalli piumati, croci, stole, merletti, gonfaloni eccetera nei più svariati riadattamenti di concetti ingannevolmente anodini come, per esempio, quello di ‘informazione’.
Dobbiamo ringraziare simili sopraffini distillati del progresso se adesso chiunque pigi il tasto di un computer o di un cellulare è sottoposto a quelle pratiche di ‘profiling’ di cui, fino a qualche anno fa, potevano godere soltanto i criminali.
Siano rese lodi e grazie a certi magnati per la dignità che così conferiscono al misero utente x sollevandolo dal magma informe del plumbeo anonimato, anche se qualche volta, di quel bel florilegio di biografie e identità centrifugate, non approfittano solo i buoni.
Si tratta di una ovvietà e perfino una banalità, esentata dallo scandalo a patto che, se qualche incidente viene alla luce del sole, il mecenate implicato si affretti a chiedere scusa e garantisca solennemente davanti al Congresso che d’ora in avanti i buoni faranno quadrato intorno alla mangiatoia dei data e dei big data per non fare avvicinare i cattivi.
Intanto, a che punto si trovino i vari Echelon quasi nessuno lo sa: fermi non stanno di sicuro soprattutto quando tutto tace intorno a essi, per cui si trovano molto oltre il punto in cui l’ultima rispettosissima inchiesta li ha circoscritti con un grande margine di approssimazione.
Noi kolibiani lo speriamo assai: per questo sito così poco indicizzato, linkato, hashtaggato, sarebbe importante poter attirare attenzioni di pregio semplicemente scrivendo ‘comunismo’ in testa ed ‘Echelon’ qui e là!
Comunque sia, finché non arrivano gli esattori a confiscare costumi e scenografie, the show must go on e la regola vale per me come per qualsiasi altro.
Ogni essere umano in fondo non fa che suonare e risuonare, con varie armonie e stridori, i pochi strumenti che il caso e la necessità gli hanno messo a disposizione e tutto quello che ci si può augurare magnanimamente l’uno con l’altro è che ciascuno ne tragga quel giusto, moderato e sereno diletto che uccelli, scoiattoli, marmotte e così via sembrano trarre dal farsi secondo istinto e natura i simpatici e per nulla indisponenti ‘cazzi propri’.
C’è chi ‘per natura’ si accontenta di un solo strumento principale, con cui cerca di arrabattarsi al meglio o almeno alla meno peggio, e chi predilige saltabeccare da un marchingegno all’altro senza soverchie ossessioni per quello che ci si può cavare al di là di concreti ritorni vividi e immediati: se costui è in condizione di pretendere il meglio da chi, per necessità o per vocazione di perfezionista, è ridotto a un minimo ripetitivo, diventa un dirigente, altrimenti tende ad avvicinarsi pericolosamente alla china del fallimento.
Una delle tante filigrane interpretative che traspaiono dalle insondabili complessità delle società umane delinea appunto la metafora di una esecuzione sinfonica in cui il muro sonoro di fondo, il basso sordo che tutto pervade e contamina corrisponde al ronzio ossessivo dell’impegno sia dei talenti specialisti che dei limitati più o meno monocordi, mentre il divagare melodico del sogno estroso dei zuzzurulloni disegna contrappunti di una qualche pretesa artistica o etica o libertaria e intanto gli strumenti pilota e i direttori settoriali intervengono qui e là a correggere e redarguire senza alcuna idea generale e compiuta sul pezzo sinfonico che si sta interpretando, ammesso che esista.
Questo è nichilismo?
Se lo è, non si può escludere che provenga da uno schietto, profondo e non antropocentrico rispetto della Natura e quindi di Dio o ‘Dio’.
Forse è più nichilismo adorare i giocattoloni deificati di valori sempre più ininfluenti o addirittura antitetici rispetto a qualsiasi concetto ragionevole di qualità della vita e gestione oculata di ambienti e risorse.
Il vero nichilismo consiste in quel proditorio e arrogante degrado metafisico del mondo esemplificato dall’assurda pretesa di descrivere e controllare le complessità attraverso pregiudizi semplici ed elementari, perlopiù derivanti da equivoci capitali circa il rapporto tra le leggi e le complessità medesime.
Secondo le barzellette filosofiche più diffuse, infatti, princìpi monolitici in sé conclusi fondano e governano le complessità, quindi di fatto le complessità sono subordinate alle leggi, le quali leggi, però, a questo punto non si capisce bene a che cosa sovrintendano se il nucleo vivo della realtà deve nutrirsi di princìpi sostanzialmente autoconsistenti e monisti, mentre le complessità che si regolano in modo semplice non possono davvero fregiarsi del titolo e quindi diventano una contraddizione in termini che sancisce la loro provvidenziale sparizione.
Rispettando questa visione, non c’è nulla di autentico tra i poli alternativi del caos primigenio, da una parte, e l’empireo sferico degli eletti assorti nella contemplazione del punto centrale, dall’altra: il mondo reale è solo illusione e degenerazione al di fuori del sogni trionfali, ancorché troppo spesso difettosi, delle monadi predilette dal proprio Nume onirico preferito.
Ovviamente e banalmente l’ontologia del mondo mantiene il valore euristico del concetto di legge per quanto riguarda il giudizio pragmatico e semplificante umano e, più in generale, biologico, ma ne ridimensiona di molto il valore ai fini della produzione di eventi concreti, la cui spiegazione esaustiva, aggrappata com’è a quella strana legge anti-legge che passa sotto il nome di ‘rottura di simmetria’, o rimanda a totalità più vaste o rimane ad annaspare nel vuoto così vuoto che più vuoto non ce n’è nemmeno col divino.
La totalità più vasta alla fine risulta un intero universo effettivamente isolato (quindi, forse, un multiverso infinito) la cui comprensibilità per l’intelletto umano richiede un livello assoluto di dimensioni minimali senza il quale razionalità e mistica diventano inscindibili.
La deriva mistica non riguarda di sicuro solo le compagini a vocazione religiosa, se tentazioni al riguardo si affacciano periodicamente in aree di pertinenza scientifica e anzi vi presidiano costantemente fette di territorio spesso recintate con cartelli che parlano di ‘avanguardia’.
Prendiamo per esempio questa storia dell’indecidibilità in senso godeliano di un ‘gap spettrale’ di cui non serve qui sapere altro se non che è un fenomeno fisico e che è indecidibile: niente di finito è teoricamente indecidibile, quindi se qualcosa è indecidibile partecipa di una natura localmente infinita e davanti a una natura localmente infinita occorre arretrare sconfitti a meno che anche la nostra mente sia infinita.
Va da sé che se la natura del mondo è localmente infinita anche la mente dell’uomo lo è, quindi quei limiti della potenza umana che derivano dall’azione della complessità su scale finite poste al di là delle possibilità di indagine strumentale si ribaltano nel sottinteso di una onniscienza imperfettamente accessibile grazie a una incomprensibile quanto innegabile natura divina di fatto e di ragione, anche se il termine ‘divino’ necessita ancora di qualche aggiustamento assiomatico.
Possiamo quindi attendere calmi e fiduciosi quel miracolo d’illuminazione che consentirà alla potenza del nostro intelletto infinito di superare gli ostacoli frapposti come una specie di sfida giocosa da una natura che, pur essendo parimenti infinita, si trova però ai livelli più bassi di quella scala di infiniti che a noi è consentito ascendere senza limiti (lo dimostrano i matematici a partire dai teoremi di Cantor).
Come modesta e quasi vile alternativa, una sovrapposizione completa di località e globalità, interpretata nel contesto finito di ciò che può offrirsi alla comprensione razionale come una sorta di super automa cellulare, si palesa necessaria al concetto stesso di legge, se si considera la presenza onnicomprensiva dell’indeterminazione caotica e la presenza di un orizzonte degli eventi.
Si dà il caso, infatti, che un automa cellulare possa raggiungere qualsiasi livello di complessità finita ed elaborare qualsiasi tipo di programma secondo il solo concetto di calcolabilità a cui finora è potuta pervenire la mente umana.
Non stiamo allora facendo altro che definire l’insieme delle leggi cosmiche come il programma del computer universale, aggiungendo solo questa piccola postilla: appare ovvio e perfino banale che, fatta salva la fantomatica scoperta di concetti e paradigmi completamente innovativi, qualsiasi sintesi razionale del mondo a grandi linee sfocerà sempre e comunque in una visione analoga e corrispondente, ovvero equivalente, a quella appena delineata.
Perché? Perché qualsiasi concezione della realtà diventa la concezione di un universo (qualcosa che proviene da oggetti distanti circa 14 miliardi di anni luce ci sta solleticando la pelle anche ora) e questa concezione che riguarda il ‘Tutto’ deve essere codificata in qualche modo nei confini materiali di un singolo cervello.
Qualcosa che non può essere e avvenire nell’ambito fisico dei circuiti neurali va esclusa da ogni cognizione razionale del mondo per il doppio motivo che non può avvenire e non può essere compresa, il che significa esattamente il contrario di ciò che potrebbe sembrare, ovvero che il cervello umano può comprendere tutto: in effetti non è possibile comprendere totalmente ciò che viene usato per la comprensione, anche se questo strumento deve rispecchiare la realtà di sé e di quello che lo circonda per poterne costruire qualcosa che il nostro linguaggio possa definire ‘comprensione’.
Ecco svelato in modo ovvio, banale e felicemente semplicistico il mistero della conoscenza.
A qualcuno tale semplicismo non piacerà, ma ‘semplicista’ significa più o meno ‘che dispone di un livello di complessità inferiore a quello che si vuole simulare’, per cui, quando quello che si vuole simulare è la realtà del mondo, bisognerebbe disporre di tutto il mondo ovvero della famosa mappa in cui un centimetro sta per un centimetro per non essere semplicisti, a meno che non si disponga, ovviamente e banalmente, di permessi soprannaturali.
Da una visione del ‘Tutto’ siamo così precipitati a un viluppo di claustrofobiche sottigliezze, ma dato che località e globalità concordano basta un solo colpo di ali per passare dalla vertigine claustrofobica di una scatola cranica a quella agorafobica dell’orizzonte degli eventi.
L’orizzonte degli eventi si allarga istante dopo istante e quindi aumenta, istante dopo istante, il cumulo delle interazioni causali, modificando di conseguenza gli effetti interattivi tra gli elementi basilari di qualsiasi ambito fenomenico.
Se tale influsso non fosse già ‘messo in conto’ dai meccanismi cosmici elementari, risulterebbe tutt’altro che trascurabile ai fini della regolazione fine degli eventi, soprattutto in contesti come quelli della meteorologia, dove nel corso delle ere geologiche modificherebbe la dilatazione di scala delle interazioni relative a identici intervalli temporali, smorzando o incrementando le instabilità.
Le regolarità epigenetiche pertinenti ai diversi livelli apparirebbero così, rispetto al presente, più o meno volatili a seconda di come le dimensioni spaziali e temporali hanno modulato i rapporti quantitativi delle nuove influenze e questo, mi consentano lorsignori, potrebbe apportare ulteriori vincoli a quelli già evidenziati dal Principio Antropico o di Autoselezione, restringendo gli intervalli temporali nei quali, all’interno di una storia cosmica, è possibile l’insorgere della vita biologica.
Tutto ciò suonerebbe come astrusa minuzia pedantesca rispetto alla iper-uranea bellezza di certi teoremi quantistici o superstringheschi, purtroppo nella vita di tutti i giorni occorre preoccuparsi anche degli aspetti meno poetici se non si vuole nuotare nella spazzatura e nei liquami, anche perché, se si volesse invece fare carambola e filotto dopo una decina scarsa di sponde, occorrerebbe calcolare l’influenza gravitazionale e calorica dei giocatori insieme alla distanza del soffitto e della plafoniera, ma soprattutto la spinta dei raggi di luce sulle palle bianche o colorate (ammesso e non concesso che la loro sfericità sia perfetta e che gli attriti non facciano troppo i birboni).
Sbagliando poi miseramente perché nel frattempo (dopo aver già tirato il colpo, non prima o durante!) qualche automobilista perverso pensa bene di schiacciare il clacson al posto delle sue palle mosce, gli venisse la cacarella a quel figlio di buona donna che ha rovinato tutto scagliando quelle onde sonore!
Tale pignoleria ossessiva e maniacale di Monna Natura dispiace ai fisici puristi che vorrebbero sottoporre il giudizio ultimo sul riscaldamento globale alla solenne corte dei satelliti tipo Landsat e alla rete di computer a loro avvinta.
Purtroppo i tempi richiesti da tali nobili consessi per esprimere sentenze univoche e sicure mal si accordano con le capricciose costumanze del nostro avventuroso pianeta.
Per esempio, un ligio e benpensante satellite che abbia registrato già da una decina di anni, intorno al solstizio d’estate, il delinearsi di crepe e smagliature sottili nella banchisa artica polare, in un certo anno qualsiasi, mentre la collezione di dati non è neppure a metà del lavoro necessario per ricevere l’imprimatur e le congratulazioni del bravo statistico, potrebbe dover trasmettere senza preavviso la presenza colà di un buco che diventa squarcio, trovandosi quindi nella necessità di segnalare con un certo imbarazzo che in quella macchia scura l’irradiazione solare media giornaliera per metro quadro, in quel periodo dell’anno più intensa di qualsiasi punto dell’equatore, per la maggior parte sta sprofondando nelle acque marine invece che essere, per la maggior parte, rinviata dai ghiacci ai mittenti dello spazio cosmico come omaggio non richiesto e non gradito.
Niente paura: entro qualche settimana, quando la persistenza e la stabilità del fenomeno sarà accertata, una nuova squadra di tecnici e di specialisti si metterebbe prontamente al lavoro per desumerne gli effetti quantitativi senza il pressapochismo e la vaghezza intuitiva propri dei dilettanti.
Considerazioni più astratte legate ai riflessi causali di un orizzonte degli eventi nella concezione unificata del computer cosmico (neanche poi tanto astratte, se esaminiamo la cosa dal punto di vista dell’estensione temporale ragionevolmente assegnabile alle civiltà industriali), riguardano ancora l’apparizione, l’insorgenza e la durata degli organismi biologici, sommandosi ad altri numerosi aspetti che di solito non vengono considerati, come la vulnerabilità della cellula eucariote rispetto ad agenti mutageni, in primis la radioattività, o la stabilità limitata nel tempo dei sistemi planetari.
Sembra proprio che, per quanto ne possiamo capire (che potrebbe essere quasi niente, poco, tanto o quasi tutto), la costruzione del mondo non possa prescindere dalle suddette considerazioni, almeno finché non saranno sostituite da una diversa metafisica altrettanto credibile, fermo restando che dovrebbe risultare ovvio e perfino banale che le metafisiche main stream che hanno primeggiato finora nel mondo occidentale risultano delle pure e semplici assurdità ammesse per ragioni soltanto emotive e pragmatiche oppure ipotesi arbitrarie basate su tanti bei pacchetti d’infinito presi a scatola chiusa: una scatola che non si capisce ancora, con tutto quello che contiene, se debba risultare infinitamente pesante o infinitamente leggera.
Se, d’altra parte, i criteri della gestione economica e sociale dovessero risultare insensibili a premesse scientifiche e filosofiche riguardanti, né più e né meno, la natura della realtà, ciò demolirebbe senza ombra di dubbio l’importanza della cultura nella direzione delle cose umane e di conseguenza assegnerebbe i decorsi storici e sociologici a eventi di tipo naturalistico retti soltanto, al livello più basso, da una propria particolare termodinamica, di cui peraltro e purtroppo, in un modo o nell’altro, anche il livello culturale partecipa.
Tutto sommato, dunque, prendere coscienza dello stato attuale delle cose non lascia molta scelta sulle decisioni da prendere se non si vuole indulgere in dolci e luminose speranze, a tutt’oggi smentite da ogni tipo di evidenza storica ed empirica, sulla capacità della scienza e della tecnologia di rimediare ai danni provocati da esse stesse medesime in persona, non direttamente, come a loro volta si illudono i sognanti umanisti (giacché in quel caso si potrebbe molto ragionevolmente pensare che gli utili siano maggiori dei costi), ma indirettamente, attraverso le accelerazioni distruttive inferte alle frenesie economiciste e scriteriatamente ‘progressiste’ in cui, sotto sotto, perfino la maggioranza degli stessi sognanti umanisti crede, si conforta, confida.
Se quindi l’umanità vuole emergere dal corso vorticoso degli eventi naturali (metafora che sta per: se vuole far valere in qualche modo il suo essere razionale), deve cercare, quanto più è possibile e per quanto la cosa appaia paradossale, di collocarsene scientemente al di fuori attraverso un progetto (pardon! un Progetto), altrimenti avvallerebbe la tesi che una natura oggettiva e indipendente non esiste e che quindi Dio non esiste oppure coincide con le capacità magiche dell’invenzione umana.
Finora mentalità scientifica e umanesimo implicitamente spiritualista hanno scelto di accordarsi e sintonizzarsi su metafisiche in cui sotto una dissimulante vaghezza, difesa spesso come la necessità di sacrificare all’idolo della certezza assoluta o quasi, si contrabbandano concezioni quasi magiche e miracoliste, avvalorando le quali l’umanità, almeno entro rassicuranti limiti di tempo, potrebbe contare su certe immunità e garanzie fondamentali.
Basta rendersi conto della sostanziale imprevedibilità di processi molto complessi quando indici e parametri di controllo si modificano velocemente, per cominciare a nutrire forti dubbi circa la solidità di certe licenze e la durata dei relativi diritti.
La religiosità tradizionale fornisce conforti e certezze, ma forse sarebbe anche il caso di interrogarsi su quali rilevanze attengano a un tipo di atteggiamento etico e/o religioso quando prescinde da una curiosità attiva verso gli oggetti e i meccanismi (l’opera del signor Dio cosiddetto) del mondo com’è (e non come dovrebbe essere secondo i nebulosi bozzetti dei sogni umani) e accetta invece una società com’è e non come dovrebbe essere.
Accettare i vincoli sociali come si sono storicamente determinati implica come generalità e preponderanza statistica una spartizione sostanziale del tempo di vita tra un preponderante impegno lavorativo, completamente cieco al di là dell’esiguo cerchio di luce contestuale, e una ricreazione emolliente e curativa che richiama di prepotenza la mitologia etica e religiosa a fungere da unica opzione nobilitante.
In tanta spensieratezza pragmatica consumata nei riti della privacy sempre innocente e nei miti di un pubblico dominio trascendente, la scienza finisce per assecondare, da ancella umile e servizievole, i capricci di quell’autentica calamità termodinamica che rappresenta ormai la specie homo.
Naturalmente, lo scienziato ideale, l’unico autentico ‘intellettuale organico’ rimasto funzionale alla società così com’è, il ricercatore di nicchia che per esigenze di fitness rifiuta il concetto stesso di riprogettazione radicale di una società (a cui potrebbe dare un insostituibile contributo), dedicandosi invece alle finezze estetiche del suo arredamento e a vari fronzoli decorativi (per la banalissima e insindacabile ragione che solo così può rimediare uno stipendio), se è in pace con se stesso e con gli altri troverà in genere questi discorsi fumosi e passatisti e applaudirà invece a investimenti come quelli nell’informatica quantistica.
Esaminare i risvolti e le prospettive di questa campionessa dell’evoluzione pratica e culturale può allora essere utile per chiarire qui le diffidenze kolibiane verso le magnifiche sorti e progressive dell’escalation tecnologica.
Secondo i kolibiani, o almeno secondo il loro rappresentante autentico e originale, i computer quantistici, come già rilevato in altre parti di questo sito, o non approderanno a niente o scardineranno tutto ciò che di Internet è veramente lodevole e anche economicamente e democraticamente produttivo, consegnando definitivamente la rete a una élite del denaro e del sotterfugio iperbolico e costringendo l’uomo qualunque per cui un miliardo di operazioni al secondo rappresenta già uno spropositato eccesso a sacrificare una quota cospicua del suo stipendio annuo per disporre di flussi milioni di volte più veloci di quanto gli sarebbe effettivamente utile in assenza di epilessie paranoiche nel segno del progresso.
Un minimo di superiore saggezza dovrebbe considerare ormai scaduto il tempo per investimenti siffatti in assenza di una profonda trasformazione di assetti socio-economici la cui messa in opera dovrebbe ormai diventare prioritaria rispetto a qualsia altro tipo di innovazione, spezzando per la prima volta quegli automatismi disgraziati e quegli assurdi rapporti di causa-effetto in base ai quali è la tecnologia a dettare i modi di convivenza e non i modi di convivenza a indicare le tecnologie da privilegiare.
Ovviamente non si tratta qui di limitare la libertà della scienza, si tratta di invitare gli scienziati a scendere dal pero o dal fico per rendersi conto finalmente che a indirizzare le ricerche non sono loro, ma chi manovra i cordoni della borsa e che chi impugna quei cordoni non è una Intelligenza Superiore, ma i tenutari di un efferato circolo vizioso tra controlli finanziari del profitto e masse ipnotizzate da idiozie consumistiche.
Investimenti privati che rivoluzionano radicalmente interi settori operativi, indipendentemente dai fasti del passato, che quasi nessuno nega anche perché non vale la pena negarlo, allo stato attuale delle cose dovrebbero essere severamente scoraggiati semplicemente perché, dissolvendo enormi risorse già esistenti, richiederebbero sostituzioni che, in periodi medio-brevi che diventano lunghissimi se raffrontati alle emergenze già aperte, peserebbero sugli indici ambientali molto più di quanto non migliorerebbero la qualità delle vite comuni.
Certi azzardi, ripeto, potrebbero tornare utili soltanto nella prospettiva di una programmazione centralizzata nella misura in cui la faciliterebbero, per cui mi auguro che chi veda l’avvenire illuminato da computer quantistici e fusione nucleare, lo veda anche preliminarmente rimesso per intero a una progettazione olistica di tipo kolibiano, almeno parzialmente o (molto meglio!) quasi totalmente sottratta all’arbitrio economico privato, in modo da esaltare anziché mortificare le iniziative e le libertà culturali (e non economiche) del singolo individuo (l’unico tipo di ominide esistente, al contrario delle masse, che non esistono se non come referente causale di concettualizzazioni fisiche e sistemiche).
In assenza di tale programmazione, si dovrà continuamente correre in tondo dieci, cento, mille volte più veloci per non andare più lenti in vie sempre più intasate, con l’ingegnosità energetica che correrà dieci, cento, mille volte più veloce affinché tutto arrostisca mille… non esageriamo… cento? Mmmh… diciamo dieci anni più tardi.
E’ anche vero che, quando l’intasamento supera i tempi di reazione del progresso, si può sempre provvedere a sfoltire la rosa degli aventi diritto e degli utenti autorizzati, privatizzando sempre più riserve.
Si constata allora che, quando la produzione entropica si palesa ‘democratica’, tende a eccedere i limiti della sostenibilità e quando invece sembra poter venire a più miti consigli con certe esigenze pressanti e inderogabili del pianeta ospitante diventa subito fieramente aristocratica.
Un progressismo che surrettiziamente ignori questa dolorosa evidenza empirica scritta a chiare lettere nella storia degli ultimi decenni, si rivelerà sempre e comunque niente altro che conservatorismo mascherato da ipocrisia.
Nel corso della storia processi simili sono stati variamente declinati e modulati e quell’insorgere monotono e periodico di sistemi autoritari di cui si diceva più o meno all’inizio si rivela in fondo, a uno sguardo dilatato e prospettico, il costo obbligato della sostenibilità in senso lato, non necessariamente ambientale.
Tutto ciò, almeno in astratto e limitatamente al persistere di abusate concessioni, non danneggia tanto le masse fiere di essere masse, paghe della divinizzazione che il despota o il monarca assoluto o il santone ecumenico di turno è ben disposto a concedere in cambio di disponibilità volgarmente terrene, quanto quello strano esemplare che è l’individuo umano, il quale tende di conseguenza a estinguersi.
Ciò non rappresenterebbe necessariamente un male in sé e per sé, se non fosse che solo per una società di individui valgono (teoricamente!) le regole della razionalità analitica e indagante: per le masse, come già più volte sottolineato, predominano coefficienti e parametri riassuntivi di tipo termodinamico e problematiche transizioni di stato i cui referenti ‘microscopici’ restano fuori dalla percezione comune.
Una massa di individui (concetto problematico che il consumismo rende assurdo e quindi inesistente) si colloca su un livello di artificialità razionalmente gestibile, una massa di non individui (concetto ancora più problematico a cui immette l’individualismo monopolizzato da fattori economici e produttivi) si affida a dinamiche puramente sistemiche che non possono soggiacere a condizionamenti globali per il semplice motivo che quei condizionamenti appartengono alle dinamiche stesse.
E’ solo partendo dall’individuo e dai suoi bisogni adeguatamente depurati anche attraverso il filtro dell’educazione che si può sperare di pervenire a una riduzione importante degli sprechi e a un risparmio energetico significativo, il che non è seriamente ipotizzabile in una società ‘dinamica e progressista’ dove ogni singolo uomo deve preoccuparsi dalla mattina alla sera di sgomitare per non rimanere schiacciato nella folla.
L’illusione del risparmio energetico in una società in cui un individuo deve sgomitare nella folla sembra un po’ l’allucinazione di chi volesse risparmiare le energie della folla seminando il panico all’interno di essa.
Affidare le speranze di una soluzione dei problemi ambientali a una rivoluzione tecnologica non supportata da una rivoluzione progettuale della struttura economica delle società, se non è pura stupidaggine, un’assurda scommessa antiscientifica contro ogni evidenza storica ed empirica, coincide con il sogno oligarchico di una gerarchia di semidei venerata da moltitudini composte da sonnambuli pacifici e laboriosi che si accontentano dello stretto necessario.
In realtà, dello stretto necessario l’uomo-massa non potrà mai accontentarsi senza affossare una economia di libero mercato tra virgolette che, per virgolettare senza emettere l’ultimo respiro, necessita della figura archetipica del consumatore, dal che risulta evidente che risanamento ambientale e progettazione oligarchica possono andarsene a braccetto soltanto in una curiosa sorta di tecnocrazia preraffaellita, un principato rinascimentale neoplatonico dove arcaismi estetizzanti e meraviglie alla Star Trek sposano la causa comune di un idillio utopico benvoluto da Dio o ‘Dio’.
In confronto il mondo di ‘Mad Max’ o di ‘Blade runner’ appare irreale e fantasioso come il tran tran quotidiano di un pendolare o le prospettive di carriera di un bancario.
Si tratta di questioni delicate e complesse che non sarà mai facile dirimere senza tagli di nodi gordiani e vertiginose risalite verso le fonti originali di alcune scelte strategiche di fondo, opzioni che il kolibianesimo individua in quel comunismo liberale e individualistico che deriva come principale conseguenza assiomatica da un profondo riadattamento progettuale (all’insegna dello stato stazionario!) degli assetti economici basilari di qualsiasi società umana.
Tali visioni possono condurre a prese di posizioni diverse, ma, se si adotta un pessimismo atto propedeuticamente a compensare una proposta in qualche misura utopica e si ritiene che senza una progettazione radicale ex novo dell’intera organizzazione sociale non esisterà mai un direttore di orchestra che permetta alla sinfonia dell’umanità di sovrastare le ondate planetarie di caos e di calore che la stessa umanità sta provocando, emettere la cacofonia monocorde e ossessiva di un segnale di allarme può risultare preferibile che partecipare a indiavolate jam session il cui pathos generoso è molto allettante, ma alla fine non fa che cucinare ulteriore disordine appena dissimulato dalle spezie delle illusioni.
Questo vale ovviamente finché non sarà caduto il velo di Maya dagli occhi delle moltitudini ipnotizzate dai sofisticati circenses e verrà meno la necessità ovvia e banale di scandalizzarsi per l’assenza di quello che sembrerebbe la cosa più ovvia e banale del mondo, il fatto cioè che gli intelligentoni comincino a parlare di progetti politici in grande e società artificiali invece di azionare le solite ventilazioni di aria fritta e insistere nella stranissima e incomprensibile evenienza di non maledire per riflesso ovvio e banale lo scandalo per cui nessuno stato sta investendo per la ricerca metodica di un nuovo ordinamento contrattualista.
Finché non si sarà trovato il modo, anche in un contesto di riferimenti politici, di rendere le masse ciò che biologicamente, ma non politicamente, sono, ovvero insiemi di individui dotati di coscienza e di introspezione, sarà igienicamente il caso di non crearsi mai soverchie illusioni intorno a una loro presunta ‘correttezza’ ecologica.
Le concessioni che le oligarchie dovranno elargire alle masse in cambio della loro acquiescente manovrabilità evocheranno inevitabilmente correnti di agitazione e attivazione intollerabili ai fini di un adeguato controllo di indici che potrebbero portare in brevissimo tempo a disastrosi abbattimenti di soglie come, tra altri eventi, la fusione estiva totale dei ghiacciai artici, lo scombussolamento dei nastri trasportatori oceanici o enormi collassi di biodiversità terrestre e marina.
Prima di nutrire qualsiasi cullante illusione in proposito, sarebbe bene che ogni sviolinatore progressista prendesse seriamente in considerazione il tipo di base empirica fornita dai secoli passati e soprattutto dai decenni più recenti.
Quando certi decorsi storici seguono, senza eccezione alcuna, certi inesorabili copioni, una società decente, che potesse contare su un patrimonio di cultura articolata e diffusa e non soltanto sulle cime inarrivabili, perse nelle nebbie, su cui stanno accoccolati i super-specialisti (che, data appunto la persistenza di nebbie, la distanza e l’aria troppo fine del panorama vedono poco o niente), dovrebbe, tale società, se non mettere in conto un certo livello medio e canonico di apprensione catastrofista, perlomeno richiedere l’onere della prova agli ottimisti e non ai pessimisti.
I precedenti rilievi possono apparire dispregiativi nei confronti delle masse (intese, con ovvia e banale problematicità, come masse di individui), ma dispregiativa è in effetti la concezione che i poteri si fanno delle masse e che le masse si fanno di se stesse quando accettano di sottostare a poteri che necessitano per durare di una certa concezione delle masse, evidenziando nella fattispecie come le masse consistano in entità che esistono soltanto nella misura in cui vi si può ascrivere comportamenti simili a quelli di uno stormo di uccelli: sequenze di azioni e reazioni descrivibili matematicamente come ‘gruppi di rinormalizzazione’ e simili, tutti riferibili, mediante la tipica dialettica locale-globale, ai singoli uccelli e alla loro percezione dei movimenti limitrofi.
Focolai rivoluzionari di cui ci parla la storia e la cronaca possono accendersi o spegnersi in dipendenza di inneschi causali, come un singolo insulto lanciato in una piazza gremita verso un corteo di plenipotenziari per uno scatto imprudente di esasperazione incontenibile e l’eco non premeditata di reazioni che si trasmettono l’una con l’altra fino a suscitare eventualmente un movimento di rivolta corale, la cui resistenza è all’inizio sensibile a valori di soglia molto incerti e instabili: dipende da questi se gli audaci subiranno ritorsioni e le sovrintendenze ne usciranno illese oppure accadrà il contrario.
Gli esempi degli stormi di uccelli e dei focolai rivoluzionari evidenziano insieme a moltissimi altri come ogni assembramento di esseri umani possa essere assimilato a un sistema di sistemi, un super organismo composto da amplificatori e concentratori di potenza caoticamente organizzata, un formidabile diffusore di entropia nell’ambiente circostante.
Ogni nucleo interagisce con altri nuclei siffatti e tende ad arruolarne sempre di più nel proprio campo di azione, al punto che ogni essere umano può mediamente considerarsi come il padrone di decine di schiavi energetici.
In conseguenza di tali dinamiche, dal punto di vista dell’utilizzo energetico e delle potenzialità aggressive sul pianeta, l’umanità può considerarsi una specie composta da circa 50 miliardi di di individui, stante una virulenza pro capite molte volte superiore a quella del cacciatore con armi bianche che in un paio di secoli ha spazzato via dal nord America l’intera megafauna.
Sulla plausibilità dell’evento che una specie tremendamente ingegnosa e intrallazzona costituita dall’equivalente di 50 miliardi di esemplari di grossa taglia possa continuare a dominare a lungo, secondo il capriccio di una incondizionata e aleatoria volontà, un pianeta come la Terra, invito biologi, paleontologi, naturalisti, ecologi, etnologi, antropologi (accreditati di titoli accademici o giornalistici, altrimenti col cavolo che concedo il diritto di parlare!) a pronunciarsi senza peli sulla lingua.
Il catastrofismo è a tutt’oggi una profezia di tipo indiziario, ma molta fisica fondamentale, dopo l’avvento di energie e materie oscure, teorie del caos, dimensioni minime insondabili, superstringhe e supersimmetrie che incassano solo probabili smentite e nessuno straccio di prova, non può vantare nemmeno il più piccolo indizio sulla disponibilità della natura ad avallare certi tipi di elucubrazioni.
E quanti indizi ci vogliono per delineare almeno l’ombra minacciosa di una prova provata?
A giudicare da certe notizie terrificanti e incredibili circa il declino vertiginoso di coralli, insetti, anfibi, artropodi eccetera in mari, oceani e foreste oppure intorno al calo delle scorte di acqua fossile, non ritengo molto salutare rimettersi a un rigore irreprensibile di conferme empiriche di cui peraltro molte cattedre universitarie fanno volentieri a meno senza subire cali di prestigio.
Quanto all’ottimismo circa le energie rinnovabili, io mi chiedo: se una diga o un invaso non può durare più di 50 anni, se impianti solari ed eolici richiedono areali molto vasti e alti ritmi di sostituzione dei componenti, dove va a finire la rinnovabilità? Se impianti solari ed eolici non richiedessero alti ritmi di sostituzione dei componenti dove andrebbero invece a finire le aziende che li fabbricano? Le terre rare e i metalli particolari di cui necessitano i materiali sofisticati, relativamente resistenti e leggeri, con cui si fabbricano ventole, pannelli, valvole, turbine eccetera sono tanto abbondanti? E il litio delle batterie? Ridurre drasticamente l’albedo di porzioni immense di territorio davvero non causerà alcuna alterazione degli equilibri climatici paragonabile a quella indotta dai gas serra? E, a parte l’albedo, come la mettiamo con l’utilizzo di energia libera terrestre che per tutta l’evoluzione biologica non ha mai superato la frazione complessiva di qualche millesimo? Si tratta di una limitazione limitata a bruti limitati che possiamo allegramente sforare per le abilitazioni divine di una mente divina? E le sostanze emesse nell’atmosfera da una varietà sconfinata di processi industriali, molecole inorganiche diffuse qui e là alla chetichella e in quantità irrisorie? Nessuno ne parla e poi, magari, da un giorno all’altro si scopre, come per NF3 E HCFC che, nella loro globalità, producono effetti tutt’altro che irrilevanti, anche perché ciascuna ha un potere di alterazione climatica migliaia di volte superiore a quello dei gas serra tradizionali. Del resto, una entropia commisurata a livelli esagerati di potenza dove potrebbe fluire per buona o maggiore parte se non in atmosfera?
Quanto invece al nucleare di quarta generazione o ai progetti di fusione come ITER, nel caso fossero intesi come principale fonte energetica del futuro e a parte la ovvia e banale questione spinosa (almeno per il nucleare di quarta generazione) della rinnovabilità (approvvigionamento di materia prima) e della pulizia (scorie finali), è chiaro che, per non generare soprusi e conflitti incessanti tra popolazioni locali e potentati economici privati, i relativi impianti dovrebbero essere fortemente centralizzati e resi monopolio pubblico di stato.
Va da sé che appare molto implausibile che l’utilizzo di forme così estreme e innaturali non comporti un incremento automatico dei rischi connessi a inconvenienti di varia natura, soprattutto se impiantate su territori geologicamente instabili come quello italiano: 100% (Sardegna a parte) di strati orogenetici attivi e 0% di basamenti inerti o cratonici.
A conti fatti bene e non viziati da interessi partigiani o pregiudiziali ideologiche di tipo liberista, energie pulite e rinnovabili non esistono e comunque ci si può avvicinare soltanto attraverso una profonda trasformazione preliminare di quegli assetti produttivi che sorreggono un impianto legislativo e sociale come qualsiasi organizzazione di tipo statale o federale.
Nessuna energia utilizzabile potrà mai essere considerata abbastanza rinnovabile e pulita a prescindere dalla rinnovabilità e pulizia della comunità che ne fa uso, alla quale quindi occorre riferire in primis la plausibilità di quei concetti specifici.
Sulla progettazione e l’attuazione preventiva di tipologie kolibiane si basa il successo delle scelte energetiche future, mentre è folle invertire i termini delle priorità, ovvero sottoporre l’avvenire delle modalità di organizzazione comunitaria alla tecnologia delle scelte energetiche private.
Per fare intendere quanto siano pericolose certe fiducie mal riposte nel caso di decisioni strategiche che mettono in gioco prospettive di rischio legate a orizzonti fenomenologici che si distendono molto al di là delle comuni esperienze, vorrei citare qui un esempio istruttivo relativo a LHC, l’attuale acceleratore di particelle del CERN di Ginevra.
Intorno alla sua inaugurazione cominciarono a circolare allarmi e timori incentrati sul rischio che, a seguito del dispiegamento di tutta la sua potenza, nello scontro dei fasci di particele accelerate si potessero verificare produzioni accidentali di micro buchi neri capaci di crescere al di fuori di ogni possibilità di controllo.
La notizia o fake news o diceria che dir si voglia fu prontamente sbugiardata per l’insorgenza del solito fronte di anti-catastrofisti che in casi simili eleva automaticamente, senza alcun bisogno di chiamata alle armi, un solido baluardo difensivo di smentite ironiche e corrosive verso gli ingenui oscurantisti nemici del progresso per ignoranza e ingenuità.
Peccato che, entro lo stesso fronte di entusiasti difensori dell’immane capitolo di spesa appoggiato dalla lungimirante Comunità Europea (che ha sponsorizzato anche programmi di ricerca legati al computer quantistico), qualcuno, più o meno contestualmente, dopo aver dismesso le lucide armature del crociato scientifico, forse allo scopo più o meno inconscio di giustificare certe discutibili opzioni d’investimento, prefigurava audacemente utilizzi di LHC nel campo della ricerca energetica di avanguardia, giungendo a ipotizzare che, con il grado di potenza raggiungibile dal mirifico anello, si sarebbero potuti creare buchi neri utilizzabili come produttori di straordinari volumi di energia ‘controllata’.
Se LHC è davvero in grado di generare un micro buco nero (io non lo so), forse il sarcasmo contro i tremebondi catastrofisti andrebbe un momentino raffreddato o, ancora meglio, sostituito con rassicurazioni tecniche che però devono concedere un minimo di credibilità ai relativi timori e tremori.
Chi possa poi fornire rassicurazioni adeguate e in che modo, quando si tratta di tecnologie così d’avanguardia e che agiscono in campi tanto esotici, per me rimane un mistero assoluto.
L’ottimista confida in comunità di esperti in cui ripone attese e speranze e nel frattempo dà per scontata l’esistenza di controlli incrociati nonché la trasparenza dell’informazione, ma l’ottimista non si trova nella posizione più idonea per affrontare questi problemi anche per il semplice motivo che egli stesso e la sua fiducia da conservare rappresentano il vero problema fondamentale.
Primo, nessuno sa bene di che cosa veramente constino le comunità di esperti: per saperlo occorrerebbero studi e analisi approfonditi ed estesi condotti da comunità di esperti che quindi dovrebbero analizzare se stesse, le proprie motivazioni, i propri obbiettivi palesi o nascosti, incorrendo senza tema di smentita né possibilità di fuga, oltre che in evidenti conflitti d’interesse, nei classici paradossi canonici, psico-godeliani, legati all’esercizio dell’autocoscienza.
Secondo: l’informazione cessa di essere libera e incondizionata quando minaccia la conservazione degli ottimismi.
Esiste infatti una regola che vale in sostanza per tutti i pubblicisti a qualsiasi colore politico o categoria psichica, esistenziale o sociologica appartengano: non diffondere mai allarmismo senza giustificato motivo!
Si tratta di una regola di comportamento apparentemente ineccepibile ed è di sicuro una di quelle che comportano i maggiori rischi professionali quando vengono violate.
In genere tutti i direttori di testata vi si attengono e, se la violano, avviene soltanto per ben specifici e ponderati scopi o interessi.
Purtroppo questa regola, all’apparenza così ineccepibile, nasconde un risvolto avvelenato e cioè tende a tramutarsi in quest’altra, a prima vista molto simile, ma di fatto molto diversa: quando un evento nefasto non ammette rimedi e niente permette di calcolare con assoluta sicurezza e precisione quanto sia imminente, non se ne deve parlare.
Ecco un esempio indicativo che può essere utile a focalizzare il nocciolo della questione: fino agli anni 60/70 del secolo scorso, intorno a brillamenti o getti di plasma da parte del sole che, indirizzati con grande precisione, avrebbero potuto avvolgere la terra in una tempesta magnetica, si discorreva diffusamente in sedi opportune come di fenomeni curiosi e interessanti dal punto di vista storico (crisi del 1859) e naturalistico, ma allora non vi si ravvedeva alcuna conseguenza di natura apocalittica.
Quando la situazione è stata studiata più a fondo e nel frattempo l’economia e la vita di tutti i giorni si è sempre più legata a computer e reti elettroniche terrestri e satellitari al punto di rischiare un tracollo traumatico per un collasso di queste strutture sotto la furia improvvisa e imprevedibile della nostra stella (furia che, per quanto se ne sa, a prescindere da probabilità variamente stimabili, potrebbe scatenarsi anche domani o non prima di qualche secolo), è intervenuta una sorta di autocensura e l’argomento è quasi completamente scomparso dal dibattito pubblico.
Questo tipo di prevenzione igienica ricorda un altro tipico argomento tabù della società dello spettacolo: la morte.
La morte non dell’anonimo personaggio della cronaca o, in modo opposto, ma complementare, del personaggio celebre da consacrare al rimpianto adorante dei sudditi come un simbolo della nobiltà di un sistema che attraverso il necrologio mette a segno una delle tante auto-celebrazioni in incognito: no, sto parlando della morte che chiude il tragitto di ogni singola vita individuale, la mia, la tua, la sua, quella morte che molti preferirebbero ignorare anche perché, se affrontata in termini di testamento biologico o diritto all’eutanasia, come nel caso delle droghe può contrapporre la libertà individuale a meccanismi di controllo sociale e a particolari interessi economici.
Il suddito ideale sottoposto alle suggestioni degli incantatori oligarchici è una sorta di bambinone da tenere al riparo dalle cose brutte delle vita a prescindere dal fatto del tutto trascurabile che tale ignoranza possa determinarle o accelerarle dette cose brutte della vita: questa avvolgente azione protettiva rivolta ai poveri di spirito o supposti tali costituisce oggi uno dei plinti fondamentali della cosiddetta sensibilità democratica (quella che solleva questioni etiche a ogni pie’ sospinto e fa spallucce quando si giunge al nocciolo dei problemi concreti di fondo) e spesso rinforza e inorgoglisce la ragion d’essere del senso di responsabilità giornalistica soprattutto quando è allevato nella culla di capitali di controllo legati a ben determinati interessi.
Che importa, per esempio, se la tassazione dei proventi su un commercio controllato delle droghe può rendere vivibili le periferie urbane e coprire i costi sanitari a carico dello stato indotti dai relativi consumi e molto più in generale tutti gli inconvenienti del debito pubblico? Uno stato che si sporca le mani con la droga o la prostituzione è disdicevole! E’ già così faticoso indossare guanti speciali per maneggiare monopoli o diritti speciali su vini, spumanti, super alcolici, gioco d’azzardo e sigarette, anche se il vero costo è poi quello di dover fare ammenda e detergersi l’anima finanziando le iniziative del Santo Stato Vaticano!
Volendo citare altri caratteristici esempi di disinformazione culturale, facenti capo più ad autocensure inconsce che a esplicite delibere programmatiche, potremmo tirare in ballo l’esistenza di civiltà extraterrestri (eh, sì, lasciatemi divertire, diceva Palazzeschi) e il funzionamento dell’informazione sui mercati azionari.
Di civiltà extraterrestri, un tema molto affascinante anche presso il grande pubblico poco acculturato, meritevole di apparire in rubriche televisive e conversazioni comuni almeno quanto diete e ricette varie, non si parla praticamente più in modo serio, benché rimanga oggettivamente argomento di primaria importanza al fine di un corretto inquadramento del fenomeno umano in un contesto cosmico.
La ragione di ciò è che, allo stato attuale delle ricerche (che potrebbe cambiare anche domani) l’ottimismo di astronomi come Drake e Sagan appare alquanto esagerato e se si valutano le probabilità di presenza di civiltà aliene al di sotto del prodotto delle probabilità relative a tutti i più strani reperti osservati, come pianeti della consistenza del sughero o galassie di sola materia oscura (oggetti che sono stati registrati più o meno casualmente solo una volta, mentre niente di niente è stato ancora colto che facesse pensare ad altri mondi tecnologici), rimane aperta un’alternativa tra opzioni entrambi inquietanti: o l’intelligenza evoluta è molto più improbabile della vita biologica primordiale (il cui livello di probabilità è parimenti ignoto, ma verosimilmente maggiore) o la finestra temporale che è concessa alla sua apparizione è estremamente ristretta (e quindi può scomparire rapidamente dopo l’apparizione, illazione dai riflessi non proprio allettanti per quanto riguarda i destini umani, soprattutto negli attuali chiari di luna).
Sarebbe molto interessante che il tema venisse approfondito presso una vasta platea, ma (appunto!) ciò non accade mai quando le risposte che si profilano più plausibili sono anche le più sgradevoli.
Se l’unico modo serio di trattare un argomento affascinante impone a rigor di logica valutazioni abbastanza pessimistiche, all’argomento affascinante vengono in genere rifiutate le sedi più popolari, cosa di cui si potrebbe avere una clamorosa conferma quando un segnale artificiale promettente dovesse indurre a rivedere tutta la questione in senso positivo: la trattazione dell’argomento, sbrigativa o approfondita, passerebbe infatti da valori vicino allo zero a valori di miliardi in un battibaleno.
La questione relativa ai mercati azionari, anche se meno drammatica, è più antipatica, perché richiama il sospetto di vere e proprie manipolazioni.
In questo sito si è già parlato in proposito del famoso film di John Landis ‘Una poltrona per due’ e recentemente si è letta in giro una curiosa fandonia in base alla quale il film avrebbe introdotto la leggenda metropolitana sull’esistenza di dati sensibili (market mover) da tenere rigorosamente riservati fino al momento della comunicazione ufficiale fissata in ore e date ben precise: per come stiano effettivamente le cose, rimando al suddetto punto del presente sito riguardo al quale non ho niente da togliere né da aggiungere.
Interessante è invece interrogarsi sull’origine di distorsioni in grado di modificare la memoria storica di altre distorsioni, tecniche per certi versi analoghe a quelle adottate da agenti di rappresentanza e uffici stampa quando s’incaricano di intervenire a difesa della reputazione di clienti illustri, uomini o aziende, minacciata da particolari indiscrezioni (le dicerie sulla omosessualità di celebri attori hollywoodiani costituiscono, su un versante di pura amenità, una esemplificazione divertente delle tattiche che possono essere dispiegate in casi simili, a prescindere dal grado di importanza, nel caso specifico inesistente)
Ovviamente e banalmente, notizie e reputazioni, anche quelle legate a questioni strategiche d’importanza capitale che coinvolgono il destino di tutti, risentono delle quantità di denaro messe in campo per la loro promozione o estirpazione: è una ovvietà e perfino una inconfutabile banalità che non scandalizza più nessuno.
A differenza delle verità di cronaca, le verità scientifiche non sono subordinate a influssi economici, ma nella vita di tutti i giorni le verità scientifiche contano poco o niente: molto più importante è l’uso che se ne fa e l’uso che se ne fa, soprattutto per quanto riguarda investimenti produttivi, supporto dei poteri consolidati e analisi di scenari complessi... altroché, eccome, perdinci se è influenzabile dal denaro e dalla politica degli interessi!
Se tutto ciò diventasse sempre più vero, la democrazia diventerebbe sempre più falsa: ovvio e banalissimo!
C’è qualcuno che crede veramente che ciò diventi sempre meno vero?
Ma se ciò diventasse sempre più vero, ovviamente e banalmente ciò significherebbe che tutta l’immane architettura del World Wide Web, il supposto dispiegamento spontaneo di interazioni e condivisioni generalizzate, politicamente presterebbe il destro a manipolazioni sapienti molto più che all’insorgere di coscienze reattive.
Solo se il ‘libero’ utilizzo di qualsiasi rete informativa da parte del ‘libero’ utente avesse potuto effettivamente sovrastare il potere orientativo e condizionante concesso alle multinazionali a cui si deve, sul lato tecnico, la maggior parte della costruzione effettiva della rete medesima, si potrebbe parlare con maggiore fiducia di democrazia, progresso, evoluzione delle coscienze, utilizzo consapevole delle nuove tecnologie eccetera eccetera; in caso contrario, come dovremmo giudicare in prospettiva il rapporto tra quelle offerte tecnologiche sempre più raffinate e l’effettivo miglioramento delle condizioni medie di vita individuale?
Naturalmente, in ogni moderna società dello spettacolo molto di più che in quelle antiche, ogni vero attore o commediante deve potersi specchiare nel pubblico pagante e il pubblico pagante in ogni vero attore o commediante, si tratta di una regola ferrea della democrazia dei botteghini, quindi il bambinone da confortare e coccolare attraverso la pubblicità champagne e i pistolotti a lieto fine diventa ogni libero elettore e la libertà diventa un obbligo di ottimismo e buona volontà, la speranza comandata di chi accetta i disposti metafisici che passano sopra la testa di tutti per la gratuita e disinteressata benevolenza di un Dio buono riguardo al quale la questione che conta di meno è se esista veramente oppure no.
Se non ci fosse, bisognerebbe inventarlo, come anche gli scienziati che, ispirati da lui o da qualche facsimile risolveranno tutti i problemi prossimi e venturi.
Naturalmente artisti e scrittori del passato ci raccontano una storia molto diversa, ma chi, al di fuori di impegni accademici o professionali, perde tempo ormai a leggere per puro diletto classici come Shakespeare o Flaubert o Joyce, geni insomma che possiamo considerare insensibili, per pure ragioni cronologiche, ai canti di sirena dell’industria culturale? Chi l’abbia fatto durante la giovinezza e poi, raccogliendo un suggerimento implicito e sotterraneo di ogni grande opera letteraria o figurativa, classica o moderna, si sia dedicato a capire di più sui dettagli tecnici relativi al funzionamento effettivo del mondo attraverso la descrizione che ne fa la gigantesca impresa scientifica, probabilmente è rimasto sorpreso dalla innegabile sintonia profonda di atmosfere che sussiste tra certe intuizioni dell’analisi letteraria anche contemporanea e i portati psicologici del quadro generale come emerge dalla storia cosmica o dalla filogenesi biologica o da molti altri contesti.
Non si tratta evidentemente di un’affermazione scientifica, ma culturale sì, e quel masticatore di scienza che se la prende con un certo tipo di mentalità (purtroppo molto diffusa soprattutto in Italia) che ascrive la scienza a una tecnica manipolatoria che non avrebbe niente a che vedere con la ‘vera’ conoscenza e la ‘vera’ sensibilità culturale, dovrebbe, se non vuole favorire certi scriteriati giudizi, porre molta attenzione nel distinguersi da cortigianerie intellettualistiche che sembrano dissociarsi con ricercata sufficienza dalle solennità confessionali, ma in effetti cercano solo l’immunità critica del disincanto ironico mentre aderiscono nella sostanza al mondo riccioli d’oro dell’ottimismo escatologico prescritto dagli integrati non apocalittici.
L’ultimo riferimento a chiave potrebbe anche suggerire una esemplificazione del discorso, nel caso molto intempestiva o addirittura fuori tempo massimo, poggiata su certe eminenti figure, ma non è giusto riferirsi a tempi in cui l’opzione di un disegno artificiale delle società, sebbene appesantita da farragini ideologiche e razzismi psicologici tecnicamente superflui, non era ancora tramontata e anzi veniva quasi data per scontata.
Attualmente questa idea non è neppure presa in considerazione oppure viene considerata strumento demiurgico delle intelligenze supreme, dalle quali i forbiti intellettuali di cui si narrava, i fini e arguti dicitori, finora hanno elemosinato credenziali e prebende perlopiù sviluppando cerimoniosi virtuosismi da arguti fustigatori del ‘populismo’ in favore… in favore di cosa (ora che il liberalismo è degenerato nel liberismo) se non dell’oligarchismo, se non si è kolibiani?
Lungi peraltro da ogni kolibiano affermare che l’oligarchismo non possa risultare meglio del populismo o che il populismo non possa acquisire col tempo specifiche competenze nel lisciare i cervelloni di cui possa ritenere utile servirsi.
Dovesse accadere, sarà suonato nel frattempo il gong che scandisce la metamorfosi forzata del vecchio oligarchismo in un nuovo oligarchismo condiscendente verso le ultime mode, sempre che nel frattempo la società non sia diventata kolibiana: si noterà allora con la massima evidenza come i cervelloni suddetti, soprattutto quelli con immacolato pedigree di sinistra, nutrito di solidarietà organica, dovendo scegliere il meno peggio turandosi il naso, propendano per il populismo di destra molto più che per quello di sinistra.
Che cosa mai potrà determinare alla fine la differenza tra le tante formule vuote e preconfezionate di una politica tenuta in gabbia, in un modo o nell’altro, dall’economia?
Bravi bambini! E’ proprio così: il Progetto e solo il Progetto.
Smarrita in tondo è la via,
solo un cerchio la giostra,
tornerò a dire la mia
se ridite la vostra.
Il Progetto e solo il Progetto!
20 agosto 2018
RIASSUNTO DELLE PUNTATE PRECEDENTI O SUCCESSIVE
Si è inteso fornire una concisa sinossi introduttiva e riepilogativa dei temi e delle tesi dell’intero testo, risolta attraverso la scansione di formule lapidarie.
Davanti a ogni formula, ovviamente, va dato per sottinteso un ‘secondo me’.
Formule forse irritanti per certi tipi di cultura sono presentate non per provocazione, ma perché servono (secondo me) a dare vivide simulazioni di riscontri fattuali.
Ogni affermazione potrebbe sottendere, ovviamente, una sfilza sconfinata di esempi e controesempi.
Il ‘secondo me’ significa che, secondo me, gli esempi rafforzativi sono infinitamente maggiori dei controesempi invalidanti, nel senso che per ogni controesempio esiste un x sensibilmente maggiore di 1 di esempi.
Il numero di esempi che sopravanza i controesempi, se i controesempi fossero infiniti, sarebbe allora infinito.
Finché esiste la razionalità, non esiste l’infinito, quindi la frase precedente va interpretata come un ironico sottinteso del fatto che ciascuno raccatta qui e là la manciata di esempi che gli servono: se non intervengono regole di convalida rigorosamente stabilite e poteri sufficienti a farle rispettare, il bilancio dei torti e delle ragioni comincia e finisce lì.
Si è cercato comunque di riferire ogni formula a un simulacro di realtà attraverso una coordinazione semantica che, pur non essendo riconducibile a un sistema assiomatico secondo procedure fisico-matematiche e neppure ad atti risolutivi di apprensione diretta, può evocare concordanze almeno intuitive in sistemi di pensiero fondati su premesse e metodologie almeno in parte similari.
Senza premesse e metodologie, seguendo il semplice istinto, si possono certo sviluppare ingegnose tattiche di sopravvivenza, ma mai un complesso coerente di pensieri.
Quid non est in libris non est in mundo, a parte ovviamente la totalità del mondo medesimo e la faccia invisibile delle sue leggi.
In modo senza dubbio subdolo e vile, prenderò spunto dal crollo del ponte di Genova per fornire una esemplificazione esplicita dei presupposti e dei metodi che qui vengono messi in opera al fine di produrre, nientemeno e secondo me, una organica interpretazione filosofica circa l’attuale stadio della civiltà.
In via preliminare fornisco una definizione del termine SISTEMA, che diventerà cruciale nel seguito: insieme delle dinamiche attraverso cui si consolidano e si incrementano ricchezze e poteri, strutturato secondo la necessità di equilibri (sempre instabili) in cui quelle dinamiche creano meno conflitti possibili tra ricchezze e poteri e sono approvate dalle ricchezze e dai poteri che determinano.
Supponiamo che al governo ci fossero stati i prototipi di comando meglio collaudati, quelli scientificamente dediti alla gestione di un terzo di consensi qualificati e due terzi di rassegnata acquiescenza, secondo il modello che finora ha primeggiato sul fronte occidentale senza che mai accadesse niente di veramente nuovo, almeno fino a qualche mese fa.
Tali prototipi, presso il vertice dell’albero categorico, replicano i due antichi modelli complementari dell’alternanza secondo il gioco elettorale: il direttore di orchestra o maestro cantore delle masse enormi di intraprendenti e baldanzosi individui, da una parte, il morigerato pastore del gregge da accudire in una serena e disciplinata uniformità, dall’altra.
Vince o vinceva alla lotteria dei voti chi mescola (mescolava) e contempera (contemperava) al meglio i tratti distintivi delle due figure (d’ora in poi, senza adombrare alcuna valutazione sugli eventuali elementi di novità nel frattempo intervenuti, userò il presente).
Gli anni di vacche grasse o magre secondo l’ineluttabilità dei cicli economici fanno la differenza e soprattutto lo stadio morfogenetico del capitale: se si sta trasformando da larva in crisalide o resiste nello stato vegetativo di spora grazie a una depressione del mercato del lavoro che è sempre prima e davanti a qualsiasi altra depressione.
Quello che avviene dopo il disastro del ponte è presto detto: si mette in moto una frenetica attività di ministri, notabili, deputati, coordinatori, amministratori locali, funzionari, commissari, sottosegretari, dirigenti, professori, tecnologi, faccendieri, avvocati, pubblicisti, direttori di testata, personaggi simbolo, capo-redattori: un movimento sistematico e diretto a uno scopo, non le ventate di aria fritta, la vuota enfasi ribellistica dei dilettanti pateticamente proni a mendicare i favori del popolo.
Peccato che tanta agitazione così scientemente costruita si proponga alla fine, secondo me, i seguenti obbiettivi principali: smussare e dirottare l’indignazione della gente obnubilando le cause più strutturali e fondamentali del disastro.
Esse non verranno risolte da interventi che, come le delazioni in tempi di nazismo o stalinismo, servono perlopiù a regolare (secondo me) conti interni tra maggiorenti e notabili del SISTEMA senza variarne in nulla gli assetti.
A uno sguardo approfondito, secondo me le vere cause del disastro non risultano infatti l’incuria, non l’abbietta ingordigia né la pavida ignavia, non la pigrizia opportunistica eccetera.
La causa principale di ogni disastro del genere è (secondo me) semplicemente l’accorta prudenza di quegli amministratori del profitto che desiderano rimanere tali senza ricevere un calcio in culo dagli azionisti, i quali azionisti, coadiutori comunque del calcio in culo collettivo, alimentano, anche se per quote irrisorie, il novero di coloro che si indignano per l’incuria, l’ingordigia o l’imperizia.
Ebbene sì, signori, la vera causa del disastro è, secondo me, nientepopodimeno che il SISTEMA.
Che cosa comanda infatti a un’azienda l’obbligo tassativo del profitto pena la sparizione dalla scena della colpevole e dei suoi inetti mallevadori? Secondo me, il SISTEMA.
E’ il SISTEMA che comanda, non certo i leader le cui ultime colorite e un po’ stravaganti versioni complementari di maggior successo sono in attesa di essere sostituite da nuovi modelli di leader popolari ma non populisti, ovviamente costruiti sull’intelaiatura di personaggi compatibili con le recenti correnti vittoriose: avatar manovrabili come Tsipras, però modellati ora su un canovaccio populista, se il ‘populismo’ (le virgolette si possono mettere e togliere a piacere), fatto ancora da accertare, si rivelerà una corrente predominante duratura, degna di essere battezzata con termini più dignitosi come ‘sovranismo’.
Il profitto lo comanda il SISTEMA e il profitto è quel surplus che ricade su amministratori e sovrintendenze già ben pagate e spesso e volentieri strapagate (chi decide l’entità statistica del loro stipendio se non essi stessi e i loro pari?) a titolo di provvigione calcolata sugli emolumenti erogati al SISTEMA stesso, ovvero magnati, dirigenti, azionisti, lobbisti, maestranze variamente coinvolte, la globalità delle interessenze politiche, le casse e i tesoretti dei partiti, più tutto un sottobosco di malaffare che tecnicamente non si può più considerare tale a meno di non considerare tutto il SISTEMA una società anonima criminale.
Queste partite, quando confluiscono negli alvei del terzo di una popolazione senza contropartite sensibili per i due terzi della popolazione medesima (se vi sono contropartite i bombardieri del debito pubblico decollano e poi bisogna abbatterli con la contraerea), a volte, anche se in genere occorrono decenni di andazzi similari, rendono una popolazione schiettamente e sanamente popolana (a cui piacciono le canzoni e il papa) una turba disgraziatamente populista e questa abiezione diventa perfino comprensibile se consideriamo che negli anni centinaia di miliardi di euro sono stati dirottati alle casse private, secondo le suddette modalità, sviandoli dall’investimento in beni comuni, tipo gli ospedali o la manutenzione dei ponti.
Quanto sopra, come quello che segue, è detto secondo me (un qualunque individuo che non dispone di un qualunque avallo e sostegno e quindi è un qualunquista), come pure secondo me viene esposta la tesi che il tutto dipende dal SISTEMA e non da quanto una persona sia guidata o meno dall’ispirazione divina e quindi dai crismi di una razza superiore o inferiore, da pregi o difetti congeniti.
PS1. Mi piacerebbe tanto che, in casi analoghi, accuse di sciacallaggio o comunque di indebito sfruttamento delle disgrazie a fini polemici contenessero un fondo di verità. In realtà, qualsiasi calamità gioca indefettibilmente a favore dei massimi poteri effettivi e magari occulti, che possono calcare senza forzature le passerelle della propaganda mediatica ostentando per l’occasione una sollecitudine formale ma comunque nobilitante e nel contempo richiamare con piena legittimità dosi di quella coraggiosa rassegnazione che è sì la chiave della resistenza a oltranza e del realistico protrarsi di condizioni di vita ordinata, ma è anche uno strisciante ricatto e un monito perenne verso ogni ipotesi o aspirazione di revisione radicale della trama politica e sociale. Il messaggio che viene lanciato in queste occasioni da organi che di fatto spalleggiano le logiche sempre più problematiche e pericolose del profitto è sempre quello: datevi eroicamente da fare invece di perdervi in striduli lamenti e volatili chimere!
PS2. Che il SISTEMA sia così bastardo non significa automaticamente che esista un SISTEMA migliore. Se esiste, occorre progettarlo e costruirlo. Progettare e costruire un SISTEMA non è facile (ovviamente e secondo me).
PS3. Riformare un sistema attenuandone i difetti è senz’altro una strada più facile e sicura rispetto a una qualsiasi rivoluzione, ma gli effetti del risanamento si smorzano nel tempo con il depositarsi degli episodici aloni emotivi e ciò avviene tanto più velocemente quanto più le pecche strutturali si incancreniscono per intrinseche insorgenze degenerative e gli acciacchi cumulativi della senilità che vi congiurano.
SINOSSI
Si ritengono altissime le probabilità che la pressione antropica sul pianeta, (destinata a raddoppiare in una ventina di anni al massimo in assenza di crisi) generi entro pochi decenni eventi catastrofici estremi, se si persevera nelle attuali linee di tendenza e forse anche se non si persevera essendo ormai troppo tardi per escogitare rimedi efficaci.
Se fosse troppo tardi per controllare processi pervenuti a un punto di non ritorno, ridisegnare le modalità di occupazione del pianeta da parte dell’umanità diverrebbe ancora più consigliabile.
Infatti un’azione in tal senso non è solo utile per schivare i danni, ma anche e forse soprattutto per limitarne e correggerne l’impatto qualora non li si potesse evitare.
Le calamità preannunciate si diramano in una trama complessa e interessano su scala planetaria eventi eterogenei, ma correlati, di natura geofisica, biologica, economica, politica, sociologica, psicologica....
Se questa visione appare opinabile per quanto riguarda durate e scadenze, non risulta confutabile nelle linee essenziali, almeno non fino al punto da giustificare lo spensierato fatalismo con il quale la mentalità diffusa e vincente affronta di fatto le ventilate minacce.
In questo testo si sviluppa anche la tesi che tanta inerte noncuranza derivi da visioni del mondo che, al di là di confuse ambiguità e vaghezze, si rivelano sostanzialmente antitetiche rispetto a una corretta epistemologia scientifica.
L’aleatorietà dei tempi e l’imprevedibilità dei risultati si connette alla prevalenza di andamenti contro-intuitivi e sovente esplosivi nella generalità delle transizioni di fase che interessano l’organizzazione di strutture complesse.
In questo tipo di trasformazioni l’anomalia diventa la regola e i fenomeni possono replicare grafici di fluttuazioni avvenute lungo interi periodi geologici su una scala di tempi molto più ristretta, secondo i tipici moduli dell’autosimilarità frattale così diffusi in natura.
Una adeguata filosofia della scienza dovrebbe innervare e corroborare le concezioni fondamentali e i background culturali dominanti di chi è investito di pubblici poteri e responsabilità politiche.
Una pertinente cultura può risultare, non solo facoltativa, ma perfino farraginosa e pleonastica, nelle fasi di normale amministrazione.
Per quanto concerne invece il tipo di occorrenze evocate, l’assenza del giusto realismo diventa un handicap cruciale e rende impossibile l’assunzione tempestiva, con la calma concessa da una giusta previdenza, delle indispensabili risoluzioni di natura strategica.
Nessuno conosce con sufficiente previsione le tempistiche e le probabilità dei disastri e nemmeno l’esatta natura e la gravità di questi, ma è ovvio che le soglie di allarme vanno abbassate quanto più si alza il costo delle conseguenze.
Questa proporzionalità inversa tra l’entità del rischio da considerare e la gravità delle conseguenze da prevedere non agisce in quanto ogni scelta politica in una economia di mercato risulta irrimediabilmente frutto di opzioni sostanzialmente individuali, anche se di individui variamente coordinati e collegati in modi non sempre perspicui a interessi di gruppi.
L’individuo delle moderne società industriali, che sia laico o filo-clericale, è assolutamente privo di un’autentica morale collettiva, sostituita, nel migliore dei casi, da buone disposizioni inter-soggettive e da attivismi localizzati che rimettono interamente le responsabilità e i controlli globali a una versione più o meno secolarizzata e personificata di Super Sistema o Super Umanità, il ‘Dio’ di cui ciascuno favoleggia a suo modo.
L’aspetto strumentale, pragmatico, vitalistico fino all’edonismo mascherato, di tale etica si rivela nel totale disinteresse per il mondo che troveranno le generazioni future.
Potremmo definirla l’etica dominante dell’egoismo solidale.
Questa etica, statisticamente parlando, invece di riconoscere e mediare gli interessi contrapposti sullo sfondo di priorità molto più grandi razionalmente individuate, cerca un modo ipocrita di assolutizzare i propri presentandoli come opera di supporto verso istanze in genere critiche e diffuse, ma soprattutto non concorrenziali.
Oggi come sempre il metodo per concentrare poteri e ricchezze prevede il risucchio di poteri e ricchezze altrui dove esistono e sono poco difendibili, mentre dove non esiste surplus si cercano alleanze promettendo una parte del surplus che l’apparato delle alleanze dovrebbe generare.
Il mito della crescita economica connessa alla qualità della vita tende a mascherare un flusso di entrate e uscite che è in prevalenza a somma zero, con l’organizzazione tecnica e funzionale a fungere da unico fattore determinante per le fluttuazioni al di sopra o al di sotto della linea zero.
Un gioco economico a somma zero se calcolato sul valore delle poste, per l’auto-rinforzo ineluttabile delle polarizzazioni insorgenti diventa un gioco a somma molto minore di zero se si considera soltanto la distribuzione numerica dei contendenti in base ai risultati.
Il sistema sta ormai generando eccedenze inferiori alle quantità risucchiate (che non sono optional, ma condizioni essenziali per la sopravvivenza dell’apparato), affermazione incontestabile se si considerano i danni ambientali, in qualsiasi punto del pianeta, alla stregua di sottrazione e privatizzazione di beni comuni a danno di qualsiasi cittadino del mondo.
I soprusi economici su scala planetaria fondano la solidità dei poteri e sono certamente in grado di mobilitare notizie false circa la sostenibilità del proprio gioco.
Con altrettanta certezza essi sono in grado di condizionare le mentalità correnti e le ideologie principali.
La caduta prematura del muro di Berlino, nel corso di una ventina di anni forse decisivi, ha forse falsato la competizione culturale creando squilibri irrimediabili, teoricamente peggiorativi rispetto allo scenario di un avvicinamento di correnti antagoniste al termine di una co-evoluzione sostanzialmente dualistica.
La precedente affermazione presuppone comunque concezioni diverse di democrazia reale, trascurando il fatto che prevaricazioni aristocratiche s’instaurano in un capitalismo di stato altrettanto bene che in un capitalismo di mercato fasullo e trovano il modo di convergere anche senza che una parte si adatti allo stile dell’altra rinunciando al proprio.
Il punto fondamentale è che, se una volta esisteva soltanto in astratto, oggi non esiste più del tutto un adeguato concetto d’interesse collettivo slegato da interessi localizzati e parziali e diretto verso una programmazione olistica che si preoccupi comunque di salvaguardare la qualità delle vite individuali senza discriminazioni che sono sempre arbitrarie, tendenziose, prive di appigli oggettivi e quindi dei puri e semplici abusi.
Tale concetto, tacciato perlopiù di utopismo, è stato cassato da una sfera socio-economica che vi ravvisa erroneamente e spesso in malafede tratti ideologici vetusti e perniciosi e ha trovato conveniente sostituirvi pretese di assistenzialismo volontaristico che, pur costituendo inefficaci palliativi sul fronte dei rimedi effettivi se giudicati con il metro dell’incidenza statistica, dissimulano sotto un nebbione di frenesia moraleggiante la vera natura delle transazioni politiche.
L’abbandono della programmazione sistemica collettiva per la vocazione sostanzialmente anarchico-elitaria della pseudo-democrazia industriale si traduce in una resa incondizionata ad automatismi impersonali ignorati e travisati da una diffusa ignoranza epistemologica.
(‘Anarchico’ ed ‘elitario’ non sono aggettivi incompatibili, basta riferirci storicamente, per intenderne l’ossimoro, alle spinte centrifughe di principati, khanati, baronie eccetera nella complessione di monarchie, imperi, stati eccetera)
I valori di libertà sotto le cui insegne si allestisce l’operazione ideologica sono fasulli e perfino antitetici, mentre i valori etici di carità e solidarietà sono viziati dal duplice scopo di costituire valvole di sfogo nelle colonie economiche esterne del globalismo pluricentrico e rimpolpare le riserve calmieranti di lavoro precario nelle aree più vicine ai centri di emanazione e comando.
Mai e poi mai la libertà, anche in un’accezione puramente politica, potrà ridursi a libertà economica punto e basta.
La libertà economica convive con altre libertà finché un allargamento della base di benessere comune agisce come accadimento effettivo.
Quando tale allargamento diventa mera speranza giocata in un bilancio di probabilità sempre più risicato, la libertà politica diventa auto-costrizione o si dilegua del tutto appena oltre le mere apparenze.
Quando poi la speranza si spegne un po’ dappertutto, la libertà economica esige e impone la costrizione politica.
Nell’attuale forma dell’economia globale, la speranza di allargare la base di benessere comune porta con sé la certezza del tracollo ambientale nel giro al massimo di poche generazioni.
Inoltre la libertà umana è inconsistente con qualsiasi nozione sensata di libertà naturale.
La libertà in natura è solo darwiniana, se privilegia una specie è solo a danno di un’altra e degenera in estinzione generalizzata quando una specie eccede i limiti imposti dal quadro generale.
La specie umana, in quanto razionale, deve accorgersi del pericolo e optare per un solo rimedio possibile: limitare se stessa.
La specie umana può e anzi deve concedersi il lusso della libertà economica solo quando questa non è distruttiva.
La libertà economica concepita nel quadro di un liberismo globalista condurrebbe inevitabilmente all’accumulo incontrollabile di effetti distruttivi anche in un’applicazione leale e corretta, immaginiamoci quello che può accadere quando il liberismo e il globalismo sono sfruttati in modo opportunista e ipocrita da nazionalismi fondati su potenze finanziarie e militari.
I meccanismi implicati in tale degenerazione fanno parte di una ontologia inesorabile e prescindono dalla qualità di scelte amministrative e politiche passivamente calate all’interno dell’immane apparato vigente.
Non basta al riguardo auspicare una svolta positiva dei dinamismi in atto: occorre specificare in dettaglio i relativi sviluppi.
Rifiutarsi di programmare il destino dell’umanità e quindi del pianeta implica un puro atto di fede metafisica nella garanzia di princìpi cosmici di cui sembra molto più facile dimostrare l’assenza che la presenza.
L’ottimismo cosmico prorompe con facilità e naturalezza in chi è impegnato con possibilità di successo in un percorso di carriera.
Su tutti i livelli della scala sociale, con ovvie impronte e sfumature caratteristiche del livello, la fede religiosa consiste principalmente (nel senso della prevalenza statistica) in un modo per tonificarsi durante il conseguimento di fini pratici e obbiettivi concreti e materiali.
Le fedi religiose più diffuse, come risulta chiaramente dalla loro applicazione nei fatti, non sottintendono un effettivo rispetto e considerazione di Dio ed esigono quindi o un ateismo mascherato o una totale assenza d’introspezione e di capacità analitiche nei riguardi delle proprie motivazioni profonde.
Non esiste alcun rapporto di causa-effetto (al massimo, in casi rari, una coesistenza pacifica) tra il sentimento religioso e una sensibilità metafisica profonda, come non c’è legame tra l’amore astratto per l’umanità e una simpatia sincera per i tratti individuali delle persone.
Il pessimismo tende a scomparire dalla scena sociale perché non aiuta il successo o almeno la sopravvivenza, tende quindi a scomparire secondo modalità analoghe a quelle per cui nel pool genetico delle popolazioni i geni che deprimono la prolificità diventano rari.
Coinvolgere però le categorie di ottimismo e pessimismo sul piano della conoscenza scientifica o nella stima delle probabilità di eventi reali denuncia una forma insidiosissima o di malafede o di auto-inganno o di autentica ignoranza.
Un conflitto tra spirito di conoscenza e mentalità di successo costituisce una spia inequivocabile del deragliamento di una civiltà.
Questo conflitto verosimilmente già esiste in natura ed è comprovato da quella enigmatica incapacità istintiva di valutare le probabilità corrette denunciata da qualsiasi soggetto umano non specificamente preavvertito ed edotto.
Per ineluttabilità logica e quindi per definizione, il successo sociale acquisito e non ereditato deriva da una sfida irrazionale giocata in presenza di un bilancio di probabilità avverso, a prescindere da doti personali che vanno comunque commisurate al conseguimento del successo e non ai suoi riflessi positivi sulla società.
In questa prospettiva, la qualità fondamentale del leader risulta il coraggio e la tenacia, non certo l’intelligenza.
Il coraggio e la tenacia nel perseverare costituiscono un’autentica iattanza quando le azioni sono volte nella direzione del disastro.
Qualsiasi visione alternativa obbligherebbe a una cieca riverenza verso ogni posizione di preminenza e comando.
Sembra che l’individuo animale sia costruito per reagire velocemente agli stimoli ambientali e non per valutare situazioni articolate in una prospettiva spaziale e temporale più ampia e sembra pure che tra le due situazioni sussista una incompatibilità almeno parziale.
La brutale efficacia di una attitudine criminale completamente assorbita nel presente con poca o nulla profondità di campo temporale rappresenta un riflesso del modo più semplice e ineluttabile con cui l’istintività animale si esplica in natura e costituisce in qualsiasi uomo una reviviscenza ancestrale del vigore energetico di cacciatori e guerrieri.
Questa aggressività è compressa, latente o lievitante in base ai geni e alle esperienze biografiche.
Non ha senso condannare la criminalità fredda e impersonale dell’economia di conquista sull’onda di una emotività moralistica: essa va condannata perché promuove disordini e minacce intollerabili nell’attuale regime di complessità.
Se si scopre una bomba inesplosa sotto un nuovo complesso residenziale, non si sta a guardare se è stata sganciata durante l’ultima guerra da aerei amici o nemici: la si disinnesca e basta.
Il mito del male che genera il bene, implicito nel positivismo smithiano, si basa sul manicheismo imperfetto, tarato per favorire il bene, dei più comuni istinti religiosi, quelli per cui ‘una buona disposizione di spirito’, ovvero ciò che tutti avvertono come fondo indistinto di se stessi, è sufficiente a garantire il buon esito delle ‘opere’.
Contro l’acuta coscienza della complessità che pervade un adeguato scientismo, le istituzioni confessionali predicano la semplicità e la chiarezza cartesiana degli impulsi spontanei, ma senza rigorose definizioni analitiche e semantiche dei moventi e dei contesti tutto può sottendere o promuovere il contrario di tutto.
Effettivamente semplice e chiaro diventa allora per prima cosa un comando elementare e la fedeltà nell’esecuzione.
Come gli etologi sottolinearono già qualche decennio fa, gli equilibri delicati tra l’aggressività richiesta dalla sopravvivenza in campo aperto e l’armonia indispensabile al risparmio energetico e all’espletamento ordinato delle funzioni trovano ottime soluzioni in natura per la quasi totalità delle specie animali, purtroppo cambiano completamente natura e significato per la specie homo, che se li deve continuamente reinventare in tempi estremamente ristretti, addirittura microscopici se paragonati alle cadenze degli aggiustamenti naturali.
E’ possibile che l’ampiezza di vedute necessaria per salvare l’umanità e il pianeta comporti handicap insostenibili per chi deve districarsi, lottare e progredire o almeno sopravvivere in habitat ristretti.
Se è vero, l’economia globale liberista, simbolizzata nei suoi aspetti satanici o, per meglio dire, fotografata metaforicamente, si rivelerà inequivocabilmente l’Armageddon della mitologia biblica.
Ciò apparirà evidente non appena le nazioni guida della multinazionalità organizzata saranno costrette ad assumere atteggiamenti aggressivi e sinistri per salvaguardare un tenore di vita dei propri cittadini che sempre più denuncia un tratto concorrenziale inequivocabile rispetto al tenore di vita degli altri abitanti della Terra.
La differenza fondamentale di visione tra localisti e globalisti s’incentra alla fine sui metodi per arginare l’escalation tendenzialmente catastrofica di concorrenza selvaggia.
Quella dei globalisti è senz’altro una concezione razionale ed è anzi l’unica concezione razionale se si prendono come riferimento i trascorsi storici: il problema è che si basa sulla chimera assoluta del continente-nazione o addirittura del pianeta-nazione.
L’assurdità del continente-nazione (l’Australia non fa testo, è quasi tutta deserto) si rivela inoltre un controsenso, dato che in presenza di una crisi delle risorse la contrapposizione tra potenze continentali sembra la via più diretta verso l’olocausto nucleare molto più che il preludio a una pacificazione federale tra potenze illuminate.
Non è lecito accusare una concezione contraria di astrattismo e utopismo quando la propria si fonda sui sogni, criticare l’apertura di nuove vie quando si millantano come percorsi percorribili a piedi chilometri di pareti lisce e verticali.
L’uomo, d’altro canto, non può concepire nulla che non sia metafisico e astratto.
Le astrazioni metafisiche più diffuse dipendono dalla ‘thereness’, dall’ ‘hic et nunc’, favoriscono semplicemente le chance di accesso a incarichi di responsabilità e i processi elaborativi e gli schemi decisionali che vi competono con più immediatezza e destrezza.
Troppo spesso le personalità più idonee a conquistare la guida di un settore si rivelano anche quelle più idonee a distruggerlo facendo prevalere spinte parziali disgreganti.
Ciò è visibilissimo in moltissimi settori della microeconomia, ulteriore indizio che a volte si capisce molto di più restringendo anziché allargando il cerchio della focalizzazione.
Impostazioni e pregiudizi molto forti e pericolosi si estendono dai centri di comando alla sfera delle preferenze e degli interessi più diffusi.
La natura di dipendenze e costrizioni inerenti e quasi automatiche affonda le radici in vincoli pragmatici che, insieme alle ovvie differenze, conservano analogie sostanziali di fondo su qualsiasi livello della scala sociale, ennesimo esercizio fenomenologico di auto-similarità.
La maggioranza di sudditi o elettori non percepisce le anomalie e i pericoli di certe distorsioni perché vi è pienamente coinvolta per motivi antropologici di fondo.
Ogni ceto risentirebbe di eventuali sviluppi calamitosi in misura maggiore rispetto ai ceti sovrastanti mentre i vantaggi a cui rinunciare in vista di rimedi efficaci sarebbero proporzionalmente inferiori, ciò dovrebbe costituire una base sufficiente di consenso per l’intrapresa della via progettuale, ma per una sociologia delle mentalità e i meccanismi dei condizionamenti culturali le questioni connesse rimangono per ora off-limits rispetto al punto di vista consuetudinario.
Quando le probabilità di disastro cominceranno a diventare preoccupanti anche per coloro che hanno gli strumenti per sondarle, ma tutto l’interesse a ignorarle, sarà troppo tardi per ricorrere a rimedi efficaci.
Coloro che manifestano la maggiore propensione a ignorare e minimizzare quelle probabilità appartengono per ovvie ragioni alla classe dirigente e ai ceti maggiormente influenti.
La sottostima dei pericoli ai fini della conservazione di vantaggi e privilegi si salda con l’ingannevole senso di sicurezza distribuito a ogni livello della scala sociale dalla mentalità religiosa.
Una religiosità implicita si espande molto al di là dei nuclei, peraltro molto vasti, di ortodossia confessionale e si basa su uno psicologismo spiritualista connaturato a una base ancestrale di spontaneità istintiva.
Nelle fasi di declino di una civiltà moduli culturali collaudati fino a un grado di raffinatezza estrema possono trapassare senza soluzione di continuità in quella che il senno di poi di osservatori esterni potrebbe giudicare stupida e goffa cecità.
La scissione tra tecnologia e filosofia, paventata come un passo inequivocabile verso la barbarie da tutti i grandi fondatori della scienza moderna (Einstein in testa), non solo si è assolutizzata, si è risolta subito dopo nell’annichilimento del secondo termine da parte della società dello spettacolo.
Sofisticatissimi giocattoli dicono alle menti che cosa pensare e come pensarlo e le menti non si rendono conto che sotto certe sfavillanti magie consumistiche si celano, come chiave del loro successo, la matematica più dura e più pura, una logica ferrea, una rete di nozioni rigorose con scarsa, quasi nulla mobilità reciproca.
La mente collettiva dovrebbe concluderne che, al confronto, concetti come quelli di anima e Dio sono fantasmi dalle sembianze volatili, sbuffi di fumo che cambiano forma da un luogo all’altro e da un tempo all’altro.
Per il gioco affascinante delle apparenze, la mente collettiva ribalta e stravolge il senso delle questioni e, anche per gli ambigui ricatti dell’autostima e di altre trappole della psicologia estrosamente opportunista, considera fatti della materia dei sogni, non angeli e anime, ma nessi della causalità naturale così bizzarramente riprodotti all’interno delle mura domestiche.
Sotto l’abile regia dei guru più avveduti e suadenti, il più comune individuo pensante immunizza dalla volatilità se stesso e il suo servitore magico, quel mentore, garante e benefattore universale che definisce con il termine ‘Dio’ o qualche suo scaltrito sinonimo.
Questa onnipotenza, che s’irradia debolmente dalla timida individualità isolata ed è restituita nel suo massimo fulgore dal gioco degli specchi sociali, fa giudicare inconcepibile la distruzione irrimediabile di un pianeta a opera di una specie eletta che lo considera di sua proprietà.
Una coscienza non può rinvenire in sé, pena pericolosi scompensi, i segni generali e uniformanti di un arbitrio dispotico e distruttivo, anche perché la concezione che ciascuno possiede di se stesso si trasmette al giudizio di sé che coltivano gli altri, circostanza che spiega il declino e l’impopolarità dell’introspezione nelle società evolute accanto alla risalita nei punteggi dell’etichetta di corte, ovvero dell’arte del controllo e della dissimulazione.
Anche qui la canonizzazione religiosa o genericamente spiritualista interviene come surrogato compensante e una sorta di codice esperanto utile a esprimere ondivaghe nostalgie di profondità.
E’ ovvio che di questo passo i livelli dell’interazione e della comunicazione negli ambienti pubblici e nello standard delle relazioni umane si atrofizza fino alla pantomima, rinforzando gli effetti dell’impoverimento linguistico dovuto alle necessità degli scambi informativi internazionali.
L’iscrizione automatica e per partito preso a un estremismo politico scaduto e anacronistico di ogni prassi politica progettuale ‘in grande’ parallelamente al conferimento di una enorme influenza anche e soprattutto economica alle compagini istituzionali del confessionalismo organizzato risulta a un’analisi razionale un’assurdità assoluta.
Tale apparente incomprensibilità, che non rappresenta certo un caso isolato nel novero delle invenzioni del pragmatismo sociale, appare però molto più trasparente se interpretata nel contesto dello strumentario messo a punto dalle tecnocrazie egemoni all’interno di una strategia generale di imbrigliamento e controllo.
L’inflessibile razionalità tecnologica cede volentieri il passo a più arcane suggestioni se queste facilitano l’opera di governo.
Un realismo condizionato e flessibile fino all’incoerenza programmatica propizia il quieto vivere, ma può rappresentare una esiziale cortina fumogena quando si tratta di valutare correttamente l’impatto dell’umanità sul pianeta.
Anche lo scienziato più obbiettivo e spregiudicato cede facilmente alle lusinghe di tutto ciò che funziona pragmaticamente dimenticando volentieri che la funzionalità in ambito infra-umano non implica alcun analogo effetto sul piano della oggettività fondamentale.
Ogni filosofia scientifica è costretta ad ammettere una oggettività fondamentale.
Solo una filosofia estetica, una filosofia dell’arte e della prassi culturale, può fare a meno di una oggettività fondamentale.
Una filosofia estetica può fare a meno di un’oggettività fondamentale perché si occupa delle apparenze di un mondo simbolico artificiale, un mondo di secondo livello metodicamente isolato dalle fenomenologie sottostanti.
A una certa produzione artistica possono apportare contribuiti decisivi cose come nevrastenia e cattiva digestione, ma ben difficilmente un prodotto artistico è definito tale se non cancella le tracce di certe influenze causali.
Ogni formulazione dell’intelletto umano, in tutti gli ambiti e riferimenti possibili e immaginabili, teorici o pratici, si presenta come metafisica pura rimanendo la realtà in sé (l’equivalente del famoso noumeno kantiano) inconoscibile e neppure concepibile.
Ogni cosa nominata o pensata è una sorta di fantasma metafisico.
Una qualsiasi religione, senza mai ricevere il minimo sostegno dagli avvenimenti della cronaca e della storia, afferma la coincidenza tra la metafisica umana e la realtà effettiva.
Qualsiasi seria epistemologia scientifica, fornendo o meno una propria versione dei rapporti intercorrenti, è costretta invece a riconoscere un monismo assoluto e la totale dipendenza dei comportamenti umani dal substrato più fondamentale.
Se non lo fa rinuncia a qualsiasi spiegazione e si trasforma in una forma o l’altra di fenomenologia antropologica alla Fejerabend (un filosofo che era partito da considerazioni ovvie e cristalline per poi farsi prendere la mano dall’indiavolato sostegno di certe facoltà umanistiche e dalle nutrite schiere di seguaci devoti a vari guru e santoni).
Questo substrato, auto-contradditorio già all’atto dell’essere semplicemente nominato, contiene interamente l’infinita ambiguità e l’enigmatica potenza che l’istinto religioso attribuisce alle divinità.
Che Dio esista è una banalità: Dio non solo esiste, Dio è tutto quello che esiste. Nulla esiste senza Dio e all’infuori di Dio e questa ultimissima proposizione contiene tutto e solo il significato intellettuale che si può assegnare al termine ‘Dio’.
L’assurdo delle religioni istituzionali, delle religioni ‘positive’, non consiste nell’affermarlo, ma nell’arrogarsi la stupida presunzione di personificare Dio assegnandogli attributi antropologici secondo l’arbitrio di certe convenienze psicologicamente molto flessibili e politicamente molto malleabili.
Senza tale arbitrio e tali convenienze insieme ai mezzi materiali per ostentarli, le religioni ufficiali si polverizzerebbero in una miriade di sette corrispondenti ai modi effettivi di concepire la divinità propri delle varie individualità.
Senza niente altro togliere, aggiungi allo spirito religioso sincerità e non conformismo e ottieni quello stravagante bigotto sbeffeggiato da tutti che è l’adepto di sette più o meno esoteriche.
Ogni religione istituzionale coltiva in sé il baco dell’aporia inguaribile e qualsiasi mistico degno del nome potrebbe considerarla una sorta di immane bestemmia.
Tali religioni tratteggiano la caricatura di un ciclope cosmico, un demiurgo a cui è concessa ogni illogica stravaganza a patto che sia benevolo verso la singola creatura adorante.
Anche questa però non dispone di diritti illimitati e anzi non ne conserva nessuno (eufemismo per dire che merita una punizione) se non si attiene a norme redatte e impartite ‘dall’alto’.
Queste norme rivelano tutta la propria assurdità quando non si atteggiano a regole comportamentali, ma a disposizioni circa un modo di essere.
Ogni religione o è burocratica e fiscale o è assurda.
Ovviamente il cuore di ogni religione è burocratico e fiscale, dato che la sua funzione sociale può consistere in precetti intesi a una giurisdizione di atti concreti, non nel disegnare gli elementi ontologici di un’anima che sono già stati stabiliti da Dio attraverso il genoma e il contesto ambientale o stabiliti da Dio attraverso l’anima stessa.
Inoltre le uniche vere religioni istituzionali derivano da una comune radice cristiana, dato che gli altri monoteismi conservano in modo evidentissimo le motivazioni del contrassegno etnico, sono religioni di individuazione e di resistenza interne a nazionalismi e, quando collidono, ben lungi dal configurarsi come mediatori di pace, soffiano sul fuoco di una conflittualità acutissima.
Il contrassegno essenziale del cristianesimo rimane invece quello delle origini imperiali: una laboriosa pacificazione dedita all’assistenza e all’addomesticamento dell’uomo-massa, della folla solitaria, dell’individuo anomico privo di consistenza culturale.
Con la rivoluzione industriale le religioni cristiane hanno potuto mantenere una coerenza di fondo limitandosi a ricalibrare intenti e obbiettivi sotto l’egida di un colonialismo economico camuffato da opera civilizzatrice.
Per altri versi, il concetto di totalità assoluta, che non lascia nulla al di fuori, è logicamente inconsistente.
La filosofia scientifica si costringe dunque al mutismo proprio sul più bello, proprio là dove la curiosità umana esige un resoconto anche se il profluvio di chiacchiere e il frastuono da fiera che necessariamente ne derivano schiacciano il divino dell’enigma sotto la paccottiglia della falsità.
Che da un bel pezzo lo abbiano capito ‘filosofici della vita’ come Niccius e Wittgenstenius mentre tecnologi duri e puri continuano a prendere lezioni di dinamismo imprenditoriale dalle organizzazioni confessionali delinea tratti molto significativi di una ‘democrazia di mercato’ votata alla ‘Grande Mano Invisibile’.
Moltissimi scienziati meno duri e puri arrivano al punto limite ineluttabile, ma, come Kant, preferiscono ritrarsi per far continuare i giochi.
Possono vantare centomila ragioni (senza i giochi la linfa vitale gelifica), ma occorre controllare che tali giochi non comportino l’erosione di bastioni già malfermi.
In questa visione la rottura ontologica determinata dai fenomeni della coscienza animale rappresenta un effetto di prospettiva (già identificato con accenti anche drammatici dalle correnti dell’esistenzialismo fenomenologico).
Il soggettivismo, caratteristica non specificamente umana e anzi estesa a tutto il mondo animale, non apporta un reale contributo causale che non sia completamente assorbito dai meccanismi sistemici della complessità biologica.
Basta guardare al libero arbitrio come a una facoltà che attiene al tessuto cerebrale e non a quello cardiaco o intestinale per derivarne un senso immediato e indomabile di assurdità: il signor Io è capace di controllare l’estremamente complesso, non quello che al paragone è quasi elementare!
Ma che cosa sarà mai questo signor Io? Rispondi a questa domanda senza risposta e sei già a buon punto sulla strada del successo.
La strada del successo non è la strada della felicità, ma, a differenza del denaro, che non fa la felicità, ma aiuta molto, il successo non aiuta neppure o aiuta solo tramite il denaro di cui facilita la raccolta.
Quello che veramente conta è che una religione può concepire il tracollo planetario soltanto come castigo di Dio (che si evita restando sotto le ali protettive di Mamma Chiesa), l’ottimismo laico umanista è più sfumato, ma finisce per non ammettere neppure quello.
Un corretto punto di vista scientifico che individui invece l’anomalia umana è costretto a considerarla molto, ma molto preoccupante al fine della sentenza riservata unicamente al determinismo naturale.
Il pessimismo o l’ottimismo scientifico possono derivare solo da elementi obbiettivi e questi costringono a prendere seriamente in considerazione certi inequivocabili segnali di allarme.
La molteplice e proteiforme natura di questi congiunta alla egemonia quasi totale (proprio in sede causale e deterministica, non magico-spirituale) dell’imprevedibilità caotica, toglie ogni speranza alle illusioni demiurgiche dello scientismo deista, promotore di un ottimismo umanistico almeno in parte obbligatorio per uno ‘scienziato organico’ al servizio della pubblica amministrazione.
L’incremento di calore generato dai gas serra, per esempio, si trasmette per meno della metà all’atmosfera, la maggior parte, come del resto percentuali non molto dissimili di anidride carbonica, finisce negli oceani dove gli effetti arrecati, soprattutto per quanto riguarda variazioni di livello del termoclino, del chemioclino, del pH eccetera, nonché le reazioni di plancton e fito-plancton, rimangono assolutamente enigmatici.
Parimenti enigmatici e sempre passibili di switch o progressioni esplosive, rimangono le conseguenze di indici anomali nelle concentrazioni e gradazioni varie che, se anche già presenti in periodi distanti milioni di anni, non si sono mai modificati con una velocità di escursione paragonabile a quella presente.
Molti indizi ricavabili da situazioni e fenomeni di un lontano passato sotto condizioni ambientali parzialmente assimilabili alle attuali, nonostante il tempo enormemente maggiore concesso ai più diversi equilibri omeostatici e adattativi per produrre smorzature e aggiustamenti graduali, rivelano comunque tracce di vertiginose impennate e accelerazioni violente relativi a certi cruciali parametri di controllo.
Le deduzioni che possiamo trarne si rivelano sempre troppo incerte e limitate rispetto a quanto sarebbe utile e necessario, ma comunque evocano un principio di precauzione dalle conseguenze inevitabili.
Se da tutto ciò non consegue una improcrastinabile rivoluzione progettuale nel senso di auto-limitazione della specie significativamente denominata ‘HOMO SS’, semplificazione auspicabilmente rispettosa, grazie a un pieno dispiegamento della razionalità tecnologica, della libertà degli individui e della qualità delle singole vite, il motivo va ricercato, come già detto, nella dinamica delle egemonie e degli interessi.
Non si deve attribuire al discorso alcuna inerenza etica o morale, non vi si annida alcun dito puntato o monito sul giorno del giudizio.
In ogni frangente a dirigere i giochi intervengono preponderanze statistiche e a questo tipo di influenze indissolubilmente legate a macchinismi impersonali devono piegarsi le singole volontà.
La natura di ogni individuo prescinde totalmente dalle categorie del bene e del male.
L’unica caratterizzazione consistente di un individuo umano chiama in causa una corrispondenza biunivoca con il suo corredo genetico.
I comportamenti di ogni individuo dipendono dalla reazione tra un corredo genetico e una storia biografica in un contesto ambientale mutevole.
Su un corredo genetico, a seconda delle reazioni indotte, può verosimilmente innescarsi una gamma vastissima di comportamenti dal meglio al peggio e viceversa, in un andirivieni che non prevede limiti chiaramente identificabili.
Sono ovviamente possibili anche tipi diversissimi di fissazione.
Tutte queste sono ovvietà comprovate in modi inequivocabili da sterminati resoconti empirici, del genere più vario, circa gli effetti d’impostazione radicale e duratura ingenerati da particolari eventi intercorsi nei primi mesi e anni di vita.
Cognizioni del genere abbondano fino a un dominio esclusivo nella letteratura medica e psichiatrica, ma si dileguano fino alla scomparsa totale nei comuni rapporti quotidiani.
La sparizione di ineluttabilità accertate che monopolizzano le cause effettive a favore di fantasticherie con funzione variamente lenitiva e compensativa rappresentano caratteristiche diffuse.
E’ altrettanto indubbio, tuttavia, che quando un gruppo o un singolo raggiungono quote via via crescenti di benessere materiale e sviluppo intellettuale, tendono a sostituire ausili magici e spirituali con sostegni più concreti e materiali.
Il processo è più o meno graduale: restando sul piano ‘spirituale’, un passaggio tipico è quello dalla religione alla psico-terapia (da intendersi come misura di incidenze percentuali).
Propongo il passaggio inverso, dalla psico-terapia alla religione, da interpretare sempre in termini statistici, come spia inequivocabile di una tendenza economica all’arretramento.
Ogni antropologia sociale persegue una sua specifica e variegata trasfigurazione rituale degli impulsi fisiologici essenziali per adattarli alle esigenze di una sopravvivenza comunitaria soggetta alla comunicazione linguistica e alla indeterminazione creativa dell’artificialità.
La sostituzione simbolica del piacere sessuale con il piacere gastronomico rappresenta un altro indizio decisivo di maggiore asperità socio-economica.
La licenza sessuale, in quanto dissipazione arbitraria e gratuita, denuncia la pigrizia del privilegiato; l’hobby della cucina, in quanto predisposizione elaborata e provetta di apporti calorici, si presta molto meglio a fungere da pausa ricreativa nello stoicismo di una economia di battaglia.
Del resto la sostituzione di una religiosità dell’eros, estatica, politeista e misterica, con una metafisica del logos che fornisce ricette energetiche rappresenta il più importante lascito culturale delle aristocrazie guerriere alle società coloniali e di conquista economica.
Poiché ogni morale si connette in profondità agli istinti vitali, possiamo parlare schematicamente di una morale della sessualità ancestrale e una morale della gastronomia confessionale, la cui massima culminazione sul fronte del grottesco rimane il culto sacrificale azteco, almeno secondo certe interpretazioni.
Gli aztechi trasformavano il sacro in proteine, i cattolici trasformano le proteine in simbolo.
Parallelamente, le culture si dedicano in via prevalente o alla ricerca delle origini o alla cancellazione-trasfigurazione delle tracce di provenienza, alla riconquista della regolarità animale o alla esaltazione della anomalia umana.
La via dei saggi non potrà mai discostarsi più di tanto dalla semplice constatazione che l’uomo non è niente altro che un animale razionale imperfettamente regolato.
In genere, la flessione degli indici economici è anticipata e annunciata da una crescente difficoltà sistematica a mantenere le posizioni.
Che i processi degenerativi non vengano coscientemente e deliberatamente combattuti con revisioni organiche e ricostruttive delle architetture vigenti e lascino invece libero gioco a polarizzazioni distruttive dei costrutti amministrativi secondo schemi darwiniani, rappresenta una costante storica che non può essere ignorata.
Gli automatismi del passato non testimoniano comunque, in modo definitivo, contro un livello generale di consapevolezza che indirizzi le forze politiche verso una rivoluzione progettuale e pacifica.
Una rivoluzione pacifica non è una riforma: è una rivoluzione oppure non lo è e se non lo è le cose continueranno a rotolare lungo la china.
D’altra parte qualsiasi rivoluzione presenta elementi d’incertezza e di azzardo.
La prassi progettuale dovrebbe ridurre gli elementi di rischio e il risultato, anche se limitato alla carta su cui è tracciato, potrebbe fungere comunque da ideale modello di riferimento per attività riformiste più tradizionali.
Questa sua funzione è forse quella che spaventa di più e che viene inibita al punto che mentre si blatera a ruota libera di auliche sciocchezze che sbrodolano di fluido trascendente i singoli chiacchieroni, la proposta di creare comitati per lo studio di modelli alternativi di organizzazione socio-economica incute quasi timore e vergogna.
Non si può accusare un kolibiano di astrattezza e chiedergli beffardamente di proporre lui il progetto se tanto ci tiene: al di là di linee generali già proposte, un progetto dettagliato nasce da un lavoro collegiale ufficialmente predisposto e supportato.
Se non esiste la volontà, tecnica e politica insieme, di avviare tale iniziativa, se addirittura non esiste un minimo di attitudine generale a farne oggetto di discussione, continuando nel frattempo a disperdersi in polemiche che scadono ormai, a dispetto delle nobili intenzioni, in ciaccole da deejay, qualsiasi costruzione ideata individualmente fornirebbe un esempio di castello in aria, non solo ininfluente: caricaturale e controproducente fino all’auto-denigrazione.
Eppure, a prescindere dalle possibilità di realizzazione effettiva, la strategia progettuale si rivela l’unica via razionalmente percorribile, restando ogni altra opzione nell’ambito della scommessa fideista e del fatalismo scaramantico.
Se la strategia del progetto si rivela l’unica possibilità di recepire veramente gli allarmi ambientali e porvi veramente e proficuamente rimedio, qualcuno sicuramente, ai piani alti o altissimi, ci ha già pensato e quindi, invece di un progetto ufficiale promosso da una decisione democratica e sotto controllo democratico, esistono e sono probabilmente operanti analisi e pianificazioni portati avanti da comitati ristretti finanziati da interessi elitari.
Se fosse effettivamente così, ci troveremmo davanti, nel migliore dei casi e volendo tacere di aspirazioni dispotiche molto più diffuse (anche se sottaciute), all’ennesima illusione di stampo positivistico e illuministico di imporre un bene comune senza un’adeguata disamina e consultazione dei portatori di esigenze e interessi contrapposti e anche e forse soprattutto senza una resa dei conti disincantata e perfino dolorosa con la natura umana, i suoi rapporti con la realtà planetaria e la qualità effettiva dei mezzi di conoscenza e interpretazione di cui dispone.
Ogni conoscenza degna di questo nome è schematica, generalizzante e riduttiva.
Ogni tecnica effettiva dilata le complicazioni mentre focalizza e individualizza.
La conoscenza intende fornire una metafora viva del mondo, la tecnica rompe definitivamente l’immane giocattolo per estrarne gli ingranaggi che poi non riesce a ricomporre.
La conoscenza cerca l’integrità divina che finisce per nominare o poco più, la tecnica la polverizza, ma rivela anche senza poterle riferire a una totalità coerente regole assolute e inviolabili di funzionamento.
Si tratta ancora e sempre della differenza wittgensteiniana tra il ‘dire’ e il ‘mostrare’, formalizzata da Godel & soci, intuita dalle antiche sapienze indiane e cinesi e sottilmente adombrata nella tradizione greca classica dalla tensione tra il furore divinante insufflato dal dio nell’oracolo e il nitore inerte, raggelante e perfino mortale della sentenza decisiva mediata dall’intreccio enigmatico delle parole.
Il conflitto tra una illusoria e presuntuosa vocazione globale e l’anarchia complessiva delle giurisdizioni locali non è sanabile o almeno, di fronte a evidenze perfino matematiche, non si è potuta fondare la pretesa di poterlo sanare su altro di diverso dalla pura e relativa emotività mossa dalla speranza e dal desiderio.
Il massimo del compromesso possibile, tradotto sul piano della convivenza umana, si ottiene dall’identificare i limiti di una dimensione organizzativa sufficientemente vasta per essere significativa in rapporto alla dinamica delle forze che agiscono effettivamente e sufficientemente ristretta per rendere agibili i vantaggi della perizia tecnica senza risentire dell’accidentalità e del disordine che si generano appena oltre il confine della complessione organizzata.
La dimensione ottimale di ogni costruzione progettuale umana non può evitare di essere planetaria, in quanto l’impatto causale dell’azione umana si configura come forza d’urto di entità planetaria, quindi il sistema da costruire e governare non può che essere di estensione planetaria
Su scala planetaria, la perizia e la creatività locali e tutte le più ingegnose invenzioni dell’intelletto profuse dalla nostra specie generano inequivocabilmente, se si astrae completamente da priorità e interessi esclusivi, nient’altro che caos entropico.
Risulta allora evidente che l’inventiva umana, per non cancellare se stessa in tempi fulminei rispetto ai decorsi geologici, deve semplificare e coordinare i suoi assetti singolari fino a integrarli in una gerarchia funzionale a sua volta integrata con le dinamiche naturali che non gestisce, ma può gravemente influenzare.
Fin qui, non si tratta di opinioni, ma di dati di fatto perfino banali e delle loro logiche conseguenze, almeno finché evitiamo di travestire la visione scientifica con una religiosità in incognito.
Una religiosità in incognito è quella, per esempio, del kantismo, che dimentica il noumeno perché è oggettivamente innominabile e inconcepibile attraverso le categorie e quindi riduce il mondo alle categorie, dimenticando così che è il noumeno che fonda le categorie che lo cancellano da se stesse e non le categorie a fondare un noumeno che non riescono nemmeno a nominare.
La condizione delle categorie, per quello che ne possiamo capire, è infatti quella della riflessività ovvero dello sdoppiamento concesso ai sistemi che, attraversando una certa soglia di complessità, acquisiscono la facoltà di tematizzare se stessi accanto a più elementari proprietà di rispecchiamento realizzate da attivazioni schematiche di reazioni interne suscitate da combinazioni filtrate di stimoli esterni.
La percezione consiste in modificazioni dell’entità percepente, la natura effettiva di queste modificazioni e di ciò che le determina fuori dal sistema non è percepibile come essere in sé.
Una percezione e una idealizzazione non potranno mai consistere in qualcosa di diverso da una percezione e da una idealizzazione e qui il discorso si chiude definitivamente.
Quanto appena detto si può di sicuro esprimere meglio, ma non articolare in qualcosa di sostanzialmente diverso.
Una filosofia idealistica non fa altro che promuovere il piano del rispecchiamento e dell’auto-rispecchiamento al rango di ontologia primaria, servendosi di un fondo di problematicità irriducibile e di circolarità inesorabile dei principi definitori per ignorare o minimizzare la preesistente natura di sistema e di componenti del sistema.
Una filosofia idealistica approfitta dei difetti primari insiti nelle ‘categorie dello spirito’ per divinizzare le ‘categorie dello spirito’, ma i difetti primari delle ‘categorie dello spirito’ derivano proprio dalla ‘non primarietà’ delle ‘categorie dello spirito’.
Alla fine sussiste una paradossale analogia tra le filosofie idealiste e la fisica fondamentale costruita su principi d’invarianza e simmetria: entrambi trasformano un difetto essenziale e insuperabile in una intelaiatura portante.
Le concezioni religiose rifiutano però quella mancanza, quella ‘béance’ metafisica, considerandola indizio di mondi ulteriori di cui liberamente favoleggiare, le concezioni razionalistiche la considerano elementare, ineluttabile e, appunto, fondante.
Le concezioni religiose sono arbitrarie e slegate da qualsiasi riscontro effettivo, quelle razionalistiche appaiono episodiche e sospese nel vuoto: da un punto di vista puramente filosofico è sufficiente però il principio antropico debole visto nella prospettiva di infiniti universi per riconnettere quella sospensione enigmatica a una totalità che potrebbe anche essere definita ‘Dio’ nel solo modo comprensibile alla ragione.
Una qualsiasi weltanschauung deve essere coerente con la costruzione politica che si desidera perseguire.
La contestazione degli anni ‘60 poggiava su una fiducia illimitata nelle capacità creative e costruttive dell’uomo riportato a una sorta di spontaneità originaria da riconquistare combattendo la disumanizzazione scientifica immolata alla logica del profitto e dello sfruttamento.
Si obliterava dietro una posticcia riedizione mitologica del ‘selvaggio buono’ la spietatezza o neutrale crudezza dello stato di natura ricadendo in un paradossale spiritualismo antropocentrico.
L’uomo-animale palesava la sua natura superiore idolatrando e spiritualizzando i propri istinti attraverso il narcisismo ossessivo dell’auto-coscienza elevata a strumento di conoscenza soprannaturale.
Nelle sue punte estreme la cultura sessantottina toccava vette auliche di stupidità integralista.
Dalla immobile ciclicità evolutiva dell’eterno capitalismo camaleontico, il cui guardaroba e la cui biancheria si adeguano alla moda e al progresso tecnologico, l’insipienza massimalista del fondo religioso, il cui guardaroba e la cui biancheria muta per le stesse ragioni, è stata accortamente salvaguardata e riversata nella società dello spettacolo.
In questo modo la finta libertà del ‘circenses’ rinsalda e consacra la vera disciplina del ‘panem’.
In fondo, le avanguardie ribelli della seconda metà del novecento, non facevano che richiedere al sistema riserve amene in cui pascolare il gregge dei seguaci e il sistema ha ritenuto che fosse giusto accontentarle creando e aprendo alla libera competizione i territori delle riserve per quei sognatori desiderosi di mettersi in lizza per i favori e le simpatie di un pubblico di spiritualissimi sudditi sovrani.
Peccato che, per sgonfiare la granitica baldanza di quello spirito rivoluzionario, a volte basti far mancare la minaccia della cartolina precetto o tagliare i fondi erogati clandestinamente da qualche servizio segreto.
Del resto socialismi che, per quanto prematuri e male organizzati, hanno esercitato un ben più possente peso geo-politico non si sarebbero mai instaurati senza l’umiliazione dell’orgoglio etnico-nazionalistico e il conseguente sputtanamento di regimi autarchici secolari, avvertito soprattutto quando le sventole ricevute arrivavano da nemici considerati razze inferiori e denominati, per esempio, ‘scimmie gialle’.
L’umiliazione eccessiva per lo spirito di vendetta delle nazioni vicine di una nazione prospera almeno nelle speranze e guidata da una élite forte e rispettata, può generare il fascismo di Hitler, l’umiliazione di una nazione povera sotto un dispotismo che non è stato capace di modernizzarsi produce invece il comunismo di Stalin.
Che cosa potrebbe produrre nell’immediato futuro la caduta di economie tecnologicamente evolute e dotate di armamenti potentissimi se dovessero precipitare nel caos di un disfacimento anarchico per il cedimento simultaneo dei nodi strutturali più critici?
L’uomo non impara mai niente dalla Storia per un motivo semplicissimo: crede nel progresso.
Credere nel progresso porta a convincersi di poter procedere lungo le fasi di un’ascensione in cui si scandisce una promozione materiale e spirituale a senso unico.
Questa credenza, un puro atto di fede non surrogato da alcun riscontro empirico, rende impensabile la ricaduta in errori madornali che si considerano frutto di una condizione arretrata che ci si è lasciata definitivamente alle spalle.
La tecnica inganna molto al riguardo, dato che è l’unico campo dell’attività umana dove, in particolari situazioni, si constata la presenza di un progresso effettivo.
In tutti gli altri campi, compresi settori limitrofi del pensiero e della cultura, il concetto di progresso diventa subito assai opinabile e comunque, anche se può apparire plausibile, influenza poco o niente le inclinazioni, i costumi e le attitudini delle maggioranze decisive.
I monoteismi surrogano queste distorsioni mitologiche attraverso la metafora teatrale di una recita che procede dalla creazione al giudizio divino.
Le realtà dove i valori dei vari indici descrittivi subiscono tutti un’accelerazione o una decelerazione costante ovvero una crescita e una decrescita monotoniche risultano alla fine solo le progressioni esplosive o implosive.
In tali contesti viene meno qualsiasi legge di conservazione e di conseguenza si assiste al superamento di punti critici e soglie senza ritorno oltre le quali si produce il dissolvimento del sistema.
E’ facile riscontrare il corrispettivo di tali affermazioni anche nei più comuni ambiti sociologici.
Nelle società industriali, per esempio, la crescita della consapevolezza culturale promossa da mezzi di registrazione e diffusione sempre più evoluti è accompagnata come in un controcanto o doppio speculare dalla proliferazione tecnicamente raffinata della criminalità soprattutto nel campo della droga e quindi della obnubilazione mentale.
Chi vince la partita?
Il commercio delle droghe si stronca soltanto attraverso le liberalizzazioni e l’abolizione dei relativi proibizionismi, esempi clamorosi, tra l’altro, delle ambiguità e dei doppi fondi dell’Etica con la ‘e’ maiuscola.
La liberalizzazione è osteggiata da chi: a) possiede interessi che ne verrebbero minacciati (criminali, centri di assistenza dei drogati, gente perbene che crede nei vari tipi di famiglia come refugium peccatorum, fautori delle economie parallele come assistenzialismo gratuito che non grava sulle tasse...); b) ritiene che l’economia della droga tenga in piedi l’economia regolamentare e senza si assisterebbe a un crollo insieme al festival del malaffare, degli sprechi e della corruzione legalizzati.
Chi vince la partita (una delle tante) dipende da se, quando, come e perché verranno adottati provvedimenti liberalizzanti.
L’esempio portato illustra l’aggrovigliata interessenza del bene e del male nelle società dove si lascia ampio spazio alla competizione darwiniana.
Chiudere gli occhi davanti agli esiti possibili di una libertà puramente economica implica fiducie di tipo religioso e qui ritorna l’essenza divina della mano invisibile, già evidenziata da un famoso paradosso di Keynes.
Nel mondo esistono società dove prevale la legalità ufficializzata e altre dominate o comunque fortemente condizionate da economie ipogee che non possono venire alla luce del sole.
In genere queste ultime società sono molto più pervase di clericalismo e confessionalismo rispetto alle prime.
Le potenzialità criminogene di una predominante impronta religiosa, variamente modulate secondo etnie e tradizioni, non derivano ovviamente da difetti di natura o da deformazioni congenite, denunciano semplicemente gli effetti culturali di un allentamento o svilimento dei controlli normativi conseguenti a un eccesso di fiducia nell’auto-regolamentazione dei comportamenti naturali e istintivi.
La libertà generata dalle vocazioni mistiche e spirituali genera immancabilmente equilibri instabili tra le esigenze di un’espressività profonda e sincera e le verità elementari di riscontri organici e fattuali che in qualche modo devono essere ignorati, repressi o trasfigurati.
La pretesa che pensieri e concezioni produttivi di pubblici effetti tangibili valgano o non valgano a prescindere dal quadro ontologico di sfondo rappresenta una delle più madornali ingenuità del liberalismo filosofico, responsabile di una inettitudine storicamente provata a sostanziare movimenti politici concreti quando una corretta amministrazione consuetudinaria non è più sufficiente.
Conseguenze disastrose di tale ottimismo semplicistico si riflettono anche sul piano dell’etica quando smette di rappresentare un orizzonte astratto e lontano e accerchia da vicino i bisogni e i comportamenti della gente.
Un esempio massimamente esoterico o perfino astruso può essere evocato qui fungendo da testimonianza paradossalmente molto concreta della inevitabile compromissione politica di ogni weltanschauung.
Se esiste effettivamente il Dio personale che indice gare di carità tra gli umani per punteggi che guadagnano i migliori posti in paradiso ed evitano i peggiori posti all’inferno, l’accanimento terapeutico e l’esecrazione dell’eutanasia costituiscono regole auree.
Se, al contrario, un blocco parmenideo a energia zero nel cui spaziotempo ogni cosa si trova in stato di immobilità relativa dà una interpretazione corretta dell’universo relativistico, le singole vite, che si creano il tempo come pura illusione, potrebbero ripetersi all’infinito e allora ogni impostazione che aggiunge dolore si configura come un misfatto assoluto.
Cambiando la visione metafisica, il bene può trasformarsi in male conservando analoghe dimensioni e viceversa.
L’ingenuità liberale del così è se vi pare evita una guerra santa tra i ‘veramente’ religiosi e i ‘veramente’ laici, ma solo perché questi ultimi rinunciano in partenza a ogni analogo di quella sacralità che, quando non è presuntuosa e aggressiva millanteria, è pura e semplice serietà metafisica e dunque culturale.
E’ bene ribadire tra parentesi che tutto quello che si pensa o si dice è metafisica pura, dato che si trova inesorabilmente e definitivamente al di là della fisica di un essere in sé che rimane inesorabilmente e definitivamente al di qua di ogni esperienza vissuta.
In realtà la vera essenza del liberalismo pratico così come è stato effettivamente esercitato non verte tanto su una generosità accomodante e rinunciataria che offre comunque il vantaggio di smussare i conflitti: poggia molto di più sull’astuzia pragmatica di chi si accontenta di prevalenze tangibili in cambio di concessioni simboliche.
Non sarà mai ribadito abbastanza che il liberalismo è utile nelle fasi di ordinaria amministrazione, mentre è totalmente inefficace e finanche dannoso quando subentra uno stadio di rivoluzione obbligata.
Quando una rivoluzione s’impone obtorto collo o per scelta, l’ alternativa al dispotismo e alla barbarie più vicina al liberalismo teorico è la progettualità devoluta agli aspetti tecnici e materiali dell’esistenza, studiata in modo da consentire la massima libertà di pensiero e di espressione per quanto attiene a tutti quei vissuti soggettivi che possono espletarsi senza condizionare una funzionalità puramente economica e produttiva.
Una progettualità simile deve, per forza di cose, regolamentare e condizionare fortemente la leva del profitto privato e rivederne da cima a fondo la natura di propulsore determinante.
Ciò deriva come conseguenza immediata dall’abbandono dell’idea di progresso in favore di una nuova tecnocrazia de-personalizzata che agisca in regime di stato stazionario.
Un regime di stato stazionario esige a sua volta l’abolizione di ogni privilegio di nascita.
Il comunismo liberale di stato stazionario può intendersi come società dove tutti, indistintamente, appartengono a un ceto medio con tenori di vita programmati e garantiti nel rispetto della sostenibilità ambientale.
Poiché, allo stato attuale delle cose, il raggiungimento di tali livelli, definibili come media dei paesi occidentali, determinerebbe un sicuro collasso planetario relativo a risorse, clima, vivibilità, inquinamento eccetera il semplice ‘non optare con decisione’ verso scelte analoghe azionate nel segno della progettualità espone il sistema socio-economico globale a una conflittualità devastante e il contesto naturale terrestre a una pressione dagli esiti imprevedibili e molto probabilmente catastrofici.
Si tratta allora di programmare scientemente un’autentica ‘fine della Storia’, già preconizzata da qualcuno dopo la caduta del muro di Berlino, ma allora si sarebbe dovuto parlare di deviazione e svilimento della Storia per il crollo, prima della auspicabile maturazione, di un polo importante della competizione culturale e il montare di sciocchi trionfalismi dalla parte dei poco meritevoli ‘vincitori’.
Una fine della storia può comportare e quasi di sicuro comporterà un appiattimento delle insorgenze creative promosse dalla diversità e dallo spirito competitivo, un rilassamento di vitalità senza il lievito di sperequazioni e tensioni, ma non c’è molta scelta se si tratta veramente di scegliere tra la fine della storia o la fine dell’umanità attuale nella storia.
Si tratta di reinventare, accanto alla programmazione rigida, forme opportune, non più irrimediabilmente distruttive, di diversità, inventiva, competitività.
A un kolibiano non appare così difficile se si pensa che il movente economico e un assurdo esibizionismo egocentrico da mannequin dello spirito oltre che del corpo rappresentano allo stato attuale le uniche spinte che agitano e rimescolano i frangenti della società.
Può darsi benissimo che la visione progettuale risulti irrimediabilmente astratta e utopistica, ma ciò conseguirebbe da un solo fattore: l’incongruenza umana.
Tale incongruenza non va intesa in senso valutativo, si tratta di un carattere costitutivo della realtà animale, della realtà, per così dire, di secondo livello: ogni accentuazione della coscienza individuale comporta una incompatibilità di base tra il relativismo estremo delle ragioni vitali e una oggettività di fondo che, per quanto insondabile, s’impone alla mente come determinazione preesistente e assoluta.
All’interno di ogni individualità biologica, per l’accidentalità e il non sincronismo temporale dei movimenti percettivi dislocati su vari livelli topologici e gerarchici, i nodi di una causalità coerente e univoca si trasformano in un intreccio polisemico di risonanze istintive e simboliche.
Esse non sono apparenze: sono fatti soggettivi e quindi prospettici che, nella loro apparente aleatorietà, rivelano l’assenza di autonomia degli obbiettivi e dei controlli in quelli che un soggetto ritiene atti volitivi e decisionali.
Questa impostazione riconduce la dualità tra soggetto e oggetto a una unità sostanziale, un monismo che non è né materialistico né religioso in senso umanista: potremmo chiamarla una sorta di identificazione in Dio, fornendo a questo termine così impegnativo un contenuto intuitivo razionalmente accettabile.
Qualsiasi altro tentativo filosofico porta invece o all’agnosticismo rinunciatario della non filosofia (quindi all’indifferenza pragmatica) o alla magia spiritualista primitiva (magari dissimulata sotto codardi prudenze) o a un dualismo ontologico tale da delineare una soluzione che, almeno nei confronti della magia, appare più seria, meditata e dignitosa e invece si rivela solo più incerta, inutilmente complicata e confusa non appena deve ammettere e concepire interazioni tra fenomeni ‘spirituali’ e ‘materiali’.
Concentriamoci appunto su questi aggettivi: ‘spirituale’ e ‘materiale’: proprio accostandoli ci si rende conto della loro inconsistenza; è come se, urtandosi, manifestassero una tendenza reciproca a fondersi uno con l’altro per non rimanere stolidi e inerti nella loro ambigua e imprecisa astrattezza.
Uno sciamano neolitico poteva concepire uno spirito e organizzarci intorno comportamenti di una certa coerenza antropologica, ma già un liceale come può separare il pensiero dalla fisiologia o la materia dalle forme matematiche?
Nutrire adeguatamente e fornire un riparo dignitoso a 7 / 8 miliardi di persone rientrerebbe di sicuro nelle possibilità delle tecnologie attuali attraverso uno sforzo medio a persona non certo proibitivo e di certo inferiore statisticamente alle situazioni storiche e presenti: uno sforzo che lascerebbe ampio spazio al sano e innocuo divertimento e ai passatempi culturali, una volta caduti i falsi miti dell’appariscenza e le lusinghe egocentriche che altro non sono che le trappole da sirena di un efficientismo egoista e partigiano.
Gli egoismi, le capacità intellettuali monopolizzate dalle élite e tutta l’immensa influenza del privilegio al di là della valenza puramente numerica si oppongono alla soluzione ovvia e naturale di una costruzione programmatica collettivamente redatta attraverso un lavoro interdisciplinare rigoroso.
Basterebbero la capacità di godere la natura e l’immenso patrimonio culturale dell’umanità già presente (insieme a tanti altri… chiamiamoli giochi... che i vari gruppi potrebbero organizzarsi in piena libertà nei più diversi settori), per dare un contenuto apprezzabile a ogni singola vita senza che ciascuno debba per forza dannarsi l’anima a inventare di nuovo l’acqua calda o cercare di mettersi in evidenza davanti a Dio con sotterfugi tutto sommato umilianti.
Qualcuno potrebbe poi andare avanti a inventarsi, per pura vocazione personale, non l’acqua calda, ma innovazioni effettive, da calare nel nuovo sistema per migliorarlo senza stravolgerne i connotati.
Oltretutto la corsa sfrenata alla novità scientifica, artistica e più generalmente culturale, attualmente in atto con connotazioni di spasmodica competitività che condizionano e obnubilano spesso il piacere dell’indagine e dell’esecuzione fine a se stessa, si basa sul presupposto dogmatico, acritico, pregiudiziale che il progresso e l’utilità delle varie concezioni e conoscenze sia effettivo e illimitato mentre invece queste, tendendo a un limite asintotico che eleva costantemente il rapporto tra costi e risultati, possono indurre, senza adeguati indirizzamenti e controlli, con probabilità che crescono anch’esse nel tempo, accanto ai vantaggi millantati e più o meno evidenti, danni collaterali molto più diffusi anche se molto meno pubblicizzati
Alla fine l’ideologia del progresso a oltranza, invece che frutto di una lungimiranza di intelligenze libere e generose, potrebbe rivelarsi con il senno di poi (che potrebbe anche non esistere) una iattura paragonabile alle forme di fascismo o comunismo più dispotiche e ottuse.
Basta accettare che gli unici paradisi esistenti abbiano la ‘p’ minuscola e siano quelli che gli uomini costruiscono insieme, per abolire l’indecente fatica di guadagnarsi un ovviamente molto costoso biglietto d’ingresso al Paradiso con la ‘P’ maiuscola, terreno o ultraterreno che sia.
Quando uno spettacolo giustifica un prezzo esorbitante, artisti, impresari ed estimatori fanatici sono quelli che ci guadagnano di più.
Condizioni minime e uniformi di benessere mediamente superiore, tutto considerato, rispetto a quello attuale, potrebbero quasi di sicuro essere instaurate in pianta stabile almeno per un millennio, mentre un livello medio di benessere inferiore e molto disomogeneo ha davanti al massimo un secolo di vita prima di precipitare in un abisso insondabile.
Di più, non si può dire né sperare.
Se vi sembra poco, se non ritenete sia il caso di studiare l’argomento, tastare il terreno e magari correre qualche rischio, continuate pure così.
Perché infatti il bello è proprio questo: della società interamente o principalmente progettuale, di natura necessariamente comunistica e liberale (per inerenze connesse a ogni forma di contrattualismo costretto a intervenire in condizioni di economia oligopolistica per giunta collusiva) non si parla nemmeno.
Il contrattualismo, criticato da destra e da sinistra, è stato da tempo defenestrato dalla scena politica, nessuno però si è accorto che, chi lo ha fatto, ovvero i poteri dominanti, hanno agito in assenza totale di qualsiasi visione coerente e minimamente razionale della realtà mondana.
Quando però l’azione umana eccede certe soglie di tolleranza, non fronteggia più la realtà naturale extra-umana come qualcosa da addomesticare, soggiogare, sfruttare, respingendo o schivando nel contempo gli effetti negativi incontrollabili: vi si immette come un tutto sistematico indistinguibile.
Allora nessuna visione parziale può essere sufficiente, politica ed economia perdono il diritto di arrogarsi l’ultima parola e s’impone una visione interdisciplinare a 360 gradi.
S’impone anche un tipo di prassi che consenta a tale visione di agire senza limitarsi a confezionare scenari e soluzioni da rimettere ai consigli e alle decisioni di poteri che, anche se li sapessero leggere e interpretare, il che non è per nulla garantito, molto difficilmente desidererebbero farlo e ancora meno trarne le dovute conseguenze.
Stretta è la foglia e larga la via, dite la vostra che io ho detto la mia.
19 giugno 2018
La Bibbia Colib termina qui, dopo il parziale aborto dell’ultima sezione, una metafora imprecisa e confusa del rapporto tra intuito e precisione, una delirante parabola di quella fertilità caotica che una corretta versione di lavoro collegiale dovrebbe saper convertire in strumenti asettici e ordinati, una perorazione simbolica sull’accettazione del limite come premessa indispensabile a ogni autentica libertà.
Un fallimento che è un’apoteosi: la metafora perfetta tende in fondo a una coincidenza totale, quindi a un reciproco annichilimento tra ciò che rappresenta e ciò che é rappresentato, come una mappa in scala 1 : 1 dove centimetri stanno per centimetri.
Si conclude dunque l'opera nello spirito più rappresentativo dell’opera medesima: quello di un fallimento di grande successo, un analogo asfittico e pantofolaio della missione Apollo 13.
Oggi il vento sta girando, non si sa per quanto, e molti dei concetti espressi, che avrebbero potuto apparire quasi eretici fino a pochi mesi fa, si stanno avvicinando pericolosamente a una nuova ortodossia.
Non vi rientra però in modo esplicito l’idea del Progetto, da intendersi come:
a) modello di condotta effettiva contro le patetiche illusioni dei moralismi sinceri e le astute mistificazioni dei moralismi insinceri;
b) modello ispiratore di prassi comunicative e attività coordinate avulse dalle retoriche ritualizzate dei falsi maestri e dei falsi profeti;
c) modello rappresentativo di una socialità operante priva della espansività prevaricatrice, delle enfasi compiaciute, degli esibizionismi auto-referenziali imposti dai diktat coreografici dei più disparati, antichi e ormai decaduti poteri;
d) ricetta di antidoti contro il travestimento etico degli interessi e degli individualismi programmati nei centri di comando;
e) ricetta epistemologica di avvicinamento a moduli oggettivi che rispettino e valorizzino le differenze costituzionali e irriducibili tra gli uomini invece di sottometterle a una gerarchia settaria di valori o di mandarle a infrangersi contro le barriere dei principi organizzativi minimali inevitabili;
f) ricetta per la predisposizione di filtri selettivi che non reprimano in via preventiva determinate categorie di creatività individuale e forniscano invece utili criteri di discriminazione tra ambiti pubblici e ambiti privati, promuovendo una adeguata armonizzazione e salvaguardia di entrambi.
Eccetera. Un bel libro dei sogni che nessuno dovrebbe trascurare e che quasi tutti invece trascurano per una ragione semplicissima: si tratta di un libro sociale dei sogni che, con la sua disarmante semplicità, deride ogni altro tipo di sogno sociale e si sa che la vita senza sogni è come un brutto sogno senza vita, per non dire un incubo; così la vita dei singoli individui trabocca di sogni sociali che sono tutti, nessuno escluso, brutti sogni o addirittura incubi per qualche altro individuo. Ovviamente due sogni sociali di due specie contrapposte abbondano entrambi di ricca e profonda umanità, peccato che i rispettivi concetti di umanità non collimino al punto che qualcuno (per esempio un kolibiano) potrebbe auspicare una sostituzione del concetto di umanità con uno, molto più modesto ma anche molto meno calamitoso, di corretta animalità.
Poiché una rigorosa, sistematica e conseguente metodologia progettuale non costituisce ancora argomento di alcun dibattito pubblico, il sotto non scritto può tranquillamente considerare mancato l’obbiettivo principale e godersi il pathos di un fallimento che esenta il sopravvissuto da umilianti prosternazioni davanti ai feticci, generalmente molto poco benevoli, dell’impegno egotistico motivato dal successo sociale (nella versione dell’emiciclo destro) o dell’impegno sociale motivato dal successo egotistico (nella versione dell’emiciclo sinistro).
Finché il mondo umano resterà sottoposto, come è sempre stato, ai sacerdoti di quei culti assurdi, homo ss, secondo l’irrilevante parere di chi scrive, continuerà a lanciare alla Natura i preziosi esemplari della sua collezione più raffinata di guanti di sfida, finché, prima o poi, la Natura si degnerà di raccoglierne qualcuno di fattura particolarmente raffinata ed elegante.
All’atto del congedo dal mio vastissimo pubblico, al fine di non lasciare che si disperda per il mondo su una nota negativa capace di mortificare ogni tendenza al proselitismo, mi preme comunque precisare che se anche l’idea di progetto non è attecchita, qualche indizio d’influenza effettiva connotato nel senso di una trasformazione sotterranea dell’antropologia politica, negli ultimi tempi lo si è potuto cogliere. Come si evolverà, in meglio o anche in peggio, è ancora presto per dirlo, ma dovrebbe essere fatto obbligo all’intellettuale analitico di prenderne atto senza quella schifiltosità quasi di pragmatica tanto consona alla sua specifica, particolarissima natura. Beata quella comunità che non ha bisogno di eroi, diceva B.B., io dico: beata quella comunità che non ha bisogno di intellettuali per non scadere nel conformismo cialtrone di quella ignoranza becera e arrogante che, fintanto che continuerà a nutrire e moltiplicare il pubblico pagante delle grandi kermesse, non sarà mai chiamata populismo.
In conclusione, non mi presento: sono lieto infatti di annunciare che lo scarso risultato ottenuto mi concede il diritto di rinuncia a quello spogliarello spirituale che sembra il passatempo preferito del Web.
Quasi quasi non saluto nemmeno.
Ma sì….
Ciao.
N.B. o P.S. Possiedo effettivamente una dimostrazione molto elementare dell’ultimo teorema di Fermat, ma lo spazio attualmente concesso dal mio super ego per questioni puramente matematiche è troppo ridotto.
Salvato dalla sezione dell’8 giugno 2018
ABBATTERE L’INFINITO.
Questo capitoletto della nostra saga biblica, opportunamente breve, si propone (si sarebbe proposto se non avesse abortito (nota del super redattore massimo)) una dimostrazione filosofica redatta secondo canoni assiomatici tassativi e cioè matematici. Esso, contro ogni relativismo figlio di pigrizie e opportunismi, sempre inevitabilmente servizievole e prono verso forme di potere assoluto (come è assoluto, per esempio, in propri specifici e ben correlati ambiti, il potere della finanza o quello della forza militare), ambisce a rompere un sottaciuto, ambiguo e mistificante connubio tra religione e scienza, ossia, più generalmente, tra razionalità ed etica, il quale statuto spirituale, per così dire, a parere di quasi tutti i kolibiani, pregiudica e ottunde i nebulosi concepimenti della mente sociale.
L’etica razionale è una e una sola e si può riassumere con un monito che è vano e inconcludente e perfino dannoso dilatare oltre la forma gnomica e aforistica, senza fornire esempi efficaci e applicazioni concrete calate nelle specifiche congiunture fattuali. La massima, lo sapete già, recita semplicemente così: cerca di non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te stesso, il che ovviamente solleva immediatamente il problema di quanto gli uni siano simili agli altri e vogliano le stesse cose.
Fare agli altri quello che vorresti fosse fatto a te stesso non compete invece all’ambito individuale, ma a quello politico - sociale, che è enormemente più decisivo e cogente, quindi, per un kolibiano, compete alla prassi progettuale; alla fine questa risulta la sola decisiva, poiché, se manca, rende impossibile predisporre le cose in modo tale che ogni massima astratta si possa attuare secondo moduli fedeli e coerenti, senza ingenerare innumerevoli contraddizioni, le polpette avvelenate della più o meno inconscia ipocrisia, le trappole e gli inciampi delle eterogenesi dei fini.
Recitando una massima morale, che sia applaudita oppure no, si è detto molto circa la propria natura psicologica, tutto rispetto alle tessere e ai contrassegni di appartenenza, niente riguardo alle realtà oggettive del mondo umano o non umano che la favoriscono, la ostacolano e soprattutto ne determinano il valore effettivo. Quanto al valore politico dei proclami ideali, esso consiste solo nelle dilazioni che offrono dissimulando le carenze del lato analitico e costruttivo.
D’altro canto, procedere more geometrico, secondo il programma o il miraggio di formulazioni logiche essenziali, non annuncia o sollecita o prospetta un’arrampicata sul monte della Verità, bensì il contrario: la drastica spianata di un terreno idoneo, nella sua cruda nudità, alla prassi edificante in senso letterale, la rimessa di ogni questione pubblica a un punto zero dove nessuno presuma niente e dia per scontato alcunché, a parte princìpi generali, se esistono, di condivisibile evidenza.
A questo punto il mondo resterà diviso tra razionalisti e fantasisti e per poter intavolare qualsiasi discussione seria in merito a come riconfigurare elementi strutturali ormai scoordinati e incompatibili occorrerà schierarsi preventivamente, con cognizione di causa e opportune premesse culturali, dalla parte dei razionalisti.
Tutto quello che non è progetto sarà chiacchiera e fumo, ovvero religione e ideologia, compresa la metafisica connessa a un’antropologia mitologica che divide una spiritualità di destra da una di sinistra a prescindere dalle complicazioni economiche e sociali ovvero dalle contingenze naturalistiche che coinvolgono una specie animale che, se anche si rivela molto particolare, risulta comunque priva di titoli divini e soggetta a micidiali vincoli di consistenza perfino banale.
Fondare la propria visione del mondo su presupposti di natura scientifica non significa illudersi che ciò basti a pervenire a concezioni unitarie che prevalgano sul condizionamento degli interessi, significa al contrario, prima di tutto il resto, riconoscere che la struttura viva della società si costituisce in base all’intreccio di quegli interessi. Pretendere di essere ispirato da chissà quale idealità svincolata da interessi specifici: ecco il peccato capitale di coloro che, per interesse o dabbenaggine, glorificano la politica e disprezzano il Progetto.
Alla fine, il motore della storia, se escludiamo l’uso della forza militare e poliziesca, spesso e volentieri preponderante, si è sempre incentrato su due tipi diversi e contrapposti di malafede: il culto puramente tecnico di qualche equivalente di democrazia parlamentare in quanto strumento ottimale per la gestione di prerogative e privilegi che le fazioni egemoni ritengono di poter promuovere e consolidare, da una parte, e dall’altra la rivendicazione di una moralità superiore come mezzo, veicolo e strumento per la difesa di diritti minacciati o ancora da conquistare relativi alle compagini più deboli o meno favorite.
Privare l’umanità di titoli divini e quindi, implicitamente, toglierli alle oligarchie che ne rappresentano meglio i meriti, ne amministrano gli effetti e li somministrano secondo convenienza a uomini comuni ineluttabilmente affetti da qualche forma di handicap più o meno conclamata, significa privare i vari dominatori di nicchia della possibilità anarchica di appropriarsene e i gruppi organizzati di costruire con quella materia volatile concretissimi randelli in dotazione al singolo membro.
Bloccando in via preventiva certe rendite e appannaggi di ordine sovrannaturale, ci si oppone a ogni forma di auto-incensamento produttrice di privilegi tautologici, ci si astiene dal seminare e far proliferare svariati tipi di dissonanze cognitive, tra cui, non ultima, il generoso razzismo consono a spiriti illuminati che si sono già aggiudicati un diritto esclusivo alla qualità della vita, riservando a quelli che non appartengono al club, nella migliore delle ipotesi non sempre garantita, un diritto essenziale millantato come incommensurabilmente maggiore: il diritto e anzi il dovere di preservare la vita nella sua forma bruta e minimale senza tener conto della stoffa di cui è confezionata.
Con queste premesse, tutto quello che non è Progetto si iscrive dunque nella tipologia della falsificazione ideologica, ma tutto quello che, almeno nelle linee fondamentali, non sarà elaborato prima della realizzazione effettiva e non sarà redatto tralasciando ogni devozione e rispetto per la situazione esistente (da considerare soltanto per gli ovvi debiti che vengono contratti ai fini di una buona riuscita delle fasi procedurali di transizione ordinata) non potrà essere considerato Progetto.
Aggiornamenti del 21 gennaio 2018
MERAVIGLIOSI ELZEVIRI E AFORISMI, RIBALTAMENTI CLAMOROSI E PARADOSSALI, INTUIZIONI SANTE E/O DIABOLICHE, CORTOCIRCUITI SIMBOLICI E TEORETICI DI RARA PREGNANZA ED EFFICACIA, SPUNTI TRAVOLGENTI PER SUBITANEE ACCENSIONI DELLA CONSAPEVOLEZZA, PERLE SINTETICHE, INSOMMA, DI TUTTOLOGIA KOLIBIANA, UN SUBISSO DI SUGGERIMENTI PREZIOSI CHE I PIU' ACCORTI POTRANNO SFRUTTARE SENZA COMPROMETTERSI SEMPLICEMENTE OMETTENDO DI CITARE LA FONTE, APPROFITTANDO ANZI PER ATTINGERE AVVERTENZE PREZIOSE CIRCA LE ASPREZZE DA ESPUNGERE PER NON IRRITARE L'ENCEFALOGRAMMA 'ARMONIOSO' DELL' INTELLIGENZA SOCIALE.
A seguito della nuova legge sulle fake news, codice 82, comma 29, lemma 615, paragrafo 44, siamo tenuti a ospitare la nota di una gentile lettrice che ha segnalato la presenza di informazioni false nel presente testo.
Con profondo disappunto, rilevo in questo inqualificabile zibaldone la tendenziosa immissione di notizie fasulle, tra qui, per limitarci a quella palesemente più assurda, l'affermazione che l'energia prodotta da un corpo umano sarebbe paragonabile a quella generata al centro di una stella come il sole. Affermazioni di questo tipo mirano a ispirare tendenziosamente la tesi di una estrema abnormità del fenomeno Uomo rispetto ai fatti naturali. (Sara Bernarda. Comitato per la tutela morale dei minori)
Approfittando dei disposti della nuova legge sulle fake news, codice 77, comma 199, lemma 27, paragrafo 13, che, fatti salvi i vincoli penali, consente la pubblicazione di qualsiasi testo purché, quando se ne prospetti la necessità, sia preceduto da atto di rettifica, pentimento e pubblica abiura, si dichiara quanto segue:
L'annotazione criticata dalla gentile lettrice risulta effettivamente errata e vale ovviamente il contrario. Il sole, rispetto a un corpo umano, produce una energia superiore e non di decine di volte: di parecchi milioni di miliardi di miliardi di volte.
(I frammenti tratti dal 'Notes dei Padri' (miscellanea di appunti che i vari dottori della nostra grande chiesa annotarono a titolo personale nel corso delle loro sterminate letture o visioni) non recano la fonte originale per non prevaricare i desideri, la collocazione ideologica e le reali intenzioni di primi estensori ai quali, per la sottigliezza di osservazioni di cui si è fatto libero (e magari arbitrario) uso, va comunque il plauso e la riconoscenza, non sappiamo quanto bene accetti, di tutti i 734 redattori (I curatori John Smith e Maria Rossi).
Cari amici lettori, io vorrei guardarvi fisso nelle palle degli occhi e domandarvi con il cuore in mano: preferite un panorama visto dal buco della serratura ma in cui l'angusto recinto del visibile mostra una precisione porcellanesca da lucente cammeo o una vista a 360 gradi con qualche sfumatura e nebulosità, qualche imperfezione metaforica che stuzzica la voglia di comprendere, qualche licenza poetica che concede all'estetica una pausa dalla vigilanza asfissiante dell'intelletto? Non é forse vero, benedetti ragazzi, che senza il pungolo di una metafisica che dà la vertigine la scienza costruisce solo giocattoli e, viceversa, con una metafisica che sembra un giocattolo, la scienza dà solo vertigine a chi non la usa per soldi? (Dall'almanacco agiografico kolibiano diretto da Frate Baldovino)
Qui non troverete le immagini, gli aneddoti, le invenzioni, le battute, i retroscena, le rivelazioni, i pettegolezzi che affollano Internet e dilettano gli spiriti vagabondi in cerca di distrazione, no: ad attendervi appena oltre la soglia si distende una visione del mondo (una weltanschauung!) spezzettata in una miriade di quadri teoretici che accendono illuminazioni sparse nella tenebra fittissima di un Grande Mistero. Non dovete resistere, mostrarvi prevenuti, abbandonare l'esplorazione alla prima conturbante oscurità: dovete invece aprirvi ricettivi, accogliere ogni enigmatica trovata come uno spunto che vi potrà essere utile per intuizioni future, in un'arrendevolezza volontaria e completa alle onde cullanti sulla cui cresta spumeggiano i concetti. (Dalla rubrica: 'I consigli elegiaci di Dudù')
Molti tra i critici più attenti della Bibbia Kolibiana hanno osservato che non é poi così difficile revocare in dubbio credenze, luoghi comuni, assi e colonne portanti del comune sentire e pensare: più di un secolo di critica delle culture e relativismo antropologico hanno già spianato la strada in quel senso. E' vero che pochi hanno preso di petto la necessità di certi universali considerati irrinunciabili, ma non tutto ciò che é logicamente coerente é anche auspicabile e comunque si tratta sempre di una questione di opportunità e di gusti. Queste ovvie obbiezioni nascono spesso da un grosso equivoco: i kolibiani non attaccano un sistema di pensiero perché contiene falsità, lo fanno perché si appoggia al presupposto che oggettiva ineluttabilità cosmica e pragmatico opportunismo umano vadano d'amore d'accordo facilitando automaticamente le scelte della partita. L'umanità può anche permettersi di coltivare il suo universo fantastico, ma non fino al punto in cui questo, impedendo la vista dell'universo reale, porta a sconvolgimenti tali da decretare la fine delle illusioni con conseguenze sgradevoli anche per quelli che non considerano elegante e commendevole illudersi. L'illusione, in becera sintesi, deve essere pagata di tasca propria e non fatta pagare anche o solo agli altri. Inoltre, quelli che si auto-nominano vessilliferi di valori e positività e chiamano democrazia una pianificazione condotta sfruttando la forzata ignoranza della gente costretta a circoscriversi ai problemi della sopravvivenza possono anche professare la loro buona fede, ma non obbligare qualcuno a crederci o impedirgli di sollevare obbiezioni. (Un assiduo frequentatore di social e chat che si firma Centripetopiteco)
Occorre sgombrare subito il campo da pericolosi malintesi ed errate interpretazioni: la virulenza polemica non riguarda obbiettivi in carne e ossa, deperibili e transeunti, per cui non vale la pena sprecare il tempo di una pagina, figuriamoci quello di una Bibbia. La disillusione di fondo espressa in tono satirico nasce da una sorgente fresca e limpidissima: la coscienza che, se non si interviene preliminarmente in via propedeutica, l'enorme chiacchiericcio che passa sotto il nome di dialettica democratica diventa una cagnara di segnali disarticolati emessi da poteri mediocri e variamente opposti o solidali, che non possiedono né una sintassi comune né il medesimo vocabolario per tradurre parole e concetti che ognuno usa liberamente, conservando di univoco soltanto l'apprensione intuitiva e approssimativa dei propri interessi (Anonimo, scritto sulla parete interna di un vespasiano)
I teoremi d’impossibilità di Arrow o di Sen dimostrano che un concetto di autentica e completa democrazia non esiste: qualunque definizione accettabile, non si può realizzare senza contraddizioni. Un sistema onesto e leale cerca però di avvicinarsi a un optimum o perlomeno di non collocarsi ai suoi antipodi e per farlo deve obbligatoriamente cercare di capire le difficoltà e le trappole implicite nelle varie congiunture.
Incredibilmente, la pubblicistica politica italiana, pur avvicinandosi una tornata di elezioni cruciali in presenza di una suddivisione trilaterale dell'offerta partitica molto diversa dal multipolarismo proporzionale, non ha sottolineato e adeguatamente divulgato le difficoltà che infettano il cuore delle istituzioni in conseguenza delle ineluttabilità logiche adombrate dai teoremi suddetti.
Ancora più incredibile si delinea la ineffabile circostanza che gli stessi teoremi non siano stati adeguatamente considerati dai legislatori incaricati della nuova legge elettorale (oppure che lo si sia fatto cicero pro domo sua senza farne oggetto di dibattito pubblico e di informativa per il popolo bue degli elettori, omissione che appare l'ennesimo, collaudato fac simile della tipica ineccepibile truffa di ascendenza super tecnocratica).
Il meccanismo dei ballottaggi, per esempio, rappresenta un clamoroso tuffo o della dabbenaggine legislativa o dell'astuzia diabolica (scegliete voi) nel cuore delle antinomie se, in via preliminare, non si provvede a fare in modo che al ballottaggio arrivino i due aventi maggiore diritto, impedendo l'esclusione preliminare del più probabile vincitore.
Viene il sospetto che i partiti dei democratici ovvero il nuovo 'arco costituzionale ed europeista', costruisca in tutti i paesi del mondo leggi elettorali tali che, per esemplificare con un esempio concreto, quando avviene, come in Francia, che i partiti euro-scettici collezionino tutti insieme il 60% abbondante dei voti, il candidato euro-euforico, a prescindere che sia persona degnissima o meno (i francesi al riguardo sembra che col senno di poi si considerino abbastanza fortunati), qualche settimana dopo, grazie al suo terzo di voti, si mette a capo di un governo con una maggioranza parlamentare stratosferica.
Forse le problematiche appena introdotte vengono ignorate perché azzerano brutalmente la possibilità di scindere il mondo della logica e della razionalità scientifica dalle velleità etiche, morali e ideologiche: smascherano insomma i doppi giochi delle figure istituzionali che scendono in piazza ammantati di nobili idealità da esibire in pubblico con pathos da attore drammatico e intanto, se non già da prima, i micidiali meccanismi di dettaglio dei dispositivi tecnici decisivi quelle stesse specchiate e inattaccabili figure li stanno mettendo a punto in riunioni ristrette e attraverso consulti rigorosamente riservati.
Le leggi di uno stato, di qualsiasi stato, lottano ormai come piccoli David denutriti e senza fionda contro i giganteschi Golia della degradazione entropica, che in questo caso corrisponde a perdita d'informazione macroscopica in cui sono parimenti coinvolte, al posto degli stati microscopici di un sistema, le cognizioni delle popolazioni e le cognizioni intorno alle popolazioni, nel dilagare in entrambi i sensi di marcia di un disturbo generalizzato che pervade ormai una complessione sempre più ampia, frenetica e deprivata di riferimenti affidabili.
Entropia ed energia sono le due facce del calcolo, il diavolo e l'acqua santa della presenza ontologica di essere e divenire.
Le leggi tentano appunto di ricreare centri organizzativi e linee di ordine interno, ma, in una società che macina sempre più potenza o altrimenti decade e non può fare a meno di aprirsi a un flusso non controllabile d'influenze esterne, il modo in cui possono ottenerlo, se si prescinde per intero da un concetto di ristrutturazione progettuale, passa necessariamente da quei metodi impositivi della semplificazione oligarchica che, se attuati con l'ipocrisia paternalistica della finta blandizia e il giusto tocco religioso, piacciono a tanto a quei severi e integerrimi conservatori che possono stringersi baldamente ed eroicamente in difesa dei propri diritti acquisiti.
Ovviamente, si può prescindere dal metodo onesto e dichiarato del progetto, non da un progetto più o meno mascherato e approssimativo: il progetto attualmente in uso é proprio la semplificazione oligarchica secondo uno strano ibrido di tecnocrazia elitaria e massificazione confessionale.
Ciò, beninteso, rientra del tutto naturalmente, in una sorta di 'inconscio direttivo' che fa parte di una sorta di 'istinto di sopravvivenza del sistema'. Non discende da malattie morali o distorsioni analitiche di protagonisti che possono essere peggiori o migliori di altri e perfino messi in una cesta a manovella ed estratti a caso senza modificare in niente la situazione di fondo.
La situazione si cambia soltanto a due condizioni: a) nasce, corroborato da adeguata consapevolezza, un interesse politico maggioritario orientato verso la metodologia chiara e trasparente del progetto; b) la progettazione viene portata avanti fino a sortire un progetto realizzabile ed effettivamente migliorativo.
E' appena il caso di sottolineare che, con i livelli di scolarizzazione correnti, l'interesse politico maggioritario citato al punto a) si traduce per intero in un interesse politico maggioritario interno a selezionate minoranze a suscitare tale interesse politico maggioritario nelle fasce culturalmente inerti.
Immaginate un leader addestrato dagli esperti di marketing, uno di quelli che sa tutto sui deliqui ipnotici delle folle, un propagandista recidivo (da decenni, non da mesi) della positività meccanica e clonale, un venditore del sorriso obbligatorio stampato sulla faccia come una maschera di Halloween; immaginate la combattività faconda con cui stigmatizza l'esercizio culturale della critica prendendosela con quelli che chiama profeti di sventura e untori di pessimismo, vibrando energia decisionale mentre, intorno al palazzo ducale dove ha raccolto gli accoliti e gli adoratori insieme ai giornalisti amici o compiacenti, si addensano un traffico paralizzato e una stantia cappa inquinante, mentre sono annunciati allarmi meteorologici insoliti per la stagione sia per la modalità che per la potenza, mentre assenteismo, malcontento, guerre civili e attentati terroristici dilagano per il mondo. Non rappresenterebbe, questo leader, così come é stato sempre in passato, un motivo in più per disperare e anzi un vero colpo di grazia alle capacità di reazione ancora presenti? Una pura e semplice calamità, non certo la minore, insieme alle altre?
La questione della verità o, con un titolo da romanzo giallo o nero, 'The truth affair' (sigla espressiva dei malintesi e dei sotterfugi che vi si nascondono) si pone alla base della giungla di equivoci che coinvolge l'intero sistema delle comunicazioni sociali.
Ufficialmente, nella 'democrazia di mercato' dove si distingue soprattutto la 'gente perbene', esiste una sola verità condivisa da tutte le persone 'sagge e di buon senso' ovvero che la realtà é complessa e nessuno può vantare un possesso di ragioni esclusive e inattaccabili.
Potremmo considerarla una sorta di calmiere assiologico, di funzione moderatrice e omeostatica, di teorema limitativo dell'interagibilità sociale, se tutti si sforzassero di capire e far capire in che cosa consista quella complessità così sentitamente evocata, ma il messaggio che la versione prevalente codifica sottintende il contrario del significato superficiale: si guarda bene dall'addentrarsi nelle spinose problematiche del controllo e dell'autocontrollo e si fonda in effetti sul sottinteso implicito della necessità di menti superiori capaci di gestire la verità a vantaggio di una totalità i membri maggioritari della quale non saranno mai in grado di afferrare la sostanza 'vera' dei 'complessi' problemi fondamentali, che rimangono di pertinenza di cerchie selezionate e, naturalmente, benintenzionate.
E' allora inevitabile che tanta dubbiosa e agnostica prudenza si aggiri indisturbata solo nel labirinto delle strade senza lambire i piani alti delle torri dirigenziali. Così, non appena qualcuno si permette di obbiettare, non intorno alla fallibilità e caducità delle scelte e dei giudizi più comuni, ma su questioni di base rispetto alle quali controversie e perplessità dovrebbero trovare ben più ampio stimolo e sostegno, costui, a prescindere dai dettagli del discorso sviluppato, viene immediatamente iscritto alla categoria dell'estremismo menagramo e disfattista.
Eh sì, la verità non è un monopolio, a meno che non consti di materiali pregiatissimi e non sia stata definitivamente comprata all'asta da chi ha offerto di più.
Le verità vere esistono, i valori veri esistono, ma richiedono abilitazioni e diritti speciali, altrimenti chiunque potrebbe brancicarli e sgualcirli. Se esistessero e fossero alla mercé di tutti deluderebbero assai e di certo non garantirebbero un bel niente; se non esistessero, se ne dovrebbe trarre conseguenze molto poco rassicuranti intorno alla longevità di ordinamenti spronati a rotta di collo sotto la frusta energetica della competizione globale.
Il relativismo modesto e moderato messo in bocca ai solenni sacerdoti dell'ortodossia parla in realtà con la lingua biforcuta (augh!) del civilizzato che si rivolge agli indigeni ignoranti perché intende rinchiuderli pacificamente nelle riserve e aprire territori vergini all'avanzata del progresso colto ed evoluto.
Ogni civilizzato si propone di essere molto misericordioso e caritatevole verso chi accetta di starsene tranquillo nelle riserve assegnate, questa bontà lo distingue e lo eleva al di sopra del selvaggio cattivo che sconfina.
L'indiano ingenuo crede in Manitù, il colonizzatore perspicace solo in una religione simile a quella preferita da quegli antichi romani che a ogni nuova annessione di territori aprivano nella capitale un nuovo tempio e vi collocavano le statue degli dei i cui intermediari amministravano la spiritualità della nuova filiale.
I dubbi cartesiani dei colonizzatori si propongono in realtà un duplice obbiettivo: disinnescare la forza critica pericolosa delle ovvietà logiche ed epistemologiche (cioè di evidenze inesorabili, fatti tautologici, constatazioni elementari che possono esistere soltanto quando giocano a favore, altrimenti diventano semplicismi manichei, guerrafondai, psicotici o addirittura populisti) e garantire nel frattempo il posto prioritario nell'olimpo dei criteri direttivi e giurisdizionali a principi di autorità subordinati alla situazione esistente.
Se il criterio della chiarezza e dell'evidenza dovesse rivelarsi illusorio nell'ambito dei fenomeni logici ed epistemologici, si paleserebbe ancora più improponibile sul piano etico, morale e dei valori condivisi.
Se c'è qualcosa che gli studi storici e sociologici dimostrano in modo assolutamente incontrovertibile, con buona pace di tutti i kantiani del mondo, è proprio l'inesistenza di un a priori morale, laddove una qualsiasi macchina o architettura dimostra invece la possibilità di un coordinamento tecnico e funzionale tra individui variamente assortiti.
Si potrebbe perfino dire che la Storia fa sospettare l'esistenza di un a priori anti-morale, dato che è di sicuro una banalità, ma purtroppo tutt'altro che una fandonia, affermare che le peggiori nefandezze sono state sempre portate avanti sotto l'insegna di grandi idealità trascendenti.
Per altro verso, nessuna impresa colonizzatrice si é mai limitata all'uso delle armi, ha sempre movimentato, insieme agli ordinari in divisa, truppe di missionari e imprese di carità.
Se a qualcosa di buono sono servite le guerre di Corea, del Vietnam e dell'Afghanistan, è stato dimostrare che con il livello tecnologico raggiunto dalle armi moderne l'invasione e la conquista militare di un paese straniero non è più proponibile, l'impresa fallisce anche quando si è in grado d'infliggere al nemico perdite e distruzioni migliaia di volte superiori alle proprie, l'unica opzione possibile rimane la tabula rasa e l'assenza di costo politico interno per le perdite subite.
Le nazioni ormai si possono eventualmente annettere all'impero convertendo alla giusta causa con i giusti mezzi pacifici le caste dominanti e prestando o perfino, quando conviene, 'regalando' con prestiti mascherati, mense, cliniche e scuole alle classi inferiori in modo da trasformare le componenti migliori in buoni operai, ma anche, perché no, se le condizioni si prospettano idonee, in buoni consumatori.
Gli unici settori occupazionali dove la richiesta di lavoro supera l'offerta rimangono la gastronomia (insieme ad altri centri di solluchero riservati alla piccola e grande aristocrazia) e il colonialismo della carità.
A ogni buon conto, quando non sono impartiti e subiti dall'alto secondo esigenze di controllo, governo, consenso, i princìpi etici si mescolano a risonanze sentimentali, si confondono con impulsi naturali e istinti di base, dipendono da esperienze, situazioni fisiologiche, insorgenze reattive di moduli comportamentali prefissati, rivelando i soliti bisogni canonici e ancestrali di controllo, appagamento e sicurezza: l'interesse che suscitano a livello politico ed economico attiene alle tecniche della pubblicità e del commercio ideologico dei voti elettorali, non vi gioca per niente il coinvolgimento del volgo in decisioni riservate ai piani alti e alle stanze segrete.
I pettegolezzi che circolano, le 'rivelazioni clamorose', le notizie che accendono tensioni soggiacciono in via preventiva alla falsa coscienza del singolo che non commette abusi e reati solo per calcolo o timore del buon nome o dell'autorità, ma nondimeno coltiva una nobilissima proiezione spirituale di sé. Il potere coordinato delle varie convenzioni in apparente contrasto tra di loro coltiva questo super ego proprio per garantire la natura fittizia di una indignazione asservita alle mitologie ideologiche e mai resa operante secondo moduli congrui e razionali.
Se si esclude l'azione della magistratura, condizionata dall'abilità (e dal prezzo) di politici lobbysti e avvocati, gli scandali si rivelano alle ricerche di mercato il videogioco preferito del Web e solo quando disprezzano le regole del buon gusto e del galateo, come é accaduto per Wikileaks, ottengono l'effetto di demonizzare chi rivela al posto di chi é rivelato.
Ormai puoi fare scandalo solo se possiedi e controlli tutta la filiera della comunicazione, ma, fortunatamente per il comune cittadino che così non rischia continuamente la galera, in quel caso, di solito, tu gioviale e generoso tycoon, a meno che non ti tirino per i capelli o il parrucchino, preferisci produrre incantamenti piuttosto che scandali.
Ovviamente il Potere, comunque si voglia definire nei dettagli questo termine astratto che conserva, oggi più che mai, una innegabile concretezza intuitiva nonostante non indichi più alcun referente determinato, tutela e garantisce prima di tutto gli avatar metafisici in cui gli esseri umani si sdoppiano e questo prima, molto prima, soprattutto, della umiliante natura biologica di ogni essere umano.
Il Potere non può esistere senza religione, e dunque perde tempo chi ricerca un potere ('p' minuscola) senza ridimensionare la religione a fenomenologia esclusivamente intima e privata, per non parlare di chi automaticamente esalta la religione attraverso i fumi alcolici dell'anarchia.
Ogni altro racconto che viene intessuto al riguardo non è che una favola religiosa che si trasmette in buona o cattiva fede, secondo i casi e i soggetti.
Per quanto non si possa in alcun modo mettere in dubbio che i kolibiani considerano l'ipocrisia come un'autentica peste psicologica, un'affezione del corpo e della mente che condiziona e debilita ogni altra facoltà al punto da nascondere le doti migliori (che di sicuro esistono, anche se ciascuno le giudica a suo modo) sotto strati di falsità repellente che le rende impraticabili, si deve precisare che l'ipocrisia mostra tutta la sua virulenza nel corso dell'esercizio sociale dei valori dogmatici, quei valori implicitamente istituzionalizzati e divinizzati al di fuori della necessaria e inderogabile prassi giuridica, normativa e sanzionatoria stabilita dalle leggi civili e penali.
Se si considerano invece gli aspetti costituzionali assunti per essenza intrinseca da tali idoli incorruttibili agitati dal moralismo ideologico di battaglia per motivi esistenziali almeno quanto politici, la palma della nequizia va al tipo programmatico di decisione che pregiudizialmente li fonda e senza il quale non esisterebbero: l'intenzione ferma e irrevocabile di prescindere da ogni bilancio concreto di piacere e dolore, di gioia e sofferenza.
Prescindere da una visione in qualche inevitabile modo edonista prelude a un esito quasi immediato e inevitabile: privilegiare il dolore e la sofferenza come sfondo preferenziale al fine di esaltare la forza condizionante e trascinante del simbolo etico. Esaltare dolore e sofferenza per ragioni simboliche di sopraffazione morale significa poi, dato che ogni organismo biologico di qualsiasi tipo, ricerca il piacere e rifugge il dolore, mettersi davanti a una sola alternativa: l'ipocrisia, appunto, oppure la deviazione psicotica più o meno grave.
Ciò continua a valere nonostante che, per un essere umano dalla psiche complessa, la casistica dei piaceri e dei dolori, tradotti in termini neurologici raffinati, spazi in una varietà sterminata, tra cui la soddisfazione per avere adempiuto con sacrificio compiti di dedizione altruistica rientra sicuramente tra gli atteggiamenti accettabili anche quando s'incentri, più che su una spinta affettiva, soprattutto sulla repressione di sensi di colpa e rimorsi.
Nessuno che agisca per ordinari impulsi spontanei o per un calcolo razionale potrà mai essere giudicato ipocrita o malato, tali definizioni le riserveremo a chi agisce per compiacere un idolo e aggiudicarsene i favori a prescindere che si erga nelle profondità intime o venga incarnato in qualche referente sociologico. Del resto si sa che le voci interiori e l'oggettivazione fantastica di responsabilità e autorità segnano in modo caratteristico le sindromi schizofreniche e le paranoie compulsive.
Detto questo considerandolo una banalità od ovvietà a prescindere che sollevi o meno lo scandalo dei filistei, un kolibiano deve precisarne i lineamenti al fine di rintracciarne conseguenze economiche e politiche seguendo le quali il discorso possa sottrarsi al pantano di personalismi e psicologismi. Per un kolibiano, infatti, ciascuno ha diritto di farsi i cavoli propri e anche di adorare tutti gli idoli che vuole, finché così facendo non condizioni e comprometta la realtà sociale da cui anche il kolibiano dipende, nel qual caso ciascuno si faccia pure i cavoli suoi finché può, mentre il kolibiano, che magari ha torto marcio, cercherà, assecondando i disposti della propria natura, più o meno pateticamente, di impedirglielo continuando a manifestare in termini critico-filosofici la propria veemente riprovazione: se la cultura serve ancora a qualcosa, qualche effetto, magari controproducente, lo perseguirà; se non conta un cazzo, come il kolibiano sospetta, tutto il mondo generoso e altruista si augura che il kolibiano almeno si diverta.
Apriamo e presto chiudiamo il discorso manifestando un ereticissimo dubbio: siamo sicuri che i grandi progressi della medicina più attuale non stiano introducendo più dolori che sollievi? Porre una domanda disdicevole e inopportuna, comporta ovviamente la paradossale possibilità di una risposta altrettanto disdicevole e inopportuna: discutere se questa sia giusta o sbagliata richiederebbe migliaia di pagine piene zeppe di analisi dettagliate.
Ci limitiamo pertanto a poche osservazioni altrettanto disdicevoli e inopportune della domanda e di una delle possibili risposte.
Senza le spese e gli investimenti medici il PIL di tutti i paesi occidentali del mondo si ridimensionerebbe e non di poco.
La quasi totalità degli sforzi e dei ritrovati medici degli ultimi anni sono stati devoluti molto più al protrarsi di condizioni di vita gravemente compromesse che al ripristino di una salute accettabile.
Una scelta effettivamente libera di un paziente adeguatamente informato e liberato da paure metafisiche probabilmente deprimerebbe insieme all'accanimento terapeutico gran parte dei bilanci legati alla salute.
Se la medicina introduce nel mondo più dolori che sollievi, l'etica della medicina è fortemente distorta quanto quella di certe imprese di carità alla Maria Teresa di Calcutta.
Rilievi simili riecheggiano formulazioni che il Sommo Anonimo espresse mentre si trovava sempre più esposto a quel crollo psicofisico le cui probabilità dopo una certa età aumentano ogni giorno che passa, lamentando di non poter godere di quel senso di tranquilla indipendenza che l'accesso garantito a una morte piacevole e serena favorisce in chi non é vittima di particolari ossessioni.
Le questioni legate alla vita e alla morte nonché alla qualità fondamentale della vita interiore di ogni essere umano coinvolgono equilibri delicatissimi e non sono trattabili mediante analisi puramente logiche, per il semplice motivo che, interagendo con diversi temi compresenti, con fili di discorso diversi e intricati, con percezioni e categorizzazioni di storie diverse e serie causali contigue, ma indipendenti, quando si connettono a interessi individuabili non negoziabili, richiedono particolari cautele e accortezze se non si vuole sterilizzare il tutto e consegnarlo imbalsamato a chi se ne può servire per manipolazioni strumentali. Questo in una visione aulica e ideale. Purtroppo la manipolazione sistematica delle istanze più delicate e profonde, oggi come in passato, avviene puntualmente all'atto pratico, cioè nella traduzione pubblica e civile di tutte le prerogative strettamente individuali che possono in qualche modo ostacolare o compromettere il normale espletamento dei vincoli imperativi connessi al normale funzionamento di uno o l'altro degli specifici ordinamenti economici su cui si regge la convivenza civile.
Dovunque esistono argomenti intrattabili per la sensibilità del tema al punto che il semplice sfiorarli solleva un polverone di scandalizzato allarme, là, proprio là, cautele e censure, come per ogni convenzione o riflesso condizionato di ordine antropologico-culturale, non implicano una sollecitudine effettiva verso inviolabili prerogative individuali, ma, al contrario, la necessità tassativa di preservare la solidità degli statuti pubblici e dei relativi fondamenti strutturali dalla insidia rappresentata da prese di coscienza radicale circa il grado di compromissione ed esautorazione dei diritti potenziali dei singoli che ogni specifica organizzazione variamente comporta.
Alla fine della fiera, le classi istituzionali e professionali dominanti condizionano sempre ampi settori della società e, in un modo o nell'altro, qualche libertà apparentemente ovvia ed elementare ci lascia le penne: nei dispotismi avviene sotto un pugno di ferro, nelle democrazie sotto una mano aperta che intima l'alt perché stai oltrepassando senza autorizzazione il confine di un'area sacra protetta.
In una società industriale, ogni convenzione o ipostasi di valore e di senso é fonte continua di equivoci per lo slittamento nel tempo di valori semantici già di per sé precarizzati dalla polisemica ambiguità ripartita tra i costrutti delle lingue naturali, i canali fisiologici di percezione e interpretazione, la varietà irriducibile dei vissuti soggettivi.
Anche con una scansione uniforme del tempo, la babele delle culture rimescolate in un solo calderone inficerebbe qualsiasi processo di comunicazione non sottoposto a regole gerarchiche o meccaniche, ma i ritmi temporali non rimangono costanti, accelerano in proporzione alla potenza immessa nel sistema e alla conseguente produzione di entropia.
Ormai, sta diventando sensibile lo sfaldarsi di ogni schema di riferimento concettuale capace di accomunare le normali intelligenze e consentire così un processo democratico non equiparabile a un puro formalismo elettorale.
Lo strapotere della tecnica e delle conseguenti egemonie non può essere contrastato e neppure arginato dalla sensibilità spirituale e umanistica per il semplice motivo che solo l'avanzata del progresso tecnico ha consentito la crescita della sensibilità spirituale e umanistica, mentre non vale il viceversa.
Il motivo per cui il percorso tra la tecnica (tecnologia, in termini attuali) e l'umanità (nel senso di qualità etica) si dipana in un solo senso preferenziale si chiarisce in termini logici su cui rimane poco da eccepire e da dibattere: la tecnica segue procedure secondo linee di discorso semanticamente chiare, univoche e condivisibili, un discorso su realtà che possono essere isolate e semplificate e danno adito a formulazioni verificabili; l'etica umanitaria, o perlomeno quella relativa a individui soggetti a vincoli e necessità di natura data, non può pervenire ad alcun tipo di logica concatenata e progressiva, di referenza certa e comunemente asserita senza equivoci, di sequenza significativa animata da processi concordati e inequivocabili.
La tecnica é creata e manovrata dall'uomo nei termini secondo cui gli storicisti ritenevano e magari ancora ritengono che l'uomo sviluppi la storia; l'etica umanitaria, che è coinvolta nel fluire del mondo e in esso della storia, come del resto gli effetti e le reazioni suscitati dalla tecnica, agisce nel momento stesso in cui é agita, rappresenta un costrutto ideale nella macchina del mondo, in cui dunque può costituire elemento direttivo o almeno influente soltanto se il mondo é costituito in accordo a istanze specifiche che si possono equiparare alla necessità di un progetto teleologico 'implementato' nel cosmo da princìpi che, rispetto alla base del discorso scientifico, si muovono a un livello superiore.
Nulla, ma proprio nulla, negli studi storici, antropologici, sociologici, naturalisti, fisici o matematici, nulla in nessun meandro delle scienze umane, ha finora fornito il minimo indizio che tali princìpi superiori esistano.
Soltanto nelle intimità del proprio animo uno può raccogliere intuizioni inattaccabili intorno ai valori supremi che informano di sé la natura profonda del mondo e infatti colui che rinviene nei propri favolosi meandri questa certezza inossidabile manifesta in genere una incidenza superiore alla media di perfetta stronzaggine.
Tutto fa pensare invece che solo attraverso linguaggi del tipo di quelli con cui si riesce a dialogare con i computer (linguaggi 'context free') l'uomo è in grado di impiantare e condizionare un qualche tipo di processo coerente e duraturo, mentre ogni altro tipo di discorso sviluppa risonanze simboliche con effetti più che altro emozionali e motivazionali oppure rimette almeno in parte le soluzioni nelle mani di quello che denominiamo 'caso'.
Il mondo etico e spirituale si basa in sostanza su una grande illusione, la madre di tutti gli incantamenti di ordine storico e sociale, il tentativo di traduzione pubblica e oggettiva di ciò che esiste soltanto in una dimensione intima e privata: la soggettività.
Il paradosso di homo sapiens sapiens si basa su una contraddizione elementare creata dalla sua stessa specie: ciò che veramente importa a una coscienza individuale è l'individualità che la fonda, ciò che meno importa alla struttura complessiva della biosfera e del cosmo e quindi alla specie che vi fa temporaneamente da padrona sono gli individui: é impossibile conciliare le due serie di eventi, vanno semplicemente fatte convivere con il minor numero d'interferenze negative reciproche o almeno si può tentare di farlo.
Lo strapotere della tecnica smetterà di crescere e meccanizzare tutto quello che la circonda (incluso quello che la produce) solo in seguito a un esito o a una metodologia.
L'esito é la catastrofe, la metodologia dipende dalla possibilità della tecnica di limitare, scientemente, programmaticamente, intelligentemente, se stessa.
La catastrofe si prospetta come lo sbocco, distante decenni o pochi secoli, della fase storica iniziata con la rivoluzione industriale, l'auto-limitazione rimanda al progetto kolibiano in alternativa a pianificazioni alternative che si presentano a un primo sguardo più realistiche, ma presentano un handicap capitale: senza crescita economica continua si costellano di inneschi esplosivi.
Laddove il non kolibiano intravede negli aspetti tecnologici dell'accelerazione economicista i rimedi che si sviluppano dall'incedere della malattia incedendo sempre più velocemente rispetto alla malattia che rallenta (dinamica senz'altro possibile a prescindere che finora non abbia concesso nessuna conferma empirica), per un kolibiano crescita continua significa soglie sempre più pericolose, poi soglia di non ritorno e infine catastrofe.
Questa ultima visione si basa su premesse e collegamenti abbastanza elementari e indubitabili, che tali rimangono anche se potrebbero intervenire retroazioni compensative e meccanismi omeostatici su cui molti fanno affidamento senza distinguere chiaramente le valutazioni scientifiche da credenze più o meno inconsce intorno a canoni trascendenti che regolerebbero il macchinario cosmico.
Per prima cosa, l'umanità attiva allo stato attuale, in via diretta o mediata, per proprio uso e consumo, un quantitativo energetico dello stesso ordine di grandezza di quello normalmente incassato, per così dire, dall'intera biosfera (parliamo di circa un millesimo dell'energia solare che raggiunge la superficie senza essere assorbita o respinta dall'atmosfera).
Questo valore è molto strano di per sé: perché la vita biologica e animale (umanità esclusa) che ha tanta parte nel modellare le caratteristiche geo-chimiche del pianeta, ha sempre fatto un uso così scarso dell'energia potenzialmente disponibile?
Sembra addirittura che l'utilizzo non sia mai stato così intenso come nell'ultima parte dell'era terziaria, almeno se lo commisuriamo a una biodiversità favorita nello stesso periodo da una disposizione di continenti e montagne (frammentazione massima, catene longitudinali (Ande, cintura del fuoco, Montagne Rocciose) e trasversali (Alpi, Caucaso, Himalaya) e correnti oceaniche (circolazioni circum-polari in assenza di circolazione equatoriale) che hanno però anche favorito, in presenza di criticità astronomiche (cicli di Milankovic) da cui oggi siamo lontani, l'avvento delle glaciazioni.
E' perfettamente ovvio che qui intervengano dei limiti di tollerabilità molto ben definiti e il fatto che nessuno li abbia ancora chiaramente individuati non dovrebbe certo favorire un sereno rilassamento, tutt'altro.
Dunque l'umanità costa alla Terra quanto una intera biosfera e inoltre l'umanità ha scoperto come imprimere a tutta una varietà di fenomeni accelerazioni di tipo esponenziale, quel tipo di accelerazione esemplificato da una funzione ehx che, in analogia con il montante finanziario, significa che al tasso di h = 0,00016 (16 centomillesimi) al secondo un valore cresce di un milione di volte in un giorno (dilatazione di scala comune nei fenomeni meteorologici).
Perché queste constatazioni elementari non spaventano come sembrerebbe inevitabile? Semplicemente perché nella cognizione comune, anche di gente colta e scientificamente preparata, l'umanità e spesso anche la biosfera sono collocate al di fuori di qualsiasi pertinenza di tipo termodinamico: i circuiti nervosi introdurrebbero qualcosa di sostanzialmente altro rispetto a un recipiente riempito di gas o di fluidi (la solita distorsione metafisica che si intromette di straforo seducendo le menti più rigorose).
Non è forse vero che schiacciando un bottone possiamo mettere in moto un intero impianto industriale? Se siamo riusciti a sconvolgere così prepotentemente il rapporto tra energia d'innesco ed energia provocata, non significa che il secondo principio, anche se non può essere messo in dubbio, di fatto, agli effetti pratici, non riveste poi questa grande importanza?
In realtà chiunque, senza neppure ricorrere alla primitiva meccanica di Erone e Archimede, senza carrucole o pulegge, può suscitare reazioni energetiche di proporzioni migliaia di volte superiori allo sforzo che le ha suscitate: é sufficiente, per esempio, che batta una sbarra di ferro contro una lattina in un bosco densamente popolato di uccelli, insetti e altri svariati animali che, spaventati dal frastuono, attivino reazioni con i mezzi di cui dispongono (ali, elitre, zampe...).
Siamo maghi o semplicemente sfruttiamo una delle caratteristiche basilari della materia vivente ovvero quella di poter fungere da amplificatore di stimoli?
Se ci limitiamo ai processi di un'organizzazione ciclica protratta nel tempo secondo canoni fissi, il metabolismo umano segna un record assoluto, con punte, quanto a potenza energetica impiegata, superiori, anche di una decina di volte, ai prevalenti processi nucleari che avvengono all'interno di un'analoga massa di materia solare in uno stesso periodo di tempo, stabilendo la possibilità di un confronto tra chimica ordinaria e processi che trasformano materia in energia secondo i coefficienti vertiginosi previsti dalla più famosa formula di Einstein.
Esiste in effetti una forte analogia tra l'energia liberata nei comuni cicli metabolici a qualsiasi livello della scala zoologica e quella prodotta dalla fusione dell'idrogeno nei reattori stellari di media grandezza.
Come il superamento di un certa soglia di complessità consente l'auto-sostentamento della stessa e anzi la sua crescita progressiva (per cui, agli albori ancestrali della vita, un numero enorme di tentativi è plausibilmente finito in nulla finché non si é generato l'innesco sopra un minimo di complicati sincronismi), così questa stessa organizzazione, che non può svilupparsi sotto un certo livello quantitativo di potenza e dunque di entropia (a parità di volume e temperatura), quando supera una determinata concentrazione, diventa il nucleo scatenante di concentrazioni ulteriori.
Non si può raggiungere una cognizione credibile delle capacità psichiche dell'uomo, se non ci si rende conto che da un punto di vista puramente fisico l'uomo é un autentico mostro, il più mostro dei mostri, dato che anche il più piccolo protozoo é un mostro di organizzazione e concentrazione energetica: senza consapevolezze del genere, sostituite per giunta da inebrianti illusioni e auliche sciocchezze, è ben difficile che l'umanità impari a maneggiare se stessa e la natura che la circonda adottando le debite avvertenze.
Se ogni animale è un trasduttore e amplificatore di stimoli e quindi di energia, ogni essere umano, grazie al suo poderoso cervello, è un super amplificatore di stimoli: ciò aggiunge forse qualche ingrediente portentoso all'opera scalmanata di trasformazione di energia libera in energia degradata che stiamo conducendo in un ambiente a volume costante situato a ridosso di un flusso di radiazioni regolato in modo costante?
Certi poteri di amplificazione, che, a conti fatti, sostengono la parte migliore della spiritualità umana, dovrebbero preoccuparci e basta, se l'esplosione esponenziale continua a imperversare. Se poi teniamo conto che una economia di mercato non può smettere d'imperversare, dovremmo allibire di preoccupazione, altro che rimanere sereni e contenti!
Quando infatti, in futuro, in una economia di mercato (mercato che oltretutto si traduce sempre e comunque in un miscuglio instabile composto da rendite di posizione che cercano di proteggersi con regole e adepti della competizione selvaggia che cercano di aggirare quelle medesime regole), una percentuale degli otto e più miliardi di persone sarà paga dei risultati anche tecnologici ottenuti, una percentuale molto maggiore cercherà di sfruttarli per conquistare quelle posizioni che ancora non detiene e quando tutti potranno ragionevolmente dirsi paghi dei risultati raggiunti il pianeta sarà trionfalmente pervenuto allo stato di tracollo mortale.
Prosit.
E' possibile, come ha sostenuto qualcuno, che il carbonio immesso nell'atmosfera dall'uomo preistorico e protostorico (che ha compiuto in migliaia di anni devastazioni paragonabili a quelle provocate in pochi lustri dalla società industriale avanzata) abbiano scongiurato la fine del periodo interglaciale e una nuova avanzata dei ghiacci.
Le glaciazioni sembrano essere condizionate dall'irradiazione durante i mesi caldi dell'emisfero boreale il quale, rispetto a quello australe, subisce fluttuazioni climatiche molto più ampie a seconda della situazione astronomica (fino a un 20%). Questa variabilità è dovuta al rapporto molto più alto tra terre emerse e oceani.
Quando le variazioni cicliche dell'orbita terrestre favoriscono estati fredde (il che può essere dovuto a una coincidenza più o meno accentuata tra eccentricità dell'orbita, scarsa inclinazione dell'asse e perielio invernale) i ghiacci, per una concomitanza di fattori intervenuti a partire dagli ultimi milioni di anni del Cenozoico, avanzano raggiungendo latitudini distanti dai relativi poli.
Il ritmo dell'alternarsi di queste avanzate dipende ovviamente, se la precedente analisi é corretta, dai rapporti tra le durate dei cicli: l'influsso della eccentricità, la scansione più lunga (circa centomila anni), pare sia dominante ma gli altri due influssi possono sovrapporre i rispettivi effetti, determinando interferenze e disturbi che si sommano con le oscillazioni della geofisica e della biosfera, producendo analoghi su grande scala di fenomeni enigmatici e poco compresi come la risonanza stocastica o i battimenti alternati. Tra i pochi fatti certi e acquisiti, rimane la sintonia (inversa) tra la concentrazione di anidride carbonica nell'aria e la quantità di ghiacci, anche se non risultano ancora ben chiari scarti o coincidenze nei tempi delle rispettive insorgenze e quindi i rapporti di causa ed effetto.
Attualmente l'eccentricità dell'orbita é scarsa, l'asse é piuttosto inclinato mentre l'unica 'disposizione' astronomica favorevole alla glaciazione é quella più debole e incerta, ovvero il perielio in inverno, che rende più freschi, ma anche lievemente più estesi, i mesi caldi boreali.
Morale della favola, scurdammoce o' passato: una eventuale glaciazione prossima ventura di cui dovessimo preoccuparci non rispetterà canoni pregressi e potrebbe essere invece provocata da qualche effetto imprevedibile e controintuitivo, mediato dal sistema delle correnti atmosferiche e oceaniche, imputabile al riscaldamento globale e quindi alle scriteriate destabilizzazioni indotte negli ultimi decenni.
Siano pure resi devoti ringraziamenti ai nostri antenati, se lo si ritiene il caso, ma, se anche avessero impedito una nuova glaciazione, ciò dovrebbe costituire motivo ulteriore di allarme e non desiderio di emulazione. Il regime delle glaciazioni testimonia infatti un'estrema instabilità degli equilibri climatici nelle attuali condizioni della superficie terrestre e della sua sottile atmosfera (che per il 99% della massa si concentra in uno strato che é molto meno di un decimo di quello mostrato dalla sigla dei telegiornali RAI), un assetto molto delicato rispetto a cui ogni ulteriore devastazione può innescare sbilanciamenti imponderabili.
(Dal Notes dei Padri)
Simulazione di Martin: 100 paleoindiani in partenza da Edmonton in Canada in 293 anni si sarebbero trasformati in 300.000 individui dopo avere ammazzato 100 milioni di capi di megafauna: Martin parla di ‘overkill by blitzkrieg’. Coro dell’Antigone di Sofocle: "Molte sono le cose terribili, ma niente è più terribile dell’uomo."
Tre eventi di fine 1900, inizio 2000 potrebbero essere ricordati da eventuali posteri come una serie di beffarde disdette: la caduta del muro di Berlino, l'eruzione del Pinatubo, il successo nell'abolizione dei CFC (clorofluorocarburi) con conseguente restrizione del buco dell'ozono sull'Antartide (che comunque continua a esistere e non mostra affatto l'intenzione di sparire).
La fine del comunismo sovietico ha inaugurato l'euforica frenesia liberista ed economicista che ha spazzato via ogni consapevolezza culturale dalle classi dirigenti occidentali, trasformandole in schiere orgiastiche e allupate di cortigiani desiderosi solo di sedersi alle tavolate imbandite da capitani d'industria e finanzieri, ovviamente non prima di aver dato la stura a tutta una fiera di favolette metafisiche, quasi che il contraltare maggiore degli integralisti rossi fossero stati gli integralisti bianchi e la spallata decisiva al muro fosse stata data dallo IOR di Woytila / Marcinkus finanziando il sindacato di Walesa grazie anche i soldi della Mafia che non gradì molto e se la prese con il povero Calvi, che proprio innocente non era, e soprattutto con una povera ragazza che invece non c'entrava proprio nulla.
L'eruzione del Pinatubo, raffreddando la Terra di 0,80 gradi nel corso dei cruciali anni '90 (che furono comunque un decennio caldo), quando ancora persistevano nelle classi dominanti non marginali apprensioni ecologiste, ha consentito a chi aspirava solo a illudersi di illudersi che il riscaldamento globale era solo una panzana dei catastrofisti.
Ciliegina sulla torta, non appena studiosi del settore hanno lanciato l'allarme circa l'attacco micidiale che le esalazioni dei CFC da frigoriferi e bombolette stavano scagliando contro l'ozono dell'alta atmosfera demolendo la primaria difesa contro i raggi cosmici, i CFC sono rapidamente scomparsi dalla scena migliorando la situazione.
La gente informata ha naturalmente convenuto che si trattava di una risposta pronta e responsabile di un sistema economico sensibile al bene comune: peccato che i CFC sarebbero scomparsi alla stessa velocità anche se fossero stati, non un veleno, ma un integratore vitaminico per l'atmosfera e il motivo é semplicissimo: gli HFC (idrofluorocarburi), scoperti in quegli stessi anni per ragioni indipendenti da problematiche ambientali, risultavano più economici e più efficienti dei CFC: l'industria che avesse continuato a usare questi ultimi al posto dei nuovi ritrovati sarebbe fallita.
Se il buco dell'ozono non si é esteso é stato per una fortunata opportunità concessa dalla natura.
Tutto bene quel che finisce bene se i costi e le vittime prima della fine si dimenticano, ma purtroppo niente, proprio niente (se non la benevolenza di Iddio), garantisce che ogni tipo di male finisca sempre in bene.
Quanto la situazione sia definitivamente compromessa non è dato sapere poiché non si sa come reagirà la Terra a una eventuale brusca diminuzione dei gas serra e dell'inquinamento.
Tra le cause che hanno contenuto l'aumento delle temperature vi è l'azione tutt'altro che trascurabile degli aerosol, soprattutto i composti dello zolfo, mentre tra quelle che hanno sostenuto l'agricoltura vi é la precipitazione di composti organici e sostanze nutritive per ricaduta dei composti immessi da gas di scarico, camini, ciminiere eccetera, oltre ovviamente ai fertizzanti e ai pesticidi derivati da idrocarburi, che proprio non si capisce come potranno essere sostituiti senza aggravi di produttività e di spese anche dopo aver concesso il maggior spazio possibile al chilometro zero e al prodotto con il bollino di qualità biologica.
L'involontaria fertilizzazione dei suoli ed eutrofizzazione delle acque grazie ai buoni uffici di disastrosi inquinamenti (industriali e agricoli) non si può accantonare disinvoltamente come un paradosso luddista o millenarista, dato che la legge di Liebig dei fattori limitanti assegna a tutti gli elementi aventi numero atomico dal cobalto in giù un ruolo decisivo nello svilupparsi delle forme viventi, nel senso che basta l'assenza totale dal substrato di qualcuno di quegli elementi (esclusi i gas nobili) per creare seri inconvenienti alla riproduzione vegetale, animale, fungifera o perfino batterica.
Quando si interviene in equilibri delicati e complessi e li si spinge oltre certi limiti, non è poi così semplice rimediare alle situazioni: non basta sospendere le cause di destabilizzazione, non dopo aver superato quei limiti, soprattutto se l'eccesso permane invariato per lungo tempo anche senza crescere.
Se la catastrofe é ormai inevitabile o no lo si capirà quando arriverà perché non si é fatto niente per porvi rimedio oppure non appena si cercherà di porvi rimedio seriamente.
Affrontare quelle evenienze con l'attuale sistema di organizzazione sociale ed economica rappresenta soltanto una scommessa irresponsabile che, se sarà vinta, cosa assolutamente possibile, lo sarà per niente altro che la pura fortuna o la generosa indulgenza del buon Dio.
Amen.
Di solito dei feedback negativi e delle reazioni compensative e stabilizzanti ci si ricorda quando possono essere evocati per rassicurare e nutrire speranze (ma non per rinsaldare certezze che nella fattispecie non esistono e non esisteranno mai): l'arretramento dei ghiacci favorisce la flora che assorbe carbonio, la pesca industriale diminuisce il consumo di plancton eccetera. Ogni volta che si trova qualche conforto, però, in genere si scopre l'altra faccia della medaglia ovvero un risvolto che fa virare ancora la situazione al peggio: il permafrost abbonda di torba e carbone che trasudano, la respirazione dei microrganismi e le varie fermentazioni esalano dal terreno spoglio, l'acidificazione, i residui tossici e il calore destabilizzano gli autotrofi di acqua salata, i metodi pirateschi dei pescatori abusivi (che perlopiù trasferiscono i carichi sulle flotte autorizzate, regolarizzandoli) danneggiano ogni forma di vita.
In acque internazionali, a centinaia o migliaia di chilometri dalle coste più vicine, oppure nelle lande sperdute vicino ai poli chi può garantire su quello che accade veramente?
Si é portati istintivamente a considerare le distese oceaniche come paradisi di fertilità: sono più sterili del Sahara o del deserto di Atacama. I nutrienti fondamentali sono presto esauriti e abbondano solo nelle aree di risalita delle acque profonde dove si concentrano le forme nectoniche e quindi anche le flotte che ne fanno strage insieme agli inquinamenti che devastano anche le forme microbiche.
Che l'uomo sia padrone della tecnologia è una delle balle più colossali che quotidianamente vengono somministrate a mo' di medicina preventiva alla sterminata moltitudine dei sudditi. Paradossalmente pochi termini della retorica politico-sociale risultano tutto sommato più pertinenti e veritieri della locuzione 'miracolo della scienza', coniata da un istinto pubblicitario di difesa e sopravvivenza condiviso dalle categorie professionali più 'in auge e all'avanguardia', che, per accedere ai fondi, necessitano del corteggiamento insistente di quell'analfabetismo scientifico abilissimo nel maneggiare i giocattoli scatola nera.
Miracolo è naturalmente vocabolo ideologicamente molto sospetto, se si tiene conto del tentativo in atto di rinsaldare il prestigio delle 'eccellenze' buro-tecnocratiche attraverso più collaudate e tradizionali consacrazioni teologiche, ma risulta azzeccato se si considera che, riguardo alla maggior parte dei sistemi complessi che funzionano attualmente nel contesto della globalizzazione economica (come per esempio centraline telefoniche, plessi del world wide web, transazioni elettroniche di borsa, trasmissioni con onde elettromagnetiche...) nessuno sa esattamente come e perché funzionino o, per meglio dire, come mantengano lunghi periodi di stabilità inframmezzati da tracolli improvvisi e come poi si sia veramente riusciti (finora) a ripristinare le funzionalità dopo i tracolli.
L'unico concetto in grado di fornire una solida traccia interpretativa si chiama 'ridondanza', ma non appena il criterio fornisce una soluzione apprezzabile, configura subito un secondo mistero, dato che tale ridondanza nessuno sa come calcolarla esattamente (anche perché non si può profondere senza contropartite di costi economici), rimanendo quindi impossibile valutare il grado effettivo di fragilità delle varie strutture, la cui precarietà, se non é certo alleviata da minacce catastrofiche sempre incombenti (come un brillamento solare paragonabile in intensità a quello famoso del 1859), non ne dipende più di tanto grazie all'apporto, abbastanza problematico di per sé, delle dinamiche intrinseche. Tali strutture nel frattempo continuano a crescere e s'intrecciano sempre più fittamente, per cui alla fine l'enigma di base si concentra intorno ai vincoli fisici e temporali della proliferazione in oggetto e alla fetta che sta diventando o diventerà sempre più esclusiva di fruitori privilegiati nel mentre che le diverse soglie di tolleranza vengono sempre più avvicinate o varcate.
Ovviamente la persona mediamente informata costretta con fastidio a registrare tali sirene di allarme kolibiano, é naturalmente portata a giudicarle alla stregua di strombazzate da retrive e nostalgiche mosche bianche o pecore nere, ma purtroppo per il suo desiderio di spensierata tranquillità, si tratta invece di mere constatazioni comprovate da evidenze di tipo addirittura matematico.
Per esempio, nessuna struttura effettivamente complessa ovvero tale da poter dare adito alle esplosioni combinatorie tipiche dei problemi NP completi (che riguardano contesti banalissimi) può essere comprensibile almeno nei termini accessibili all'intelletto umano e ciò molto più per rudi e banali motivi di cumulo quantitativo che per ragioni sofisticate e sottili.
I livelli di complessità scientemente perseguibili, ovvero implementabili tramite algoritmi specifici, attengono a combinazioni troppo rare, complicate e faticose per reggere in termini concreti il traffico delle interazioni planetarie promosse dalle attività umane, groviglio che in realtà sta estendendo la sua trama sulla base di automatismi generativi di cui ogni specifica, mirata applicazione rappresenta un singolo nodo inserito nell'intricato contesto in modo stereotipo e perlopiù inconsapevole della totalità che contribuisce a comporre.
Un sistema (un qualsiasi sistema) alla fine può essere pensato come una rete neurale espressa da una tabella che collega ogni input a ogni output, ovvero, in termini astratti, ma perfettamente equivalenti, che compila l'associazione di ogni possibile lista composta da un numero n di 0 e di 1 con una lista collegata di un numero m di 0 e di 1 (l'associazione coinvolge circuiti interposti tra l'informazione in entrata e quella in uscita, ma i relativi dettagli, ai fini del ragionamento, non interessano). Ebbene, si dimostra matematicamente che, crescendo n e m, le tabelle che si possono costruire attraverso schemi logici programmati (che rimandano cioè a piani costruttivi con porte logiche razionalmente connesse) costituiscono solo una infima minoranza rispetto alle tabelle oggettivamente possibili. Poiché un universo non controllato da alcuna Mente Superiore, ma lasciato a se stesso, si permette di realizzare, senza divieto alcuno, tavole delle corrispondenze di un tipo qualsiasi (e il fatto che se lo possa permettere non depone molto a favore dell'esistenza di una Mente Superiore) se ne può facilmente dedurre che, se l'uomo é parte di quell'universo e vi getta allegramente con abbondanza ed entusiasmo, ma senza alcun coordinamento preliminare, i vivaci prodotti del suo ingegno, contribuisce in modo vertiginoso alla vivacissima e non di rado catastrofica esuberanza imprevedibile del mondo.
Al fine di diradare possibili equivoci é bene specificare che la possibilità di costruire una lista qualsiasi di correlazioni tra input e output, anche quelle vietate all'ingegnere informatico, non significa che l'universo agisce secondo principi irrazionali (il che spazzerebbe via dal panorama dei fatti concreti ogni minima opzione di calcolo e quindi anche l'ingegnere informatico): significa che nell'universo non esistono processi veramente stabili, indipendenti e lineari e perciò neanche sistemi veramente isolati, non vi figurano quindi, se non in versioni approssimative ed effimere, macchine che possano procedere attraverso una scansione fissa e limitata di cicli, motivo per cui nell'universo reale le macchine prima o poi si rompono, le società prima o poi si rompono, le civiltà prima o poi si rompono.
Nell'universo reale le forme geometriche non sono mai cerchi o ellissi o coni perfetti, mai traduzioni fedeli di equazioni semplici che, anche quando rappresentano la filigrana di fondo, la trama di disegni spettrali alla base di particolari fenomeni, si distorcono e aggrovigliano per le contaminazioni reciproche (estensione e ripiegamento, estensione e ripiegamento...), così le sezioni di Poincaré degli eventi multidimensionali, ovvero i diagrammi leggibili dei rapporti di poche variabili (in genere non più di tre) tra le tante, ben di rado mostrano figure familiari e riconoscibili e ciò, paradossalmente, avviene perlopiù quando ci dimentichiamo il miraggio della conoscenza esatta e ci accontentiamo di bilanci statistici.
La ragione per cui la stragrande maggioranza delle equazioni relative a ordinarie e prosaiche complicazioni non risulta risolvibile con metodi analitici risale insomma a un fatto che racchiude in sé il massimo possibile di banalità e di profondità: l'universo funziona come l'intelligenza cosmica di Plotino, come l'Uno con la 'u' maiuscola, anche se é privo di scopi, finalità e obbiettivi ineluttabilmente auto-contraddittori e anche se, quasi volesse giustificarsi o farsi perdonare tale difetto apparente, permette approssimazioni ideali e ritagli provvisori di schemi iper-semplificati appartenenti al paradiso artificiale che la mente umana é capace di costruire servendosi di ingegnosi illusionismi platonici o cartesiani, replicati a livelli più bassi da qualsiasi tipo di percezione animale.
La coscienza animale, embrionale o apollinea, crepuscolare o cristallina, primitiva o sapiente, si radica sempre e comunque nella semplificazione illusoria e opportunistica senza la quale nessun apparato percettivo e discriminante potrebbe funzionare in quei tipici scenari competitivi assecondando i quali (invece di rivoluzionare le regole della partita) l'umanità si dimostra una normalissima specie forse molto meno dotata delle altre.
Si dà il caso infatti che il verdetto finale (a prescindere che, in senso etico, dovrebbe comunque sottoporsi a un bilancio generale di gioie o piaceri e dolori o sofferenze ovviamente impossibile da stilare) non dipende per il resto solo dal grado di preponderanza, ma anche dalla stabilità e durata della dominazione: i tirannosauri hanno resistito qualche milione di anni, l'umanità esiste da 150 mila più o meno...
Considerazioni di questo genere ispirano di solito refrattarietà istintive e spesse cortine di scocciata diffidenza: i kolibiani spaventano e disgustano con quelle che i più giudicano inique esagerazioni e inopportune forzature, ma prima di nascondere una verità sgradevole si dovrebbero prendere seriamente in considerazione le conseguenze di distorsioni del giudizio dovute in sostanza a favoritismi di comodo e abbagli prospettici.
Esiziali ai fini utili e pragmatici, più che brutali inestetismi, risulteranno inganni e illusioni che si oppongono ad allarmi resi indispensabili da premesse effettivamente allarmanti, per cui anche la fiducia metafisica dei confessionalismi anziché configurarsi nel segno della buona volontà e della coraggiosa resistenza diventano prima o poi cortine fumogene a disposizione di chi, facendo la pesa dei pro e dei contro, valuta (a spanne, certo, ma ogni risultanza sociologica è frutto di approssimazioni più o meno intuitive) il costo parametrato al rischio di perdere vantaggi individuali superiore a quello di soccombere per catastrofi collettive.
La dimensione di scala e la consistenza ponderale delle due serie di considerazioni non sono paragonabili come non è paragonabile il micro al macro, ma anche la proporzione degli interessi effettivi non è paragonabile, dato che, per come sono congegnate le cose in un mondo naturale rispetto al quale l'umanità sembra proprio un'anomalia destabilizzante, l'interesse individuale, statisticamente parlando, é il macro, quello collettivo il micro e la proporzione o meglio sproporzione può essere rimessa (forse) in discussione solo attraverso l'esercizio di una razionalità comune e condivisa o condivisibile, se esiste.
Se non esiste... ma è inutile stare a ripetersi.
Esistono più di 275 milioni di quadrati magici 5 x 5 (25 caselle disposte a quadrato e segnate con numeri interi da 1 a 25, disposti in tutti i modi possibili alla condizione che la somma di ogni riga e ogni colonna dia lo stesso risultato). Di tale fatto matematico dovrebbe essere edotto ogni ragazzino appena raggiunta l'età scolare, con la raccomandazione ai maestri di insistervi finché ogni scolaro non abbia capito a fondo e adeguatamente memorizzato gli annessi e connessi di tutta la questione
Al di fuori delle discipline esatte, esistono pochi fatti elementari, incontrovertibili eppure di facile comprensione, così determinanti ai fini di una preliminare apprensione dei princìpi che fondano le realtà più comuni.
Pedagoghi di tutto il mondo, perché non convenite? Avete paura di generare nel fanciullo traumi di raccapriccio e vertigine?
Di sicuro a un dispotismo paternalistico sollecitamente desideroso che i sudditi conservino una sognante e ottimista fiducia circa la lungimiranza dei sommi reggitori converrebbe molto più censurare la semplice e disarmante verità che i quadrati magici 5 x 5 sono più di 275.000.000 che incoraggiare al riguardo una didattica diffusa.
Tale didattica non dovrebbe inoltre trascurare ulteriori rilievi che andiamo immediatamente a condividere per la gioia di grandi e piccini.
I quadrati magici 4 x 4 sono 880 e rappresentano circa una frazione dell'ordine di 10-10 di tutti i possibili quadrati 4 x 4 composti dai primi sedici numeri.
I quadrati magici 5 x 5 ammontano a circa trecentomila volte di più, ma rientrano in una proporzione dell'ordine di 10-16 rispetto alla totalità dei generici quadrati 5 x 5.
Passare da un lato di 4 a uno di 5 comporta dunque un 'diradamento' dei quadrati magici rispetto al totale complessivo quantificabile con un fattore di un milione di volte e, pur in assenza di una formula generale, fornisce una idea molto vivida di come le strutturazioni forti si diluiscono all'interno di una disposizione casuale degli elementi formativi.
Osserviamo incidentalmente, anche se non esiste alcun rapporto immediato tra le due tipologie di questioni (se l'universo é un tutt'uno esiste invece senz'altro qualche rapporto indiretto, anche se probabilmente mediato da un numero sterminato di passaggi intermedi), che un milione circa quantifica l'espansione di scala a cui possono essere soggette nel corso di una sola giornata le influenze causali che agiscono in ambito meteorologico (il famoso e poetico effetto farfalla tradotto in linguaggio da contabile o ragioniere).
Ovviamente, l'essere magico configura soltanto una delle possibili strutture di ordine (una delle più articolate) identificabili in un quadrato qualsiasi: molte altre si possono disporre a partire da quella in una serie di strutturazioni decrescenti, ognuna delle quali sarà contrassegnata da una percentuale rispetto al globale e la successione delle percentuali manifesterà verosimilmente una tendenza progressivamente crescente.
Un mero e scipito resoconto bruto come quello per cui esistono più di 275 milioni di quadrati magici 5 x 5 appare enormemente, perfino infinitamente, scialbo e insignificante rispetto a quello che quotidianamente gli uomini si raccontano tra di loro affrontando tematiche civili, psicologiche, esistenziali, affettive, morali, ma, dal punto di vista del destino, almeno a lungo termine, di sistemi geochimici o biologici o considerando anche l'organizzazione sociale ed economica di una intera nazione, si configura (accanto a innumerevoli altri) come un indizio molto più importante di quello che sembra.
Per meglio dire: si configurerebbe se fosse consentito dalla visione del mondo attraverso cui lo si guarda.
Un kolibiano si é sempre trovato spiazzato davanti a soggettivismi che non si interrogano sull'estensibilità effettiva della propria natura fenomenica e a come molto spesso gli individui tematizzino e teorizzino se stessi sovrapponendo ad analisi molto più pertinenti e oggettive ciò che alla fine risulta un complesso di inclinazioni o addirittura idiosincrasie private miste a sogni personali legati a percorsi di vita e di carriera.
Accadeva con un cipiglio fiero e sicuro di sé in un periodo di cosiddetta contestazione e continua ad accadere adesso con maggiori dubbi e perplessità in un periodo in cui le leve del personalismo e la blandizia di tenere e ragionevoli mitologie egocentriche rientrano tra le tecniche più raffinate di gestione del consenso.
Alla fine si tratta di equilibri molto delicati tra un concetto più o meno manipolato di libertà individuale e l'azione mordente e indefessa si condizionamenti operanti e strumentali, indagando i quali si può anche scoprire che una tecnocrazia materialistica onesta, trasparente ed esplicita comporta forse molto meno insidie di moralismi, psicologismi e umanesimi che favoriscono gusti, tendenze, inclinazioni, opportunità e interessi di determinati settori sociologici a scapito di altri.
Una dimostrazione si potrebbe forse ravvedere nella causa che la ricca e cosmopolita città di New York ha ventilato nei confronti dei petrolieri e, chissà perché e come mai, non delle industrie automobilistiche che hanno venduto schifosamente negli ultimi anni e si stanno preparando a cambiare le caratteristiche della mobilità in senso rigorosamente selettivo ed elitario.
In realtà i new yorkesi avrebbero dovuto intentare causa alla propria città per non avere programmato una struttura monopolistica di trasporti pubblici che evitasse di far ricorso ai veicoli privati, ma a New York confluiscono le ricchezze generate dai cambiamenti epocali favorevoli a determinati interessi e sono quelli e non la situazione ambientale che interessano maggiormente, a quelli le soluzioni ambientali escogitate (in realtà non soluzioni) faranno riferimento oscillando frenetiche tra due poli secondo il tipo di emergenza (ambientale o socio-economica) che di volta in volta si mostrerà preminente.
Un kolibiano ritiene che a ogni discorso sensibile e umano, magari intriso da un giusto orgoglio per una vita ricca di esperienze e risultati, sempre più risponderà l'eco polifonico e infedele sintetizzabile in un grandissimo 'chissenefrega', una beffarda noncuranza emessa non da questo e quell'altro individuo (la sensibilità democratica o almeno la prudenza dovrebbero indurre flessibilità e tolleranza rispetto alle istanze altrui...), ma da una realtà indipendente ed estranea che si connette sempre meno a storie individuali e sempre di più a ineluttabilità sistemiche di valenza incontrollabile e alienante.
Chi ravvedesse in certe valutazioni relative a una complessità di un mondo reale effettivamente trascendente rispetto alla logica (qualsiasi logica da noi riconoscibile come tale) la dimostrazione dell'impossibilità di realizzare un progetto come quello kolibiano, avrebbe frainteso le premesse, i lineamenti e gli scopi: questi vertono intorno all'auto-limitazione dell'uomo (una profilassi igienica urgente e improcrastinabile che gli automi del consumismo più folle, becero e avvilente talvolta denominano 'pauperismo') e quindi sulla riduzione degli indici di complessità dell'ambiente che l'uomo condiziona.
Lo stato stazionario inoltre non va inteso come un ciclo chiuso, ma come un processo aperto di adattamento continuo e incessante, ma non ossessivo e stressante, teso alla ricerca di un equilibrio intelligente da realizzarsi secondo canoni che consentano la minima dispersione accanto alla massima economicità.
Che solo limiti volontariamente assunti nel segno della semplificazione programmata permettano di raggiungere un doppio vincolo di coerenza e stabilità tra le istanze climatiche e ambientali e quelle politiche, economiche e sociali, non può essere ignorato da persone istruite e in vista coinvolte nella gestione dei destini comuni. Se per un progetto di tipo kolibiano propendono solo i kolibiani (ingente massa plurinazionale, purtroppo ancora minoritaria), tutti gli altri aventi causa e dotati di un minimo di acume si stanno ponendo il problema di come parcheggiare in una sorta di limbo a minimo consumo energetico la maggioranza dell'umanità, da mantenersi nella calma silente e obbediente di uno stato stazionario che sia anche una condizione di non nuocere e non disturbare.
Domanda da centomila talleri e un milione di fiorini su cui si gioca il futuro dell'umanità: é più utopista il programma democratico kolibiano o quello aristocratico neo-illuminista?
Forse per prendere due piccioni con una fava (irrobustimento delle finanze statali e indebolimento contestuale delle pretese popolari) sarebbe il caso di inventare nuove potenti droghe della sedazione estatica liberalizzando tosto e incoraggiando il relativo commercio.
La trascendenza della realtà rispetto alla logica scientifica e matematica spiega, anche se non giustifica, i vari trascendentalismi filosofici e religiosi, ma la trascendenza di cui si sta parlando può essere colta soltanto dal discorso scientifico e matematico, mentre viene non solo fraintesa, ma perfino banalizzata o addirittura ridicolizzata dai confessionalismi di vario genere.
L'approccio progettuale ventilato dai kolibiani come unica strategia propiziatrice di un futuro vivibile non piace ai non kolibiani (che allo stato attuale costituiscono la maggioranza) e tale constatazione elementare appare quasi divertente, se si considera come i volani fondamentali con cui i programmi della tecnocrazia liberista stanno fronteggiando la crisi irreversibile dei mercati e la famosa caduta tendenziale del saggio generale di profitto (posta al centro della visione marxiana senza che la maggior parte dei marxisti se ne sia mai resa conto per bene (quasi tutti gli economisti di rango invece sì)) che condanna una democrazia di tipo occidentale a trasformarsi in governo oligarchico.
Eccoli i due volani principali, queste strepitose primizie di genialità plasmante e modellante nel segno del dinamismo eudemonico: prima di tutto, un cumulo crescente e irreversibile di concentrazioni progressive su scala mondiale, benedette dal solenne imprimatur delle autorità anti-trust, relative a capitali azionari e nuclei di controllo amministrativo e produttivo, da incoraggiare attraverso dispositivi per certi versi analoghi alla ottocentesca legge prussiana sul maggiorascato (intesa a impedire la frantumazione dei grossi patrimoni dinastici e quindi l'indebolimento dell'aristocrazia); in secondo luogo, uno stillicidio di facilitazioni per decreto governativo che assumono il vero e proprio aspetto di una tassa, non scaglionata sui redditi e quindi iniqua secondo i vecchi, passatisti concetti di democrazia distributiva, attraverso cui il comune cittadino é chiamato a sostenere gli utili di bilancio delle varie imprese.
Questo risibile tapino, ossia il rappresentante ideale del ceto medio ecumenico prossimo venturo, quando contribuisce direttamente di tasca sua alla ricchezza economica privata che non gli appartiene se non per vie molto ma molto traverse, é in genere sollecitato con il pretesto di giuste e nobili cause come la sostenibilità ambientale, quando ci rimette senza sborsare quattrini viene coinvolto da impatti ed effetti collaterali purtroppo inevitabili, che per forza di cose compromettono giuste e nobili cause come la sostenibilità ambientale.
Non ce ne vogliano i signori non kolibiani per i precedenti innocenti rilievi: un kolibiano é ben consapevole che questi processi sono attentamente calibrati in modo da risvegliare la coscienza degli interessati solo quando il progetto non kolibiano sarà approntato e servito a puntino a un 'popolo' adeguatamente pretrattato e precotto in modo da sviluppare al meglio le doti di sopportazione. Se detto 'popolo' di scafati individualisti vedesse fin d'ora le conseguenze, forse troverebbe la forza di reagire, ma d'altra parte dovrebbe prendere in considerazione da subito scelte comunque e almeno in parte connotate come salti nel buio pregiudizievoli di varie godurie mediatiche e molte altre leccornie somministrate ad arte dall'industria della comunicazione e dello spettacolo, anche se non é affatto detto, dipende da un progetto che prima di tutto dovrebbe nascere sulla carta senza colpo ferire.
Il nocciolo della questione rimane sempre e comunque il medesimo: le probabilità giocano ancora a sfavore per adottare provvedimenti radicali e quando giocheranno a favore ogni rimedio si paleserà tardivo anche adottando provvedimenti radicali.
Cambia poco il quadro della situazione il sapere che i costi attuali e futuri risultano scarsamente praticabili soprattutto per un solo, unico, unicissimo motivo: l'ostilità o, come minimo, la mancata collaborazione degli strati più benestanti che, come tutti, giudicano della propria convenienza sul breve e medio termine, ma, al contrario di tutti, perlomeno nella misura in cui tali strati coincidono con la classe dirigente, non avrebbero il diritto teorico di farlo.
Permane, come per ogni visione relativa a scenari politici e sociali, una certa probabilità, che i kolibiani giudicano inferiore al 50% e i non kolibiani desidererebbero ardentemente fosse molto superiore, che il disegno di una oligarchia che progetta ai piani alti e nelle stanze segrete una ristrutturazione dagli esiti obbligati di cui l'elettore tipo si accorgerà soltanto a cose concluse e irreversibili derivi da eccessive distorsioni ideologiche della realtà e non corrisponda a un simulacro rappresentativo delle strategie che ispirano le tendenze direttive dominanti.
Paradossalmente, ciò non riveste una grande importanza rispetto a tre considerazioni che risultano al contrario piuttosto inconfutabili: primo, nessuno possiede elementi certi per rifiutare siffatti punti di vista, che presentano sostegni logici e riscontri documentali molto forti e che inoltre mettono capo non a piani deliberati, ma a macchinismo sistemici non vincolati a obblighi di autocoscienza o varia consapevolezza; secondo, molti ritengono che, se anche le cose non stessero così, così dovrebbero diventare, dato che non esistono altri modi per sostenere il sistema che quello di costringere le moltitudini a difendere con le unghie e con i denti un benessere che è conteso e appetito da tutte le altre nazioni del mondo, rispetto alle quali la competizione sorge inevitabilmente con il rischio costantemente aperto di degenerazioni belliche che diventeranno sempre più plausibili in presenza di disastri ecologici preannunciati dalla incompatibilità tra spinte economiciste e instabili equilibri naturali, secondo il classico schema del rinforzo circolare; terzo i kolibiani sarebbero già stati attaccati frontalmente e annichiliti dalla grancassa della pubblicistica di regime se le loro non fossero in sostanza constatazioni di fatto verso cui la tecnica di contrasto migliore consiste nella consegna del silenzio e dell'indifferenza pianificata.
Dal 'Notes dei padri'
Durante il giorno, il sito estrattivo assume un'aria spettrale. Qualcosa non torna: perché cominciano a lavorare non prima che sia notte fonda?
Le autorità locali come al solito si barcamenano tra la regolarizzazione fiscale delle intraprese economiche, la soppressione degli abusi prevaricanti e intossicanti e le ambizioni dei burocrati di dividersi una parte della torta. Cercando di regolamentare lo sfruttamento selvaggio, per prima cosa turbano gli accomodamenti privati e l'impossibilità di aggiustamenti pragmatici nelle arie grigie della semi-illegalità, così incrementano rabbie e proteste.
Paura e incertezza dilagano come, a ogni minimo temporale, i liquidi tossici e i torrenti di scorie fangose che colano lungo i pendii sconvolti da draghe e trivelle, contaminando campi coltivati e villaggi.
Alla fine le autorità centrali non possono più fare finta di niente, anche perché troppa autonomia delle aree periferiche diventa sospetta soprattutto quando deriva da iniziative lucrose di alto cabotaggio con in più inerenze strategiche e la soluzione trovata si rivela sempre, grosso modo, del seguente tipo: la pacificazione imposta dalle grande concentrazioni di capitale, la toilette che taglia unghie e capelli alle prevaricazioni civilizzandole quel tanto che basta perché possano sedersi accanto alle leggi ufficiali dello stato.
Schema generale delle operazioni: l'imprenditore selvaggio irrompe, con ferino coraggio e animalesco pelo sullo stomaco indebolisce i diritti fondamentali, smussa le pretese di una vita normale e predispone la gente qualunque al compromesso rassegnato. Quando il capitalismo d'assalto non si distingue più dalla delinquenza comune, interviene la 'governance' progressista e illuminata che ristabilisce la legalità attraverso la cromata e inossidabile giustizia tecnocratica della multinazionarietà organizzata.
Ubi maior minor cessat.
I kolibiani, per le proprie particolarissime denotazioni intrinseche e profonde, rimangono gli unici polemisti anti-sistema le cui posizioni possano favorire un qualche miglioramento effettivo.
Il sarcasmo che contraddistingue il tono di fondo delle loro aggressive prese di posizione in osservanza ai precetti raccomandati dai Padri e dai primi fondamentali Concili Universali mira semplicemente a sottolineare la stravagante frizione tra la ripulsa istintiva e pressoché generale che accoglie le loro argomentazioni, da una parte, e la plausibilità di fondo che le caratterizza collocandosi addirittura ai limiti dell'ovvio e dell'ineluttabilità logica e scientifica.
Non si tratta di ribadire tesi che molti condividerebbero se non intervenissero remore di ordine psicologico, di convenienza e opportunità antropologiche e sociali, di moralità intesa come una eugenetica artificiale del pensiero connessa a luoghi comuni e riflessi condizionati di atavica ascendenza: si tratta di evidenziarne l'evidenza stigmatizzando quella censura che in tale evidenza ravvisa pericoli prioritari e semi di corruzione.
Tutte le altre forze di opposizione, non potendo limitarsi agli aspetti puramente culturali e, per così dire, di brainstorming, sono costrette ad assumere atteggiamenti di proselitismo politico che inclinano naturalmente alla ricerca di interessi solidali e questi, in quanto interessi, non consentono una piena traduzione culturale nel segno della completa neutralità analitica, impongono un ottimismo e una positività forzati che, quando si persiste secondo metodi e obbiettivi irrimediabilmente sbagliati, costituiscono un'autentica tabe mortale.
Tutte le altre forze di opposizione manifestano lati problematici e intrinseche carenze proprio perché sono forze di opposizione reale e non fantasmatica: in quanto tali, devono giocare secondo le regole e giocare secondo le regole non permette di porre seriamente al centro del tavolo la questione delle regole da cambiare.
I kolibiani più che in amici improbabili possono contare sull'ascolto casuale e incuriosito di nemici, avversari o estranei intelligenti che non si turino le orecchie per sindromi difensive e aprano invece qualche spiraglio nella mente per far circolare spifferi capaci di animare quegli embrioni di avvisaglia il cui terreno di coltura può essere solo il nichilismo del dubbio radicale.
Le riforme le fa chi il potere ce l'ha e l'unico mezzo per poter guardare con fiducia all'avvenire presuppone che qualsiasi tipo di potere munito di opportunità presenti o future, comunque si esprima o si dipinga, migliori nel tempo la propria percezione e cognizione dei limiti e dei condizionamenti insormontabili dell'azione umana.
I kolibiani, nonostante possano contare su centinaia di milioni di simpatizzanti sparsi per il mondo, non possono dedicarsi alla politica: non credono nei popoli e nella democrazia, contano invece su epifanie e resipiscenze enigmatiche e imprevedibili, ricombinazioni quasi improvvise dei moduli della mente collettiva che aprono verso nuovi e imponderabili assetti di civiltà e autorizzano nuovi tipi di gestione della cosa pubblica da parte di chi nutre qualche vocazione al riguardo.
Se la vocazione si rivelerà sempre e comunque dominata dall'interesse, amen, così vuole il signore dio nostro factotum universale.
I kolibiani non sono così idioti da ritenersi geni universali che possiedono il dono della santa verità. Condividono soltanto una propria interpretazione del mondo e la buttano nell'immane, ribollente calderone, tutto qui. Se ciò servirà a qualcosa oppure no, se contribuirà a un miglioramento o a un peggioramento, non dipende da questo o quell'altro specifico attore della grande recita, kolibiani compresi, ma dalla recita completa. Un kolibiano non è una pedina del libero arbitrio: è una casella del determinismo universale.
Un kolibiano non adotta o persegue o esercita una cultura perché vende, riceve plausi, conquista, concede integrazioni e gratifiche: lo fa semplicemente perché tutto il suo essere e la visione del mondo che ne consegue si legano a una concomitanza di cause diversissime che lo spingono a comunicare secondo le modalità caratteristiche che contraddistinguono il kolibiano autentico e universale.
SPIGOLATURE
Equazioni diofantee possono simulare macchine di Turing universali e quindi il funzionamento di qualsiasi computer. Un sistema di polinomi e quindi anche un solo polinomio con un numero adeguato di incognite (o una equazione polinomiale di una variabile n dimensionale) può modellizzare qualsiasi tipo di realtà finita. Un frattale basato su una legge di potenza rappresenta, tramite la cosiddetta auto-similarità, un ponte tra il microscopico e il molto esteso, tra località e globalità, che sembra incontrare il perfetto gradimento dei fenomeni naturali non solo terrestri (vedi distribuzione di ammassi e super ammassi di galassie e la loro densità che tende asintoticamente a zero). L'analiticità delle funzioni complesse, ovvero la loro traduzione in serie di potenze, dipende unicamente dalla loro capacità di simulare condizioni di conservazione delle quantità e corrispondenza tra flussi attraverso superfici geometriche la cui negazione sembra inconciliabile con il realismo elementare e favorevole invece alla magia.
Il mondo é pieno di misteri, molti dei quali definitivamente preclusi alla mente umana, ma il mondo è anche pieno di evidenze 'chiare e distinte' che possono essere misconosciute soltanto rinunciando in via pregiudiziale e pregiudizievole a costruire una base minima di realtà oggettiva e comprensibile.
Caso del produttore Weinstein: come la gente elegante, altolocata, di sicuro artisticamente dotata, tace per interesse (per quanto comprensibile e perfino legittimo) e poi maramaldeggia (in modo comprensibile ma, almeno esteticamente, illegittimo). Il nostro telegiornale preferito parla naturalmente di coraggio delle ricche e affascinanti omertose che si godono con il ritardo dovuto a una cauta avvedutezza il momento della meritata vendetta (e altri spiritosoni di oltre oceano assegnano loro il titolo di donne dell'anno). Se tali sono la sensibilità morale dell'umanità sopraffina e la delicatezza di gusto dei maestri di stile, chissà i moltissimo più numerosi altri!
Non per niente, una metafora molto incisiva della condizione umana nell'era dell'economicismo iperbolico é rappresentata dai condizionamenti e dalle vessazioni riservati al divo o diva adorato dalle folle e protagonista dell'immaginario eroico e/o erotico collettivo, a semidei, per esempio, legati alla casa di produzione da contratti che impongono multe per aumenti di peso o che stabiliscono l'ora in cui coricarsi, che prescrivono le diete da intraprendere e mantenere, il tipo di farmaci, cosmetici, contraccettivi e supposte da usare, a quali norme generali attenersi nelle relazioni pubbliche e in quelle legate all'igiene personale e alle abluzioni intime, al fine di conservare una naturale freschezza di aromi.
Certe clausole contrattuali, obblighi di menzogne rituali, cessioni di sovranità psicologica, non dovrebbero essere ritenuti offensivi, umilianti, pericolosi come certi tipi di 'avance'? Certo, si tratta di baracconate di un passato aureo (forse), ma perché non hanno mai fatto scandalo?
Tutta la vicenda eleva le quotazioni, artatamente svilite a sentina del pettegolezzo dagli abili pennivendoli prostituiti al gotha del business, di quella cornucopia di retroscena svelati che è 'Hollywood Babilonia' di Kenneth Anger, un libro da leggere e guardare inframmezzando la consultazione con le scene più pirotecniche, sgargianti e scintillanti, oppure eroiche, edificanti e commoventi dei vari periodi aurei del cinema statunitense. Non esistono molte occasioni migliori per toccare con mano la grandiosa genialità che il genere umano devolve alla creazioni di Miti e di Illusioni senza le quali la comune esistenza incontrerebbe parecchie difficoltà a celare a occhi indiscreti le proprie rinsecchite pudende.
Se tali sono il livello esistenziale e le prerogative di felicità concesse all'umanità sopraffina, chissà i moltissimo più numerosi altri!
A meno che non esista un paradossale rapporto di proporzionalità inversa, ma ciò é improbabile: si dovrebbe concludere che il motivo vero per cui ricchi e potenti rifiutano la progettualità kolibiana consiste nella loro sensualità masochista.
Una qualsiasi teoria onnicomprensiva che spieghi il presente universo può aspirare a una qualsiasi conferma sperimentale se non giustifica o almeno ammette in qualche modo scene come quelle di Orco Porcone inseguito e fatto a brandelli da turbe di virago e baccanti assatanate? Il principio antropico debole e la teoria degli infiniti universi (come anche, in verità, la Teodicea di Leibniz che ne é in effetti un camuffamento secondo la teologia ortodossa) lo fa.
La curiosa ed enigmatica assurdità sottesa all'atteggiamento religioso si palesa attraverso Pascal e la sua famosa scommessa, mentre la frenetica voglia di religione che accende di brama il subconscio di moltissimi 'pensatori laici' si denuncia attraverso la sbadataggine che ha sempre tollerato o addirittura apprezzato quella gigantesca assurdità.
In base al più elementare buon senso comune, infatti, il ragionamento di Pascal andrebbe sic et simpliciter et bellamente rovesciato: se Dio non esiste bisognerebbe essere razionalisti onninamente e tout court per cercare almeno di sorvegliare l'evoluzione automatica e indifferente delle dinamiche cosmiche e planetarie, se Dio esiste, comportandoci da razionalisti e ignorandolo, si mostrerebbe di apprezzare le doti specifiche che Egli ci ha assegnato e d'altra parte si confiderebbe molto meglio così nella Sua bontà e saggezza (la cui assenza sarebbe uno sterminato guaio a prescindere) che non cercando di prenderlo per il culo grazie alla nostra avveduta astuzia di scommettitori con il cuore traboccante di ragioni che la ragione non può comprendere.
In realtà, il 'ragionamento' di Pascal è molto meno cretino di quello che sembra: mostra semplicemente, in una forma didascalica e quasi spudorata, che la religione non è un rapporto tra Dio e l'uomo, ma dell'uomo con se stesso. L'uomo religioso in sostanza si rivolge ai suoi pari e sodali come a sé e dice: basta acume e sottigliezze, come dicevano gli antichi qui auget scientiam auget et dolorem, preoccupiamoci prima di tutto dell'ordine di una serena convivenza con gli altri e con se stessi, gestiamo nel modo migliore le nostre ansie e i nostri timori, il che non può essere ottenuto gratis (quale uomo assennato e non ingenuo riuscirà mai a confidare, quando sono in gioco questioni capitali, in rimedi facili e piacevoli?), ma esige l'istituto arcaico quanto imprescindibile della prassi sacrificale.
Purtroppo l'effettivamente astuto ateismo di Pascal, condiviso da tutte le religioni istituzionali, non tiene conto di una circostanza per certi versi formidabile e per altri banale: Dio, in un modo o nell'altro, esiste.
Non ci sono limiti alle assurdità del mondo sociale e politico, soprattutto quando si tratta d'invenzioni polemiche spacciate da calunniatori retrivi che per motivi di subdolo interesse intendono intralciare il cammino della Verità. Adesso i nemici del kolibianesimo si sono inventati questa storia inverosimile delle origini del movimento sotto mentite e truffaldine spoglie, addirittura come adesione corale e plebiscitaria millantata da un singolo pazzoide più isolato di uno scalatore (o speleologo) solitario, in realtà prosaicamente sepolto in un eremo da cui sfruttava una nozione molto approssimativa di Internet per sprizzare veleno e leccarsi così le ferite. Un 'hater', secondo la definizione dell'ultimissimo neo-perbenismo, ma senza nemmeno il dono della democraticità dell'odio condiviso. A parte che non si capisce proprio come una persona mediamente intelligente possa curarsi con il veleno, supponiamo, giusto per il gusto del contendere, che questa infame fandonia corrisponda a verità. Non fornirebbe forse l'esempio dell'esistenza di un primo kolibiano che, accanto o perfino al di sopra del Sommo Anonimo, avrebbe potuto vantare da subito e anzi da prima ancora che il movimento nascesse, l'ispirazione anticipatrice e modellante dei Grandi Profeti? Pensate su quale sconfinata dose di pregi morali, estetici e intellettuali avrebbe dovuto contare un tale sublime individuo per sperare nel successo di una simile iniziativa!
(Dal Notes dei Padri)
Dal Diario d'inverno di Araki.
Gli orgasmi di Yoko.
Il feretro di Yoko.
Shiro che balza nella neve é l'ultima immagine.
Punto mobile su sfondo neutro.
Le ondulazioni di piacere e dolore in uno spazio indifferenziato.
Pregiudizialmente ostile a un determinismo alla Laplace, la cultura umanistica tradizionale ha accolto con un senso di sollievo e malcelata soddisfazione l'ipotesi di una presunta aleatorietà fondamentale insita nelle leggi della meccanica quantistica, anche se rimane difficile capire come il dio che gioca a dadi possa apparire più rassicurante del dio Licurgo o Dracone.
Nelle impostazioni che contraddistinguono i modi di aprirsi alla realtà esterna propri della psiche umana, si rilevano tendenze anarchiche e nichiliste disposte più a stupirsi per i miracoli della conoscenza che per le assurdità ingovernabili degli eventi fortuiti.
Se si indaga a fondo negli atteggiamenti religiosi più diffusi, qualsiasi divinità appare molto più un artificio scaramantico che l'oggetto di una fede convinta.
Eppure, per far cadere in un colpo solo una pletora di dubbi, enigmi e oscurità metafisici basterebbe considerare i concetti del nulla e del caso come creazioni abnormi e irreali, paralogismi assolutamente vacui e inconsistenti, ipostasi fittizie e artefatti ingannevoli dovuti a distorsioni degli apparati sensoriali e integrativi.
Se si considerano parole come 'nulla' è 'caso' prive di qualsiasi referente sensato, la domanda ontologica capitale (perché esiste qualcosa al posto della perfetta autosufficienza e simmetria del nulla?) viene destituita di ogni senso e tutto rientra in un gioco sterminato di varie possibilità.
Non decade il Mistero, che rimane anzi unico vero padrone della scena di infiniti universi: decade la necessità di travestirlo con speciosi abiti pacchiani e barocchi.
Una tale opzione epistemologica radicale si porta però appresso certe necessità esplicative: se del nulla (da non confondere con lo zero) e del caso (da non confondere con la probabilità) possiamo tranquillamente fare a meno, occorre capire il motivo per cui nulla e caso si rivelano intuizioni così tenaci e naturali per menti che, per altri versi, reputano se stesse altrettanto naturalmente portate verso la spiritualità e le fondazioni di sensi e di valori. Se si tratta delle due facce della stessa medaglia, nulla e caso si intrecciano indissolubilmente a ogni tipo di sacralità, al punto che non si può abolire una parte senza fare lo stesso con l'altra.
Detto terra a terra e in soldoni, finché nulla e caso si oppongono all'esistente, l'esistente non appare una varietà del nulla e del caso.
Dal 'Notes dei padri'
Gli animali, a seconda della vocalizzazione, vengono distinti in categorie come ululatori, rombatori, crepitatori, stropicciatori, scoppiatori, ronzatori, gorgogliatori, sibilatori...
Gli atteggiamenti culturali umani si caratterizzano per diverse impronte: logiche, estetiche, mistiche, etiche, erotiche, religiose... a cui corrispondono altrettante concezioni del mondo (intellettualismo, estetismo, misticismo, moralismo, eudemonismo, teismo o politeismo...).
Tutto contribuisce a un miscuglio di sinfonie, una sola non può sopravvivere, tutte cercano d'intonarsi o almeno convivere finché qualcuna, inevitabilmente, cerca di sopraffare le altre perché dispone di corni, trombe e percussioni più energici.
Dal 'Notes dei padri'
Il principio esistenzialistico, comune alla Kierkegaard Renaissance e alle derivazioni husserliane, della infinita differenza qualitativa tra il relativo e l’assoluto, tra la temporalità e l’Essere originario e trascendente, tra le possibilità umane condizionate e determinate e la Ragione Universale.
Se infiniti sono solo gli universi, quantità e qualità non si dividono la realtà e il sogno, ma lo stesso mondo finito.
‘Un nudo fatto sospeso nel nulla’ è l’esistenza di tutti, non solo quella di Adriana. Ricordarsi di Rocky e del suo urlo dal ring.
Dal 'Notes dei padri'
Il rimpianto di Meaulnes per ‘le domain misterieux’, l’impossibilità di rivivere risonanze interiori e incanti psicologici indissolubilmente legati a un’adolescenza ormai conclusa.
I boschi della Sologne e la campagna intorno a Bourges possono valere come luoghi incantati della memoria come infiniti altri.
E' impossibile rivivere l'incanto del libro di Meaulnes leggendolo dopo l'adolescenza.
Ormai si può essere nostalgici solo dei rimpianti altrui.
Quando i libri cedono il passo a televisione, film e videogiochi, dal surrogato di primo livello si passa ai surrogati di ordine superiore: i surrogati dei surrogati dei surrogati.
Dal 'Notes dei padri'
Il destino della post post post... modernità: non si può ignorare la mediazione che falsifica se non adottando una falsificazione peggiore.
Prolungare la genesi (Klee).
Orge e benzedrina alla ricerca del Dharma.
Ricordarsi il nesso cruciale tra la weltverlorenheit (l’oscurità derivante dall’essere assuefatti e dispersi nelle consuetudini mondane) e quei finanzieri che moltiplicano le strutture societarie (le cosiddette scatole cinesi) per accaparrarsi a prezzi di svendita le rendite e i privilegi delle leve di controllo.
Il collegamento rimane il fantomatico omnibus di spartachisti e fabiani, che forse però non c'entra un cavolfiore. (I vari nessi rimangono oscuri e non sono stati ancora decifrati. Ndc)
Dal 'Notes dei padri'
Venerdì 13 aprile 2029: asteroide Apofisi (Questa annotazione, numerologicamente inquietante, é purtroppo chiarissima. Ndc)
Una economia che non corregge i valori della contabilità nazionale tenendo conto dei costi ambientali non può definirsi democratica, in quanto implicitamente considera inesistente il concetto di una proprietà pubblica dei beni comuni e quindi del danno differenziale che i cittadini subiscono per una somma algebrica dei vantaggi e degli svantaggi diversa tra chi dal danno ambientale ottiene un vantaggio di reddito e chi lo subisce e basta.
La possibilità che una certa azione (pubblica o privata) si arroga di apportare pregiudizio alla qualità di singole vite senza porre le relative voci in bilancio in modo che almeno impongano ai revisori delle note giustificative si tramuta insomma in una proditoria negazione di libertà e diritti elementari.
Una politica priva di scrupoli e cautele ambientali equivale né più né meno a un sopruso dispotico perpetrato attraverso la legalizzazione di una appropriazione indebita.
In via teorica, il rifiuto di atti di sopraffazione tirannica sostanziale, certa ed elementare richiama con forza princìpi legati a opzioni di reazione efficace, comprese azione drastiche da modulare in corrispondenza alla virulenza della pressione oppressiva: questa prospettiva dovrebbe condurre a riconsiderare molte delle valutazioni generiche intorno ai liceità di certi comportamenti di contrasto e opposizione, come quelli della Val di Susa.
Riguardo alle relative proteste possiamo tenere per fermo un solo principio di esecrazione a prescindere. Non devono colpire cittadini inerti e creare distruzioni illogiche e indiscriminate: la simbologia dell’atto non può autorizzare mai e per nessuna ragione l’arbitrarietà del vulnus.
In secondo luogo, la violazione del codice penale deve essere attentamente valutata da parte dell’agitatore politico in quanto crea necessità di contrasto che prescindono dall’impostazione ideologica delle persone, creando confusione e intorbidando le acque della politica.
Se la negazione di ogni spazio agibile di democrazia effettiva richiamasse a gran voce una specie di estremismo simbolico, lo si capirebbe molto più dal rifiuto e dall'indignazione stereotipi che da qualsiasi elemento oggettivo.
Ogni dimensione o livello della realtà si imposta su una propria scala dei tempi e la mente umana può crearsene una cognizione adeguata solo sintonizzandosi sui ritmi congrui rispetto agli specifici dinamismi funzionali dell'ambito di competenza.
Nel valutare le capacità di fuga di certi insetti occorre tenere presente, per esempio, che per essi gli eventi elementari della vita comune vengono percepiti al rallentatore e quindi se si vuole schiacciare una mosca o una zanzara (un atto che, per quello che ne sappiamo, una particolare versione di qualche Dio supremo dell'universo potrebbe trovare riprovevole, se valesse il punto di vista di certe sette minoritarie) bisogna adottare accorgimenti che compensino la possibilità di reagire con una prontezza per noi inarrivabile.
Già questo esempio banale può aiutarci a concepire l'assurdità delle credenze e delle impressioni ordinarie riguardo a fenomeni che avvengono su una scala dei tempi enormemente diversa dalla nostra. Se immaginiamo che le molecole, a temperatura ambiente, si muovano a quelle velocità di pochi metri al secondo che sono tipiche dei ritmi con cui organizziamo le nostre faccende quotidiane, possiamo raggiungere solo un concetto caricaturale intorno alla plausibilità della potenza creativa insita nello sterminato laboratorio chimico della Natura.
Perfino dieci milioni di anni possono sembrarci un intervallo insufficiente affinché una fantomatica casualità raggiunga certi risultati creativi (analoghi alla composizione di un puzzle da parte di un cieco), ma se consideriamo che, riparametrando opportunamente le unità di misura, quei dieci milioni corrispondono a un miliardo, forse il nostro giudizio diverrebbe più prudente e cominceremmo a dubitare del nostro istinto e a sorprenderci meno per certi 'miracoli', esattamente come le nostre scommesse riguardo alle possibilità del cieco manovratore di tessere lo accrediterebbero di maggiori chance se all'improvviso cominciasse a muovere le dita con una intensità cento volte maggiore.
Le precedenti considerazioni vanno ovviamente aggiunte a quella altrettanto incontestabile che milioni o anche solo decine di migliaia di anni rappresentano una misura sproporzionata rispetto ai riferimenti con cui il cervello è abituato a trattare, al punto che qualsiasi nostra concezione intuitiva risulta al riguardo vana e inconsistente.
Gli stessi ragionamenti possono applicarsi alla vicenda umana intesa come fatto di storia naturale. Se si trascura l'accelerazione frenetica che le trasformazioni sociali dell'uomo stanno imprimendo allo sviluppo di eventi che, in un mondo privo di umanità, si muoverebbero secondo tempi più lenti per fattori variabili di settore in settore, ma, almeno nei confronti del clima terrestre, dell'ordine delle molte migliaia, risulta estremamente difficile pervenire a valutazioni di probabilità sensate relative a svolte radicali e perfino catastrofiche a cui, con una fiducia del tutto arbitraria, tendiamo ad attribuire, senza alcuno spirito critico degno del nome, caratteristiche pregiudiziali e irrazionali di inverosimiglianza ed eccezionalità.
La libertà di opinione in realtà non esiste se non per le opinioni anodine e accomodanti, qualsiasi verità sgradita viene rivoltata in scandalosa aggressione quando è possibile farlo, altrimenti in paradosso eccessivo che non merita attenzione e commenti, quando le argomentazioni inaccettabili non risultano controvertibili. La libertà di opinione vale in senso stretto soltanto per quelli che non hanno niente da obbiettare sulla sostanza delle cose, ma solo sui dettagli.
La democrazia, si sa, altro non è che la dittatura delle maggioranze che non sanno quello che vogliono e offrono deleghe in bianco alle minoranze abbastanza furbe da coordinarsi come maggioranze contro la somma maggioritaria delle minoranze disperse.
Una democrazia quindi è effettivamente il male minore, dato che il male maggiore è la dittatura delle minoranze che s'impongono con la forza. A ben guardare, però, la questione diventa molto più enigmatica e ambigua se andiamo a valutare l'evoluzione quasi ineluttabile di quella fantomatica entità definita pubblica opinione e delle metamorfosi che essa subisce in seguito alla sofisticazione progressiva dei mezzi di comunicazione.
Un fenomeno è soprattutto degno di nota: mentre la gestione di tali mezzi rientra sempre di più nel monopolio dei gruppi organizzati che dispongono d'influenza politica e dotazioni di capitale tecnico e finanziario, la pubblica opinione, tra virgolette, diventa sempre più oggetto di ricatto da parte di un analfabetismo culturale che è maggioritario, sì, ma soltanto in senso relativo: basta infatti dare un'occhiata agli indici di ascolto dei vari programmi televisivi per rendersi conto che, proprio nel settore dove detto analfabetismo può contare percentuali maggiori rispetto, per esempio, a cinema, teatri, musei, internet eccetera esso non raggiunge che un terzo di... chiamiamole adesioni, a fronte di altri interessi culturali polverizzati in una miriade di canali diversi, comprendendo anche tra questi la pura curiosità, neutra, ma non dozzinale. Nonostante ciò, è facile constatare che l'attenzione che viene dedicata a questo terzo dedito unicamente ai programmi nazional-popolari (sostanzialmente esibizioni canore e di varietà contornate da infinite chiacchiere intorno alle esibizioni canore e di varietà, ma purtroppo anche ad argomenti più seri che vengono così irreparabilmente contaminati) è di portata appunto nazional popolare e trova fermamente impegnati le reti cosiddette ammiraglie sia della televisione pubblica che del principale network privato: quest'ultimo addirittura arruola i propri telegiornali per sottolineare certi livelli di audience e farne cronaca di comprovata oggettività.
Il gioco non è proprio indiscutibile e immacolato, non tanto perché certe audience non siano preminenti verso le altre singole audience, ma semplicemente perché viene trasmessa a livello subliminale la sensazione che tali audience abbiano la maggioranza assoluta, mentre raggiungono in media non più di un terzo del totale degli ascolti.
Ovviamente nella rete non cascano prevalentemente i due terzi dei minoritari, ma il terzo di maggioritari, gente che, causa anche l'età media, ha deciso di sua spontanea scelta di abbandonare i travagli di un eccessivo spirito critico, ma anche gente, purtroppo, che, per la sua suggestionabilità, risulta estremamente decisiva nel bilancio dei flussi elettorali rendendo impossibile a qualsiasi schieramento di allontanarsi dal centro fino a una distanza che sarebbe però necessaria se si volesse parlare di schieramento e non di ammucchiata di casacche tinte diversamente soltanto per creare l'illusione di una pluralità di offerta politica.
Una democrazia che non pesa i voti non è una cosa seria, una democrazia che li pesa non può chiamarsi democrazia. Dunque? Evidentemente il concetto di democrazia va integralmente riscritto.
I danni della civiltà industriale, lo scempio arrecato al mondo naturale, non possono essere il frutto di una capacità di razionalizzazione che evidentemente dovrebbe contraddirsi e rinnegarsi per dare adito a certe risultanze, conseguono invece da una utopia umanistica che condiziona la razionalizzazione o, più esplicitamente, dalla sintesi tra il trionfalismo liberista e libertario della spontaneità, radicato nei miti prometeici della vecchia creatività rivoluzionaria, e il metodico assolutismo realista che opportunisticamente sacrifica all'idolo della competizione darwiniana.
Quando gli intellettuali sessantottini, la cui influenza sulla categoria dei manager e dei funzionari attuali è molto più estesa di quanto non si pensi, criticavano, sulla scia, per esempio, di Michel Serres o Foucault, la vocazione astraente e semplificante di agricoltori, preti o scienziati (dove l'accostamento puntava deliberatamente a un effetto polemico che però oggi appare forse più calzante di una volta), anche se intendevano attaccare la disumanizzazione dell'economia tecnologica, in realtà riuscivano soltanto a minimizzare quella funzione devastatrice dell'umanità che si manifesta da millenni prima dell'era moderna e almeno a partire dall'invenzione dell'agricoltura.
E' questo purismo mitologico dell'umanità innocente traviata dalla scienza, che, astutamente cavalcato dalle tecnocrazie oligarchiche attraverso gli allettamenti della società dello spettacolo, permette un connubio esplosivo e sinistro tra umanesimo escatologico e progressismo parossistico, entrambi sguinzagliati all'assalto delle imperfezioni esistenti sulla spinta di un catastrofico attivismo.
Sette miliardi e mezzo di esseri umani non possono assolutamente permettersi di essere spontanei e creativi, devono assolutamente sottostare ai principi semplificatori e ordinanti dell'autodisciplina razionale e ciò non per riverenza verso un moralismo teologico, bensì per rispetto di se stessi e del pianeta che li ospita. La tecnologia, adibita in stato stazionario, può e deve essere lo strumento principe per conseguire il miglioramento delle condizioni di vita dell'umanità e di tutto il pianeta: purtroppo, il mercato e gli imperativi del successo ne hanno fatto un idolo, e ora, pervenuta al culmine della parabola, procede sulla china discendente, tramutata nell'arma con cui il privilegio illude, sconquassa e dissolve al solo scopo di preservare se stesso.
Un privilegiato ha tutto il diritto di lottare per conservare i propri privilegi. E' vero che i privilegi gli consentono di truccare le regole del gioco, ma d'altra parte un privilegiato appartiene a porzioni di comunità minoritarie e anche la forza del numero è un modo di falsare la partita conseguendo poco sportivamente determinati vantaggi. Il male vero non consiste nel conservatorismo, nel populismo o nella demagogia, bensì in una cultura generale assolutamente incapace di dare giudizi equilibrati e veritieri sulla qualità e la sostanza dei movimenti che si svolgono in campo e ancora meno sulle poste in gioco.
Esclusi i soggetti candidati ai vari manicomi (o come diavolo si chiamano oggi in ossequio al politically correct), non esiste moralismo che non sia congegnato in modo tale che solo la propria merda profumi, al contrario di quella degli altri. Tale moralismo rimane relativamente innocuo finché particolari circostanze costringono il fautore ad accorgersi che anche la propria merda non profuma, circostanza pericolosa perché ben raramente comporta l'abbandono di ogni moralismo, più frequentemente induce a scagliare la propria merda sugli altri attribuendola a loro. Del resto anche l'abbandono di ogni moralismo non promette nulla di nuovo e di buono, se non si riesce a sostituirvi qualcosa di socialmente utile e producente facente capo a un concetto comune di razionalità condivisa.
Tra una quindicina di anni, se non interverranno sconquassi di tipo economico e quindi anche politico-sociale, la pressione antropica sul pianeta sarà circa il doppio di quella attuale. Si deve possedere una percezione ben particolare del mondo e della realtà per non farsi percorrere da brividi a questa semplice constatazione. D'altra parte, un politico di rango, oggi più che mai, deve essere molto allenato a non farsi percorrere da brividi. Dovremmo essergliene grati? E a che condizioni?
Ramanujan arrivava a formule complicatissime, comprovate da procedure matematiche canoniche, come se le leggesse disegnate all'interno di dinamiche fenomeniche oggettive, come se fossero iscritte nella natura stessa dei più banali eventi circostanti: applicava insomma a un livello astratto e puramente mentale la sapienza che qualsiasi artigiano impiega quando sviluppa le proprie competenze oppure le nozioni fisiche implicite che un aborigeno australiano mette in opera quando imprime il giusto momento angolare al suo boomerang. La semplice esistenza di Ramanujan, degli artigiani della qualità e dei cacciatori abili con le armi da lancio é più che sufficiente a dimostrare la perfetta corrispondenza tra fisiologico e mentale e quindi tra pensiero, tempo, spazio e materia. In assenza di prove contrarie altrettanto inconfutabili, non occorre proprio aggiungere altro.
Immaginiamo (fantastichiamo!) che da oggi, da subito, mettendo a frutto il meglio delle attuali possibilità scientifiche e tecnologiche, per soddisfare ogni specifica esigenza si decidesse di optare per una unica serie di impianti, strumenti, attrezzature concepiti in forma modulare e già esistenti.
Se e quando questo nuovo tipo di organizzazione andasse a buon fine, tenere in attività la tecnostruttura comporterebbe soltanto una opportuna produzione industriale sostanzialmente stazionaria, la gestione logistica a essa univocamente collegata dei pezzi di ricambio e la conservazione di un numero adeguato di addetti alla manutenzione, corpo di maestranze che a questo punto sarebbe perseguibile attraverso livelli minimi e molto economici di formazione professionale.
La competizione di mercato, rendendo anzitutto molto più problematica per questioni di preminenza e d'interessi parziali la modularità, inducendo poi il turn-over continuo dei modelli funzionali e quindi la rotazione e il deperimento incessante di elementi standardizzati che molto presto diventano obsoleti e incompatibili tra di loro, implica invece un livello minimo di iper- attività che, pur venendo spacciata per innovazione come in parte, ovviamente, risulta effettivamente essere, consiste soprattutto di movimenti sistemici obbligati il cui risultato netto, dal punto di vista ambientale, provoca appesantimenti e insostenibilità che rendono gli sprechi autoreferenziali superiori ai guadagni tecnologici.
Il pan-economicismo, per sopravvivere, è obbligato a obliterare dai propri orizzonti la questione, ma i punti cruciali non riguardano le opinioni e i desideri della parte più influente dell'umanità, bensì la reazione oggettiva e inconfutabile delle dinamiche e degli equilibri geofisici, biosferici e planetari che dovranno essere inevitabilmente riscontrati nei prossimi decenni.
Elevare determinate accuse senza prove è illecito, ma nutrire sinceramente dei sospetti è un atto di riflesso condizionato che deriva dalle circostanze. Se una fetta dell'opinione pubblica subodora che certi politici dell'opposizione si mostrano malleabili in cambio di leggi ad personam, per esempio sull'eredità o gli assegni all'ex coniuge, la responsabilità maggiore è imputabile alla malafede o all'esistenza di certe particolari posizioni?
Se la morte cellulare programmata (apoptosi) si può considerare una difesa contro l'insorgenza di tumori sempre in agguato negli organismi pluricellulari a tessuti differenziati, probabilmente la cellula eucariote avrebbe trovato difficoltà a svilupparsi in un ambiente terrestre ad alta radioattività come quello dei primi miliardi di anni. Se a ciò aggiungiamo che la stabilità dinamica di un sistema solare è valutabile in poche centinaia di milioni di anni, ci rendiamo conto di quanto possa essere ristretto l'intervallo temporale concesso a un pianeta per sperimentare combinazioni di vita complessa.
L'esattezza e l'importanza di una idea o una teoria non sono sufficienti a farla entrare nella cognizione comune: perché un certo complesso di nozioni si affermi è anche indispensabile che convenga a un numero di persone sufficientemente cospicuo, ma il numero in sé conta poco, assai più preponderante sono la capacità o la possibilità di quel numero di organizzarsi in un gruppo di pressione politicamente rilevante.
La caratteristica fondamentale delle idee rimane comunque quella di essere valide oppure no, fondamentali oppure no, inconfutabili oppure no. L'attività di selezione sociale della cultura ha quindi un impatto relativo e comunque limitato nel tempo.
Quando un modo di pensare rientra in un genere che potremmo chiamare delle grandi ovvietà, non può essere represso troppo a lungo, dato che acquista inevitabilmente i caratteri di 'rivelazione', volendo proprio abusare o laicamente riadattare (secondo i punti di vista) un termine di ascendenza religiosa. Rivelazione fu, per esempio, in termini puramente sociali, il cristianesimo ai tempi dell'impero romano (ovvietà legata alla gestione etico-sacrale di una massificazione e internazionalizzazione onnipervasiva), oppure, sempre per esempio, rivelazione fu nell'ottocento, in ambito scientifico, la teoria dell'evoluzione, per motivi talmente ovvi che non è neppure necessario puntualizzarli.
Quando i tempi maturano, certi punti di vista s'impongono, dapprima presso le classi mentalmente più ricettive e poi in modo sempre più diffuso, semplicemente perché la loro verità risulta palese a tutti coloro che riescono ancora a tenere nella propria testa un angolino per ragionamenti senza pregiudizi o condizionamenti di emozioni e interessi.
Quasi sempre non si tratta mai di idee eccelse, quanto di collegamenti (che, col senno di poi, appaiono quasi elementari) tra serie di fatti che precedentemente venivano considerati separati, sia perché lo consentisse il livello o lo stadio delle relative dinamiche, sia perché la separazione venisse considerata conveniente e non pericolosa da settori maggioritari della pubblica opinione.
La specializzazione è fondata sulla possibilità di un approfondimento illimitato di dettagli specialistici e differenziazioni locali, nonché sul loro azionamento economico in un processo di mutua induzione che, per molti versi, risulta pericolosamente auto-referenziale.
L'esaltazione di una specializzazione legata indissolubilmente all'avanzamento delle tecniche comporta il contestuale svilimento del panorama dei grandi concetti a tutto tondo, quelli che, insegnati in modo sufficientemente vasto e approfondito per tutte le discipline della scuola dell'obbligo, consentirebbero, se selezionati, evidenziati, trasferiti e infine introiettati con le giuste accortezze, di pervenire facilmente a qualsiasi nozione e addestramento relativi al mondo del lavoro, dove, funzioni dirigenziali elevate a parte (che in realtà consistono enormemente di più nella manipolazione della sapienza altrui che della propria e quindi in abilità che sono sociali e organizzative molto più che tecniche e culturali), le specifiche abilità si acquisiscono con una esperienza molto parcellizzata e focalizzata, non trasferibile ad altri settori di attività e non meritevole sotto tutti i rispetti di alcuna attenzione particolare da parte del settore educativo pubblico, a meno che questo non indulga alla mitologia ottocentesca del self made man (quello che ha messo su un impero miliardario partendo da lavori umili compreso il lavapiatti e lo strillone), una pallonata smentita clamorosamente dalle analisi statistiche, ma di sicuro valida in più di un caso su un milione.
Il prestigio sociale legato alle Grandi Scuole, quelle che rilasciano i Master prestigiosi che impongono ai rampolli del basso ceto di svenarsi nella speranza di risalire qualche gradino della scala sociale, deriva unicamente dagli stimoli e dall'autodisciplina che i loro ambienti riescono a ispirare, non certo da nozioni sapienziali che possono essere attinte a casa propria semplicemente leggendo i libri giusti.
Il pezzo di carta rilasciato dalle grandi scuole ha nel mondo del lavoro lo stesso valore che, in ambito commerciale, riveste il marchio di prestigio, mentre le spinte concrete che riesce a imprimere dipende tutto dai rapporti inter-personali e dagli appoggi altolocati che nei Gotha dell'istruzione si riescono ad allacciare.
Molto del prestigio che consente alle classi elevate d'imporre la propria influenza a prescindere da ogni metodo costrittivo deriva dalla capacità di tenere viva la sensazione dell'esistenza di sacrari della cultura superiore (templi di saggezza riservata a semidei), accanto a quella della specializzazione come unica strategia edificante.
Aggiunte del 1° settembre 2017 (con marginali ritocchi successivi a cura del comitato CRC (revisione e censura))
Ringraziamenti e solleciti: Il Comitato Direttivo della Redazione Mondiale Kolibiana (CDRMK) intende ringraziare tutti coloro che, servendosi di spunti tratti dal sito ufficiale della medesima, hanno citato correttamente la fonte di riferimento nonostante il rischio di ritorsioni da parte dell'ortodossia imperante e delle potentissime lobby internazionali.
Il Comitato Direttivo della Redazione Mondiale Kolibiana (CDRMK) ringrazia quindi solo i kolibiani.
Il Comitato Direttivo, più che convinto (arci e iper-convinto!) che l'unica salvezza del mondo dall'Apocalisse dipende nel medio-lungo periodo dall'adozione da parte di tutte le nazioni del mondo di modelli organizzativi ispirati al Progetto Kolibiano, invita i più esimi rappresentanti della cultura terrestre a fare ammenda dello scarso spirito di adesione/collaborazione finora dimostrato, proponendo il presente sito alla reale accademia di Svezia, o comunque si chiami il pertinente consiglio deliberante, in qualità di candidato a Nobel per la pace.
Si richiamano inoltre i suddetti luminari a sollecitare la collaborazione in tal senso delle massime cariche direttive della nobile repubblica italiana, certamente infastidite dai molteplici tarli che, un pezzettino alla volta, si annettono quote di territorio e di sovranità nazionale e ancora più certamente stufi di fungere da meri notai dei combinati imperial-liberisti. In omaggio al fiero spirito di resistenza ampiamente dimostrato, i kolibiani gradirebbero, come segno di buona volontà, qualche parco, non esorbitante, ma meglio se sostanzioso, finanziamento o vitalizio, che altresì contribuirebbe a riequilibrare con una buona causa sprechi e regalie scialacquati a cosiddetti e sedicenti fini culturali.
In cambio di tale doverosa sollecitudine e a garanzia del pubblico investimento (prevenendo così i dubbi dei più accorti), il Comitato garantisce di mantenere lo spavaldo piglio iconoclasta, contestatore e dissacratore, finora dimostrato, continuando con lena indefessa e imperterrita sulla linea di un fermo e implacabile rigore analitico che non fa sconti a nessuno.
ELENCO DEI FONDAMENTALI CONCETTI KOLIBIANI ESPOSTI UN PO' CASUALMENTE E ALLA RINFUSA, CON INTERMEZZI DI SPUNTI AMENI, CONSIDERAZIONI ARGUTE E VERE E PROPRIE CHICCHE SPEZIATE DI ALTA, ALTISSIMA FILOSOFIA.
AVVERTENZA. Nella versione originale, ogni spezzone era contraddistinto da una serie di tre numeri: il primo si riferiva alla fonte di riferimento e rimandava più che a singoli commentatori alla scuola o al gruppo organizzato compilatore del corpo originario, il secondo definiva l'ordine d'importanza dottrinale secondo la nota lista di priorità emanata dal XIII Sinodo, il terzo, seguendo la medesima lista, contrassegnava il singolo contributo con il codice categorico dell'argomento trattato. Abbiamo ritenuto che solo quest'ultimo numero conservasse una qualche utilità e non appesantisse inutilmente la rassegna. (Il primo curatore Moreno Pozzoli)
AVVERTENZA N.2 Poiché riteniamo che la rassegna sia già abbastanza elaborata per gli scopi e le risultanze che si prefigge o può contare di ottenere, abbiamo ritenuto di risparmiarci la fatica, poco divertente e assai aleatoria, che il numero categorico ci imponeva, di elencare il dettaglio delle varie tipologie argomentali. (Il secondo curatore Elena Stallieri)
AVVERTENZA N.3 Per sopperire a quegli ausili didattici che i numeri fornivano anche se in modo sgradevolmente schematico, si è deciso d'introdurre qui e là, per le sezioni meno brevi, un veloce riassunto epigrammatico dei contenuti e degli argomenti trattati (Il terzo curatore Teresa Davala in Bernini)
AVVERTENZA N.4 Si avverte la spettabile clientela che data una certa pigrizia generale, in parte testimoniata dalle avvertenze precedenti, e certi insanabili dissidi di fondo (per non parlare dell'impazienza dei fan's club allarmati da un eccessivo ritardo negli aggiornamenti) la revisione dei testi è stata condotta in modo abbastanza sommario e quindi invitiamo i più sportivi tra gli avversari a buttarsi a capofitto tra le righe nella speranza di cogliere succosi svarioni (la revisione generale è prevista con l'arrivo dei prossimi fondi). Consigliamo comunque di non cedere a un eccesso di soddisfazione per certi segnali generali di stanchezza, poiché essi potrebbero significare che la Massima Congregazione Kolibiana (MCK) ritiene quasi esaurita la varietà di avvisi e richiami e felicemente assolti i compiti e doveri imposti dall'Assoluto Cosmico, che presto esporrà le proprie delibere senza intermediari. (Il coordinatore Eirik Olav Santosson)
Apertura nei termini di un interludio ottimista che doverosamente plaude ai recenti successi economici del liberismo globale.
Quando il Sommo Anonimo si dedicava con una certa continuità a studi di economia, moltissimi tra i pareri più autorevoli giudicavano improponibile, abnorme e contro natura una politica finanziaria di tassi bassi e drogaggi monetari che si protraesse invariata al di là di un anno o poco più.
Quanto è transitorio, veloce e anzi fulmineo il barbaglio di saggezza fornito dagli 'esperti'!
E di quale portento non è capace ormai un'autentica democrazia rappresentativa? Un modello radicalmente diverso di organizzazione strutturale può sostituire uno dopo l'altro i moduli costitutivi di una società complessa e i pochi in grado di accorgersene (in genere quelli che vi hanno attivamente collaborato) ritengono giustamente inutile comunicare la buona novella al popolo degli elettori: di ben altri tipi, etici ed estetici, da società confessionale dello spettacolo, sono i problemi di cui detto popolo si deve proficuamente occupare.
Comunque la si metta, i kolibiani, con quella elegante sportività che ne esalta i tratti liberali e magnanimi, non possono che riconoscere il successo della manovra epocale e ammettere che l'ipotesi da essi ventilata che la crisi fosse un mezzo dissimulato e traverso, da riflesso inconscio collettivo, di risolvere o almeno attenuare i problemi ambientali... beh, effettivamente, si è rivelata una illazione infondata e malevola.
Quindi adesso possiamo aspettare con fiducia gli anni 20 del secolo 2000, il traguardo che gli esecratissimi catastrofisti degli anni 70 e 80 del secolo XX fissavano come soglia d'innesco, almeno approssimativa, di una varietà di accelerazioni esponenziali ed effetti cascata.
Quisquilie. Il socialismo multinazionale alla Schumpeter sembra ormai definitivamente affermato, le piccole e medie imprese non dispongono più nella generalità di ausili sistemici per un prosciugamento razionale dei debiti e quindi, ammesso che esistano ancora, se non potranno prostituirsi alle variegate voglie dell'aristocrazia (ovvero di chi dispone di capitali propri e non è costretto a elemosinarli concedendo esose garanzie), cadranno come mosche alla prima fluttuazione negativa della congiuntura.
La forbice tra la fascia minoritaria delle occupazioni appetibili e quella sempre più maggioritaria delle occupazioni miserabili sarà tenuta ben divaricata dalla scienza e dalla tecnologia concentrate in monopoli privati e quindi basterà contrarre, non appena lo si ritenga opportuno, il tasso di consumi e il tenore di vita della seconda fascia (il ceto medio del futuro) per generare una fisioterapia di effetti ristoratori a beneficio degli organi e dei tessuti planetari.
Imprevedibilità delle sistematiche permettendo.
Il progetto esiste. ma non è kolibiano.
A dispetto e disdoro di tutti i saggi della montagna che hanno valutato con ironica sufficienza l'idea del Progetto, una economia che cresce evitando di apportare vantaggi statistici reali sia a persone (che non raggiungono più, o raggiungono con sempre maggiore difficoltà, posizioni di relativa solidità e sicurezza) che a piccole e medie imprese (messe nell'impossibilità di capitalizzare e sottrarsi al ricatto della dipendenza finanziaria) dimostra l'esistenza di un piano deliberato e sistematico inteso a consolidare il successo del neo neo... neoliberismo (un paradigma tradizionale e usurato, quando se ne decreta d'ufficio la insostituibilità, viene esposto all'adorazione del pubblico in versione 'neo' rigenerata e permanente).
Mentre il popolo, sotto la guida dei buoni pastori (soprattutto sacerdoti, giornalisti e altri uomini dello spettacolo) si occupa di santi come Lady Diana e Papà Francesco, le oligarchie stanno dunque traducendo in architetture reali progetti che mirano a uniformare dall'alto le maggioranze elettorali, questo perché le diverse popolazioni del mondo, per evitare turbolenze pericolose, devono essere spianate con metodo e gradualità conservando la parte migliore di un trafelato dinamismo.
Questo socialismo eucaristico e pimpante condiviso tra una destra politicamente corretta e una sinistra realista quanto autentica non risulta precisamente la cura migliore per la salute del pianeta, ma destra e sinistra sane, si sa, devono prima di tutto preoccuparsi di quella specie privilegiata e avulsa dal resto che si chiama umanità.
Non ci si può aspettare che tutti fili liscio fino in fondo, ma, a ogni buon conto, se le increspature eccedono certi limiti, c'è sempre qualche bella guerra dietro l'angolo che può appianare energicamente le cose e ridurre a più miti consigli i vaneggiamenti presuntuosi, costringendo la gente viziata che si balocca con problemi fittizi a confrontarsi con problemi reali.
Un prosieguo un po' strano, sibillino, discutibile e in apparenza slegato dal resto. Questo intervento e soprattutto la sua collocazione nella parte iniziale della sezione ha generato pareri discordanti tra i curatori ed è stato approvato solo con una maggioranza risicata di 258 contro 242. Il motivo di opposizione più gettonato verte sull'anacronismo del tema trattato e su una certa acredine che ne colora la stesura, entrambi tipici del periodo pionieristico in cui i kolibiani non disponevano del seguito vasto e agguerrito su cui al giorno d'oggi possono contare. Tra gli argomenti a favore ha prevalso invece una indiscutibile idoneità a introdurre il tema del fanatismo. Qualcuno ha anche sostenuto che il pezzo avrebbe legato meglio con altri contesti discorsivi, quello per esempio che denunciava le ricadute ambientali di comportamenti e mentalità riferibili all'iper-attivismo anarchico di molte delle più influenti baronìe tecnocratiche. L'evocazione degli epicicli in relazione ai modi di vibrazione delle stringhe in teorie come la M (Mistero) non allude evidentemente ad analogie strutturali, ma alle potenzialità di spiegazioni ad hoc accessibili da paradigmi talmente vasti e comprensivi da poter giustificare qualsiasi predizione sperimentale attraverso una semplice regolazione di parametri generali quali le frequenze e le ampiezze d'onda o le forme topologiche e le misure geometriche delle dimensioni extra. Questioni del genere sono molto controverse e al momento non si può autorizzare nessuna posizione definitiva.
Dopo aver dato uno sguardo alla pubblicistica e ai film dedicati a Steve Jobs, il genio tutelare della Apple, è difficile sottrarsi a una impressione sconveniente e sacrilega quasi quanto l'associazione spontanea delle dimensioni extra della teoria delle stringhe agli epicicli e agli equanti di Tolomeo.
La sensazione è insomma, senza divagare e dilungarsi troppo, che chi l'aveva estromesso in un primo tempo dall'azienda, prima del suo ritorno di fiamma trionfale, non solo non aveva tutti i torti: aveva tutte le ragioni del mondo.
L'errore di questi retrivi, miopi e di sicuro reazionari rappresentanti degeneri di una imprenditoria vecchia è sorpassata alla fine si può rinvenire unicamente nell'incapacità di accorgersi del fanatismo ideologico che già a quei tempi stava montando al punto di sommergere di lì a breve le masse soprattutto giovanili di aspiranti all'eden della nuova eccellenza aristocratica.
Insomma tutta una classe omogenea in età, censo, aspirazioni e collocazione professionale, del tutto analoga e corrispondente a quella maggiormente responsabile della deriva dilettantesca e idealista-massimalista delle ribellioni sorte negli anni '60 (oltre che dei disavanzi dei debiti pubblici), stava elaborando la propria stupefacente concezione del mondo, pronta a innalzare al cielo una voglia disinibita e incontenibile di trascendenza tecnologica.
Tra i connubi di simbologie proiettive e sofisticati narcisismi di gruppo che eleggono a contrassegno ispiratore e unificante le più diverse specie di figure messianiche, quello di cui ha goduto il gran sacerdote che chiede sacrifici economici (niente può aspirare alla sacralità del culto sociologico se non si connette in qualche modo all'idea di sacrificio) in cambio della sorveglianza garantita, anche se per certi versi misterica, dei processi di qualità aziendale e quindi della divinizzazione del marchio e della griffe, è senz'altro tipica di masse massificate al top e con bollino doc, composte da un super amalgama di individui individualisti: si esplicita nei pellegrinaggi ai luoghi di culto della religiosità laica, democratica e tollerante, quanto selettiva e colonizzatrice, della Sylicon Valley e dei campus di Harvard o di Microsoft e professa una o l'altra versione di quel paradossale ambientalismo che appare un riflesso condizionato dei tifosi di una frenetica produttività nel segno del rinnovamento implacabile, quel furore esaltato che il pianeta, se disponesse di un succedaneo di quelle personalizzazioni che i monoteisti assegnano all'universo nella sua interezza, esecrerebbe più di ogni altra cosa nonostante l'adorazione che i fautori comandano verso le energie pulite barra rinnovabili o almeno verso le lobby che se ne fanno promotrici.
Un Kolibiano ovviamente non ce l'ha con Steve Jobs, né con i corpi di élite dei conquistatori economici che hanno esplorato, occupato e colonizzato tutte le arie dell'immaginario collettivo, impiantandovi, con il dovuto baccanale pubblicitario in stile Iwo Jima, la bandiera del proprio successo economico.
Un kolibiano ce l'ha con l'immaginario collettivo, questa bestia immonda composta di puro spirito che non ce la fa proprio a vivere senza semidei arringatori ed eccitatori di folle, cambia poco se in versione Che Guevara, calcistica, rockettara, papalina o che ne so, e quando viene il momento di portarsi a casa il mondo nella scatola di un computer trova che anche uno come il mio amico Steve è molto figo e si presta perfettamente alla bisogna.
Sì, è vero, un kolibiano ce l'ha con la gente, non con chi ne dispone o cerca di disporne.
Un kolibiano non è democratico: un kolibiano è liberal-comunista.
Entrando nel vivo delle tematiche cruciali, cominciamo con una premessa indispensabile per inquadrare il rapporto tra filosofia, scienza e morale.
Se una realtà non sostiene un valore condiviso (un 'dover essere' di ordine pragmatico e volitivo), l'uomo può modificare la realtà per sottometterla al valore soltanto se l'uomo controlla quella realtà. L'uomo non può controllare una realtà di cui è parte subordinata o perlomeno non può farlo senza conoscere e assecondare le ineluttabilità implicite nei meccanismi basali di quella appartenenza.
Si può tentare di condizionare ciò che è inesorabile come un destino soltanto attraverso l'arbitraggio di strumenti che si sottraggono al destino attraverso forme opportune di inesorabilità, rispettose ma non prone verso una inesorabilità superiore, e queste implicano il metodo della pianificazione razionale.
Se la pianificazione è impossibile, l'accelerazione impressa dal predominio umano allo sviluppo delle vicende planetarie prenota la catastrofe a stretto giro di secoli, a meno che l'umanità non sia assistita da sponsor e tutori di estensione cosmica.
Quindi, se Dio non esiste in alcuna di quelle forme che possono per certi versi replicarne le concezioni assurdamente ingenue, non si può accettare che la pianificazione razionale sia impossibile e per dimostrare che non lo è esiste un solo modo: pianificare globalmente e alla svelta.
La natura scientificamente religiosa delle tesi kolibiane.
Le tesi kolibiane non consistono di pure asserzioni scientifiche, in quanto rifiutano qualsiasi requisito rigido di confermabilità e non si prestano neppure a più flessibili criteri di pertinenza.
Le tesi kolibiane sono tesi logico-filosofiche che assurgono a inoppugnabilità matematica grazie al contributo delle tesi opposte.
Quando infatti le tesi concorrenti fronteggiano le tesi kolibiane reclamando una adesione superiore ai meccanismi effettivi della realtà, possono sperare al massimo di pervenire a livelli similari di plausibilità e quindi di fatto confermano tesi che, come quelle kolibiane, si fondano sulla imperscrutabilità dell'evoluzione di sistemi complessi il cui spazio degli stati dispone di una molteplicità di attrattori delle più diverse tipologie (punti, cicli, tori, di Lorenz eccetera).
Di fatto il kolibianesimo si riduce a due sole, semplicissime, asserzioni di fondo, la cui accettazione o il cui rifiuto determinano conseguenze automatiche: a) l'uomo è 'solo' un animale intelligente; b) l'universo che lo ha creato è una macchina molto complessa priva di coscienza.
Il kolibianesimo si può considerare una religione di chiarezza: richiama a quella consequenzialità di visioni e d'intenti necessaria alla elaborazione di strategie che non sono più rinviabili data la pericolosa accelerazione che il predominio umano ha innescato nelle evoluzione o involuzione planetaria.
L'istanza della progettualità risulta, per esempio, un semplice corollario di a) più b): basta considerarla una metodologia preventiva contro il cieco determinismo della miscela esplosiva rappresentata dalle 'libere' scelte di una umanità inserita nel 'libero' contesto della biosfera.
Come una scorretta epistemologia si rassegna a un ruolo ancillare rispetto a presunte e inattendibili 'filosofie dei valori'.
Una selva inestricabile di equivoci è sorta dall'errata interpretazione filosofica, sempre in qualche modo provvidenzialistica, dei principi di conservazione che hanno sorretto e indirizzato le concezioni più moderne della fisica fondamentale.
Non mi riferisco alle nozioni diffuse e comuni, ovviamente, bensì a ciò che a quelle si trasmette con il peso dell'autorità costituita mettendo capo alle convinzioni di esperti i cui pareri pesano sulla società civile con il proprio possibilismo amletico molto più di quanto peserebbe una loro eventuale risolutezza. Anche per la maggior parte dei dotti smaliziati, infatti, senza insistervi troppo per non affrontare contraddizioni irriducibili, una forma o l'altra di spiritualismo si considera più o meno scontata.
Il presupposto non dichiarato, ma che si legge quasi sempre tra le righe dei vari commenti, privilegia gli aspetti sorprendenti del 'dono' effettivamente prodigioso che permette di sviluppare la conoscenza, insiste su quella 'comunicabilità' attraverso la quale intelligenze diverse, in diversi punti del cosmo, devono riuscire a intendersi attraverso un linguaggio comune sotteso a una sorta di armonia generale delle intelligenze, preludio a una trascendenza finalizzata.
L'alternativa comporta un allarmante, problematico confronto con l'ovvia 'disumanità' (in realtà semplice 'non umanità') delle leggi cosmiche.
Il fatto acquisito che una scienza fondamentale raggiunge la pienezza e l'eleganza della concezione solo partendo da formulazioni che consentono di aggirare il relativismo conseguente ai diversi stati degli osservatori, viene così addotto a prova decisiva di un'armonia nascosta, strettamente intessuta con le strategie procedurali della mente umana.
Una visione kantiana è implicita in questa interpretazione e il kantismo è ovviamente una forma di spiritualismo, come Hegel non ebbe difficoltà a constatare. Se si assegna l'oggettività indipendente a sostanze esterne non concepibili (il noumeno!) e neppure intuibili (una intuizione è un'apprensione imprecisa e urgente di una incombenza di cose che è meglio definibile almeno in potenza, il che non vale certo per una realtà sigillata al di fuori delle possibilità di un soggetto che pensa nondimeno di potervisi riferire nominandola), la mente umana tende a rendersi autonoma e assoluta, anche se lo fa con dosi di tatto, moderazione, buon senso degne del più alacre, onesto, concreto artigiano, proprio le virtù che Hegel disprezzava in Kant ritenendole un cauteloso intralcio al dominio imperiale dell'uomo sul pianeta.
Questo insistere sul miracolo della perspicuità e della comunicazione condivisa può apparire una questione di sfumature linguistiche, ma nasconde distorsioni metafisiche profonde.
Iscrivere in un ambito spiritualistico-kantiano la spiegazione del perché la natura rispetti e onori una certa strategia operativa fondata sulla neutralizzazione dei principi di relatività essenziali circoscritti dal teorema di Coleman-Mandula e ne consenta l'estensione in forma di metodologia canonica, implica assunzioni molto impegnative sulla natura, il mondo e la realtà.
Se i principi di simmetria che permettono di superare relativismi di tipo copernicano conducono a una corretta e profonda formulazione delle leggi di natura e ciò avviene perché l'uomo debba e possa considerarsi il fondatore di una scienza veramente universale, l'uomo appare effettivamente la reginetta del cosmo, il vassallo preferito da Dio, insediato al centro delle sue creazioni migliori.
Se il rasoio di Occam vale ancora come limite all'onnipotenza della fantasia, esistono spiegazioni molto più... naturali.
Il motivo per cui il principio di covarianza, quello di indeterminazione, le simmetrie di gauge e analoghe strategie funzionano come premesse e impostazioni di euristica fondamentale che trasformano un limite in una regolazione fondante, si connette molto più verosimilmente e semplicemente a una... chiamiamola per ora circostanza... (se si usa questo termine si potrebbe perfino aggiungere l'aggettivo 'banale') che viene in genere sottaciuta: il fatto primario e capitale che ogni intelligenza, come il corpo su cui è impiantata, è formata e strutturata 'adoperando' la medesima 'materia prima' e i medesimi criteri organizzativi che ogni organismo condivide con gli altri organismi di qualsiasi specie e con le componenti inorganiche, a prescindere da quanto sia utile che le varie intelligenze, ferme o rotanti, in moto uniforme o accelerato, pervengano a una scienza universale.
Per Vico, Ranke, Dilthey, Croce e molti altri solo gli studi storici aprono a conoscenza autentica, dato che l'Uomo può raggiungere un'autentica cognizione di causa solo riguardo alle cose che crea. Essi si riferiscono più o meno implicitamente all'ovvia necessità di una corrispondenza dei moduli costruttivi tra rappresentazione e rappresentato, una ipotesi di logica comune che rimane però troppo sfumata, prudente e perfino asfittica nella specifica traduzione umanista. Basta sostituire 'Uomo' con 'Universo' e 'Storia' con 'Uomo' (per cui Uomo e Storia come Uomo e Scienza rappresentano solo due dei vari passaggi successivi) perché i conti comincino a tornare a un livello d'inclusione superiore.
La centralità del principio antropico.
Una scienza non nasce perché deve nascere a maggior gloria dei suoi propugnatori, nasce perché quando esistono i propugnatori di una scienza devono esistere condizioni che consentano ai propugnatori di propugnare.
Apparati biologici sofisticati coincidono con nuclei di universo riflessivi di nuclei limitrofi: complicandosi, diventano nuclei auto-riflessivi che, complicandosi ulteriormente, sviluppano livelli di elaborazione astratta e selettiva le cui possibilità, più si staccano in un isolamento apparente, più trasferiscono a un livello diverso le logiche funzionali di qualsiasi altro pezzo di mondo, almeno finché si tratta di mosse evolutive vincenti: i loro limiti si commisurano a fatti reali e come tali producono conseguenze reali.
In sostanza i limiti indicano le condizioni del superamento e queste si rivelano così fertili perché ogni limite rappresenta un nodo critico fondamentale che contiene in sé la negazione di quelle impossibilità apparenti che, se fossero effettivamente tali, incepperebbero un macchinario che invece funziona al punto di oggettivare se stesso.
Ciò varrebbe in un universo retto da leggi 'divine' esattamente come in un universo scelto a caso tra infiniti altri, dato che l'universo scelto a caso non può non manifestare proprietà 'divine' quando è capace di generare teologi e scienziati. Spiegare l'esistenza di una qualità attraverso un ipotetico dispensatore di quella qualità non mi sembra invece il massimo dell'ingegnosità teoretica, dato che alla fine si tratta di un atto gratuito e arbitrario di auto-promozione di una mente astratta e ideale che si confronta con il mondo dimenticando che prima della possibilità di ogni mente c'è una lunghissima storia di materia inorganica che diventa organica e che prima del pensiero e tutt'intorno c'è la vita.
Il paradosso che ci sconcerta tanto alla fine è solo apparente. Un biglietto della lotteria che fa vincere una grossa somma deve distinguersi per forza dagli altri. In questo esempio, la proprietà discriminante rimanda a un atto di selezione esterna e posteriore. Anche se, per un universo qualunque, la selezione è insita nelle caratteristiche strutturali dell'esistenza, basta la corriva metafora del biglietto a focalizzare il nocciolo dei rapporti tra ogni presunta normalità e ogni presunta stranezza.
L'etica come riflesso della metafisica.
Se la conoscenza funziona solo rispettando un principio di totalità e di appartenenza, non si vede come i principi etici possano dimenticarsene richiudendosi in un mondo esclusivo di magia artefatta: non per niente ogni società, in qualsiasi periodo storico, ha sentito la necessità di far derivare i relativi vincoli da condizionamenti concreti e stringenti, fondazioni oggettive dell'autorità da imporre all'arbitrio individuale.
Dal carattere fittizio e a sua volta arbitrario di tali costruzioni che, mentre ambiscono a una legislazione suprema, dipendono da variabilità ambientali e accidentali o da interessi individuali e di casta, proliferarono, proliferano e prolifereranno i conflitti, le prevaricazioni, i colpi di testa, le fantasie sfrenate, le schizofrenie che rendono le narrazioni storiche così romanzesche e interessanti, lontano dai noiosissimi vincoli procedurali dell'impresa scientifica.
Tralasciando per ora le altre patologie, probabilmente nessuna epoca ha mai dimostrato tante tendenze schizofreniche prima d'ora, uno iato così profondo e irrimediabile tra le proclamazioni d'intenti e i comportamenti effettivi, il castello ideale dei sogni e la dura consequenzialità delle tattiche.
Molta finta flessibilità e tolleranza si lega a una dittatura di stereotipi elusivi e cangianti, l'accesso alle libertà richiede timbri di omologazione sottili e profondi come mai in passato, quando il potere si accontentava di genuflessioni formali e, anche per propria insipienza, non pretendeva interventi di chirurgia attitudinale e antropologica.
La frattura tra struttura e sovrastruttura, per esprimerci sinteticamente in un linguaggio marxiano, non è mai stata più marcata ed evidente, il che denuncia chiaramente i limiti di un accostamento raffazzonato e posticcio tra i presupposti tecnico-scientifici che presiedono al funzionamento del macchinario produttivo ed economico e l'intreccio assurdo tra metafisica impositiva ed edonismo persuasivo che organizza il sistema delle mentalità e delle motivazioni.
Queste contraddizioni si riflettono al massimo grado nell'ambito delle forme di comunicazione che veicolano la massima parte del condizionamento politico, quei mass media che oscillano di continuo tra esigenze pedagogiche di controllo e necessità elementari del business.
Oggi, quell'astrazione sempre più fantasmagorica e perciò, al tempo stesso, sempre più teologicamente cogente che è il Potere (qualcosa ormai di completamente spersonalizzato, qualcosa per cui il termine spesso abusato di 'sistema', ormai fuori moda, si adatta perfettamente e andrebbe rispolverato alla svelta) interroga nevroticamente la 'pubblica opinione' che vorrebbe dirigere, cerca di sintonizzare il modo in cui la comanda in base al modo in cui essa reagisce ai disposti che le si vorrebbe impartire, in un circuito viziosamente instabile dei cui perché si è persa definitivamente memoria.
L'atteggiamento mercantile dilaga assoluto, ma una società non può reggersi sul mercantilismo, quindi l'assoluto del mercantilismo si instaura come vuoto involucro formale dell'autorità, prima e davanti al mercantilismo medesimo. Basta pensare all'istituto pubblico della religione per esemplificare e comprendere certi meccanismi fondanti: al centro non vi troviamo Dio, ovvero un'entità oggettiva con cui fare realmente i conti, bensì quella necessità di un dio adeguato, un dio conveniente, la supposizione fantastica del quale, che ciascuno si arrabatta a suo modo, esenta dal dovere di confrontarsi con problematiche spinose e inquietanti.
Divagazione sulla storia della cultura con veleno in cauda.
Platone e Kant sono i filosofi paradigmatici di quella forma mentis occidentale che tuttora essi dominano anche se sotto mentite spoglie e comunque senza alcuna consapevolezza diffusa, mentre quasi tutti ritengono di poter fare a meno di una filosofia condivisa e si considerano depositari di una saggezza istintiva che s'infarcisce e insaporisce di assurdità e contraddizioni, una cornucopia di metamorfosi della quale, semplicemente, gli spiritualissimi autori non si rendono conto.
Il cittadino qualunque è fiero di non essere filosofo, irride l'essere filosofo, pago, in genere, del successo di una dignitosa sopravvivenza, e così rimane felicemente succube di un caso che personifica nella mitologia del sé, nella presunta autenticità di una coscienza con cui si identifica ignorando la sua vera natura di specchio deforme.
Platone e Kant insieme, spogliati degli abiti e della biancheria che preservano il pudore, fanno un Hegel edulcorato e Hegel fa tanto burocrazia prussiana.
Oggi di Platone, Kant ed Hegel, quello che serve alla società e alla cultura dirigenziale di élite si trova confezionato in formato famiglia e offerte speciali prendi tre e paghi due, a cura e per conto delle confessioni istituzionali, dei mass media autorizzati e della scienza perbene. La sintesi finale, che non si chiama più Iperuranio o imperativo categorico o appunto sintesi finale, rimane comunque la burocrazia prussiana, ridimensionata a semplice burocrazia, la quale burocrazia non è la Burocrazia, come invece tutti pensano che sia, e cioè la burocrazia di stato, ma la burocrazia in senso lato, la burocrazia del buon Weber, l'ambiente di legge e ordine richiesto dalla macchina finanziaria e industriale per poter funzionare con il minimo di legge e di ordine possibile per quanto riguarda se stessa.
La burocrazia che i fantasmi tutelari e gli angeli custodi della democrazia occidentale promuovono non ha più niente a che vedere quindi con i teatrini della politica, gli obblighi e le pesantezze procedurali, i lacci e lacciuoli sventagliati come un prestidigitatore acrobata dal funzionario oscurantista, tutto quello insomma che i paladini della concretezza e del fare, i moderati d'assalto, giustamente scomunicano e maledicono. No, la burocrazia attuale si libera dei mastodontici e passatisti antesignani grazie a un campionario di mezzi corruttivi la maggior parte dei quali perfettamente legali e addirittura già previsti nei meccanismi delle leggi originarie: può dedicarsi così a ingranaggi molto più fitti e calibrati in precisione e sintonia.
La burocrazia attuale si chiama ovviamente Mercato: è burocrazia che sveltisce il privilegio e quindi intralcia e zavorra il corso delle vite comuni.
Le conseguenze tangibili.
Ci limiteremo, per ora, a una metafora.
Immaginate un mondo dominato da feroci, famelici, incontenibili tirannosauri che stanno affermando il loro dominio sulla biosfera senza nessuna remora, pianificazione, obbiettività, avvertenza, cautela. Immaginate che uno dei vantaggi evolutivi attraverso cui questi tirannosauri hanno raggiunto il dominio terrestre consista nella loro coesione sociale e soprattutto nell'amore e nello spirito di solidarietà che si portano gli uni verso gli altri secondo un intenso afflato umanitario che, nel caso specifico, andrebbe rinominato spirito tirannosauriano o qualcosa di simile.
Dato che ci stiamo muovendo in un mondo di favola, possiamo immaginarci che, molto meglio che in altri contesti reali, grazie ai tirannosauri l'un verso l'altro solleciti, amorevoli, pietosi, quanto spietati divoratori di tutto il resto, l'intero pianeta raggiungerebbe ben presto un punto perfetto di pace, armonia ed equilibrio, evitando di precipitare verso una crisi di dissoluzione che umilierebbe i delicati e commoventi idilli che quegli strani e imponenti bestioni intessono tra di loro.
Ma non fantasticate, non sospirate troppo, non cedete a eccessiva invidia verso questi tirannosauri cosi baciati dalla buona fortuna (evidentemente il pianeta in cui abitano è molto diverso dal nostro). Anche per sentimenti sociali fervidi e appassionati come l'altruismo tirannosauriano, esisterebbero tasse e gabelle da pagare al principio di realtà e queste in genere esigono, ai fini di un migliore espletamento degli atout evoluzionistici di specie e per una gestione proficua delle inesauribili risorse interne ed esterne, una strutturazione verticale degli impulsi più spontanei e sinceri. In genere, a grandi linee, essi si raffreddano in cima alla piramide per quella necessaria compostezza connaturata alla direzione e al controllo, profondono in generosi flussi incanalati negli strati intermedi deputati alla trasmissione degli input relativi a motivazioni e obbiettivi e costituiscono il fluido omogeneo e un po' torbido in cui il comune cittadino tirannosauro deve obbligatoriamente arrancare secondo i canoni stereotipati della buona educazione.
L'ideologia kolibiana.
Per ideologia s'intende qui la filosofia informale e pragmatica che ognuno si costruisce in modo più o meno conseguente e consapevole per fini di adattamento esistenziale. Le singole ideologie consistono in genere di un'accozzaglia di opinioni che, vagliate attentamente, rivelano non poche contraddizioni reciproche.
L'ideologia kolibiana intende esprimere pregiudizi, prese di parte e atteggiamenti emotivi che manifestano una coerenza di fondo con le tesi filosofiche ed epistemologiche di portata più ampia e profonda. I kolibiani ritengono che solo quest'ultimo tipo di ideologia dovrebbe essere oggetto di attenzione, mentre tutti gli altri meriterebbero ripulse critiche e interventi preventivi di profilassi analitica.
I kolibiani sono pregiudizialmente contrari a a) ogni professione pubblica di valori, perché l'assunzione e l'interpretazione dei valori vengono inevitabilmente filtrate e distorte da interessi perlopiù censurati nel senso freudiano del termine; b) ogni umanitarismo pubblico e organizzato, perché inevitabilmente antropocentrico; b) ogni religiosità istituzionale perché il dio in cui si crede viene inevitabilmente arruolato a difesa delle fazioni o gruppi o sette o partiti a cui si appartiene e si palesa niente altro che un timbro su un'etichetta di appartenenza.
I kolibiani ritengono che basterebbe il principio di precauzione del non fare agli altri quello che non si vorrebbe fosse fatto a se stessi e la considerazione della fragilità umana in un universo estraneo e indifferente per indirizzare le volontà nella giusta direzione di un utilizzo comunitario della ragione speculativa applicata a progetti costruttivi. Quella precauzione e quella consapevolezza sono in genere sufficienti a emendare o almeno attutire peculiarità individuali statisticamente e opinabilmente distribuite tra pregi e difetti che ciascuno apprezzerà o avverserà secondo i propri pregi e difetti individuali.
Solo su relativismi etici del tipo suddetto, affiancati da una prassi progettuale, si possono predisporre le forme sociali più idonee a che ogni individuo possa sopravvivere mediante sforzi limitati e tollerabili e poi per il resto trovi spunti e possibilità sufficienti per organizzarsi la vita come meglio crede, ovviamente dopo aver ottemperato agli obblighi basilari sanciti dal progetto e senza ledere gli altri.
La situazione corrente
Se tali forme organizzative non vengono prese minimamente in considerazione, dipende dallo strapotere di idealismi vanesi e culture fanfarone e mistificanti in cui si esprimono le metamorfosi sociali di un predominio competitivo di tipo darwiniano.
Esso assume le forme più idonee a stabilizzare complessi sistemi di sopravvivenza incentrati su un modo di produzione della ricchezza che, mentre conviene a classi di reggitori conformati secondo un fanatismo che sarà più dettagliatamente specificato in seguito, non conviene a coloro che richiedono ben altre temperie per sviluppare appieno i frutti della propria capacità lavorativa. Si tratta di un braccio di ferro i cui esiti in termini di struggle for power appaiono scontati, dato che sulla bilancia delle disfide umane la definizione dei pesi, anche se molto più complessa e articolata, conserva parecchie analogie con i criteri adottati dalla natura selvaggia.
Del quadro così delineato si possono fornire molteplici prove tratte dalla storia o dalla cronaca corrente, ma quella più clamorosa consiste nella poderosa stampella che le frange più radicali e accalorate hanno sempre fornito alla preservazione del capitalismo e alla polarizzazione dei redditi, troncando sul nascere anche solo l'ipotesi di una costruzione effettiva di alternative credibili. Ogni crisi del capitalismo è sempre terminata in un solo modo: un accentramento ulteriore del potere e della ricchezza accanto al consolidamento di un contraltare di disordine scientemente costruito, affidato per la gestione a frange di dissenso i cui formalismi codificano di volta in volta, con più o meno dispendio di travestimenti democratici, le eccezioni che confermano le regole.
Il terreno di gioco si cosparge così di serre esotiche ai cui giardinieri spettano, nella stanza dei bottoni, le poltrone meno decisive e importanti, ma, proprio per questo, più comode, gratificanti e ambite.
La scienza kolibiana: la demolizione dell'infinito
Una teoria di grande unificazione o, in una prospettiva lievemente diversa, una cosiddetta Teoria del Tutto, deve rendere conto contemporaneamente di una costante di attrazione gravitazionale diversa da 0, un pacchetto minimo di energia trasferibile diverso da 0, una velocità della luce finita. Lo spazio matematico tradizionale, implicitamente concepito nell'ottica abnorme e fantastica dell'infinito attuale, rende inammissibile la presenza simultanea delle tre assunzioni, come è facilmente intuibile anche senza disporre di cognizioni tecniche molto raffinate. Uno spaziotempo che si potesse restringere a piacere pur conservando le tre predette assunzioni: a) si lacererebbe nei buchi neri delle particelle virtuali collassate; b) si potrebbe idealmente affettare in fogli temporali (t = ki) troppo 'vicini' tra di loro perché la luce abbia avuto il 'tempo' di passare da uno all'altro al di fuori di certi minuscoli intorni; c) presenterebbe intervalli spaziali che l'energia non potrebbe attraversare (se non per effetto tunnel) perché di grana troppo rozza); d) sancisce incompatibilità definitive come quelle messe in luce dal principio olografico; e) si può continuare l'elenco inventandosene di tutti i colori poiché ab infinito sequitur quodlibet, dato che, salvo stravolgimenti dei paradigmi consolidati, infinità e continuità sono in contraddizione con l'uno o l'altro dei presupposti più generali della fisica moderna. L'infinito non può accordarsi con la continuità di uno spazio 'liscio' e uno spazio che si frantuma in una quantità di accidenti o si equipara al puro caos o assomiglia al gioco QED con freccette che ruotano, a un tessuto ribollente di punti in continua influenza reciproca, una sorta di teoria-mandala come il modello standard delle particelle elementari.
Perfino gli otto volanti, le ruote vertiginose, gli scivoli a spirale del luna park di Calabi Yau risulterebbero scarsamente agibili se li andiamo a esaminare con una lente d'ingrandimento dalla potenza illimitata: anche quel superbo revival di grandeur neotomista deve prima o poi dissolversi in sfarfallamenti e luccichii in cui una totale assenza di sintonia con ogni concetto accessibile alla mente umana non implica l'assenza di regole ferree.
Forse le regole ferree esistono perché né il puro caso né il puro caos possono esistere in universo dove compaiono piante e animali, caso e caos sono invenzioni dell'uomo che solo così può illudersi di conferire un senso alle cose quando sono le cose che conferiscono un senso a lui.
L'infinito non serve.
Per fortuna o per disgrazia, l'infinito per la scienza fondamentale risulta un lusso superfluo ed eccessivo, una dispendiosa appariscenza, è soltanto una ipotesi metafisica che semplifica i calcoli e arricchisce il campionario dei teoremi. Per saturare il numero incredibile di singoli stati diversi in cui un qualsiasi cervello può ritrovarsi, non occorre l'infinito, basta qualcosa di infinitamente più piccolo.
Ogni immagine della scienza è solo una metafora che facilita la comprensione a un cervello specializzato in funzioni biologiche, aduso quindi a un determinato tipo di rappresentazioni. Un coccodrillo o una mangusta 'evoluti', utilizzando lo stesso tipo di logiche fondamentali, svilupperebbero, forse, un immaginario scientifico diverso.
Basta raffinare la grana, aumentare la risoluzione dei singoli pixel, e una meccanica ondulatoria può trasformarsi in meccanica matriciale e viceversa. Gradi di libertà del moto ed estensione fenomenica delle variabili rimangono intercambiabili, l'indeterminazione si crea o scompare togliendo o aggiungendo dimensioni allo spaziotempo. Adeguando quantità e interazioni, con i singoli tasselli di un puzzle multidimensionale si può costruire di tutto o almeno si può costruire tutto e solo quello che possiamo comprendere secondo i criteri di comprensibilità di cui disponiamo, i quali si riducono sempre, in ultima istanza, ai due versi di percorrenza dei processi di deduzione in un sistema assiomatico e quindi alla nozione di calcolo e di confronto tra calcoli.
Appare allora ragionevole rassegnarsi a quello che in matematica pura sembra comportare sacrifici intollerabili: lo sgombero e l'abbandono del paradiso di Cantor. Forse eviteremo così di ammettere in un ragionamento logiche che non possiamo riconoscere come tali, emendando il peccato originale delle metafisiche che credono di poter nominare l'innominabile senza sparire in un buco senza fondo.
Svuoteremo il mondo di significati? Forse il mondo apparirebbe molto meno insulso (eufemismo per idiota) se evitasse di confrontarsi con ideali irraggiungibili la cui consistenza sta tutta in una buccia di parole e nei brividi passeggeri che infondono quando vengono evocate con fini terapeutici o strumentali.
Il rapporto duale tra abisso e superficie.
I problemi che sorgono una volta che ci si è trasferiti da un dominio d'incomparabile, ma incomprensibile, ricchezza, a un altro composto di soverchianti eppure deludenti (in qualche inevitabile modo) 'finitezze', risultano di natura abbastanza paradossale. L'infinito, come prescrivono le più raffinate ricette della cucina metafisica, sembra desideroso di contrarsi nell'Uno, si mostra ben disposto e addirittura consenziente al sogno di una costruzione divina che, costruita da menti divine, appaia alle menti divine costretta, per così dire, a non poter essere diversa da quello che é, consustanziale al tessuto di una intelligenza che non può concepirla altrimenti (tutto vi si sistema a dovere, perfino l'ennesima cifra per enne qualunque delle infinite cifre di qualsiasi costante di qualsiasi legge, si chiamasse Planck o Coulomb o Boltzmann o vatt........ o chissà che.
L'infinito esalta con le sue promesse perché sconvolge la ragione e rimette in auge quella follia che da sempre si connette al senso del sacro, il finito costringe l'intelletto a noiose revisioni del libro dei conti per non dichiarare bancarotta. Rinunciare all'infinito significa rinunciare al monoteismo in favore del politeismo. Dio non delude mai perché è... ineffabile, ovvero non si sa che cosa sia. Un dio qualunque palesa prima o poi stramberie e debolezze, né più e né meno come qualsiasi essere umano, nessuno escluso.
La scienza kolibiana: le costruzioni del finito. Ci si allarga svolazzando un po' senza alcuna pretesa oltre quella di fornire qualche spunto per una chiarificazione migliore.
Un universo finito infrange il sogno dell'unicità assoluta semplicemente traducendo il punto matematico in una matrice n x n dove n si collega al massimo esponente di una delle tante modestissime x del polinomio supremo riferita a una comune variabile di sfondo che potrebbe essere il tempo: basta fissare il numero di punti matrice, il numero di elementi di ogni matrice, il numero delle dimensioni in cui le matrici sono immerse (privilegiando le tre dimensioni spaziali?) ed esisterà sempre un insieme di regole per l'interazione dei punti matrice capace di rendere conto di qualsiasi ordinamento finito. Ciò vale e appare inoppugnabile a prescindere dai vincoli di intelligibilità e manovrabilità che occorre rispettare per dare adito a una scienza concreta, una scienza utilizzabile in accordo con il funzionamento corrente dei nostri apparati sensoriali e motori.
A questo punto basta ammettere un solo infinito, quello relativo alla totalità degli infiniti (appunto!) universi, per rendere idealmente accessibile qualsiasi conformazione totale di eventi, inclusa quella che abilita proiezioni interne auto-riflessive, inclusa quella in cui, invece di tanti piccoli dei, ciascuno assiso dentro il proprio cervello, ne esiste uno solo che si strugge di solitudine o se ne bea. Dio in qualche punto dell'infinito esiste di sicuro, ma non può uscire dal proprio universo per andare a conquistare quello degli altri.
Secondo questa visione, qualsiasi costante si riduce a una combinazione di indici in modo analogo a come pi greco viene progressivamente assorbito in un raggio sempre meno determinante quando il calcolo riguarda superfici e volumi di sfere a dimensione multipla crescente. L'aumento delle dimensioni risucchia le costanti e avoca a sé le influenze causali, riducendo ogni legge fisica a pura e semplice combinatoria di un numero adeguato di elementi adeguatamente diversificati. L'unico vero problema che rimarrebbe aperto in questo universo macchina di Gandy (o Turing o Wolfram o Conway o vatt..... o altri autorevoli candidati), rimarrebbe quello dell'asimmetria temporale (nella triplice veste di causalità fisica registrata da organismi coscienti, d'irreversibilità secondo il secondo principio, di violazione della simmetria CP e 'non violazione' della simmetria CPT), dilemma che forse si potrebbe risolvere attraverso la non commutatività delle geometrie matriciali (vedi Connes et al.), che formulerebbe l'equivalente di un 'verso rotazionale' alla ciclicità della ripetizione infinita, quella ciclicità che ogni conformazione di elementi spaziotemporali finiti che si muovono uniformemente nello spaziotempo e quindi immobili nello spaziotempo gli uni nei confronti degli altri, ogni complessione supposta isolata, autoreferenziale e a energia zero (energia potenziale gravitazionale (l'inizio della cascata) uguale alla somma di tutte le altre energie), sembra rendere obbligatoria.
Conseguenze pratiche della scienza kolibiana
La scelta tra finito o infinito nella descrizione dell'universo appare dunque la discriminante teorica fondamentale e solo il finito dà accesso a quella nozione generale di calcolo che rimane il tessuto connettivo di qualsiasi logica scientifica. La logica è calcolo, non esiste calcolo senza logica e logica senza calcolo. Comprendere qualcosa significa esplicitare i calcoli che vi sono implicati. L'informazione è solo una misura della complessità di un calcolo.
Ciò che, come l'infinito, rende incomprensibile un calcolo, rende incomprensibile qualsiasi cosa. Concepire una condotta morale che pretende di agire al di fuori di qualsiasi nozione di calcolo si rivela un atto di pura fantasia a cui sono sottesi dei calcoli.
La generalità del calcolo implica il determinismo e viceversa. Soltanto l'arbitrio puro, l'assoluta gratuità può sostituirsi a un calcolo, ma l'arbitrio puro non è concepibile se non come variazione casuale di frequenze, quindi come criterio e quindi causa e quindi calcolo che modifica numeri di probabilità che nascono da un criterio e quindi da una causa e quindi da un calcolo.
Se ogni cosa deriva, in ultima istanza, da infinite combinazioni di elementi raggruppati in numero finito, il Mistero cambia aspetto, assume una veste umile e dimessa, ma così facendo diventa un vero mistero insuperabile laddove tutti gli altri misteri in ghingheri, lustrati e ingioiellati, si riducono in toto alle veste sontuose e cangianti sotto le quali c'è semplicemente il nulla.
Se la realtà non si fonda su un'architettura di essenze, ma su un'armonia di calcoli che, anche se si frammenta in isole fenomeniche, conserva a ogni scala di riferimento, per le leggi di potenza conseguenti all'ipotesi di finitezza, una coerenza d'insieme e una rigenerazione di tipo frattale, le uniche forme di moralità e dignità percorribili da quello strano prodotto del computer universale che è l'essere umano mettono capo all'idea di Progetto ovvero di riorganizzazione cosciente dei componenti strutturali della realtà planetaria.
Questo paradossale organismo che, sotto determinati limiti, può controllare e condizionare il suo ambiente, deve scoprire quella che, metaforicamente parlando, risulterebbe la componente gravitazionale dei calcoli, l'energia negativa capace di tenere sotto controllo la deflagrazione entropica implicita nell'applicazione sistematica delle regole locali. Esse fanno crescere il disordine-informazione semplicemente perché devono sviluppare tutte le combinazioni accessibili al particolare 'programma' o gruppo collegato di programmi implementati in questo particolare universo e ogni nuova combinazione insorgente infittisce la rete dei calcoli e quindi delle combinazioni.
Il discorso è condotto in modo molto fantasioso e analogico, ma chi pensa di poter precisare in termini più rigorosi rilievi filosofici così fondamentali probabilmente coltiva soltanto delle pie illusioni, a meno che non si dedichi a definire matematicamente le leggi combinatorie della potenza generatrice.
L'umanità può anche essere considerata un culmine dell'evoluzione se progetta ovvero dispone scientemente le coordinate, le variabili e i parametri della propria presenza complessiva, altrimenti l'umanità risulta soltanto, né più e né meno, un esperimento fallito della Natura.
Generalità sulla metafisica kolibiana.
Ogni mondo sorge per intero come rappresentazione di un singolo cervello. Ogni essere umano può conoscere soltanto il particolare mondo costruito dal proprio cervello. Se si sostituisce cervello con 'anima' la verità apodittica delle due precedenti proposizioni non cambia, una monadologia spiritualista non comporta alcun progresso teoretico, nessuna risoluzione di nodi problematici, consiste in una pura e semplice dilatazione del sé a fini magico-terapeutici.
Finché si limita alle emozioni e ai desideri, il cervello-anima, in analogia, forse, con quello che oscuramente accade nei primi mesi di vita, può anche credersi Dio e rivendicare un arbitrio possessivo sul mondo che ha indubitabilmente creato, ma il mondo creato s'impone al creatore, prima di ogni altra istanza, attraverso i vincoli biologici della sopravvivenza. Esplorando le condizioni elementari di sopravvivenza, tutti gli altri vincoli derivano consequenzialmente, compresi quelli logici e causali che sovrintendono al collegamento di esperienze che s'impongono come se provenissero 'da fuori'.
A questo punto l'anima pensante, per conservarsi la dote di valore universale che si è pregiudizialmente attribuita, si affida alla giurisdizione di un Super-creatore costruito a immagine e somiglianza di se stessa, invece il cervello raziocinante si riconosce punto di convergenza forte in una trama molto più vasta, retta da leggi e princìpi analoghi a quelli, logici e matematici, che è costretto a rispettare quando sviluppa ragionamenti che non siano dei puri deliri.
Le differenti conseguenze pratiche delle due metafisiche.
In un caso come nell'altro, la realtà autentica, sotto forma di natura divina o sub specie noumenica, rimane inconoscibile, la mente divina perché dotata di una logica inarrivabile per le deboli facoltà umane, la 'cosa in sé' perché intrinsecamente contraddittoria e perfino innominabile.
La partita dunque non si gioca sull'ontologia, ma sulla concepibilità e sulle sue regole: ciò che l'uomo può sensatamente concepire stabilisce il confine invalicabile di ogni discorso sul mondo e sulla realtà.
Sul 'sensatamente' sussiste una netta incompatibilità di visione tra anima doc e cervello propriamente detto: un'anima è convinta che ogni eruzione o escrezione spontanea delle sue, se adeguatamente depurata, conservi qualcosa dell'origine eccelsa, il cervello riflette su condizioni, ineluttabilità e strutture dei mezzi di cui dispone per interpretare e manipolare le esperienze e, riformulando la natura di tali mezzi, riformula la natura del mondo.
Una strategia interessata agli strumenti della conoscenza più che agli oggetti da conoscere (vedi 'incomprensibile potere della matematica', principio di equivalenza, simmetrie di gauge eccetera) può funzionare soltanto se strumenti e oggetti, cervello e mondo, località e globalità, obbediscono a criteri comuni e questi consentono simulazioni di parti molto più estese da parte delle sterminate combinazioni di parti molto più dense.
Paradossalmente, per le selezioni dei comportamenti operate da ambienti sociali che nell'ultima fase (forse in via di conclusione) della storia umana hanno dominato rispetto ai filtri non culturali, le invenzioni dello spiritualismo appaiono pregne di senso e di valore, la concretezza razionalista sembra mettere capo a giochi astratti che si mangiano la coda.
Tutte le ricadute pratiche della tecnologia che rendono più facile e comoda la vita, come anche gli asservimenti e le alienazioni dovute alle necessità di un'efficienza concessa alle disposizioni private di alcuni, derivano da contorti lambiccamenti di strani esemplari chiusi in torri d'avorio, tutti i principali conflitti incluse le terrificanti guerre civili, come anche le dolci certezze relative a un trionfo finale della giustizia, derivano da amori di popolo e sicure intuizioni di personalità forti convinte della universalità delle proprie ragioni.
Tra la parola di Dio e il Progetto kolibiano scegliete voi.
Vengono trattate in via preliminare e sintetica tre questioni di primaria importanza al fine d'intendere l'impostazione del pensiero kolibiano: a) la natura illusoria e partigiana di qualsiasi codice etico di valenza generale e pubblica: b) la pericolosità delle filosofie antropocentriche, laiche o religiose; c) la progettualità come strategia obbligata per la specie dominante di un pianeta. Questa sezione riguarda l'etica pubblica di qualsiasi tipo, la sua completa manovrabilità attraverso le leve economiche, le drammatiche contraddizioni che la pervadono soprattutto quando si nutre di abnegazione e sacrifici, l'assoluta inconciliabilità con le libere ovvero spontanee esigenze individuali, che infatti tende a condizionare e conculcare.
Sarebbe molto utile e comodo per tutti se ogni etica pubblica agibile nel concreto riuscisse a sostanziarsi in un decalogo di prescrizioni desunte da una metafisica che si collochi agli antipodi delle convenzioni consapevolmente e programmaticamente astratte adottate invece dalla regolamentazione progettuale. Questa metafisica rivela un solo, purtroppo decisivo, difetto: esiste solo nei desideri e nei sogni.
Come già sottolineato dalla tradizione filosofica marxista (abbandonata dalla 'sinistra di governo' a tutto vantaggio di comodi simbolismi confessionali) e rivisto e perfino perfezionato alla luce di un liberalismo scientifico tradito purtroppo, soprattutto negli ultimi tempi, da eccessivi ottimismi provvidenzialistici (in una convergenza da gelataio sulla spiaggia coordinata con gli apostati marxiani), poiché non riceve alcun conforto legato allo sviluppo reale di fatti ed eventi, un'autentica etica pubblica non può esistere se non in forme artificiose e velleitarie, dato che comunque, prima o poi, deve calarsi all'interno di funzioni relative e localizzate, parziali e settoriali.
Logiche di sistema (di un sistema artificialmente isolato sottoposto a vincoli di sopravvivenza) impongono allora il ricorso soverchiante o alla regolamentazione artificiale (il progetto) o alla convenzione impositiva (il principio di autorità) o a entrambi i metodi e ciò per evitare una classica eterogenesi dei fini o anche soltanto per non soccombere al rumore di fondo dei disturbi aleatori.
Precisazione del concetto
Una etica pubblica di qualsiasi genere finisce inevitabilmente con il prevaricare sui vari, spesso contrastanti, interessi individuali, si attiva cioè allo scopo di distribuire oneri e vantaggi in modo programmaticamente diverso rispetto a un decorso automatico degli avvenimenti lasciati a se stessi. Poiché le discriminazioni puntuali e gli specifici arbitrati che così si determinano non possono accedere, per forza di cose, ad alcun tipo di concordia generale, si rende necessario un quadro di riferimenti direttivi ispirati o all'assolutismo della convenzione dogmatica o al radicalismo del disegno funzionale preventivamente, almeno a grandi linee, accettato.
La tradizione politica corrente ha potuto finora sfumare e confondere i termini ultimativi di questa polarità, ma il rifiuto dell'alternativa, intesa come scelta preliminare e strategica e non occasionale e tattica, denuncia la tendenza a sopravvivere pragmaticamente di espedienti e scappatoie: purtroppo il cedevole terreno di mezzo in cui si barcamena la prassi abitudinaria acquista inevitabilmente i caratteri di un filtro ambientale che, per le forme concrete di una socialità giocoforza subordinata a esigenze economiche, concede le maggiori chance di perseveranza e successo ad alcune specie di animali politici e questi, ahimè, si palesano perlopiù contraddistinte dai tratti tipici riferibili a ipocrisia, tatticismo, machiavellismo, trasformismo, opportunismo, più dosi varie, spesso difficilmente distinguibili, di particolari fanatismi, tutto ciò, beninteso, a prescindere dalla particolare collocazione ideologica.
Poiché, a differenza delle specie animali vere e proprie, le specie psicologiche e sociali che interagiscono con gli ambienti artificiali umani possono modificare scientemente l'ambiente di competenza in modo da favorire se stesse, lo sviluppo dei vantaggi selettivi risulta di tipo auto-catalitico, ma il gioco non è sostenibile se non rispetta una molteplicità di vincoli estranei alla volontà e alla coscienza umane. Questi vincoli fanno rientrare dalla porta il corno delle polarità inconciliabili che è stato appena gettato dalla finestra.
Conclusioni relative al punto a).
Ogni etica pubblica si traduce così, grazie anche alla collaborazione involontaria dei più ingenui, sinceri e bene intenzionati, nel travestimento d'interessi parziali che tentano di acquisire maggior forza e maggior credito attribuendosi il massimo possibile e desiderabile di un altrettanto fantomatico interesse comune e generale, la cui definizione, in assenza di una ontologia condivisa (a cui tende a sopperire la pretesa, illusa e illudente, dei miti religiosi), dovrebbe essere preventivamente stabilita secondo specifiche linee costruttive, privilegiando l'uno o l'altro dei molteplici aspetti strutturali.
Un supporto fortemente esemplificativo di un tale punto di vista, lo fornisce la questione delicatissima dell'immigrazione, fortemente condizionata in Italia dalla potentissima lobby cattolica. Le ONG che 'salvano vite' si ispirano a valori superiori, a un'etica inossidabile, non si preoccupano quindi di un bilancio finale che richiede di valutare sottili meccanismi di mosse e contromosse relative al costo economico di un trasporto reso più facile e redditizio per gli organizzatori, ma anche più fragile e rischioso per i 'clienti', da un presidio di soccorritori persistendo il quale si rende possibile il ricorso a bagnarole e gommoni rattoppati (a fondo perduto in quanto quasi certamente sequestrati), mezzi insomma appena sufficienti a superare le acque territoriali. Così il soccorso non può ormai essere interrotto senza generare automaticamente una catastrofe umanitaria annunciata e quindi le ONG e i mezzi della marina militare, diventano, volenti o nolenti, parti integranti di un business migratorio che da essi trae linfa vitale, un business che oltretutto conviene a ben determinati ceti sociali della nazione ospitante, ma non a quelli, compresi gli immigrati della precedente ondata, che possono aspirare soltanto alle famose occupazioni sgradevoli che nessuno vuole più fare (la cui retribuzione è quindi condizionata da un'offerta creata artificialmente) e ai quali, come ripiego, non rimane che offrirsi sottocosto oppure offrirsi a più sottocosto ancora, avendone la possibilità, per occupazioni più gradevoli che rimangono comunque di difficilissimo accesso.
Dato che è semplicemente assurdo pensare che l'attuale tenore medio di vita delle nazioni occidentali possa essere esteso a tutte le popolazioni del mondo senza generare un tracollo (sissignori, un'apocalisse!) delle dinamiche planetarie (ricordiamoci sempre che le vituperatissime, biecamente catastrofiste (e, finora, abbastanza azzeccate) previsioni del Club di Roma e simili prevedevano effetti sensibilmente negativi non prima del 2020), l'immigrazione comporta una ridistribuzione di redditi forzata in cui chi ci rimette è obbligato pure a far buon viso a cattivo gioco, altrimenti rivela una natura infida e cattiva, meritevole di ogni reprimenda.
Dato che, comunque, una ridistribuzione dovrà avvenire, allo stato attuale delle cose si tratta di scegliere tra una ridistribuzione progettuale o una ridistribuzione imposta sotto mentite spoglie, ma al potere conviene molto di più proporre l'alternativa nei termini etici di una lotta tra il bene e il male, secondo le ricette sfornate dagli interpreti ufficiali di Supreme Volontà che si abbassano democraticamente a dimorare vicinissimo a noi per educare il fedele collaborativo circa le condotte di vita che facilitano l'accesso alla felicità ultraterrena.
L'aspetto propositivo.
Occorre dunque sostituire al tribalismo dei sinceri e nobili ideali, troppo gratificante in sé e per sé e quindi oggetto di consumo e compravendita, un modello di costruzione tecnologica che da sempre, piaccia oppure no, si trova al cuore di ogni solida evoluzione storica e politica. Tale modello si può realisticamente e proficuamente dilatare, non anteponendo quello che, per la situazione biologica ed esistenziale dell'uomo, non potrà mai essere anteposto, bensì, al contrario, facendo del 'riduzionismo' intelligente. Focalizzare le normative di una società sugli aspetti economici e ingegneristici crea ovviamente specifici e condizionanti vincoli di compatibilità, ma questi, se si sfata una volta per tutte ogni assurda leggenda relativa a qualche 'mano invisibile', sono configurabili al meglio e, dopo che siano stati predisposti e accettati, si può cominciare a discutere seriamente su come assegnare ai singoli individui ogni altra discrezionalità possibile: questo è autentico liberalismo della liberazione, non certo quello che si sfrena in iperboli di principio e poi trascura esigenze materiali che già rendono di fatto l'individuo (o lo renderanno molto presto) schiavo del caso, della necessità e soprattutto della forza maggiore.
Diversamente, metodi e strategie lontani dalla progettazione olista e centralista avalleranno di fatto, molto più di quanto stiano già facendo, una gestione del futuro interamente rimessa a corti oligarchiche dove professori di etica e di valori, maestri di cerimonia e comunicazione, impresari di giochi, eventi e spettacoli dipenderanno strettamente dai medesimi centri di consulenza e supervisione, inseparabili gli uni dagli altri, nonché ispirati da una saggezza divina unica e assoluta.
Precisazioni sull'anti-cattolicesimo kolibiano.
Il rifiuto kolibiano delle ideologie confessionali in genere e del cattolicesimo in particolare (in quanto forma mentis tipica del mondialismo paternalisticamente autoritario) si radica nella tradizione del naturalismo scientifico liberale, quasi sempre minoritario. L'avversione riguarda le premesse, i risvolti e le conseguenze dottrinali, non una indole antropologica a cui i kolibiani non attribuiscono mai, in alcuna circostanza, una univocità tale che, se anche si rivelasse una ipotesi sensata, non sarebbe ricavabile comunque dai modi di pensiero. La maggior parte della gente, infatti, subisce suggestioni emotive che inducono simpatie o antipatie, ma, a parte la loro ondivaga suscettibilità, passare da queste a una filosofia non è per niente automatico, anche perché nella maggior parte dei casi quello che la gente pensa non si organizza in una filosofia coerente e compiuta.
Si può stabilire superficialmente che cosa un essere umano professa di credere, ma non si potrà mai determinare con l'auspicabile certezza che cosa crede di credere
Credere in Dio non rappresenta un atteggiamento cognitivo che possa dare adito a distinzioni categoriche significative, dato che nessuno riesce a fornire una nozione di Dio che egli stesso, se possiede un briciolo di senno, non consideri indegna e caricaturale.
Un numero finito di bit d'informazione non può rendere conto di un'entità che, per definizione, è infinita, quindi ogni religione è una pura e semplice contraddizione in termini se non si contiene volontariamente in un mutismo mistico, in un riserbo apofatico (il matematico Cantor, nella sua parabola depressiva, trovò conforto nel sostegno dei teologi, ma gli sarebbe bastato considerare la complessità algoritmica dell'intera sua opera per rendersi conto di come la sua torre infinita di infiniti si riducesse a illusionismo tecnico, a miraggio teoretico).
Un credo confessionale di qualsiasi tipo sopravvive in filosofia come cimelio storico dell'era pre-scientifica e, in quanto categoria sociologica, rientra nel novero delle istanze politiche che sfruttano inclinazioni fondamentali della specie a favore d'interessi che potrebbero anche reputarsi meditati e legittimi, ma fanno carte false se rifiutano di essere definiti interessi e pretendono una consacrazione sovrannaturale.
La ipostasi in valore e sostanza etica di certe inclinazioni costituisce precisamente il nodo cruciale su cui si basa il dissenso kolibiano, secondo il quale ogni caratteristica umana deve essere rapportata a un quadro complessivo di riferimenti, non può essere giudicata isolatamente, né proporsi a ricetto di privilegi e diritti metafisici, garantiti in virtù della caratteristica medesima.
Quanto detto per la religiosità si applica pari pari a ogni metafisica laica dei valori assoluti, dell'etica disincarnata e ineffabilmente avulsa da gratificazioni e obbiettivi consci o inconsci, da istinti fisiologici o mediazioni simboliche, da conseguenze relative a terzi.
Il surrogato kolibiano di Dio
Se i 5 milioni circa di bit d'informazione della Bibbia Kolibiana fossero interamente dedicati a definire la natura di Dio, risulterebbero ridicolmente inadeguati anche se ogni kolibiano che vi ha contribuito fosse stato illuminato dallo Spirito Santo, mentre la stessa Bikappa fornisce forse una pallidissima idea di quello che potrebbe candidarsi a surrogato di un concetto alquanto enigmatico di divinità generatrice: un universo composto da un numero finito di entità idealmente descrivibili da sequenze limitate di simboli che esprimono anche i vari tipi di collegamento e le varie stratificazioni gerarchiche.
Se immaginassimo di collegare in un unico testo, in modo logico e coerente, tutte le pubblicazioni ancora in auge dell'intera bibliografia scientifica di qualsiasi genere (ogni esemplare tradotto nella stessa lingua), con quelle migliaia di miliardi di bit combinati insieme renderemmo molto meno sfocata quella rappresentazione e costituiremmo una replica dell'universo reale che in qualche modo, a differenza di quello che potrà mai accadere nei confronti di un Dio tradizionale, di un Dio serio e rispettabile, costituirebbe un modello insufficiente ma effettivo, una simulazione entro certi limiti credibile, di un universo reale finito, di un universo, cioè, in cui possiamo ritenere valida una nozione intuitiva di calcolo senza la quale una qualsiasi filosofia della scienza, annaspando nel vuoto, non saprebbe giustificare certe capacità di intervento e previsione, nonché tutte le possibilità demiurgiche della tecnologia.
Che una qualsiasi costruzione teorica possa candidarsi a modello della realtà pur essendo costituita in sostanza da una sequenza di 0 e di 1 può sembrare una pretesa assurda, eppure, se immaginiamo di riconfigurare quella sequenza in forme spaziotemporali analogamente a quanto avviene per una traduzione grafica in un testo leggibile, ci riavviciniamo molto a una idea tradizionale e credibile di simulazione. Qualsiasi sequenza di bit che contiene in sé le istruzioni per un riarrangiamento opportuno può rappresentare una specie di realtà 'liofilizzata', da cui non è stata tolta l'acqua, ma determinati ingredienti strutturali a cui è possibile sopperire in una seconda fase. Di sicuro l'universo non è costituito da bit più di quanto non sia costituito da intricatissimi pattern di neuroni accesi o spenti (si sta schematizzando), eppure l'universo esiste per noi solo come pattern di neuroni accesi e spenti, che un organismo umano può evidentemente tradurre in una progressione di simboli linguistici. A ogni passaggio si perde informazione, ma come e quanta, rimane impossibile da stabilire in modo esauriente (altrimenti dai vari tipi di linguaggi, disponendo di un tempo illimitato, si potrebbe ricostituire un intero universo)
Ovviamente un universo con un numero infinito di entità collegate in modo causale, anche se concepito secondo criteri scientifici e non con il vertiginoso e arbitrario atto di magia dei monoteismi tradizionali, resterebbe comunque al di là di qualsiasi concezione accessibile alla mente umana.
Forse è utile osservare qui di passaggio che una curvatura nulla o negativa dell'universo non è sufficiente a decretarne l'infinità, sia perché potrebbe generare processi d'inversione legati, per esempio, all'energia del vuoto (vedi anche dualità della M-teoria, simmetria R e 1/R eccetera), sia perché una particolare topologia potrebbe 'incollare' parti differenti in un tutto concluso. D'altra parte, è bene rimarcare come una comprensione a grandi (grandissime!) linee dell'universo basata sulla nozione di calcolo conseguente alla tesi di Church (fino a prova contraria non esistono criteri diversi) implica la finitezza degli elementi costitutivi come dei riferimenti descrittivi, anche se tale distinzione è molto problematica, dato che all'interno di una qualsiasi percezione biologica le due categorie sono di sicuro intercomunicanti e intercambiabili.
Questo secondo punto (il punto b) dell'esordio) coinvolge un enigma assolutamente cruciale (il dubbio supremo del Sommo Anonimo) che, se e quando non venisse preso minimamente in considerazione, paleserebbe un possibile indice di stupidità umana. Con il termine 'stupidità' si allude, in modo più o meno fantasioso, a un difetto fondamentale d'impostazione della specie, un 'lack of fitness' che impedirà all'umanità di perdurare, almeno nelle attuali forme e tendenze organizzative, oltre il limite dei proverbiali 'pochi, pochissimi' secoli'. La stupidità o comunque la si voglia chiamare, è umana e non individuale, dato che un individuo potrebbe sottrarsi a certe scelte per puro calcolo, il che produce valutazioni diverse, ma non quelle relative a carenze intellettuali. Se il ritardo per interesse delle classi egemoni portasse al punto di svolta irrimediabile, ci conducesse cioè alla soglia oltrepassata la quale, anche se le probabilità soggettive giocano ancora a favore di un rinvio, i rimedi sarebbero comunque tardivi e inefficaci, ciò autorizzerebbe a maggior ragione una distinzione netta tra stupidità (o intelligenza) personale e intelligenza (o stupidità) generalmente umana.
I kolibiani offrono una lettura del mondo che, come le previsioni meteorologiche, presenta un certo grado di attendibilità formulabile in termini percentuali.
Prescindendo per il momento dalla questione per altro importantissima di che cosa significhi 'attendibile' (riguarda probabilità soggettive (bayesiane) da attribuire a una variabilità temporale? Una distribuzione di incidenze nell'alternarsi di casi distribuiti nel corso del tempo? Proporzioni di oggettività compresenti? Di combinazioni astratte? Di sezioni ('fogliazioni') in certi spazi ideali degli eventi? Eccetera), quale percentuale conferirebbe una stima adeguata alla credibilità delle tesi kolibiane?
Ma soprattutto: quale percentuale minima dovrebbe essere giudicata preoccupante e indurre a prendere seriamente e immediatamente in considerazione l'approccio progettuale?
Proporre e giustificare delle proprie stime numeriche avvalora lo scambio libero delle opinioni e un dialogo democratico serio, ma rifiutarsi di ragionare in termini di stime e prescindere completamente da valutazioni quantitative per evitare inferenze e consequenzialità sgradevoli, impedendo altresì che le relative ipotesi si diffondano e attivino inderogabili segnali di allarme, in quali tipi di prassi sociologica o esercizio dialettico rientra?
La condanna dell'allarmismo rivela punte massimali di idiozia solo in presenza di un pericolo oggettivo ma, se tale pericolo esistesse, che cosa permetterebbe di accorgersene?
E' eccessivo sostenere che, se un certo atteggiamento impedisce di per se stesso il riscontro e la definizione di una certa classe di pericoli capitali, qualsiasi condanna dell'allarmismo che vi si connettesse si rivelerebbe automaticamente idiota?
Solo la centralità del Progetto e delle metodologie a esso collegate permetterebbero all'umanità di essere protagonista e non succube dell'arbitrio ontologico.
Appare chiaro ed evidente alla stregua di un vero e proprio teorema di logica: se l'etica pubblica si riduce a canoni organizzativi e prescrittivi astutamente edulcorati o mascherati, mentre la morale privata diventa inefficace appena oltre il raggio d'azione dei riflessi istintivi e delle fenomenologie sentimentali, l'approccio progettuale rimane la sola strategia capace di traghettare verso la terapia dello stato stazionario, senza traumi e imposizioni dispotiche, una economia di mercato legata a filo doppio a devastanti e incontrollabili indici di crescita. Sia che la crescita economica realizzi un incremento netto del benessere medio effettivo, sia che ne crei solo l'illusione da 'panem et circenses' e magari neppure quella, la crescita risulta essenziale per mantenere un minimo di coesione funzionale e per non approfondire sotto la soglia di guardia le fratture del corpo sociale, ma, già da ora, da subito (come sarà dimostrato nel seguito. ndc), una crescita netta continua comporta rischi insostenibili a prescindere dal grado di raffinamento tecnologico.
Breve analisi preliminare del fanatismo.
Si blatera tanto di scienza e di valori, di ciò che, rispettivamente sul piano dell'essere o del dover essere, resta generalmente valido e 'condivisibile con metodo' al di là di gusti, pregiudizi, opinioni perlopiù contingenti e aleatori. Così facendo si tende a trascurare tutto un settore della fenomenologia umana che viene ascritto all'ambito della anomalia marginale quando invece risulta, a conti fatti bene, parte integrante e anzi dominante di una cosiddetta e non meglio definita normalità: alludo allo stile di vita assunto come una seconda pelle, a quelle inclinazioni e abitudini che rivelerebbero l'essenza di una persona e che si connettono profondamente al senso a doppia faccia, rivolto all'interno e all'esterno, di una fantomatica identità, allo pseudo-concetto di una natura umana che è illimitatamente malleabile, ma tende, nell'interpretazione del singolo vissuto, a contrarsi e concrezionarsi in base all'educazione, all'esperienza e, soprattutto, allo spirito di adattamento. Quando questa tipologia di caratteri, che in ultima istanza possiamo definire etnologici, prevarica su quella che è l'unica prerogativa di specie generalmente e specificamente umana, ovvero la razionalità, si creano le premesse per quella che è l'unica affezione di specie generalmente e specificamente umana, ovvero il fanatismo.
Critica del fanatismo come atteggiamento comandato da un efficientismo patologico che potrà essere emendato senza riflussi anarchici e luddisti soltanto dalla società stazionaria e progettuale secondo il modello centralista della Holding Nazione. Critica implicita di ogni decentramento come soluzione illusoria sia sul fronte ambientale (dispersione = entropia) che sul piano sociale (mercato = oligarchia) che con riguardi alla libera espressività dei singoli (bisogno = dipendenza), secondo meccanismi che irridono gli sforzi e le inventive individuali.
La scommessa e la sfida cruciali che attendono l'umanità alla resa dei conti riguardano la possibilità di sopravvivere senza fanatismo: ce la faranno i nostri eroi a cavarsela dopo aver rinunciato a quel pungolo possente che consiste nell'esaltazione parossistica di alcune tra quelle che alla fin fine altro non sono che semplici inclinazioni e predisposizioni fisiologiche, mentali e caratteriali, di individui che non ce la fanno proprio a considerarsi realizzati se non prevaricano in qualche modo sugli altri?
La risposta sarebbe enormemente facilitata se si potesse disporre di un resoconto empirico purtroppo indisponibile: il calo (o magari, chissà, volendo fantasticare, l'incremento) di dinamismo ed efficienza dopo che si fosse sospeso completamente e all'improvviso e per la durata di un anno almeno il commercio delle droghe stimolanti.
Prima di proseguire, sarebbe opportuno dare una definizione di fanatismo. Eccola, breve, sintetica e chiara: è l'entusiasmo nel compiere azioni sgradevoli sia per sé che per gli altri.
Il fanatismo è un tratto etologico tipicamente umano per il semplice motivo che solo l'uomo, in una proporzione di circa l'80% del tempo lavorativo inteso come valore medio complessivo, è costretto a svolgere incombenze tutt'altro che gradevoli, per le quali necessita comunque di stimoli che, proprio perché 'innaturali' sotto qualunque punto di vista, spalancano l'accesso alle versioni e interpretazioni più imprevedibili.
Ogni sistema politico-economico, al termine di un ciclo naturale di evoluzione e decadenza (ridotto alla sola decadenza quando si riscontrano patologie deformanti alla nascita) necessita del fanatismo per prolungare artificialmente la durata.
Il fanatismo è tipico dei regimi dittatoriali dove gli elementi costrittivi predominano su quelli spontanei e sta diventando obbligatorio nell'attuale economicismo globalista e liberista, in cui l'automazione e la sofisticazione delle procedure operative e direttive gestite da una élite qualificata diradano fino a far scomparire del tutto i normali disbrighi a misura d'uomo, concentrano ai piani alti le funzioni qualificanti almeno quanto competitive e stressanti e lasciano moltitudini in crescita intorno alla base a contendersi l'ingaggio in attività miserabili la cui remunerazione tende a diventare insufficiente secondo il metro dell'occidentale pretenzioso e viziato oppure a diventare insufficienti e basta quando non coprono il costo della vita.
Tali attività, aspetti retributivi a parte, sarebbero più sopportabili se la loro relativa scarsità in termini di offerta non comportasse compromessi avvilenti aggravati dalla necessità di mostrarsi entusiasti e disposti a fare carte false per tenerseli; d'altro canto, le professioni di tipo privilegiato sarebbero appetibili e basta se anche qui, almeno per le fasce meno consolidate e garantite, non vigesse l'obbligo della prestazione eclatante, il vincolo imperativo di esibire quell'eccellenza che deve essere continuamente dimostrata per conservare la tessera di appartenenza al club, il cui rinnovo richiede il visto di supervisori ai quali sostanzialmente è richiesta una sola abilità: la poker face del negriero di modi affabili e gentili (qui si sta facendo ovviamente l'ipotesi che il sistema funzioni, come sembra che avvenga, non si sa per quanto ancora, in Cina, Stati Uniti, varie nazioni nord-boreali e qui e là per il mondo: dove funziona, ovvero produce consapevolmente i danni della propria efficienza, formalismi e regole non guardano in faccia a nessuno e non si preoccupano di valutare il 'lato umano' nel caso di effrazioni 'in basso' o l'influenza e il prestigio in caso di infrazioni 'in alto', mentre dove funziona meno, ovvero produce gli stessi danni dell'efficienza anarchica senza un'efficienza neppure anarchica, le eccezioni 'umane', con coefficiente proporzionale al livello in cui operano, intervengono come un costante e assordante rumore di fondo.
L'aspetto ecologico.
Ogni frenesia invasante, celebrata da parossismi etici e meritocratici, si rivela, manco a dirlo, molto poco ambientalista, per cui, quando vi imbattete in una manifestazione benemerita indetta per una buona causa ambientale, controllate sempre che non sia sponsorizzata da qualche multinazionale: se lo fosse, sappiate che si tratta dell'abile mossa di ottimi 'comunicatori' attraverso cui viene comunicato un certo stock d'interventi riparatori nel mentre che una percentuale molto più alta d'interventi devastatori vengono 'non comunicati' con altrettanta abilità.
Tipi di fanatismo.
Naturalmente, anche senza riferirsi a integralismi, radicalismi e terrorismi, esistono vari tipi di fanatismo nella prassi ordinaria: pensare che una vita di buone azioni o di misfatti si commisuri a un'eternità di beatitudine o punizione è uno di quelli; che qualcuno, al di là di oggettività stravaganti e incontrollabili, possa nutrire giustificazioni etiche di qualsiasi tipo per possedere redditi e ricchezze migliaia di volte superiori a quelle di un altro essere umano, è un altro.
E' un fatto: la maggior parte delle persone che conseguono risultati fuori dal comune resta convinta di beneficiare dell'assistenza di uno sponsor cosmico, i più modesti si accontentano dell'angelo personale, i più ambiziosi rivendicano l'intervento diretto di Dio, il che dovrebbe perlomeno suscitare il sospetto delle varie autorità (per esempio di un comitato olimpico nel caso di eventi sportivi) circa una violazione delle regole di concorrenza e avviare inoltre l'apertura di una indagine teologica da parte delle congregazioni che si propongono ufficialmente una interpretazione dei misteriosi disegni divini.
Niente come certe perdite evidenti del senso delle proporzioni rivela pecche capitali nei criteri fondativi di una civiltà.
Se lo stimolo che ricerca il benessere dovrà sempre fondarsi su tali plinti e pietre angolari, immersi in un terreno di cui non si conosce la consistenza perché si è sempre evitata scaramanticamente ogni indagine, se mai si deciderà di ricorrere alla semplice volontà e possibilità di offrire un contributo calmo, meditato, sorvegliato e adeguatamente ricompensato a una macchina sociale razionalmente progettata, beh, permettetemi di essere molto scettico riguardo al futuro dell'umanità.
Ulteriori precisazioni sul tema del fanatismo.
Tra le degenerazioni ideologiche, il fanatismo è quella che maggiormente denuncia il punto di non ritorno della crisi culturale di una società e, più generalmente, di una civiltà: rivela infatti l'inesistenza di motivazioni solide e concrete per impostare e sviluppare dei soddisfacenti percorsi di vita e di carriera da parte di individui dotati di una sufficiente dose di libertà. La libertà va intesa, ovviamente, alla stregua di esplicazione fluente delle naturali tendenze fisiologiche e non nel senso di un libero arbitrio la cui supposizione in ottica spiritualista si connette a concetti di responsabilità che sono sempre stati adibiti dalle etiche correnti a strumenti di limitazione e costrizione, i soli utilizzabili al di fuori della prospettiva progettuale.
Fanatico è colui che deve ricorrere a stimoli e propulsioni artificiali, forzosi, contingenti, ossessivamente dilatati e lambiccati, per accedere alle risorse indispensabili per mantenere l'integrità corporea e mentale.
I fanatici abbonderanno così all'interno di fasce povere e minoritarie, avulse dal contesto millenario che ha forgiato caratteristiche geniche esprimibili a livello comportamentale (contesto abbandonato per migrazione oppure distrutto dall'invadenza colonizzatrice di altre forme sociali) oppure, in modo meno evidente, ma non per questo (anzi!) meno foriero di disturbi essenziali, in normali ambiti lavorativi, resi strani, eterocliti, eccentrici, atomistici, paradossali e quindi ostili a inclinazioni e istinti fondamentali della specie, da un lato per esigenze di specializzazione all'interno di una complessità crescente che rende inutili e controproducenti a livello pratico e operativo le visioni d'insieme e, dall'altro, per una competitività sempre più esasperata che costringe a ricercare la distinzione e l'eccellenza nelle mansioni e attitudine più bizzarre e slegate da ogni sano rapporto tra integrità e varietà, tra controllo e varietà, tra comprensione e interesse.
Ancora sul fanatismo.
Il contesto economico liberista e globalizzato rischia di diventare un setaccio darwiniano di selezione attiva e incessante di fanatismo: fanatismo dell'internazionalismo a oltranza, dell'apolide continuamente in viaggio che lega con tutti, ma non si capisce come è perché, visto che nei contesti multietnici la comunicazione verbale s'impoverisce per la standardizzazione liofilizzata di canoni linguistici passe par tout e la codifica dei comportamenti secondo gli stereotipi minimalisti dell'igiene pseudo-umanitaria (una moderna religione ecumenica che dietro passioni spurie e artificiali nasconde il dominio assolutista delle formalità funzionali); fanatismo dei galoppini costretti a fiorire di sorrisi obbligatori ed entusiasmi comandati, a dimostrare la spontaneità volontaria e il dinamismo involontario delle deferenze ostentate, il tutto iscritto nei galatei della rispettabilità e nei manuali tecnici della resa meccanica ottimale; fanatismo dei capi a scadenza che devono immolare una personalità accattivante e comunicativa sull'altare del risultato a oltranza, questo Hermes ambiguo e truffaldino che fa la spola tra le loro scrivanie e i livelli di una trascendenza suprema che nessuno sa bene in che cosa consista, nemmeno gli stessi, rarissimi, trascendenti supremi.
Un andazzo tanto convulso e bislacco non può evitare strappi improvvisi e insidiose instabilità, è il motivo per cui l'aristocrazia illuminata intenderebbe sostituirvi al più presto qualcosa di più solido e tradizionale: la cristallizzazione delle gerarchie consolidate tramite un principio teologico di verità e autorità, una specie di segnaletica trascendente che spiana, organizza e disciplina l'ammasso formicolante della base, il compromesso storico mondiale tra i teocrati delle anime responsabili davanti a Dio e i tecnocrati delle ideologie collettive e dei dogmi economici.
La sconfitta del fanatismo si ottiene tramite, non la glorificazione del lavoro in quanto tale, che rappresenta una forma tipica, non certo delle migliori, di fanatismo, bensì un verificabile, immediato ritorno di convenienza realizzato attraverso la procedura lavorativa.
Se ci si limita al mondo del lavoro e della produttività economica (le uniche forme di attività che i kolibiani intendono regolare progettualmente in modo da eliminare quelle dipendenze che fanno dello stato di bisogno il vero padrone della quasi totalità delle esistenze), un'adesione convinta alle modalità operative può essere ottenuta in un solo modo effettivo: restituendo alle mansioni a cui il singolo deve soggiacere la concretezza di quelle operazioni che si risolvono senz'altro e nell'immediato in un risultato soddisfacente e riconoscibile.
Questo va inteso, ovviamente, cum grano salis, non può e non deve tradursi in monetizzazioni, gratificazioni od oggettivazioni brevi manu e pronto cassa da aggiungere a un'equa distribuzione: significa semplicemente che il singolo prestatore d'opera deve poter realizzare una plausibile congruità della propria prestazione ai fini dell'utilità generica e/o della crescita della ricchezza comuni, deve insomma possedere la piena coscienza di come il suo contributo, per quanto minuscolo se considerato parte di una totalità, s'iscriva comunque in un complesso d'interventi quotidiani equivalenti, studiato ai fini di una conservazione intelligente e di una crescita meditata del benessere in quella società pianificata al meglio di cui è azionista e contitolare né più e né meno di tutti gli altri.
Solo un approccio progettuale può permettersi di fare a meno di un 20% circa di fanatici e un 80% circa di schiavi, secondo una descrizione evidentemente estremizzata e schematica di situazioni molto più variegate, di assetti organizzativi in cui gradi variabili di democrazia sostanziale legati a filo doppio a certi livelli di benessere possono mitigare o meno caratteristiche le cui risultanze terminali rimangono comunque quelle descritte: fanatismo e schiavitù, brevetti esclusivi della specie homo ss inarrivabili per ogni altra specie animale.
Se una pianificazione di questo tipo risultasse formulabile e realizzabile (con retribuzioni orarie canoniche opportunamente divise per fasce), ciascuno, a seconda delle proprie predisposizioni, potrebbe decidere di incrementare impegno e dedizione per libera scelta, permettendo così impulsi e modulazioni di efficienza superiori a quelli che attualmente vengono disordinatamente conseguiti attraverso i miti e le chimere dell'indipendenza e del successo.
Obbiettivi in qualche modo comparabili richiedono comunque di sfatare il falso mito della società liberale classica, quella che è stata capace di fornire esiti o almeno speranze improntati a un'autentica libertà per periodi misurabili al massimo in un paio di decenni: detta falsa illusione pretende che ogni individuo fornisca alla società il suo contributo migliore quando questo si palesa libero nel senso dell'autodeterminazione.
In realtà, se si escludono le predisposizioni intime e istintive per privilegiare gli ambiti della produttività sociale, relativamente pochi individui sanno quello che vogliono e riescono a commisurarlo alle proprie capacità, molti di meno riescono a realizzare quello che credono di volere o effettivamente vogliono e infine e soprattutto, in un modo o nell'altro, ogni definizione di carriera subisce le decise influenze del caso e perviene ai vari sbocchi in un modo solitamente poco proficuo per la società nel suo complesso. Si può anzi tranquillamente affermare che un successo ottenuto per tenacia e convinzione ben raramente si dimostra rispettoso degli interessi comuni.
L'unica tipologia di talenti che non vengono sprecati alla fine risultano quelli di cui una società seria, compatta e conseguente, una società concentrata sul lato economico e produttivo, potrebbe benissimo fare a meno lasciando che gli individui interessati se li organizzino da sé nel tempo libero.
Il contributo che ogni individuo deve fornire alla società può deciderlo proficuamente soltanto il rispetto di un modello specifico di società e affinché tale concezione non si rivolga contro il livello qualitativo delle vite vissute dai singoli è sufficiente la salvaguardia di due requisiti: a) che il lavoro minimo necessario, salvo risoluzioni contrarie dei vari interessati, assorba solo una parte della vita individuale (non più della quota di schiavitù indispensabile per liberarsi da uno stato di bisogno correttamente inteso); b) che l'assegnazione alle varie mansioni e l'accesso alle prestazioni extra avvengano tenendo conto di talenti e predisposizioni naturali opportunamente sondati tramite analisi e test attitudinali da eseguire non una volta per tutte, ma, a partire da una certa età, in caso di ristrutturazioni locali e, a intervalli di durata minima, anche su richiesta specifica dell'esaminando.
Ciò implica inevitabili risvolti per tutto l'impianto del sistema educativo.
Anche se quanto appena detto rientrasse inequivocabilmente in un fantastigramma di buoni propositi utopistici, risulterebbe segno di scarsa saggezza (eufemismo che evita la parola 'imbecillità') lasciare che le cose si sviluppino in modo diametralmente opposto. E invece le cose lasciate a se stesse si dirigono in direzione esattamente contraria a qualsiasi sogno o progetto del tipo sopra delineato.
Il 20% (circa) di 'non ancora fanatici' tende a governare l'80% circa di 'non ancora schiavi' (il 'non ancora' si riferisce a una maggioranza statistica) trascurando tutto quello che riguarda la salvaguardia effettiva della loro qualità della vita e ignorando del tutto una crescita naturale di complessità che determina processi selettivi completamente antitetici rispetto a quello che sarebbe necessario se si intendesse effettivamente governare la stessa complessità. Per esempio, le specializzazioni sempre più spinte richieste da ogni particolare settore aziendale rendono sempre più difficile l'acquisizione di vedute panoramiche a 360 gradi, cecità a volte provvidenziale per la salute mentale dei vari addetti, che giudicano la pericolosità e dannosità dei propri operati solo dopo averli isolati dall'insieme delle relazioni che intrattengono con il resto del mondo.
Anche la politica degenera in un mondo in cui, se si valutano le somme algebriche onnicomprensive, soltanto le complicazioni variamente destabilizzanti presentano ormai un bilancio netto positivo in termini di entità numerica. Una scelta elettorale che non fosse una pura giocata a caso sulla ruota della fortuna esigerebbe che ogni lettore si sobbarcasse la fatica di leggere fascicoli su fascicoli d'intenti programmatici (attualmente inesistenti o solo verbali e comunque disattesi), invece gli elementi che contano sempre di più a discapito di ogni altro, onestà e intelligenza comprese, riguardano il volume dei finanziamenti devoluti dalle varie lobby interessate ai dovuti ritorni di attenzione, la resa d'immagine negli interventi televisivi e il trattamento che i vari organi di stampa e canali mediatici riservano alle diverse figure.
Il risultato netto preconizzabile in base alle tendenze evolutive riassunte nei precedenti paragrafi si può così sintetizzare: una classe dirigente che dispone di eccezionali possibilità di migliorare la vita comunitaria plasmando il corpo sociale con gli strumenti messi a disposizione dalla tecnologia più raffinata, tra cui le agevolazioni concesse dal calcolo elettronico, si dedica con profitto alla ricerca di seduzioni persuasive più adatte ai cantanti o a stelle del cinema, studiando il nuovo quadrivio di dizione, recitazione, retorica e religione, quest'ultima utilissima a compiacere i magnati e a mostrare solidarietà verso gli umili che rafforzano i quadri dell'esercito di riserva dei lavoratori.
A destra la piaggeria e l'adulazione fioriscono come fragranze di nobiltà, mentre a sinistra la solidarietà internazionale si concentra sul soccorso ai migranti, ma non sullo sfruttamento coloniale che sta proseguendo come in passato in forme più astute ed eleganti grazie al consenso delle forze egemoni interne che vedono come il fumo negli occhi quel 'protezionismo' che ridurrebbe i loro guadagni.
A destra o a sinistra l'etica qualificante trova indefettibilmente sintonie inaspettate con i vertici delle gerarchie. La gran parte dei notabili con sufficiente influenza e prestigio e abbastanza anziani, di destra o di sinistra, non è condizionata da visioni di largo respiro, ma da ricordi d'inizio carriera, riguardanti per esempio le pretese assurde, la protervia e mancanza di rispetto che solo una ventina di anni prima contraddistinguevano molti degli addetti ai servizi più elementari (la maggioranza dei quali, andata in pensione, è diventata subito conservatrice), a cui paragona l'umile decoro degli stranieri con permesso di soggiorno da confermare.
Trump è esecrato con forza quando vuole costruire muri e non ponti, invece suscita una riprovazione poco convinta e di sicuro non appassionata quando lascia senza copertura sanitaria milioni di persone.
La necessità del metodo progettuale deriva da una interpretazione scientifica della realtà e della condizione umana. L'avversione al metodo progettuale deriva dal rifiuto di qualsiasi interpretazione scientifica della realtà e della condizione umana. E' ormai chiaro, però, che la scienza del globale è almeno filosofia quanto scienza, é euristica, ermeneutica e coerente sintesi immaginativa accanto a metodologia esatta. La tecnologia della dissipazione edonistica è estranea all'autentico spirito scientifico e dunque filosofico almeno quanto è affine all'integralismo totalizzante.
I kolibiani sono 'tuttologi' come spregiativamente li descrivono gli avversari?
I kolibiani sono semplicemente filosofi e nel modo migliore, sono gente che vuole situare correttamente la specie umana nelle sue coordinate planetarie e cosmiche, rifiutando l'ipocrisia di deleterie e false conciliazioni tra fede e scienza, disprezzando la confusione tra oggettività inconoscibile e oggettività inesistente.
I kolibiani ritengono che il tempo per licenze spiritualiste e ideali che negano limiti fisici già raggiunti sia terminato: o l'umanità comincia finalmente a ragionare di ristrutturazioni politiche radicali da condurre secondo la metodologia del progetto o si piega agli automatismi esistenti e docilmente si fa condurre per mano al macello come un bimbo plagiato da un pedofilo assassino, Il fanciullo, secondo moduli familiari alle migliori parabole freudiane, nella fattispecie coincide con il killer e il tutto si compone analogamente allo psicodramma tragicomico di una immolazione sacrificale.
Molti ritengono che solo queste sceneggiate teatrali conferiscano valore e significato alla vita umana, il che non è un'assurdità, è perfino plausibile, ma solo dopo che lo si sia collocato a distanza di sicurezza da ogni conseguenza politica ed economica.
La rinuncia al potere e alla popolarità di basso rango dissolve le nebbie della piaggeria e del compromesso.
I kolibiani esprimono queste idee con risoluta franchezza, senza diplomazia, cautele o rispetto per le egemonie imperanti e i conformismi vittoriosi. Guardandosi in giro e tastando il polso alle cognizioni più diffuse, in seguito ai ciclopici contrasti di mentalità e consuetudini che sono obbligati a registrare, non possono comunque escludere di essere pazzi o allucinati.
I kolibiani non sono politici né uomini di azione, non si propongono obbiettivi di carriera o incarichi direttivi: sono pensatori che tracciano un quadro del mondo e ne deducono conseguenze a prescindere dalle possibilità di realizzazione concreta e da ritmi e scansioni temporali di cui possono solo indicare i fattori d'insidiosa imprevedibilità.
Come verranno effettivamente ascoltate e utilizzate le formulazioni dei kolibiani non può angustiare più di tanto kolibiani ben avvisati intorno ai problemi non risolvibili della comunicazione, consci dell'incompatibilità fisica tra profondità ed estensione che infetta ogni partita dello scambio sociale.
Le ambiguità e contraddizioni inguaribili nei rapporti tra azione e pensiero senza le quali diverrebbe superflua l'idea di Progetto.
Per 'uomini di azione' a cui interessano di volta in volta obbiettivi semplici e chiari e per 'funzionari di servizio' a cui occorre poca e circostanziata informazione e comprensione, qualsiasi analisi non settoriale della realtà si presenterà sempre troppo ridondante e complicata. Non è raro, del resto, che un'azione risolutiva esiga dosi cavalline di apposita, volontaria, auto-inferta ottusità (mai disgiunta da particolarismi egoistici), spesso indigesta e perfino tossica per organismi privi di determinati anticorpi o enzimi.
D'altra parte, chi è disposto ad accettare la globalità dei problemi, ma cerca profeti e conforti divini, qui ha sbagliato indirizzo. Ogni soccorso psicologico in versione metafisica denuncia un approccio garantista e previdenziale incompatibile con l'azzardo ragionato sotteso all'idea di progetto.
Il kolibiano ideale dovrebbe mettersi continuamente in gioco e accettare rovesciamenti su ogni fronte: intellettuale, morale, emotivo... Il momento della persuasione autentica vive di avventure ed esplorazioni da tradurre in teoremi mentali, si basa su tensioni opposte e contraddittorie dove intervengono i modi elusivi delle soluzioni esclusive e personali di problemi oggettivi e impersonali. Una singola metafora al posto e al momento giusto può dissolvere annose oscurità.
Il momento dell'autentica costruzione è sempre successivo alla conquista della giusta visione, ma poi coinvolge problematiche anche comunicative di tipo diverso, sostanzialmente tecniche e non culturali. La sfida esige un fortissimo atto della volontà, ma il momento della motivazione e decisione vincenti coincide paradossalmente con quello della distrazione dall'obbiettivo, della dimenticanza del senso integrale, dell'entrata in scena dei protagonisti più risoluti quanto più sprovveduti e faciloni.
Quando non si agisce sotto il pungolo di necessità e istinti primari, l'azione si scompone tra gli attori come in un gioco di specchi, narcisismi collettivi e orgogli esibizionisti sostituiscono sul fronte dei difetti la contemplativa e compiaciuta astrattezza del momento teorico.
Un bel casino! E' vero: la storia dell'umanità altro non è che la storia di conquiste quasi impossibili da parte di singoli individui (moltissimi individui, non solo quelli di cui si è tramandato il nome) e nessuno ha mai compiuto un'impresa quasi impossibile pensando che fosse facile, casi rari e fortunati a parte. Il Progetto prevede però di coordinare in modo sistematico e puntuale le imprese dei cavalieri dell'impossibile focalizzandole su un sogno che è tutto il contrario degli allettanti miraggi di gloria individuale: qui si tratta di socializzare il genio e la ricchezza dei campioni, trasfigurando e al limite ripudiando un genere di democrazia che è solo capace di manipolare il consenso spalmando su tutto il corpo sociale l'ammirazione e il prestigio verso i nuclei isolati e concentrati che dirigono le danze.
Utopia? Utopia è solo quello che non si sa realizzare e se quello che non si sa realizzare è irrinunciabile, imprescindibile, assolutamente necessario non lo decidono quelli che non lo sanno realizzare.
Comunque la si metta, di sicuro il maneggio pragmatico e strumentale delle verità con risvolti sociali, la loro adulterazione per timore di conseguenze e contraccolpi, replicano in genere i risultati netti di tutti quei proibizionismi (quasi tutti i proibizionismi) che, impotenti a reprimere le magagne e imbelli contro l'energia criminale che si anabolizza lucrandovi, nonostante sanzioni peraltro maldestre e lacunose, perdono la partita con la realtà e, invece di risolvere i disastri, vi aggiungono altri disastri.
Digressione aneddotica sui santi.
Il Sommo Anonimo non ha mancato di proporre interessanti riflessioni al riguardo. Ascoltiamolo: "Ai kolibiani non interessa il prodotto che sopporta una brillante strategia di marketing: il paradosso della qualità che si auto-distrugge e il rischio di non nascere nemmeno sono il prezzo che la cultura deve pagare se vuole nutrire l'assurda speranza di lasciare un segno duraturo. Se ciò significa suicidio garantito, forse è perché ci troviamo oltre la soglia della degenerazione consentita, molto vicino al momento della scomparsa di tutto e di tutti, perlomeno nelle attuali versioni."
Koro Latah ha riferito a voce che, dopo aver scritto ciò annuendo soddisfatto, il 'Sommissimo' aggiunse: "Speriamo che sia così, altrimenti sai che figura di merda ci faccio!" Al che entrambi sbottarono in una prorompente risata e passò una buona mezz'ora prima che riuscissero a ricomporsi.
Sentendo quasi la necessità di giustificarsi Koro aggiunse: "I vecchi in fondo hanno poco da perdere e poi, si sa, tornano bambini: lui almeno non si baloccava con resurrezioni e paradisi, ma dal suo eremo ammoniva i giovanissimi su quello che li stava aspettando."
Interludio andante con partenza scherzosa.
In quanto filosofi e perfino poeti i kolibiani sarebbero tra quegli esemplari della specie più accreditati a meritarsi l'appellativo tecnico di 'umani', laddove, se ci si deve per forza etichettare in senso generico e inclusivo, per i campioni più diffusi risulterebbero meglio azzeccate locuzioni come 'animale raffinato che dispone di eccezionali doti manipolatorie' o altre del genere.
Ai kolibiani, però, l'aggettivo 'umano' è sempre apparso poco significativo soprattutto per le paradossali sfumature che assume nell'accezione comune, evidenti quando si considera che è una caratteristica tipicamente umana trovare istintivamente più simpatici individui di specie diverse dalla propria, come bambini, cani, gatti, scoiattoli, cavalli, uccelli vari e perfino scimmie, per quanto a volte queste ultime mostrino di essersi già decisamente indirizzate sulla strada di una proterva capacità di prevaricare e indisporre.
Se si riflette che il termine 'umano' in genere si adotta per sottolineare benevolenze molto simili all'affetto che si nutre per gli animali domestici, la precedente appare considerazione non di poco conto, ma tout se tient non appena si aggiunge al quadro un altro ingrediente indispensabile: il successo della persona che riceve l'etichetta estimativa. 'Umano' significa allora persona simpatica, gradevole e 'alla mano', uomo che mostra, appunto, 'umanità', nonostante che titoli e qualità di spicco lo autorizzerebbero a gradi d'indifferenza e distacco ragionevolmente accettabili. 'Umano' non si riferisce mai a persona di bassa o mediocre condizione.
Così chiosata, secondo una interpretazione che delucida la stranezza di un elogio basato su una qualifica letterale generalizzante e uniformante, la definizione di 'umano' si rivela una litote che esalta elegantemente le doti di modestia democratica di chi se le può permettere rimarcando nel frattempo il difetto d'individualità degli ordinari, sottolinea la nobiltà di chi, da un pulpito, predica l'umiltà a quelli che stanno più in basso e difettano proprio in quella distinzione individuale che rappresenta una caratteristica fondamentale della specie.
Per altri versi, ritocchi e aggiornamenti alla somma qualifica di 'umano' (l'equivalente monoteista del 'numinoso' politeista) rappresentano una delle metamorfosi etiche necessarie per conformarsi alle esigenze di una società neo-aristocratica che è anche e soprattutto e in primo luogo e ora più che mai società dello spettacolo.
La società dello spettacolo risponde in pieno alla strategia infallibile di un conservatorismo brillante e innovativo, l'apoteosi del socialismo dei puri spiriti e delle anime elette, il culmine democratico dell'essere umano tanto esigente e generoso per quello che concerne la condivisione eucaristica dei miti, quanto tollerante e possibilista riguardo alla anarchica distribuzione delle miserie materiali.
Una società dello spettacolo che coinvolga intensamente un popolo di individui si è rivelata un poderoso modello di coesione contro la ribellione degli scontenti. Quante Brigate Rosse e bande Baader-Mheinof ci risparmiano Internet, la televisione, i videogiochi, i telefonini nella loro qualità di terapie contro il sentimento più sobillatore e rivoluzionario che esista in assoluto, sto parlando della noia? Soltanto il misticismo apocalittico può contrastare la loro efficacia, ma occorrono dosi ciclopiche di disadattamento e alienazione, riservate allo sradicamento etnico e geo-culturale.
Anche senza ricorrere al contrasto di eventi estremi, è ovvio che disporre di un panem et circenses adeguato allo spirito moderno, sofisticato al punto giusto, ispiratore di un certo tipo d'intelligenza meccanica, non critica e anzi (in modi tanto poco consapevoli da procurare perfino l'impressione opposta) massificante in senso gregario, rappresenta un dono inestimabile della tecnologia alle élite economiche. Rappresenta anche, o ha rappresentato, una deviazione da percorsi molto più lungimiranti del flusso generale degli investimenti.
Dove si svela il senso profondo e autentico della santità.
La qualità 'umana' di una persona, soprattutto pubblica, si misura dalle marachelle che può permettersi senza perdere un'aura di deferente consenso e dalla misura in cui queste marachelle possono rivelarsi misfatti pur continuando a essere considerate marachelle.
Non c'è paragone tra quello che avrebbe potuto concedersi (a prescindere che l'abbia fatto o no...) un Mitterand rispetto ai margini di manovra consentiti, che so... a un Bossi.
Come dite? Non c'è paragone quanto a statura morale? E che cos'è la statura morale?
La statura morale è precisamente il bilancio tra azioni positive e azioni negative che un uomo può permettersi: un personaggio di alta statura morale è colui che può raggiungere un risultato netto negativo conservando una reputazione migliore di un altro che vanta somma positiva.
Naturalmente a questo punto ci si può domandare che cosa sia un'azione positiva o negativa, ma qui la risposta è facile: è un'azione che ciascuno valuta singolarmente secondo un concetto di convenienza allargata, una convenienza cioè che tiene conto di autostima e proiezioni simboliche, quindi include altruismo e giudizi etici e metafisici in modo proporzionato al livello della base materiale.
Per stabilire la statura morale di una persona, in quanto etichetta politica e civile, alla fine, se si desidera un minimo di concretezza, si è costretti a ricorrere a stime oggettive che si riducono alla seguente dicotomia : da una parte (segno più) gli interessi delle maggioranze (o, per meglio dire, gli interessi che gruppi in grado di condizionare le opinioni correnti prevalenti giudicano propri) e dall'altra (segno meno) gli incidenti procedurali e giudiziari, comprensivi degli episodi che avrebbero potuto trasformarsi in eventi sanzionatori se non fossero intervenuti coperture, fortune, indulgenze, condoni eccetera. La differenza nelle valutazioni sulla base di condanne o assoluzioni effettivamente registrate, soprattutto da parte dei giornalisti e dei politici è enorme, un rapporto tra tutto e niente, ma da un punto di vista morale non dovrebbe esistere o tendere almeno a sfumature contrapposte di grigio.
Non serve a una eventuale rivalutazione frugare nelle decisioni governative di Johnson e Nixon, valutare gli atti concreti contro la discriminazione razziale o a favore della distensione internazionale: la sensazioni di uomini rozzi, volgari, inadeguati si avvolge inestricabilmente alla loro immagine, anche perché vi ha contribuito il giudice più imparziale di tutti: la consapevolezza personale, la convinzione istintiva che il loro prestigio privato grufolava rasente al terreno mentre quello di JFK, l'amante di Marilyn figlio di un malavitoso, eletto con soldi sporchi di sangue e con voti comprati da degni compari del padre, volava alto nei cieli con il fascino romanzesco dell'eroe davanti alla forza delle cui ali devono arrendersi, come si conviene ai reprobi impotenti, scandalucci da pennivendolo, gingilli da trovarobe o cavilli-puntigli da ragioniere. E' poi superfluo osservare che JFK non avrebbe potuto essere JFK se si fosse presentato con sembianze fisiche sgradevoli.
JFK, tra i tanti altri significati e nodi referenziali che è e sarà compito degli storici articolare, si presta molto bene alla figura di santo protettore della civiltà dello spettacolo.
Un presupposto assolutamente fondamentale della visione kolibiana: la scienza come dominio dei prìncipi direttivi e una nuova etica dei valori basata sulla creazione esclusiva e insindacabile di una libertà individuale non distruttiva o invasiva.
Un kolibiano in fondo è un mistico religioso che vive coscientemente e coerentemente i vincoli imposti da una società tecnologica e industriale, un teologo costretto a fare i conti con la realtà per non dilaniarsi nelle contraddizioni insostenibili di una condizione schizofrenica.
A un kolibiano, dunque, costretto, volente o nolente, a registrare e riassumere le lezioni scientifiche confermate dagli effetti concreti della tecnologia, Dio non può non apparire un fantasioso sinonimo di Universo, ovvero la sintesi metaforica di una intuizione elementare e sommaria circa i costrutti della causalità naturale.
Dio è la trasposizione simbolica e antropomorfica, sottoposta a una illimitata variabilità individuale, di una particolare totalità strutturata in modo da generare organismi biologici molto sofisticati quando si verificano condizioni peculiari e si connettono sequenze causali specifiche e coincidenze irripetibili.
A tale totalità, la versione clericale del concetto non può aggiungere nulla di sensato sotto alcun rispetto plausibile e perfino nelle valenze e risonanze emotive che dischiude si annidano in una selva di equivoci.
Dell'intreccio tra leggi direttive, azioni sistemiche e accidentalità singolari di questa totalità, nessuna creatura coinvolta potrà mai fornire esaurientemente i dettagli pur potendo comporne a grandi linee sintesi concettuali che possono giudicarsi esplicative almeno rispetto alle possibilità concesse e ai limiti storici della ricerca.
Se tale è il senso del termine 'Dio' secondo il massimo di chiarezza accessibile a un approccio puramente razionale, privo di psichismi letterari e mitologici, allora una filosofia interessata a esprimere sensatamente delle verità generali (e che altro dovrebbe proporsi un qualsiasi modo di ragionare in grande, non asservito ai condizionamenti, ai ricatti e ai conferimenti di carica dell'esistente contingente?) dovrebbe capovolgere le polarità dominanti nel rapporto tra generalità e singolarità, cercando di riportare le linee guida e i paradigmi dell'organizzazione sociale a criteri scientifici e concetti sistemici.
In via preliminare e preventiva, però, diventa imperativo, onde evitare gli errori del passato, tracciare intorno a ogni individuo un fortino di garanzie minimali, un'area inviolabile di prerogative concretamente essenziali, se non altro perché alla fine i soli fatti investiti di una qualche pregnanza etica significativa riguardano niente altro che la qualità delle vite individuali.
Il più alto livello di coscienza dell'universo nasce da una singolarità animale: se questa ultima non viene rispettata nella naturalezza delle sue disposizioni, mai riconducibili per intero a prototipi e invarianze, la prima produce risultati patologici e deformi.
Non è certo un caso se il credo dell'autodeterminazione cosciente, un presupposto coltivato perlopiù in versione spiritualista a partire dal Rinascimento, ha preluso a un connubio sempre più stretto tra indagine scientifica e libertà individuale almeno fino alla frattura marxista del XIX secolo, imposta dalla distanza tra i voli teorici e la miserabile realtà della prassi sociale, un abisso responsabile anche delle forzature paranoiche di varia coloritura estremista e fascista.
L'alleanza tra pan-economicismo e ordine dogmatico-clericale, sviluppatasi dal tardo XX secolo in poi, ha cercato di ricomporre la frattura, ma l'ha fatto malamente, con ampia ripresa strumentale di anacronismi religiosi e in modo antitetico sia al liberalismo che al marxismo, molto meno a un fascismo dal volto umano combinato in modo da incontrare parecchie simpatie anche a sinistra: una prova ulteriore che, decadute l'ingegneria istituzionale e l'influenza economica del singolo stato, i colori di schieramento si traducono per intero in fatti di percezione psicologica filtrati dall'istinto di sopravvivenza.
La coerenza logico-strutturale tacciata di catastrofismo
I kolibiani constatano il banale truismo dell'incompatibilità tra spiritualismo e scientismo e si appellano a realtà oggettive inconfutabili per delineare la facile profezia di una 'fine del mondo' che ormai si affaccia all'orizzonte degli eventi per effetto di scadenze naturali che vanno conteggiate in base allo specifico ritmo temporale di un ciclo storico vittima delle proprie assurde accelerazioni.
I kolibiani non si atteggiano a incompresi o cassandre, la loro non è un'analisi politica, bensì scientifica e culturale, anche se i risvolti politici conseguono inevitabilmente se si assume una prospettiva un po' meno asfittica e pedissequa dell'usuale e un programma capace di rivalutare, contro il dogma della specializzazione riservata a esperti sempre in qualche modo sottoposti al principio di autorità e convenienza, una cultura generale delle sintesi interdisciplinari.
I kolibiani sanno benissimo che quello che per la filosofia è un battito di ciglia o di ali, per una dinamica degli interessi dedita a raccattare il massimo nel breve periodo, rientra nella specie degli eoni o di altre ciclicità uraniche.
Nessun grande stravolgimento avviene se non sorprende i vincenti o aspiranti tali con la testa ficcata nell'oscurità e il culo all'aria mentre sono intenti a grattare il fondo scomodissimo di un barile che per loro si dilata fino a comprendere il mondo intero.
Il paradigma quantistico come conferma decisiva del determinismo assoluto.
Una prova abbastanza clamorosa della insufficiente ricezione filosofica della descrizione scientifica del mondo si può ricavare dal modo in cui una conferma decisiva circa una coerenza causale, interpretabile come trama deterministica che strettamente avvolge e compenetra le individualità biologiche, viene incomprensibilmente ribaltata in concezioni diametralmente opposte quali la sostanziale aleatorietà degli eventi elementari e l'importanza imprescindibile dell'esistenza di osservatori per la consistenza ontologica dell'universo intero (tesi, quest'ultima, artatamente ripulita da ogni sospetto di spiritualismo attraverso un maquillage di facciata fondato su un fantomatico concetto d'informazione, qualcosa che nella versione di Shannon o delle relative teorie algoritmiche si capisce che cosa sia, ma in un contesto di fisica fondamentale risulta del tutto sibillino).
Se la necessità del paradigma quantistico deriva da un difetto insanabile di risoluzione imputabile (come, in sostanza, mutatis mutandis, avviene per ogni altro analogo handicap) a calibrazioni di dimensioni ed energia degli strumenti accessibili, fatalmente insufficienti rispetto ai fenomeni trattati (che perciò, quando vengono 'interrogati' dalla sonda, ricevono impulsi che disperdono un minimo non comprimibile di varia informazione), sarebbe ben curioso che, come è avvenuto per la termodinamica di Boltzmann e in una miriade di altri contesti anche macroscopici, risultanze statistiche non sostituissero l'apparenza o la simulazione di constatazioni dirette, puntuali e... 'precise'.
Se ciò che si situa senza rimedio al di là di una possibilità di percezione, rientra nella percezione per via indiretta, attraverso espedienti tecnici ed euristici di cui non interessa qui il dettaglio, sarà la possibilità stessa di una scienza possibile a testimoniare l'esistenza di regolarità oggettive, a prescindere da probabilità o certezze, a prescindere anche da stranezze che si possono del resto interpretare come il contrappasso per acquisizioni frettolose e indebite di normalità (il dualismo onda/particella, per esempio, può significare anche una resa dei conti con il punto senza dimensioni o con il nebulosissimo concetto di atomo indivisibile che si muove in uno spazio illimitatamente divisibile)
Il determinismo è una certezza fondata sulle probabilità.
Basta porsi la domanda: "come possono esistere schemi e rapporti fissi di probabilità?", per arrivare presto alla conclusione che, se la conoscenza certa ed esauriente non esiste (spetterebbe a una totalità che conosce se stessa, onnicomprensiva e completamente isolata, se tale assoluto non fosse inconcepibile e assurdo, dato che, conoscendo, si modificherebbe in modo inconoscibile), neppure il caso esiste, mentre il determinismo è una tautologia conseguente all'esistenza di un pensiero razionale dotato di un minimo indispensabile di consequenzialità e capace di risolversi, bene o male, in scienza.
Un fenomeno che non fosse deterministico (in un modo che è sempre parzialmente impenetrabile) non sarebbe neppure casuale, poiché il caso, in assenza di probabilità definite, è puro caos senza regole, non registrabile e non formulabile (equivalente al nulla), mentre, in presenza di specifici valori statistici, si definisce in conseguenza di dinamiche precise e inerenti.
Ogni fenomeno che non è deterministico è magico.
La falsa impressione di dominanza esibita dall'ordine biologico nella prospettiva di una conoscenza che scaturisce dall'ordine biologico stesso. Forza riproduttiva come arma a doppio taglio in una specie di contrappasso che richiama il motto sul leone e sulla pecora.
Qualsiasi serie di dati statistici rivela una struttura nascosta descritta da forme e numeri che emergono in spazi matematici da ricercare in funzione delle serie medesime, perfino collezioni di riscontri strampalati e senza relazione reciproca mostrano strane regolarità numeriche, come la legge empirica delle piccole cifre (spia di una invarianza generale di scala, quindi di una legge di potenza, quindi di una connessione geometrica frattale) mentre il caso puro è difficilissimo da simulare al computer senza l'ausilio di fenomeni fisici e numeri forniti dall'esterno al programma di calcolo. Una volta introdotto, l'ordine, nel senso di complesso di singolarità strutturate, è pervadente e contagioso, come le epidemie virali o prioniche non si può facilmente eliminare, con la forza dei suoi nuclei cristallini intacca le uniformità più equilibrate, emerge dai più banali e automatici intrecci combinatori.
Si collega comunque all'inquietudine del rinnovamento inarrestabile, necessita di un subbuglio energetico continuo che espande e rafforza lo sfondo di alta entropia da cui attinge la varietà di elementi costitutivi.
L'ordine inventato dalla replicazione nucleica è una rete di elaborazioni diacroniche sviluppatasi al culmine di fluttuazioni a rarità crescente che increspano il livellamento e la distensione della matrice: questa cuspide comporta l'appiattimento dinamico, anche se non vale (o forse vale) il viceversa. La morte termica si dilata maestosa nell'eternità, l'ordine vi si intrude in un dato intervallo della storia cosmica attraverso l'invenzione incessante degli automatismi riproduttivi e conservativi, la pervicacia degli accidenti complicati che iscrivono la fine della loro breve esistenza ai nodi delle ramificazioni da cui la progenie riparte.
La teoria algoritmica dell'informazione fornisce il campionario rappresentativo più elementare e comprensibile: le sequenze binarie che, introdotte in una macchina di Turing o un suo equivalente teorico, giungono al comando di stop, le file di 0 e 1 che calcolano qualcosa e forniscono qualche consultabile riscontro, sono rarissime, ma si distribuiscono in una rete di collegamenti in cui i percorsi si dipanano l'uno dall'altro in serie che rimandano ad altre serie; le sequenze inconcludenti e casuali sono la quasi totalità, ma rimangono di fatto non distinguibili e non replicabili in modo sensato, efficiente ed economico. In un ambito psicologico e prospettico situato per forza di cose sul versante dell'ordine rarissimo, il setaccio della ragione di sistema intercetta solo le forme che si incastrano nell'intreccio particolarissimo dei suoi fili.
Il caso è infinitamente più frequente della struttura, ma solo la struttura, la 'enumerabilità', fa emergere le singolarità caratteristiche, i nuclei operativi capaci di organizzarsi in macchinismi interattivi.
Estrema invenzione, per ora, dell'immane catena, l'uomo codifica ed espande ciò che é descrivibile dimenticando la sua natura ineluttabile di filigrana infinitamente dispersa, di architettura infinitesimale che solo attraverso una combinazione di felici coincidenze, fragili e inconsuete, si armonizza in un particolare contesto inorganico planetario.
Il paradiso di Cantor non è la prova del paradiso ultraterreno che Cantor stesso pensava di aver trovato, è solo la formalizzazione teorica, la riproduzione ideale fondata sul principio di induzione di Peano (fregiato per l'occasione del titolo nobiliare di induzione transfinita) del rapporto fondamentale tra struttura (ordine) e uniformità ('disordine', inteso come allentamento dei nessi) che la natura propone, un rapporto che tende a zero, o, rovesciato, all'infinito, tanto più velocemente quanto più le singole isole di ordine (intese come nuclei di realtà fisica) proliferano avvalendosi di apporti propulsori che assorbono energia da una rete già in parte differenziata, restituendo in cambio entropia.
Più sinteticamente, l'infinito adibito al mondo reale non è che un artificio teorico che, formalizzato nel contesto di un discorso logico-matematico, evidenzia all'interno di una crescita progressiva del numero complessivo di elementi una 'diluizione' esponenziale dei nessi di questi elementi all'interno di uno sfondo indifferenziato di assortimenti casuali.
Inciso epigrammatico al fine di diradare ogni equivoco.
L'umanità è parte di un sistema biofisico governato da leggi cosmiche: l'umanità non può né modellare il senso e la sostanza di quella appartenenza né modificarne le risultanze deterministiche: può al massimo ridurre pretese, coinvolgimenti, influenze, disciplinare i propri desideri, semplificare i legami di responsabilità e reciprocità.
Se l'uomo non è divino, se è una specie animale come le altre, non importa quanto sui generis, non frega niente quanto ingegnosa, industriosa, genialissima, l'uomo, se vuole durare senza regredire, non ha alternative: deve progettare come auto-limitarsi in stato stazionario.
Le vie del progetto si biforcano: a) secondo una concezione aristocratica (in continuità con i processi attivi) o b) democratica (riconfigurando radicalmente le forme organizzative).
Barcamenarsi tra le due vie (secondo l'unico tipo di strategia riscontrabile in ogni epoca, luogo, civiltà), confidando in fattori equilibranti provvidenziali e in una capacità illimitata di smussare le contraddizioni e sciogliere i grovigli, rappresenta esattamente il contrario del Progetto.
In fondo, la moderazione non è che la prudenza del pessimismo, mentre guerre e decadenze disastrose non sono che la resa dell'ottimismo davanti alle difficoltà insormontabili.
Ogni modo di affrontare i problemi implica una particolare combinazione di pessimismi e ottimismi diversi. Una visione pessimistica sulla effettiva conoscibilità del mondo di solito richiede una rumorosa catena di ottimismi schierati a difesa di una spensierata cecità e, analogamente, la totale sfiducia in qualsiasi tipo di pianificazione economica si accompagna a scongiuri e riti scaramantici tradotti in fiducia totale nelle capacità dell'uomo.
Approfondimento del concetto di stranezza come dissimulazione e mistificazione della enigmatica e inquietante stranezza del fenomeno 'uomo'.
Forse è vero che la relatività ristretta e quella generale, pur richiedendo un riassetto radicale e completo delle nostre concezioni intorno alla natura del mondo fisico, alla fine non strapazzano più di tanto le nozioni comuni e basilari di congruenza e realtà. Einstein stesso professava un deismo spinoziano molto ben rappresentato (una volta esclusi cauti o diplomatici rispetti dell'ortodossia) nella storia del pensiero metafisico anche e soprattutto religioso (è implicita nella funzione educativa dei dogmi religiosi la necessità di un rispetto sostanziale da parte dei sudditi e solo formale ai piani alti delle gerarchie, ciò che nel mondo moderno, per il riflusso non ancora completo del libero pensiero, è riproposto con diplomazia inerziale e si solleva a inequivocabile evidenza solo in casi particolari, come per esempio quello dell'eutanasia).
La meccanica quantistica ci proietterebbe invece al di fuori di qualsiasi schema di riferimento abituale, prospettandoci l'immersione in un mondo completamente alieno, costruito secondo criteri incompatibili con la logica e i moduli cognitivi che usiamo (o non usiamo) ogni giorno. Per Bohr e per Feynman sostenere di averla capita significava dimostrare di non averla capita per niente.
Si tratta in realtà di due tipi di stranezze diverse, conseguenti a 'fenomenologie dello spirito' influenzate dalla specifica anomalia di scala, una diretta verso l'immensamente grande e l'altra verso l'immensamente piccolo, in viaggio verso i poli opposti degli infiniti (pseudo-infiniti, in verità) di pascaliana memoria.
L'immensamente grande ci induce lo sgomento di ciò che è spropositato e soverchiante, evoca l'hibrys del titano, la ferocia del colosso primordiale, come 3C321, la galassia Morte Nera, che circonfonde in un getto di plasma la galassia vicina.
L'immensamente piccolo ci turba con la perfida magia incontrollabile delle creature invisibili, coboldi maligni e dispettosi che si celano nell'ombra delle foglie o cristalli macromolecolari che s'intrufolano nelle pieghe dei tessuti viventi.
Virus e batteri ci allarmano maggiormente perché sentiamo la loro azione più vicina e determinante rispetto ai mostri delle enormi distanze, ma basterebbe renderci conto che ogni giorno o quasi siamo attraversati dalla radiazione proveniente da un impatto di stelle di neutroni o da esplosioni di ipernove per riequilibrare il peso dei rispettivi influssi psicologici.
Se, rinunciando a certe divagazioni fantasiose, ci limitiamo a stranezze logico-strutturali, esiste una spiegazione che trasferisce modalità per certi versi analoghe dal piano delle suggestioni emotive a quello degli scompensi intellettuali: avventurandoci nel mondo dei quanti noi ci avviciniamo al funzionamento essenziale della causalità primaria; proiettandoci negli spazi super-galattici constatiamo aspetti cumulativi di tale causalità, che la mediano e la trasfigurano secondo macchinismi tutto sommato più affini alla nostra esperienza ordinaria.
Dovremmo allora renderci conto che se la causalità primaria è strana è perché è inevitabile che sia così, dato che noi siamo creature strane, non desumibili automaticamente da tipi di processi elementari totalmente avulsi da quella che riteniamo la nostra natura e in fondo ciò non fa che tradurre in una modalità diversa, ma di sicuro complementare, il senso di estraneità annichilante che proviene dalle gigantografie del cosmo, da esiti complessivi in perfetta corrispondenza duale con quelli quantistici.
Le risposte alle domandi cruciali che si pone l'uomo riflessivo (é bene non generalizzare troppo questa fame di significati, perlomeno finché predominano certi sistemi educativi e selettivi) esistono di sicuro, ma è quasi altrettanto certo che: o non sono formulabili in un linguaggio a lui comprensibile o non sono del tipo che egli ritiene adeguato a soddisfare le proprie curiosità profonde.
Nichilismo filosofico come sbocco obbligato di qualsiasi ricerca profonda.
La natura completamente aliena di ogni formulazione in grado di conferire senso e significato alle cose, come anche l'impossibilità di adempiere il compito qualora tali sensi e significati potessero essere costruiti secondo moduli accessibili e comprensibili, si possono intuire pensando al tipo di impossibilità che la teoria dei giochi incontra in vari contesti, per esempio cercando di stabilire una strategia vincente alla morra cinese (le forbici battono la carta, la carta batte la pietra e la pietra batte le forbici).
Come, in particolari giochi, la perfetta simmetria tra i giocatori e la chiusura circolare degli eventi impedisce soluzioni diverse dalla scelta casuale, così un rapporto tra mondo e Dio, volendo intendere con il termine 'Dio' un qualsiasi principio o criterio di giustificazione capace di donare valore ai fatti e agli eventi del mondo, è destinato a mordersi perennemente la coda, a risolversi nella rotazione inconcludente di un uroboro con le pile che non si esauriscono mai.
Una consacrazione ideale del mondo sarebbe comunque inadeguata a qualsiasi costituzione effettiva del mondo e qualsiasi costituzione effettiva del mondo sarebbe inadeguata a qualsiasi consacrazione ideale del mondo, in una sorta di derisorio annullamento, di avvilente parodia reciproca.
Per altri versi, ci troviamo qui a dibatterci nelle sabbie mobili delle questioni insolubili riguardo alla fondazione della razionalità matematica: se l'infinito attuale esiste, ogni complesso di assiomi è incompleto e quindi si può estendere servendoci di un ulteriore assioma altrettanto bene che aggiungendo la sua negazione, il che decreta di fatto la nullità (x su infinito è sempre zero) e l'arbitrarietà di ogni teoria. Se non si ammette l'infinito, tutto si riduce a un esercizio di tecnica pura, un gioco di costruzioni e nulla più.
In un modo o nell'altro tutto quello che l'uomo riuscirà mai a concepire risulterà contenuto in una sequenza finita di simboli.
Si capisce così perché ogni atto di fede religiosa, assunto da una mente raffinata, non può evitare di risolversi in un vertiginoso abbandono all'indicibilità dell'infinito, in una stasi di perfetto mutismo, ma perché allora le religioni attuali sono tanto dinamiche, popolari, chiacchierone?
Perché scelgono il materialismo dell'intervento nel mondo e tuttavia a parole ne rifiutano le leggi costitutive?
Come si può agire nel mondo senza conoscerlo? Basta la conoscenza dell'uomo e della sua società?
E se ogni presunta conoscenza del fenomeno 'uomo' fosse ostacolata e sconvolta dall'identità tra soggetto e oggetto, dalle indeterminazioni e dai poli complementari che Bohr estendeva dalla propria disciplina alla conoscenza psicologica?
E se già soggetto e oggetto fossero astrazioni indebite di ciò che non è possibile isolare, rotture arbitrarie della relazione della parte con il tutto?
Il messaggio autentico di Gesù Cristo.
I sottintesi di tipo psicanalitico del dio-uomo che si incarna e si immola per salvare l'umanità sono abbastanza lampanti: l'umanità è fusa in Dio, ma ciò non abilita l'atto scaramantico e protettivo della fede, non permette di credere in Dio assegnandogli le facoltà di manipolazione dall'esterno del destino. Dio quindi deve, di propria iniziativa (l'uomo non può ovviamente imporgli alcunché), abolire la coincidenza e oggettivarsi in un enigmatico al di là e l'atto simbolico si realizza attraverso i tipici giochi dialettici di identità-differenza, opposizione-coincidenza, negazione-superamento, i soliti pirotecnici trucchi hegeliani già usati in forma rozza da pratiche divinatorie e magiche di varia natura e antichità.
Credere in Dio esige l'abolizione della naturalità del fato, l'uccisione del concreto dio dentro la natura per sostituirvi il misterioso Dio oltre la natura: il risultato è la glorificazione dentro la natura e oltre la natura dell'umanità.
Il monoteismo cristiano è una concezione assai astuta, il trionfo della psicologia sull'ontologia, la forma più pragmaticamente utile di ateismo.
L'aspetto consolante del marchingegno spiega in gran parte perché il grosso della gente e a volte perfino i kolibiani non si rassegnino a quei limiti a cui l'umanità avrebbe dovuto rassegnarsi da un pezzo, anche se parlare di rassegnazione è insultante e riduttivo se si fa mente locale alla superficialità dei fideismi più diffusi.
Questi limiti non si richiudono nell'inedia e nell'inazione, ma, al contrario, spalancano le porte a polarità e dualismi che possono degnamente sostituire la latitanza inguaribile della sacralità e del senso: l'assoluto e incantato silenzio metafisico accanto alle arborescenze mentali di un progetto, l'espressività ellittica dell'arte e la concentrazione costruttiva della scienza, la creatività del simbolo e della forma e la densità del segno e della formula.
Forse uno degli ostacoli maggiori davanti a sviluppi che la pura e semplice ragione considererebbe naturali e quasi scontati deriva da un fatto sociologico gravemente sottovalutato: la preminenza in politica e nelle gerarchie direttive di professionalità e attitudini orientate alle persone e il conseguente svantaggio incontrato dalle personalità orientate alle cose.
Per qualunque essere vivente è istintivo privilegiare le attenzioni che vengono rivolte a se stessi: soltanto l'educazione e la cultura può conquistare la particolare animalità dell'uomo a una maggiore considerazione relativa della 'divina' bellezza del mondo.
Rapido excursus sulla fusione panteistica di tutto e le anomalie incredibilmente rare servendosi delle quali l'universo apre su se stesso gli specchi imperfetti e le coscienze più o meno embrionali dei singoli esseri biologici.
Variando lo schema di gamma burst i cui raggi hanno attraversato la materia cerebrale dei personaggi storici, varierebbe il decorso degli eventi storici.
Non si tratta di un fantascientifico delirio, deriva automaticamente da effetti di amplificazione desumibili da sistemi di equazioni non integrabili piuttosto semplici e dalla sensibilità alle condizioni iniziali e ai parametri manifestata perfino da ordinari sistemi di equazioni integrabili, ma non lineari.
Detto in altri termini, deriva semplicemente dall'applicazione della matematica del caos alla meccanica quantistica.
Beninteso, indeterminazione quantistica e caos matematico vanno interpretati come fenomenologie relative e non assolute, modulazioni di scambio tra la parzialità autoriflessiva del soggetto conoscente e la varietà ambientale che lo contiene in una serie di contiguità estensibili fino all'universo intero, le cui dinamiche sicuramente prescindono da certe visioni.
Indeterminazione quantistica e caos matematico, pur conseguendo da deformazioni imputabili ai canoni necessari alla costituzione di uno 'specchio di coscienza', forniscono comunque prove inconfutabili di determinismo, per esempio attraverso i calcoli infallibili sulle onde di probabilità o intorno alle specifiche dimensioni frattali degli attrattori in opportuni spazi n-dimensionali forgiati secondo la natura delle particolari 'turbolenze' studiate.
Non integrabilità e non linearità sono la norma del mondo naturale, mentre la disciplinata linearità dei sistemi artificiali predisposti dall'uomo rappresentano, in un contesto onnicomprensivo, eccezioni che possono proliferare soltanto grazie ai meccanismi delicatissimi dell'auto-riproduzione.
Questi meccanismi, sul pianeta Terra, funzionano già da miliardi di anni (più di mezzo miliardo in forma pluricellulare), il che è sorprendente se si considera che simulazioni al computer concedono al sistema solare una stabilità limitata a poche, pochissime centinaia di milioni di anni: perché la vita possa svilupparsi in forma complessa servono verosimilmente condizioni di stabilità molto rare e particolari (per esempio combinazioni tra pianeti e satelliti perfettamente calibrati come accade nell'abbinamento Terra / Luna), tali da rendere le apparizioni di specie biologiche come gli uccelli o i mammiferi estremamente rare anche in tipi di universo come il nostro e questo a prescindere da quanto siano probabili le qualità microbiche.
La impossibilità di dimostrare il principio antropico è qualcosa di ben diverso dalla impossibilità di dimostrare l'esistenza di Dio: a fare la differenza intervengono criteri base o almeno gradi diversi di plausibilità.
Certe necessità si prestano a rovesciamenti ottimisti dei rapporti tra cause ed effetti, nonché a elucubrazioni circa fantomatici effetti anti-caos dovuti a quelle che potremmo chiamare leggi della provvidenza universale o regolamentazioni teleologiche supreme.
In realtà, riesaminando il tutto dal punto di vista del cosiddetto principio antropico, si constata che certe assunzioni contraddicono sia un famoso motto latino (entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem) sia le norme deontologiche basilari comuni a sperimentatori scientifici, teorici della matematica statistica e incaricati di ricerche sociologiche e di mercato: il campione dei dati da analizzare non deve provocare distorsioni preventive e deve riflettere nel modo migliore possibile l'insieme totale di valori delle cui caratteristiche ci si propone di rendere conto.
Riassumendo il succo del discorso in modo semplice e diretto, un organismo biologico che prende coscienza dell'ambiente in cui vive deve per forza di cose riscontrare in quell'ambiente le condizioni necessarie alla sua esistenza a prescindere da quanto siano incredibilmente rare e specifiche, deve quindi prendere inevitabilmente coscienza di un universo che, se valesse l'ipotesi degli infiniti universi, non sarebbe certo un campione rappresentativo della media di tali universi.
A questo punto ci si può agnosticamente accontentare di tale sottile ed enigmatica banalità, oppure tentare una spiegazione che, in un modo o nell'altro, equivarrà a ipotizzare: a) un dio creatore altrettanto specifico, magari nella versione scientificamente ineccepibile di una 'teoria del tutto' che, una volta messa a punto (in un numero x di pagine o nel libro di sabbia di Borges?) permetta di comprendere perché un universo non può essere diverso dal nostro; oppure b) una sorta di estrazione a sorte tra una infinità di universi.
Il punto a) sembra più corposo ed espressivo, peccato che, esaminandolo da vicino, ci si renda conto di come non possa essere più esplicativo della semplice presenza dell'universo di cui si ricerca la comprensione (rimanda infatti a un'altra complessione oggettiva, reale o teorica, altrettanto misteriosa) e costringe ad accettare il dio o la teoria così come sono allo stesso modo di come l'agnostico ha accettato l'universo senza darsi la pena di indagare oltre. Se, per esempio, si dimostrasse che le masse e le diverse cariche quantiche delle particelle definite sperimentalmente secondo il modello standard corrispondono ai modi di vibrazione delle stringhe intorno ai tre buchi di una specifica geometria multidimensionale, si sarebbe compiuto un progresso scientifico straordinario, ma dal punto di vista di una metafisica tradizionale, definitivamente e irrimediabilmente collegata a una richiesta istintiva di significato e di valore, non creerebbe una sostanziale differenza sostituire la massa x con la vibrazione y nel buco pari o dispari della varietà z. Ciò ovviamente rappresenta più una critica alla mentalità filosofica tradizionale che alle teorie fisiche di avanguardia o, per meglio dire, non rappresenta alcun tipo di critica, propone bensì l'esemplificazione di un limite assoluto circa la soddisfazione delle aspirazioni umane.
Una conclusione di ben altro tenore su cui si dovrebbe concordare tutti riguarda invece la connessione globale ed esaustiva di ogni singolo fatto ed evento in un universo che consegue coscienze parziali di sé in localizzazioni disperse e, immediatamente dopo, il suggerimento di quanto siano illusori i sogni di autonomia delle creazioni umane rispetto ai fenomeni complessivi che le circondano.
Breve riassunto delle puntate precedenti
Gli schemi fondamentali di 'spiegazione metafisica', rivisti e corretti secondo le acquisizioni più recenti, rimangono sostanzialmente due: a) un tipo o l'altro di principio antropico sancito ineluttabilmente dalle creature coscienti generate da un tipo o l'altro di macchina di Gandy (una forma o l'altra di automa cellulare) coincidente con un tipo o l'altro di universo finito generato da un tipo o l'altro di multiverso infinito; b) un tipo o l'altro di Dio personale che si trova a essere al centro di tutto senza che noi riusciremo mai a capire perché e come mai (noi non lo capiamo, ma lui sì, a meno che non si tratti di un Dio dal carattere amletico).
Se in un Dio personale (la psicologia onnicomprensiva) tutto rimane oscuro, in una macchina di Gandy molte cose rimangono oscure, per esempio la natura degli intervalli di scansione (la nozione di tempo) e il criterio di 'scelta' delle regole trasformazionali. Considerando tuttavia il tempo come una coordinata analoga alle coordinate spaziali in modo da concepire uno spaziotempo eleatico, compresente e immobile, la varietà che ne risulta non ha bisogno di leggi dinamiche secondo la nozione che costruisce una coscienza che avverte se stessa come movimento temporale: il complesso spaziotemporale eleatico consente infatti un rovesciamento di prospettiva fondamentale secondo cui non sono le leggi fisiche a determinare la costituzione dell'universo, bensì è la costituzione dell'universo a determinare le leggi fisiche.
Qualsiasi particolare combinazione di elementi finiti, dispersa in una distesa infinita di possibilità similari effettivamente realizzabili, si realizzerà a prescindere da quanto sia minuscola la sua probabilità di realizzarsi e quando si sarà realizzata gli eventuali osservatori coscienti inseriti al suo interno in questa o quella nicchia infinitesimale constateranno intorno a loro le condizioni necessarie alla propria esistenza schematizzandole sotto forma di leggi.
Un multiverso infinito di singoli elementi distinguibili infiniti che si organizzano casualmente (il caos di molte mitologie arcaiche) risulta dunque, secondo questa visione e almeno a grandi linee, la matrice necessaria e sufficiente di tutto: questa matrice rappresenta di per sé il Dio della produttività infinita, il Dio dell'assoluta pienezza dell'essere, senza che ci sia bisogno di fare intervenire dei, demiurghi, titani o altre strane entità.
Questo Dio potrebbe (oppure no: fa parte dei 'dettagli costruttivi') donare effettivamente la vita eterna a tutte le entità (infinitamente minuscole e infinitamente limitate rispetto all'infinità del tutto) che, in modi forse definitivamente imperscrutabili, assumono l'illusione del decorso temporale.
Il diavolo si trova nei dettagli e in genere i dettagli sensibili rientrano in qualche categoria politica o almeno sociologica.
Le precedenti argomentazioni non sono invenzioni o esclusive dei kolibiani (se lo fossero, ne risentirebbe la credibilità della loro visione complessiva, frutto in realtà di una sintesi unitaria e coerente di spunti abbastanza disparati), ma concetti che si radicano nel normale buon senso scientifico, quello che non riguarda necessariamente scienziati o tecnologi duri e puri (molti dei quali denunciano incredibili pecche filosofiche dovute a un eccesso di specialismo), ma più generalmente persone abbastanza perspicaci, eclettiche e informate.
Ammettere un tipo di spiegazione globale perfettamente consono alla sostanza della prassi scientifica non significa solo armonizzare due concezioni ontologiche suturando una frattura culturale che appariva irrimediabile, impone anche di rinunciare a sogni di un condizionamento magico dei destini del mondo che autorizzano l'umanità a deliri di onnipotenza i cui deleteri effetti si stanno dilatando su scala planetaria.
Non per niente, l'intuito fondamentale circa la non proponibilità di consolanti verità supreme, di significati e spiegazioni universali dai risvolti artatamente compiacenti, simili per molti versi alle licenze che un cattivo educatore concede con indifferenza a ragazzini viziati, domina anche la sensibilità e le impostazioni cognitive delle pratiche artistiche e letterarie più serie e produttive.
L'alternativa filosofica capitale e il suo sbocco politico.
Una metafisica, da intendersi rispetto alla fisica secondo le modalità con cui 'metateoria' si rapporta a 'teoria' o 'metamatematica' a 'matematica', una metafisica che dunque si conformi come una 'metascienza' o una 'metarealtà', esige quindi una scelta netta e definitiva tra un paradigma di tipo razionale e un altro d'ispirazione magico-mitologica, vigendo tra le due strade una incomunicabilità totale anche se mascherata da una miriade di complicazioni e anche fraintendimenti logici e semantici.
La biforcazione delle vie diametralmente divergenti è mascherata anche da confusioni e commistioni indebite tra intrecci psicologici, privati e personali e formulazioni che attengono alla sfera pubblica e al mondo oggettivo dei vincoli strutturali: la tendenza comune è un po' quella di confondere la formica con il formicaio, salvo che una caratteristica della specie umana, che non è possibile negare senza sconvolgerne i connotati, proietta le singole formiche a un livello categorico simile a quello delle monadi leibniziane, nuclei, cioè, di assoluta 'autoconsistenza spirituale' sottoposti però a una pletora di vincoli materiali.
Basterebbe solo un poco di riflessione per risolvere quella che ancora si presenta come la contraddizione già esaurientemente individuata dalle varie correnti esistenzialiste (antiche, passate, moderne, attuali) tra la natura autentica del vissuto individuale e le versioni schematiche e infedeli necessarie al controllo pedagogico operato dalle varie mistificazioni integraliste, laiche o confessionali, pseudo-liberali o pseudo-socialiste. La soluzione si presenterebbe allora all'insegna della seguente generalissima strategia: riconsegnare il privato a se stesso e ridisegnare il pubblico attraverso una architettura utopico-progettuale limitata, per quanto è possibile, agli aspetti economici e funzionali, il tutto secondo un programma di azione che può essere giudicato attraverso un solo metro di giudizio: l'azione medesima, ovvero la prassi concreta di attuazione comunitaria del Progetto, inizialmente limitata alla fase teorica.
Secondo i kolibiani una distinzione tra destra e sinistra è ormai assolutamente priva di senso: svincolata da interessi riferibili a grandi fasce di popolazione definibili senza ambiguità, risulta ormai nulla più che un gioco di retorica civile in cui le parti si attribuiscono patenti di nobiltà conferendo accentuazioni diverse a valori che vanno dalla intraprendenza personale alla partecipazione solidale, valori approssimati e in genere velleitari, variamente graduati e interpretati secondo esperienze, inclinazioni, interessi, convenienze, attitudini, ambientazioni, opportunità etc etc etcììììì.
Per un kolibiano, esiste una sola differenza capace di connotare il comportamento politico: quella tra pragmatismo abitudinario assuefatto alla bilancia dei poteri esistenti e quella rivoluzionaria radicale, non basata su spontaneità democratiche o altre chimere del genere (nel qual caso rientrerebbe in una prassi del primo tipo appoggiata a un inesistente potere delle masse), ma su una ragione condivisa e costruttiva.
Se una ragione condivisa e costruttiva non esiste, tranquilli: ci pensa Dio.
Lo strano caso delle credenze più popolari e diffuse
Una problematica non da poco, perlopiù ignorata come se non comportasse ben precise conseguenze politiche e sociali, riguarda l'atteggiamento medio della gente comune del mondo così come si è andato 'evolvendo' nel corso degli ultimi decenni.
Evidentemente la classe dirigente e i ceti professionali degli educatori e degli intrattenitori hanno dimenticato di trasmettere ai popoli lo scetticismo indotto dalle conoscenze avanzate e, volontariamente o meno, sembra quasi si siano dedicati a incoraggiare e indirizzare gli stessi popoli sulla strada di un certo edonismo fideista.
A giudicare dai più spumeggianti tra gli entusiasmi di massa, santoni e divi della musica e dello spettacolo non hanno certo agito in merito da sprovveduti, se valutiamo il loro tornaconto, né i pochi, pochissimi fautori, in senso relativo, del criticismo scientifico hanno brillato per remunerativo pragmatismo o fine intuito di carriera, se si considerano i costi professionali di un'opposizione decisa alle lobby clericali.
Niente di grave, per carità, o meglio: niente di grave finché non si tratta di valutare le scelte elettorali e soprattutto raggiungere certe consapevolezze su probabili derive apocalittiche degli schemi di condotta e organizzazione adottati dall'umanità su scale di dimensione planetaria, soli criteri utili ai fini di una misura il più possibile oggettiva della fiducia da nutrire verso la specie a cui chi scrive e chi legge appartengono.
Le corrette conseguenze politico-sociali a prescindere dalle convenienze congiunturali.
Se Dio, secondo l'accezione personalistica delle religioni del libro, non esiste, l'umanità può sperare di controllare il proprio destino solo attraverso metodologie di tipo scientifico e tecnologico, il che, in assenza di progettualità kolibiana, implica che l'avvenire si basa su un equilibrio instabile tra ordine oligarchico, inclusivo del ceto medio residuo, e pressione di massa, entrambi i poli restando sottoposti all'arbitraggio, misconosciuto e tuttavia implacabile, di un pianeta inteso come entità cosmica, biologica, geologica e chimico-fisica.
Beninteso, se Dio non esiste, per l'evoluzione storica e naturale cambia poco se la maggior parte degli abitanti umani della Terra credono o meno, dato che, come gli stessi credenti sono costretti ad ammettere quando dispongono di un minimo di consapevolezza critica, veramente importante non è quello che essi credono, bensì l'effettivo orientamento della volontà di Dio in accordo e armonia con le loro speranze (che ovviamente differiscono da credente a credente).
Sottile sarcasmo kolibiano (ironia socratica). Tesi principale: socialità auto-referenziale e galateo della comunicazione non fanno che servire e riverire il trafelato dinamismo autodistruttivo della pax augusta di sistema.
Che vorranno mai questi menagramo, trucidi e pessimisti dei kolibiani?
Perché non cuociono nel loro brodo dato che gente con le loro caratteristiche ci riesce molto bene laddove il generoso ottimista deve per forza tampinare il prossimo suo che ama quasi come se stesso e apportare al bagno comune dove sguazza a mo' di sinuosa sirenella i lussureggianti umori della propria umanità (puntualmente tradotti, almeno nelle pie intenzioni, in massime di buona creanza e vincoli restrittivi e prescrittivi, sempre, guarda caso, cicero pro domo sua)?
Pretendono davvero che le regole si riducano a dispositivi tecnici e omaggino avvertenze scientifiche? Se anche l'individuo, con mezzi tanto aridi, scontasse ai minimi termini le schiavitù imposte all'uomo e solo all'uomo dalla fisiologia animale, se anche riacquistasse una piena libertà di movimento psicologico ed emotivo, che razza di spiritualità sarebbe quella che rinuncia alle illusioni di una superiore saggezza divina colta da ciascuno nelle profondità esclusive di un animo eccelso e resa manifesta agli altri in tutta la sua forza comunicativa e condizionante?
Senza imporre qualcosa a qualcun altro, ovviamente in un torneo di squadre e non come lupi solitari, senza il gioco della prevaricazione affidato a divise e gonfaloni dell'ideale partigiano invece che al mero impero delle leggi condivise, dove andrebbe a finire il bello della socialità e della vita, il senso dell'avventura legato o alla pura sopravvivenza o alla contesa per i posti migliori secondo le santissime disposizioni del destino?
I kolibiani sono ormai inadatti a vivere in società, a sedere insieme agli altri commensali all'enorme tavolata in cui è vano rivolgersi al vicino nella speranza di intavolare una qualsiasi discussione interessante: gli argomenti comuni nella sterminata varietà delle diverse specie mentali e professionali, proliferanti d'impegni sempre più specialistici e strani, risultano ormai statisticamente introvabili, il rumore di fondo è soverchiante e l'attenzione devia inesorabilmente verso il centro magnetico del frastuono, la sorgente pirotecnica di un senso obbligatorio della comunità, il nucleo alfa dei convulsi maestri di cerimonia che aggiornano il listino dei valori supremi insieme alle regole della comicità.
Là, in quel recinto fatato, tra un frizzo, un lazzo e un nuovo sprazzo (e qualche "cazzo!") vengono consacrate le nuove ricette gastronomiche, gli imperativi e le parole d'ordine sullo stile che decadrà a mezzanotte, gli egocentrismi più estremi e più bisognosi di ascolto e approvazione, le epifanie continue di quegli dei che continuamente devono intercedere e sacrificarsi per risollevare la reputazione umana: i piccoli Charlie che non hanno neppure il diritto di morirsene in pace, poiché è necessario che soffrano a maggior gloria di qualche sporadico boato mistico, della fioritura periodica dei sommi simboli di devozione nel segno dell'amore: amore materno, parentale, partitico, ecclesiale.
Il grande paradosso kolibiano: la positività dipende dal rapporto figura/sfondo e siccome la variabile indipendente è ovviamente lo sfondo, il senso, positivo o negativo s'inverte se s'inverte lo sfondo.
Da kolibiano, penso che un kolibiano non abbia bisogno di giustificarsi, che debba semplicemente precisare sempre meglio i contorni delle proprie concezioni a prescindere da quanto siano indigeste e sgradite.
Un kolibiano può difendersi dalle accuse di scandalo solo imputandole alle verità che professa. Se un avversario non riesce a contestare tali verità, alla sua incapacità va addebitata la responsabilità maggiore dello scandalo che egli stesso evoca e agita come uno spauracchio.
Del resto a molti, a moltissimi oggi sembra ancora strano ciò che forse tra qualche decennio, se l'umanità esisterà ancora, potrebbe apparire molto più 'normale', forse un giorno i kolibiani saranno diventati 'normali' e allora non dovranno più perdere tempo a giustificare la blasfemìa del loro principale sospetto: che proprio sotto le sembianze di una incontenibile 'positività' possa manifestarsi uno dei pericoli peggiori nonché la più capitale delle minacce.
Se una profezia di apocalisse non è un'assurdità ed è quantificabile, nell'arco di tempo di qualche decennio, in probabilità di rischio enormi se commisurate all'entità del rischio medesimo (una roulette russa generazionale con un caricatore capiente circa il doppio di una normale pistola a tamburo), allora anche l'umanesimo più tradizionale, se non corretto da adeguate avvertenze e consapevolezze, può tramutarsi in una droga allucinogena che induce comportamenti viziati da autolesionismi e assurdità.
Perché? Per il motivo semplicissimo che l'umanesimo tradizionale mente sapendo di mentire anche se i suoi interpreti in carne e ossa, i singoli esseri umani che se ne fanno portavoce, spesso non sanno che la visione del mondo da cui sono ispirati e condizionati attraverso consuetudini e abiti mentali indossati fin dall'infanzia, questa filosofia morale che è come una seconda pelle, mente sapendo di mentire.
In che cosa consista questa menzogna è presto detto: si tratta di una sorta di utilitarismo schizofrenico che vorrebbe prendere il meglio da due fondamentali impostazioni di pensiero, la scienza e la religione, misconoscendo la loro assoluta, reciproca inconciliabilità sul piano dei fatti e della natura ontologica del mondo. Di fatto è proprio l'esistenza indipendente di tale natura che viene risolta in un delirio di onnipotenza antropologica oggettivata in invenzioni/convenzioni metafisiche.
L'universo imperscrutabile del determinismo scientifico, la cui legge etica perfetta sancisce il cambiamento e l'alternanza infinita ("mai e poi mai alcun dominatore fisso, nessun protagonista unico e definitivo") è fatto amico e alleato e tramite esso (il potentissimo padre) ci si convince di poter risolvere ogni problema nell'ottica di un pragmatismo sociale che rinnova continuamente le licenze di errore, assolvendosi sempre grazie a una specie di arbitrio magico che l'umanità possederebbe nei confronti dei destini planetari.
Gli stratagemmi di un vecchio, consunto umanesimo.
Gli espedienti teorici attraverso cui ci si immunizza l'uno con l'altro dal senso di colpa per scelte assurde e devastanti sottolineano l'unicità di una evoluzione culturale basata sulla costruzione di mondi autonomi in cui l'uomo sembra spadroneggiare incontrastato.
Non è certo difficile e anzi viene automatico constatare come la specie homo ss si sia resa per molti versi indipendente dal corso degli eventi naturali creando ex novo un proprio cosmo artificiale rispetto al quale molti caratteristici tratti psicologici e comportamentali si prestano a reinterpretazioni profonde, riletture radicali, iscrizioni nell'ambito di nuove insorgenze strutturali, una pletora (già di per sé poco rassicurante) di livelli cosiddetti emergenti, di parametri da correlare ex novo secondo specifici gradi di autonomia.
Il trucco ovviamente non verte sulla falsità di tali supposizioni (assolutamente legittime, razionali, inconfutabili): il gioco di prestigio che si avvale di falsi indizi giunge a segno attraverso l'utilizzo illusionistico di tale alone fenomenico (una cortina spessa, concreta, visibile a tutti) per distrarre il singolo fruitore di credenze ortodosse da una verità altrettanto inconfutabile ed enormemente più determinante: che le leggi dell'universo continuano a valere e imperano indifferenti all'eventualità del tutto marginale che l'umanità si pavoneggi nel cerchio magico della propria particolarissima, inconfondibile originalità creativa.
La religiosità come categoria sociale non concerne Dio, ma una concezione dell'Uomo.
Non è sufficiente rimanere agnostico circa l'esistenza di un dio personale, per potersi considerare pensatore laico: occorre anche considerare l'umanità un evento accidentale dell'evoluzione cosmica, altrimenti si compie in un modo o nell'altro un atto di fede religiosa e questo atto non è neutrale, spassionato, esente da prese di posizione cruciali, dense di implicazioni compromettenti.
Forse lo era o tale poteva apparire fino a qualche decennio o secolo fa: ora non più.
Conta poco alla fine che si creda in un ideale o scenario metafisico oppure no, che lo si chiami 'Dio' oppure no. Che cosa significa 'credere in Dio'? Come si fa a sapere se uno crede nello stesso modo di un altro? Come si possono confrontare le rispettive concezioni se esse contraddicono le regole logiche e semantiche minimali e si esprimono violentando i canoni linguistici assodati, se si aggirano indisturbate ben oltre i limiti di qualsiasi nozione plausibile di verificabilità empirica?
Stabilire la corrispondenza tra due modi di vivere una fede è semplicemente impossibile, mentre una pura e semplice etichetta di appartenenza a una comunità di fedeli riveste una valenza politica concreta (condizione indispensabile per qualsiasi eventuale monetizzazione) e quindi i riscontri semplici e immediati dell'iscrizione burocratica movimenteranno sempre il commercio sociale indipendentemente e perfino contro le più diverse sottigliezze e specificità culturali.
Credere in Dio non significa altro che credere in una Chiesa e identificarsi con una certa organizzazione sociale, sentirsi parte di una determinata comunità di credenti a prescindere da quello che ciascun credente effettivamente crede.
Una Chiesa serve proprio a questo: a stabilire norme statutarie e corpi di dottrina che diffondano suggestioni simboliche sufficienti a riunire e integrare i credenti sotto la convinzione/convenzione dell'esistenza oggettiva di quello che credono.
Come il museo crea le opere d'arte molto di più di quanto le opere d'arte creino il museo, così una chiesa crea la propria fede molto più di quanto la fede crei la chiesa stessa.
E via andare
Ogni divinità consiste nel numero dei suoi fedeli e nell'imponenza dell'apparato ecclesiastico: una chiesa povera ed esclusivamente spirituale è una contraddizione in termini dato che un dio misero e tapino non può esistere se non per qualche setta ispirata da un misticismo visionario, né potrebbe esistere, salvo le solite eccezioni marginali che confermano la regola, una qualsiasi chiesa priva di funzionalità sociale e indipendente dall'esercizio di specifiche sovranità, esente quindi da intenti di manipolazione sociale.
Ibidem
La religiosità laica si è divisa politicamente in due rami: quello di destra ne ha fatto uno strumento di ordine che predispone una sottomissione obbediente a coloro che si rivelano degni di una investitura metafisica di responsabilità; quello di sinistra l'ha tradotta in crisma edificante che riflette la santità delle masse su coloro che credono nella governabilità delle stesse a prescindere dai risultati economici. Sia l'oggettività trascendente dei diritti al comando, che la possibilità di una gestione non materialistica della democrazia non rappresentano altro che comode e strumentali illusioni, più o meno in buona fede.
Ibidem vobiscum
Le chiese sono soggette alle stesse dinamiche di scala che sovrintendono alla sorte del mercato perfetto e democratico e dei rari campionissimi che possono vantarne la proprietà. L'Italia, sul lato politico, sembra costituire un'eccezione, ma solo perché il lato propriamente religioso iper-compensa la frantumazione, dal che si può intuire il grado italico di autonomia di una politica affetta da nanismo strutturale e soggetta non solo ai potentati finanziari ed economici, ma pure a quelli clericali, che ovviamente sono qualcosa di molto meno diverso di quello che appare. Ovviamente il nanismo strutturale si connette anche a una sociologia del clan, alla dimensione tribale preferita dai gruppi di pressione che, su modelli mafiosi, distribuiscono indennità e privilegi sostituendo un'anarchia baronale a uno stato che ha difficoltà a monopolizzare endemiche variabilità e promiscuità, già esorbitanti ed eccessive anche in assenza di nuovi apporti migratori.
La fiducia nella tenuta della moneta-valore promuove l'elettore ad autentico suddito.
Dato che pensare religiosamente non coincide con il credere in Dio, ma comporta invece, più generalmente, credere nell'umanità o perlomeno in quella porzione giudicata affine che merita apprezzamenti e procura sostegni, possiamo tranquillamente intendere come chiesa anche un qualsiasi partito politico, per cui, d'ora in avanti, se non viene specificato altrimenti, chiesa significherà qualsiasi effettiva e strutturalmente mirata organizzazione sociale che si ispiri a concetti di religiosità antropocentrica, siano essi clericali o laici.
Una chiesa propriamente detta necessita di tiare, scettri, troni e poi di quei portamenti e phisique du role in grado di avvalersene con umiltà e sobria sagacia, più o meno come una chiesa in senso lato, un partito politico, necessita di quei piccoli padri divinizzati che sono i leader carismatici: elementi così clamorosamente anacronistici inseriti nella cronaca più corriva con tanta ineffabile indifferenza e naturalezza testimoniano eloquentemente il complesso di mistificazioni profonde che condizionano le mentalità più diffuse e il modo di come il grosso degli elettori vi soggiace senza il minimo spirito critico.
Se a contendersi i voti continueranno a essere chiese e non progetti, tra un po' a votare andranno solo i gonzi e i furbetti del seggiolino, questi ultimi traducibili come 'adepti delle chiese al fine di ottenere protezione e vantaggi'.
I cavalieri dell'Apocalisse si sono scambiati le maschere.
Una moderna chiesa occidentale è oggi un istituto ben diverso dalle chiese del passato, non si propone d'infondere ubbidiente umiltà, riverenza in cambio di protezione, non evoca il timore di Dio che fa tremare i polsi e induce cautela in cambio di garanzie minimali: le chiese attuali pongono al centro dell'universo l'Uomo, ai singoli uomini chiedono fiducia nell'Uomo ecumenico, ovvero in una proiezione simbolica di se stessi, e in cambio trasmettono solerzia e 'positività'.
Fiducia nell'Uomo significa ovviamente fiducia nel sistema globale, una confidenza che le chiese moderne predicano al posto del patriottismo e dello spirito di solidarietà nazionale che, neanche tanto velatamente, sottintendevano fino a mezzo secolo fa.
Che tale sistema si traduca in una superbomba a orologeria non è considerazione che possa rientrare tra i presupposti di simili predicazioni, anche perché sconfesserebbe il Creatore (l'homo faber infinitus) e tutte le vispe creature che si atteggiano a sue volonterose imitatrici: basta dunque che l'innesco temporizzato cominci effettivamente a ticchettare ed ecco qua, papale papale, la totale inversione dei termini e dei valori.
Fino a prova contraria, infatti, correre con entusiasmo verso un trionfo o correre con entusiasmo verso un baratro comportano due diverse valutazioni dell'entusiasmo, a meno che non si identifichi il trionfo come la consacrazione paradisiaca dei santi martiri.
I danni incalcolabili della positività programmatica imposta come obbligo in apparenza irrilevante e quasi doveroso. Sterilizzazione dei messaggi attraverso il rispetto del lieto fine comandato imposto dai titolari dell'industria dell'informazione ai pubblicisti che non vogliono essere messi da parte.
Che la 'positività' per come è concepita costituisca oggi una immane disgrazia e una delle avvisaglie più perverse della incorreggibile protervia umana non deriva soltanto dalla stupidità che induce nei sudditi quando sono indotti a credere nelle ripetizioni dei soliti appelli e in parole d'ordine che hanno già fallito non una, ma decine, centinaia di volte: si manifesta dall'effetto che tale, sempre presunta e sempre tra virgolette, positività, comandata come conditio sine qua non, cifra stilistica da rispettare per poter proporre qualsiasi seria indagine analitica delle storture esistenti nei più diversi campi, ha finito per ribaltare l'efficacia di quasi ogni denuncia giornalistica trasmessa dai canali televisivi, al punto da trasfigurarla da motivo di allarme a intrattenimento intelligente, informato, e nonostante ciò 'positivo' (appunto!) e quindi tranquillizzante.
Quanto l'imprimatur finale obbligatorio, la sfumatura sacramentale imposta dai sommi sinedri in modo che, somministrata per ultima, cancelli le apprensioni fino a poco prima maturate e ridoni la giusta pace e fiducia nei crismi di sistema al pubblico che abbandona l'inchiesta e si rivolge altrove, quanto abbia nuociuto tutto ciò alla predisposizione di una indispensabile consapevolezza sui temi più strategici e scottanti, non sarà mai ribadito con sufficiente energia.
Serve a qualcosa delineare quadri una cui trasparente, naturalissima parafrasi in termini scientifici e filosofici costituirebbe una versione giornalistica (vivida di nomi e cognomi, cifre, spunti di cronaca, aneddoti, testimonianze, immagini evocative, riscontri documentali) delle più generali tesi kolibiane, se poi il tutto viene smentito da un inchino finale che appare come un omaggio obtorto collo a santa signora pagnotta e alle mani dei santi protettori che la donano, mani senza le quali di pagnotte, come si legge in filigrana, non ce ne sarà mai per nessuno?
Ogni seria inchiesta giornalistica su tematiche capitali dovrebbe concludersi con il rinvio a quel Progetto senza il quale di diman non v'é certezza, e invece, quando si tratta di superarsi nel crescendo finale, ecco la solita sviolinatura encomiastica elevata alla giustizia provvidenziale di un innegabile progresso materiale e spirituale, come se singoli affinamenti tecnologici che non coinvolgono una insidiosissima trasformazione di massa in energia potessero contravvenire le leggi evolutive dell'enorme macchinario termico costituito da una biosfera che non può certo migliorare le sue prestazioni (anzi!) solo perché è dominata da una singola specie e ciò, oltretutto, secondo le modalità perverse che il servizio giornalistico ha messo in luce benissimo prima di mettersi a farneticare, in chiusura, su miracolosi interventi divini improntati a una laica 'positività'.
Dimostrazione della illusorietà di una sanatoria integrale fondata esclusivamente sulla diffusione delle cosiddette energie pulite e rinnovabili. Solo il collegamento di certe risorse tecniche comunque indispensabili con l'idea del Progetto permette di distinguere i futuristi intelligenti dagli illusi succubi dell'ennesima lobby industriale.
L'uomo può solamente scatenare eventi energetici su livelli dimensionali estremi, molto superiori a quelli riscontrati in natura, ma può farlo (per esempio concentrando l'isotopo 235 dell'uranio) solo rimuovendo quei vincoli che si sono provvidenzialmente creati e hanno impedito la distruzione di tutto in un enorme ecpirosi (ciò che probabilmente accade in altri tipi di universo che così non possono fregiarsi di quella lucida, ben tornita e squisita ciliegina rappresentata dall'umanità o qualche degno fac-simile)
E' perlomeno arbitrario e avventato pensare che l'uomo possa migliorare l'efficienza tecnologica media di un utilizzo delle risorse ordinarie. Se il sotto-sistema planetario costituito dalla biosfera comprensiva di umanità riuscisse effettivamente a migliorare l'efficienza media dell'utilizzo delle risorse ordinarie della biosfera priva di umanità conservandone gli equilibri vitali, ciò rimetterebbe in gioco il diavoletto di Maxwell e rivoluzionerebbe i paradigmi della termodinamica. Bisognerebbe domandarsi però come mai i princìpi che renderebbero possibili tali performance clamorose non sono stati ancora scoperti.
E' mai possibile che, ai massimi livelli decisionali, non ci si renda conto (o che, pur avendone coscienza, lo si taccia) che migliorare l'efficienza funzionale e il rendimento energetico di un macchinario isolato (processo che, fissato il macchinario, tende comunque, di volta in volta, a un limite invalicabile) non comporta, né teoricamente né praticamente, un progresso dell'efficienza funzionale e del rendimento energetico del complesso biologico e ambientale in cui il macchinario è stato generato e con cui interagisce in una rete di azioni e reazioni?
E' così difficile da capire?
Un sistema parziale, o tramite gli automatismi naturali o tramite un'euristica umana molto più limitata, può essere modificato o anche stravolto in modo da avvicinare il culmine ottimale di quella che potremmo chiamare metaforicamente produttività, ma, da un punto di vista che si può vieppiù allargare fino a includere l'intero pianeta, è la composizione armonica e coerente delle diverse produttività che conta ed è qui che intervengono le problematiche più opache e insuperabili.
La presunzione assurda di una superiore potenza dell'umanità rispetto alla matrice che l'ha generata, in cui è immersa e che può riassorbirla in qualsiasi momento in presenza di una maggiore o minore probabilità bayesiana che alla fine non conta più di tanto.
Conviene soffermarsi su questa ovvietà ineffabilmente non solo ignorata, ma addirittura negata, perché è così fastidiosa per l'arrogante presunzione umana: che l'euristica umana sia appunto molto più limitata rispetto a quella naturale.
Deriva banalmente dalla considerazione delle scale di grandezza e degli algoritmi che la Natura, includendo il mondo umano come un ascesso fuori controllo, 'naturalmente' maneggia e che all'uomo sono preclusi. Questi maneggi animano i singoli esseri umani nei circuiti di un computer grande quanto l'universo e fa sì, tra sterminati altri eventi più o meno curiosi, che singoli esseri umani che, con diversi accenti e sfumature, si ritengono 'anime' possano pensare di fare meglio usando computer non più grandi di un appartamento o di un palazzo.
D'altra parte bisogna stare attenti a non esaltare troppo l'importanza delle dimensioni: basta considerare che micro-organismi incredibilmente piccoli e perfino singole molecole possono trasformare le anime sempiterne dotate di libero arbitrio nei loro burattini, mentre programmi ('app' per i dotti) di poche decine d'istruzioni mandano in tilt supercervelloni elettronici separabili concettualmente in bilioni di componenti.
Le connessioni della materia grigia di un singolo essere umano possono generare un numero di combinazioni diverse che è incredibilmente (all'atto pratico 'infinitamente') superiore a quello di tutti gli atomi esistenti nell'universo, perlomeno della parte accessibile ai telescopi: la dimensione è quindi un concetto molto relativo quando si ha a che fare con la complessità.
Il nocciolo della questione non riguarda le dimensioni e nemmeno il livello di scala inferiore o superiore (benché entrambi molto problematici per la boria umana), ma piuttosto i rapporti di dipendenza e inclusione: le anime e i computer grandi come una stanza o un appartamento o un palazzo sono contenuti nell'universo e più sono complicati e mirabili più si avvolgono in relazioni intricate con altre porzioni di universo.
Una censura cosmica (quasi opposta e complementare a quella che avvolge in un orizzonte d'inaccessibilità i buchi neri ovvero i processi iperbolici che si isolano dal mondo circostante stravolgendo la natura dei rapporti) sembra sancire l'inviolabilità della legge secondo cui ogni nucleo complesso, avvolgendosi automaticamente in una complessità molto più intensa d'interazioni con l'esterno, innesca contestualmente al proprio sviluppo i processi collaterali che ne limiteranno la durata nel tempo e nello spazio.
Questa sì è giustizia veramente divina.
Il costo numerico e quindi energetico di una traduzione della quantità in qualità. La macchina cosmica va in tilt senza il lubrificante dell'entropia.
Se il numero di configurazioni ottenibili variando lo schema dei contatti tra i neuroni del cervello e i loro prolungamenti, anche scritto in caratteri minuti, necessiterebbe della capienza di molti altri universi oltre al nostro per starci tutto intero, viene quasi da giudicare un po' deludente il risultato in termini di riscontri esterni a simili scatole nere e chiederci, in base agli eventi della cronaca quotidiana, dove vada a finire tutta quella potenza.
Occorre comunque tenere conto del costo enorme che verosimilmente è necessario pagare per trasformare la quantità in qualità, intendendo con quest'ultimo termine tutta la ricchezza di assortimento categorico deducibile dai portati soggettivi dell'esperienza.
Perché un immane e gigantesco 'fattoriale' (la formula che esprime le combinazioni di un numero fisso di elementi) si suddivida in un numero sterminato di fattoriali distinti e collegati e quelli producano il senso puntuale di strutture integre, continue, articolate in senso temporale e causale, non basta evidentemente la complessità di trama di un computer per quanto gigantesco.
Oltre, beninteso, a leggi ovvero regole nomologiche assai peculiari, occorre una potenza numerica superiore a determinati livelli per conseguire risultati che potremmo riassumere nel termine 'coscienza', livelli che di sicuro può raggiungere la nanotecnologia della Natura/Dio: che livelli di tale potenza siano accessibili alla tecnologia umana rimane assai poco plausibile.
Considerazioni del genere, banali quanto inconfutabili, non sviluppano puri svolazzi teorici: dovrebbero servire, variato opportunamente il contesto, a rendere i tecnocrati molto più cauti e consapevoli circa i limiti dell'efficienza energetica che il progresso scientifico può al massimo consentire.
Le contraddizioni dell'economicismo solo in apparenza scientifico e le connessioni con le aporie irrimediabili dell'umanitarismo religioso, a prescindere che indossi divise laiche o clericali.
Come possiamo riportare i precedenti concetti alla concreta ordinarietà delle vicissitudini umane? Risposta: considerando la condanna che l'economia globalista del mercato oligarchico commina a se stessa e a tutto il pianeta in modo che il nobile velleitarismo della tecnocrazia illuminata, quello che predica le energie rinnovabili e pulite e la convenienza della razionalità, non rappresenti altro che un palliativo e forse un aggravante.
"Sii buono perché ti conviene" recita il vecchio ritornello, ormai scaduto e forse mai valido, del grillo parlante sulla mano invisibile, "Investi bene nel segno del progresso e tutti ci guadagneremo, tu per primo!": il che, a conti fatti, significa, come già sottolineato ironicamente da Keynes, che il meglio può nascere solo dal peggio, il che potrebbe anche essere vero, iscritto cioè in qualche legge di natura dagli effetti paradossali, ma allora, fermo restando che tale effetto sarà sempre provvisorio se altre leggi prevedono un peggio definitivo, un peggio attrattore stabile, ci si dovrebbe interrogare intensamente sullo statuto delle direttive etiche e morali in una congiuntura di rovesciamenti automatici e beffarde eterogenesi dei fini.
La situazione odierna, agitata da masse planetarie d'individui spasmodicamente e istericamente lanciati verso il miglioramento delle proprie condizioni materiali, si può in effetti riassumere in un'alternativa quasi apodittica: o la razionalizzazione tecnologica ed energetica diventerà gradualmente sempre più costosa compromettendo le aspettative generali fino a uno stallo instabile di precarietà esplosiva (forse già raggiunto) o consentirà una crescita economica autoreferenziale che investirà tutto il risparmio e quindi tradurrà in ulteriore sovraccarico ambientale l'equivalente più gli interessi di quei dispendi e quegli sprechi la cui abolizione, in stato stazionario, si risolverebbe invece in alleviamento netto della pressione antropica.
Tale visione è difficilmente contestabile se si considera che il semplice mantenimento della situazione attuale non darebbe proroghe a probabili catastrofi in un arco di tempo di pochi, pochissimi secoli e che un semplice riequilibrio delle condizioni di vita ricondotte verso valori medi mondiali (un processo sotto certi versi ineluttabile) si situerebbe a livelli tali da scontentare fortemente le popolazioni dell'area occidentale e pregiudicare ulteriormente l'assetto ecologico generale, la cui cura rientra tra le esigenze di una sensibilità che raggiunge livelli soddisfacenti soltanto oltre quote medie di reddito attualmente acquisite solo in parti di mondo ancora minoritarie.
A noi kolibiani appare semplicemente ovvio che l'unica soluzione dignitosa e conveniente per una stragrande maggioranza di individui a prescindere dall'area geografica di pertinenza consiste nel comunismo di stato stazionario basato su stili di vita radicalmente diversi da quelli promossi dalla borghesia internazionale sulla base di un concetto ideologico di libertà e democrazia che rispetta sola l'autodeterminazione economica e di vincoli e vessazioni che ne conseguono anche a seguito di sperequazioni la cui crescita risulta ormai inattaccabile da qualsiasi approccio che non sia rivoluzionario-progettuale.
Ovviamente un approccio rivoluzionario non progettuale, benché plausibilissimo, non merita eccessiva attenzione: si realizzerà in uno o l'altro dei tanti esiti apocalittici che seguiranno l'eventuale crollo del liberismo planetario, se il sistema non riuscirà a prevenire i dissesti instaurando un autoritario e soporifero regime stazionario di tipo neo-feudale, l'unico, insieme al progetto kolibiano, in grado di bloccare il degrado climatico e ambientale ammesso e non concesso che sia reversibile.
Ogni esperimento di 'democrazia popolare' sarà ovviamente seguito da controrivoluzioni o dall'avvento di un tipo o l'altro di aristocrazia normalizzante, in un clima modulato secondo gradi diversi di tirannia o anarchia barbarica: la solita barba, insomma, un mondo non meno noioso sulla carta, anche se più pericoloso in pratica, dello stacanovismo alimentato da videogiochi e telefoni cellulari, sulla cui opera di pacificazione è comunque meglio non farsi troppe illusioni
La tragicommedia della politica comune europea nei riguardi del fenomeno immigratorio. Ambiguità di un atteggiamento oligarchico che ha bisogno di fasce sempre più estese di sotto-occupati e male-occupati per mantenere la coerenza di una incastellatura che deve continuamente dilatarsi in estensione e complessità perché altrimenti scricchiola e si riavvolge in se stessa. Pretesa assurda di risolvere limiti strutturali e conflitti d'interessi, non attraverso revisioni radicali di un sistema, ma ricorrendo ai soliti rigiri autoritari-diplomatici da Congresso di Vienna.
Non ci si può 'umanamente' aspettare che la cognizione popolare delle nazioni più influenti del mondo da tutti punti di vista, quelle che occupano la fascia settentrionale dell'emisfero boreale, non vedano di buon occhio il riscaldamento globale. Certo, da un punto di vista scientifico, nell'inclinazione benevola e permissiva interviene molta disinformata e incauta scellerataggine, ma si sa che le visioni del mondo dominanti non si ispirano a valutazioni puramente razionali, soprattutto se quelle inducono controindicazioni sicuramente preoccupanti non prima di qualche decennio, secondo stime che sono sempre 'umanamente' stiracchiate nel senso di una dilatazione delle proroghe concesse.
Da italiano-kolibiano, che si diletta a saggiare le possibilità di una lingua destinata a sparire e trasformarsi in una specie di esperanto locale e dialettale entro un secolo o poco più, vorrei soffermarmi però su un problema di comunicazione tra un rappresentante politico di spicco di quei nordici di cui parlavo nel precedente paragrafo e un collega italiano di pari grado.
Come potrebbe il primo, quel nordico (che, benché (in genere) poco condiscendente verso la mentalità effettivamente un po' strana del suo interlocutore, nutre tuttavia timori per i dissesti di una economia che, in termini quantitativi, rientra pur sempre o quasi tra le prime dieci o undici del pianeta) far presente al suo interlocutore italiano (il quale, per ragioni elettorali, è costretto a tenere un orecchio sempre aperto in direzione del santo padre cattolico e apostolico (il cui parere non può essere comunque trascurato a cuor leggero nemmeno dal nordico)), i seguenti concetti, netti e fondamentali quanto impresentabili secondo le convenzioni etiche correnti:
1) quando l'Africa andrà a fuoco il nostro clima sarà verosimilmente migliore che in passato;
2) l'Europa meridionale si trova in prima linea sul fronte delle migrazioni climatiche, che saranno una bazzecola rispetto a quelle indotte marginalmente da guerre e principalmente da ragioni economiche;
3) dovete prepararvi a difendere voi stessi e implicitamente (è ovvio che siano quelle a preoccuparci di più) le nostre frontiere;
4) non mi sembra un buon inizio dispiegare l'esercito e la marina non per adempiere a compiti di contenimento, ma per facilitare il lavoro degli scafisti;
5) purtroppo molto del danno è già stato commesso, già vi siete meritati il compiacimento ironico e il dissimulato disprezzo di molti dei rudi governanti e/o trafficanti mediorientali, per cui serviranno manovre delicatissime per rimediare evitando l'accusa di disumana brutalità;
6)) se volete fingere di non recepire il messaggio segreto che continuiamo a mandarvi in modo crptico (come possiamo dirvelo apertamente senza infrangere i più doverosi vincoli umanitari?), almeno evitate di chiederci aiuto per le vostre difficoltà.
Al kolibiano, che crea già scandali sufficienti rivelando verità molto meno compromettenti, il problema interessa, lo ribadisco, soltanto a livello comunicativo e linguistico: in che modo il linguaggio diplomatico può cercare di forzare certe porte proibite e con che artifici dialettici queste si possono rinforzare per ragioni traverse di strani interessi compositi. Ah, quanto il kolibiano vorrebbe poter svolazzare come una mosca e assistere a tali acrobatiche sottigliezze quando sono dispiegate negli incontri al vertice!
Un kolibiano del resto non ha bisogno di alibi o armature morali, la sua proposta è nota ed è esposta nel modo migliore possibile: non è colpa sua se non viene presa nella minima considerazione.
Uno schiavismo moderato e gentile versione Caritas s'illude che basti offrire condizioni migliorative rispetto a uno stato pregresso, pagate da fasce autoctone in arretramento progressivo, per evitare rivolte, conquiste o ritorsioni e salvare assetti ormai scaduti.
Le ragioni traverse degli strani interessi di cui si diceva si mostrano con incredibile e involontaria trasparenza quando per esempio un direttore dell'INPS rende noto che i flussi migratori sono indispensabili per mantenere gli equilibri di bilancio e, senza quelli, per la crisi demografica, le perdite si accumulerebbero in modo insopportabile nel giro di una decina di anni o poco più.
Quel direttore fa bene il suo mestiere ed esplicita la situazione dal punto di vista di ben determinati interessi, non ultimi quelli dell'organo specifico che emana il comunicato. A parte questi, gli interessi di cui si parla mettono capo, in primo luogo, a determinate fasce generazionali di occupati e, più in generale, a quelle categorie professionali di funzionari, imprenditori, finanzieri che costituiscono la classe dirigente, oltre, ovviamente, a tutta la nebulosa che ruota intorno allo stato indipendente del Vaticano e quindi all'industria e alla finanza della carità.
Chi ci rimette? Ovviamente le giovani generazioni autoctone dei ceti medio-bassi senza santi in paradiso, a cui vengono preclusi artificialmente i vantaggi naturali derivanti da un'offerta di lavoro carente nei settori delle attività sgradevoli e faticose, che dovrebbero trovare copertura, in base a elementari meccanismi di mercato, attraverso retribuzioni più elevate. Solo in questo modo il ceto medio potrebbe sperare di mantenere quote maggioritarie e quindi evitare in un futuro nemmeno tanto lontano turbolenze domabili solo con escalation autoritarie e un eccesso di comportamenti e attitudini incompatibili con una sana coscienza ecologica.
La maggioranza dei giovani, non solo a causa dell'immigrazione ma con l'aggravante di questa, si troveranno invece nella necessità o di entrare in competizione per lavori sotto-pagati con concorrenti molto più dotati di resistenza e sopportazione (almeno per quanto riguarda la prima generazione di migranti, poi è tutto da vedere) per ottenere posti sempre meno qualificati e gratificanti (gli unici che in percentuale s'incrementano in presenza di un progresso tecnologico indispensabile per non soccombere alla competizione) oppure di accedere a professioni migliori affette da scarsità ed eccesso di richiesta, a cui ovviamente, grazie alle riforme liberiste, dovranno aggrapparsi con una ostinazione e uno spirito di sacrificio che non li salveranno dalla precarietà.
Morale della favola, l'INPS, per garantire le pensioni connesse a un dispotismo 'soffice' distruttore del concetto stesso di mercato del lavoro e favorevole a quelle classi di età che sono maggiormente responsabili del dissesto dei conti pubblici, denuncia scoperti economici che possono essere coperti solo dall'ondata migratoria e intanto la sotto-occupazione cronica, con una disoccupazione reale di almeno il 40%, riguarda almeno tre giovani su quattro (compresi gli immigrati di seconda generazione), mentre gli altri oneri a carico dello stato indotti dal fenomeno migratorio superano gli ammanchi che l'INPS si vedrebbe compensare.
Il meccanismo esemplifica bene come un sistema che è ormai alla frutta, una economia di mercato in cui il mercato è solo lo specchietto per le allodole, il gioco delle tre carte degli illusionisti oligarchici, trova sempre argomenti per protrarre se stesso millantando come impegno e dovere etici quelle che sono mere convenienze di chi può opposte agli svantaggi di chi non può. Puahhhh!!!
C'è poi un altro aspetto su cui si sorvola con colpevole scelleratezza. Se un bilancio stazionario tra nascite e morti comporta effetti negativi, ciò non dovrebbe richiamare rimedi rivolti a un aumento della popolazione, dato che la situazione climatica e ambientale e i risvolti sociali che vi si connettono, correttamente analizzati, non possono che risentire in modo negativo di un aumento della popolazione in qualsiasi luogo si realizzi.
Il direttore dell'INPS, in una prospettiva lungimirante e allargata che onestamente esula dal suo compito istituzionale, dovrebbe insomma dedurre dalle simulazioni del proprio centro studi, non che l'immigrazione è necessaria, ma piuttosto che l'INPS non ha più senso, che tutto il sistema previdenziale e di conseguenza tutto l'apparato produttivo e distributivo dovrebbero essere radicalmente rivisti.
Solo dopo tale revisione drastica tramite Progetto gli scambi di popolazioni tra le nazioni e altri eventi epocali potranno essere affrontati diversamente da ora, cioè senza quel fatalismo che dispone delle medesime possibilità di manovra concesse da un asteroide scoperto troppo tardi.
Approfondimento sistemico della questione.
L'immigrazione è l'estrema ratio, la chiave di sfogo di un sistema malato: in un primo tempo sarà utile a protrarne nel tempo l'agonia, più avanti renderà ancora più esplosiva di quello che sarebbe stato il redde rationem finale.
E' chiaro che i fenomeni migratori potrebbero essere proficuamente gestiti, insieme a tutte le questioni di solidarietà internazionale, a livello di accordi tra stati una volta che sia stato implementato un tipo di comunismo kolibiano inteso come modello generale di società con varianti locali, mentre, in assenza di detta trasformazione, il caos entropico e le differenze che nessuna 'integrazione' potrà mai sanare (proprio perché le differenze non sono un difetto, ma il principio costitutivo stesso della biosfera) renderà sempre più difficile conseguire un'organizzazione liberale che, quando esiste, facilita quelle libertà da cui è ostacolata prima di esistere.
Solo regole 'divine', principi di autorità suprema, governano le differenze, ma la Natura che, nella versione biologica, è il massimo della differenza ovvero dell'ordine all'interno di una produzione di entropia adeguatamente maggiore, la Natura che è insomma disordine ragionato, delicatissimo meccanismo a orologeria composto dai frattali di sterminate anarchie, stato stazionario che, quando oscilla, può superare certe barriere di un teorico spazio delle fasi e mettere capo inesorabilmente a periodi di grandi estinzioni, questa Natura se la ride delle assurde ipostasi dell'intelletto umano che pretendono d'imporre il dominio di un solo dio, in genere quello di un clan o di una classe di dominatori, quando di fatto esistono tante divinità quanti sono gli esseri umani.
Se un sistema ha bisogno continuamente di crescere in componenti e complessità per mantenere equilibri che diventano inesorabilmente sempre più precari, il sistema sta votandosi all'autodistruzione e l'unico modo di evitare che quella si manifesti in modo esplosivo danneggiando anche i dintorni (che nel caso dell'umanità coincidono ormai con l'intero pianeta) si rivela uno e uno soltanto: cambiare sistema.
Esemplificando con volgari dettagli: una 'economia di libero mercato' (definizione ridicola) che ha bisogno di masse fluenti di disperati per rimanere in piedi, pur continuando a demolire un pezzo alla volta il suo artificiale e farraginoso sistema assistenziale e previdenziale, ricorda una specie di enorme parassita che divora ogni cosa fino a che non potrà che mangiare se stesso.
I virus e i batteri più duraturi e diffusi, come quelli dell'influenza, non determinano patologie mortali nella specie che infettano, altrimenti o non si diffondono più di tanto o scompaiono con la specie di cui provocano l'estinzione: lo pseudo-mercato globale è un agente patogeno mortale non dell'umanità, ma di tutto il pianeta.
Politica energetica ed ecologia nordica.
Se un premier il cui territorio si estende in vicinanza del circolo polare si preoccupasse del riscaldamento polare, dovrebbe concentrarsi sulle nuove rotte commerciali consentite dal disgelo artico e combattere strenuamente la loro apertura.
E' sufficiente valutare il contrasto nelle fotografie aeree tra le acque libere (quasi nere) e gli abbaglianti ghiacci circostanti per nutrire il sospetto che basti la differenza di albedo determinata da uno scioglimento estivo totale dei ghiacci per modificare sensibilmente la percentuale (circa il 4%) della radiazione riflessa direttamente dalla superficie del pianeta senza generare effetti termici, anche perché, nel caso specifico, la radiazione sarebbe immediatamente assorbita dal nastro trasportatore delle correnti termoaline intervenendo nelle dinamiche di sprofondamento delle acque superficiali e risalita degli strati profondi; ma forse si tratta solamente di un'altra dilettantesca fisima di noi kolibiani che gli esperti ufficialmente incaricati (non i tecnici puri, ma i supervisori che mediano tra scienza e politica) si affretteranno a contestare, anche se, come chiunque altro, essi non hanno la più pallida idea intorno alle soglie di sensibilità da non superare e inoltre i loro modelli di simulazione risultano, alla prova dei fatti, sistematicamente ottimisti, anche se vengono riadattati ad hoc per tenere conto degli avvenimenti reali.
Per tali esperti ortodossi, ben visti dalle specchiate e incorruttibili commissioni targate con il marchio di qualità dell'ONU (come l'Organizzazione Marittima Internazionale, ottimamente diretta da fari della civiltà come Panama, Liberia e Isole Marshall), l'effetto serra da anidride carbonica esaurisce tutta la questione e siccome tra cinquant'anni il petrolio è finito, la questione è risolta.
Purtroppo, a tutt'oggi, escluso il nucleare, l'unico sostituto del petrolio che non provochi effetti depressivi sull'economia mondiale rimane il carbone (riserve per più di mille anni), mentre l'energia idroelettrica può dirsi tutto meno che rinnovabile e davanti alle sue migliaia di laghi artificiali, alle sue acque immobili installate al posto di fiumi e foreste, alle conseguenti modifiche dei bilanci idrici e geochimici tra terra, mari e atmosfera, è un po' arduo sostenere che non abbia creato dissesti ecologici e ambientali e che quindi sia 'pulita'.
Tutti comunque sanno che un transito intenso di navi commerciali può accelerare esponenzialmente i processi di scioglimento, ma come si fa a rinunciare ai relativi introiti aggiuntivi e alle ricchezze generate da una maggiore agibilità del territorio, quando il diritto marino include il passaggio a nord-ovest tra i propri territori?
Si può solo sperare che nazioni con una densità di popolazione che, già bassa, si abbassa ulteriormente per l'arretramento dei ghiacci, si prestino ad assorbire migranti da territori a rischio siccità e altri disastri, evitando possibilmente di ammannire a nazioni meno fortunate e con densità abitative che hanno già raggiunto il limite di tolleranza lezioni di accoglienza che qualche politico delle nazioni meno fortunate potrebbe addirittura prendere sul serio.
Politica energetica e illusioni universali
Non serve riferirsi alle nanotecnologie batteriche, alle incredibili strategie di volo degli insetti e degli uccelli o a tutta l'ingegneria della locomozione animale per ribadire la superiorità tecnologica della Natura rispetto alle pur straordinarie realizzazioni umane, non sarà mai appiglio sufficiente per concludere che l'efficienza energetica e i rendimenti concreti della massa biologica generale non potranno essere superati dalle performance di una singola specie, a meno che quella non s'inventi procedure esclusive, prìncipi mai applicati e strumenti innovativi in accordo con le leggi naturali.
Dato che gli organismi viventi utilizzano, direttamente o indirettamente, la sola energia solare, se si affida il futuro dell'umanità allo sfruttamento di questa, è perlomeno azzardato per l'umanità pensare di poter instaurare un dominio planetario con rendimenti complessivamente migliori di quelli conseguiti dalla biosfera e se anche lo si ottenesse, non sarebbe forse il caso di trascurare l'evenienza di averlo fatto superando limiti d'intensità e sfruttamento che sarebbe stato molto meglio non superare.
Poiché sembra che il solare rimanga la tecnologia più promettente una volta esclusi combustibili fossili e nucleare, diventa automatico trarne determinate conclusioni.
Con ciò non si vuole caldeggiare l'opzione nucleare (tecnica che si erge comunque solitaria se si tratta di proporsi in modo credibile come procedura esclusiva, principio mai applicato e strumento innovativo rispetto alle 'scelte strategiche' della biosfera): la sua diffusione capillare proporrebbe anche rischi inevitabili e allucinanti.
S'intende esprimere un concetto semplice e chiaro: la proposta di fonti pulite e rinnovabili in alternativa a petrolio, carbone, nucleare eccetera provocherà verosimilmente costi economicamente proibitivi in caso di sostituzione completa delle fonti tradizionali generosamente messe a disposizione da Mamma Natura, quindi l'opzione delle energie alternative o farà esplodere in modo incontrollato le sperequazioni e polarità sociali già in costante crescita o dovrà accompagnarsi a modelli di ristrutturazione centralistica di tipo progettuale.
A prescindere da quello che pensano i sostenitori delle energie innovative, che possono benissimo costituire una lobby industriale come un'altra, la scelta energetica (che è comunque obbligata per il livello dei gas serra, l'esaurimento del petrolio entro pochi decenni e la pericolosità ambientale del carbone) comporta a livello concettuale una scelta tra conflittualità esacerbata e rivoluzione progettuale.
La logica del discorso non viene certo infirmata dalla considerazione che si tratta appunto di una dicotomia concettuale e che all'atto pratico le prime mosse che saranno tentate si iscriveranno, esplicitamente o sotto mentite spoglie, all'insegna della programmazione oligarchica e dello pseudo-umanitario assolutismo aristocratico-religioso.
Se il futuro energetico si incentra sul solare, ciò comporta due conclusioni non proprio tranquillizzanti: a) l'efficienza media di utilizzo sarà inferiore e forse non di poco al grado conseguito dal complesso biologico terrestre extraumano; b) il dono non più utilizzabile della geologia rappresentato da giacimenti di petrolio, carbone, gas naturali eccetera peserà come perdita economica netta globale nella stessa misura in cui l'utilizzo significa al contrario appropriarsi di un lavorio chimico in grande scala durato milioni di anni.
Il fatto che considerazioni così elementari non facciano parte di argomenti comunemente discussi denuncia una enorme coda di paglia da parte della cultura a cui si concede udienza ufficiale nelle sedi decisionali importanti e presso quelle corti sempre tanto euforicamente disposte a cianciare di grandi obbiettivi trionfalistici quanto risolute a ignorare le muraglie di ostacoli nemmeno tanto lontani che costringerebbero ad adottare da subito decisioni problematiche e compromettenti.
Aggiunte del 27 marzo 2017
LE DOMANDE E RISPOSTE PIU' SIGNIFICATIVE MAGISTRALMENTE ESTRATTE PER VOI DA TANTI MAGNIFICI CONTRIBUTI DIALETTICI VARIAMENTE ASSORTITI SECONDO NOBILI E APPREZZABILISSIME FONTI. A TITOLO DI ESEMPIO, CITIAMO: SFOGHI-CONFESSIONI DEI KOLIBIANI ORDINARI E CONSOLAZIONI-ASSOLUZIONI DEI KOLIBIANI ECCELLENTI, BOTTE E RISPOSTE DA TAVOLE ROTONDE E PUBBLICI DIBATTITI, BRANI DA POSTE DEL CUORE E RUBRICHE DI CONSIGLI PSICOLOGICI, FAQ DELLE PRASSI DOTTRINALI ORTODOSSE E DEI SITI UFFICIALI PIU' EMINENTI
Ci limitiamo a poche e rapide osservazioni sugli esempi di catarsi penitenziale. Come è abbondantemente risaputo, l'istituto della confessione e del perdono fu introdotto nella pratica militante da alcune correnti kolibiane, definite, di volta in volta, secondo i casi e gli scopi, spurie, apocrife, eretiche, dissidenti, in realtà perfettamente amalgamate nel grande calderone 'pluralista' della fase di maggior successo universale: le iniziative risentirono probabilmente di studi analitici sui punti forti della concorrenza e in particolare di alcune valutazioni circa gli effetti consolidanti e fidelizzanti che sceneggiature analoghe assumevano presso confessioni rivali, debitrici per molta parte della loro longevità storica verso siffatte curiose pratiche di socialità deteriore. Tradurre in eventi terapeutici effettivi, in dialettiche inventive e produttive, forme di plagio operato attraverso mistificazioni sacramentali non fu per niente facile e ne troviamo una significativa esemplificazione in alcune delle seguenti proposte (in realtà poi ho deciso di espungerle. NDC), a volte pericolosamente inclini all'intimismo esibizionistico nonostante la pubblicizzazione dei rituali (generalmente adottata, a parte sporadiche eccezioni, nonché soggetta, ahimè, alle intrusioni dei manovratori oligarchici come le primarie dei PD) attraverso cui ci si proponeva appunto di prevenire certe imbarazzanti 'confidenze particolari' (Nota della Curatrice Nepente Dolores Callando)
Quello che più mi stupisce dei kolibiani è che ancora esista gente capace di credere in un benessere gratis et amore dei, non promosso e sorvegliato da un impegno costante e una vitalità propositiva conseguiti, progetto o non progetto, attraverso l'unico propulsore possibile e immaginabile in grado di attivarli: la sana, corretta, aperta, leale competitività economica. Vuole per cortesia dissolvere le mie peccaminose perplessità?
La sana, corretta, aperta, leale competitività non esiste e quello che a noi kolibiani stupirebbe di più, se fossimo ottimisti, potrebbe essere che esiste ancora gente incapace di comprendere l'autentica natura, non della sana, corretta, leale, aperta competitività, che non può esistere, ma della competitività economica punto e basta. Se il mitico, fantasmagorico Mercato dei mercati, di cui molti uomini dabbene favoleggiano, esistesse, per consentire una morigerata, pudibonda, virtuosa competizione dovrebbe essere governato da regole ferree e quindi non esisterebbe, perché le regole della politica e del buon governo, con i loro tardigradi ritmi evolutivi, non possono tenere testa a sviluppi molto più dinamici e imprevedibili come quelli che scuoterebbero un ipotetico mercato della concorrenza perfetta (la sana, corretta et cetera). Le regole dei processi accelerati non possono che dipendere da riferimenti che si muovono a velocità paragonabili e che non rimangono indietro gesticolando con la manina verso il bolide che rimpicciolisce a vista d'occhio. Quindi le regole (che, se ci sono, esistono in prevalenza per essere violate), le detta il mercato, quindi le regole le dettano i vincitori del mercato e quindi il mercato, almeno quello teorizzato da una scienza economica asettica e 'neutrale', esiste come il punto matematico senza dimensioni quindi non esiste e non può esistere. Se esistessero regole effettive, al di là di quelle minimali necessarie a un ordine sine qua non, secondo avvertenze intese a escludere l'instabilità patologica, (per esempio, il libero assassinio del concorrente, senza la mediazione di obblighi cerimoniali, non può essere ammesso nemmeno nelle tribù primordiali comandate dalle aristocrazie guerriere. NDC) la loro applicazione dipenderebbe da figure arbitrali coincidenti con quei giocatori della partita che sono in grado o cercano di essere in grado di modificarle nel corso della partita medesima, tenendo in piedi soltanto le parti indispensabili ai fini della continuazione dello spettacolo (the sow must go on). In un mercato competitivo violare (nel modo 'giusto' ovviamente, secondo modalità che rappresentano l'unico tipo di giustizia tollerabile dai mercati. NDC) le regole e i mutevoli disposti arbitrali, qualunque essi siano e qualunque valore e significato li rivesta, configura il rapporto più favorevole tra rischio e rendimento e quindi sovrintende a quel decalogo basilare che non può essere ignorato da pianificatori e strateghi della propria e altrui fortuna, almeno da quelli non folli e masochisti. Naturalmente, il modo più comodo e meno pericoloso di contravvenire alle regole, riservato a coloro che se lo possono permettere, resta l'opzione di disegnarle secondo le proprie convenienze. Le varie cupole oligarchiche (gli equivalenti delle aristocrazie guerriere nell'epoca della guerre fredde economiche) vi si dedicano assiduamente, ma affinché la barriera di regole con la base in ferro e le parti alte di cartapesta rappresenti il confine universale tra il fallimento e il successo si richiede che la politica diventi un'attività economica e professionale accanto alle altre, quotata quindi sul mercato, il che possiamo considerarlo un fatto pacificamente acquisito in regimi globali e liberisti privi di visioni di largo respiro in tensione reciproca, almeno in una dimensione nazionale e internazionale e per quanto riguarda le compagini composte dai partiti che governano più quelli che non governano ma non sono all'opposizione (non fanno opposizione autentica al processo marziale delle riforme dettate dai padroni degli pseudo-mercati, anche se fingono mosse barricadiere per contrattare fette di potere. NDC) e quindi prima o poi governeranno. Le prove e controprove abbondano, iscritte nelle liste e nei registri, estesi ai circoli parentali, di intrecci e frequentazioni eminenti, incarichi e connivenze, dipendenze e curriculum, tradizioni e storie familiari e professionali, alberi delle connessioni gerarchiche e delle partecipazioni societarie, consigli di amministrazione di aziende pubbliche e private, di fondazioni e istituti benefici e onorari. Naturalmente, per avere un quadro più chiaro, si consiglia di annettere il Vaticano, senza eccezioni e distinguo, al novero delle multinazionali che spadroneggiano sul territorio.
Il vostro programma di riforma radicale o rivoluzione sembra quindi inscindibile dall'abolizione della politica: è così che intendete arginare lo strapotere delle forze economiche?
Il ruolo di amministratore, mediatore e arbitro assunto dalla politica non sopravvive a forme di selezione e contestuale massificazione che rimescolano le tradizionali divisioni della società in classi definibili e distinguibili, (operai, ceto medio e imprenditori/capitalisti, secondo una visione rozza e schematica valida solo sul fronte occidentale. NDC) ciascuna con le proprie rappresentanze che (almeno in apparenza) si spiavano a vicenda in cerca di difetti e mosse false da utilizzare in attacchi polemici, brandivano le proprie corone sempiterne dei valori e quando queste, cozzando, rischiavano di rovinarsi, le proteggevano con l'esercizio delle spartizioni. Proviamo a porci una semplice domanda: che cosa rappresentano, oggi, in una democrazia rappresentativa, i rappresentanti politici? Che interessi specifici difendono i singoli partiti quando perfino il clochard che dorme per strada ritiene ormai che, se la macchina produttiva rallenta, non ci guadagna nulla e anzi ci rimette?
Finita la competizione sociale su larga scala, in seguito a una preminenza oggettiva di leggi strutturali a cui tutta una serie di giochi antropologici (come la religione, NDC) fingono di opporsi, ma in realtà fanno da corte e cavalieri serventi soggiacendovi nel mood di un melodrammatico spirito amletico, (sotto cui il compiacimento traspare da ogni angolo e fessura. NDC) la competizione economica si divora in un sol boccone tutto il palcoscenico. La politica tradizionale non riuscirà mai più a riconquistare, non dico il controllo, che solo a pensarlo viene da ridere, ma una sia pur modesta possibilità di condizionamento di potentati finanziari ed economici che si dilatano e si ramificano senza posa, perlopiù attraverso manovre riservate e invisibili. La politica non può che distendersi sensuale e voluttuosa e farsi conquistare dalle maglie mobili di quei tentacoli che si tendono e ammorbidiscono secondo la resistenza che incontrano. Non è fantascienza da invasione degli ultracorpi, ma bolsa, stucchevole cronaca grigia. O i mostri che fatturano come gli stati impiegando direttamente o indirettamente un millesimo dei cittadini di uno stato vengono assorbiti dagli stati o tanto vale che anziché sovrapporre cariche di partito e funzioni pubbliche si accorpino le figure di amministratore delegato (o cardinale) a quelle di deputato.
Non è alla fine quello che si propone il progetto kolibiano?
No, il progetto kolibiano si propone il comunismo economico liberale (il comunismo delle risorse dinamiche (produttive), non necessariamente di quelle statiche (patrimoniali), che devono soprattutto perdere d'importanza rispetto ai beni comuni) conseguito attraverso un'abolizione obbligata della competitività che è corollario automatico di quella esigenza impellente e inderogabile rappresentata dallo stato stazionario.
Anche a prescindere dalla contraddizione vivente degli aspetti regolamentari, sufficienti comunque a sancire una frattura insanabile tra liberismo e democrazia, (i paradossi, le antinomie, le impossibilità a essi collegati potrebbero spiegare da soli la decadenza nell'immaginario collettivo della mentalità scientifica, relegata a ruoli di servizio marginali a tutto vantaggio della mitologia religiosa e umanitaria, avvicendamento utile a tarpare le ali a qualsiasi serio intendimento di ricognizione oggettiva, di analisi seria dei condizionamenti in atto. NDC) la competitività fallisce su un piano puramente tecnico e funzionale, dissesto di cui non ci si accorge semplicemente perché le pillole amare sono somministrate inizialmente a dosi omeopatiche, aumentate per gradi e infine raccomandate a titolo permanente fino a diventare razione quotidiana con cui ci si confronta in un doveroso cimento senza più ricordare come il tutto sia cominciato, probabilmente perché così (tale è la considerazione a cui si acconcia il suddito medio. NDC) è sempre stato oppure non potrebbe essere diversamente. (La somministrazione mediatica potrebbe ricorrere, per esempio, ad accorgimenti come quelli del nostro telegiornale preferito, che prima butta là come se niente fosse previsioni da cardiopalma e motivi per prenotare un suicidio, poi mostra l'eroismo di malati terminali che si dichiarano fieri di una lotta a oltranza grazie alla quale la propria esistenza (illuminata perfino dalla commozione di Elton John) si è inverata di significati profondi, poi mostrano la ricetta per risolvere i mali del mondo escogitata dall'ultimo rapper o ballerino scoperto dalla Maria nazionale o da qualche emulo più o meno degno. Ovviamente il riferimento al malato terminale (a cui professo tutta la mia sincera ammirazione per una incredibile forza d'animo che meriterebbe ben altre sottolineature) farà indignare un sacco d'imbecilli disposti invece a osannare un suo utilizzo in apparenza encomiastico, ma in realtà solo strumentale. NDC)
A dispetto di tanti colpi di scopa sotto il tappeto e vaccinazioni all'insaputa e alla chetichella, la competitività genera comunque (a tiro lungo, ma ormai ci siamo o quasi. NDC) incongruenze e disordini che crescono a un ritmo esponenziale o, per meglio dire, che crescerebbero a un ritmo esponenziale se una competitività reale non tendesse col tempo a essere limitata allo scannatoio dei piani bassi, venendo sostituita più in alto da accordi di vertice benedetti da quelle autorità anti-trust che stanno al loro posto per vigilare affinché le concentrazioni avvengano liberamente senza generare sospetti. Le vere concentrazioni pericolose, infatti, sono quelle assolutamente regolamentari (quelle che si spartiscono mercati enormi tra una manciata di pretendenti che, attraverso partecipazioni incrociate e di minoranza, zampini nei vari consigli, iscrizioni a libro paga di consulenti o parenti di consulenti, società di comodo, comitati di affari, istituzioni sacramentali e no profit, aprono infiniti canali con cui intraprendere infiniti idilli collusivi). A queste concentrazioni, il Mercato e i suoi vigilanti cicisbei (il mitico bestione con edificante bellona religiosa e umanitaria annessa in matrimonio. NDC) manda baci, abbracci e bigliettini di auguri, mentre le concentrazioni potenzialmente innocue o favorevoli nei confronti dei sudditi (quelle che potrebbero essere rese tali da interventi politici degni di questo nome. NDC) ovvero quelle che affidano un mercato geograficamente limitato a un solo attore, sono fieramente osteggiate.
Non sarebbe più logico ritenere che un solo attore si apparecchia la scena come vuole, mentre attori diversi finiranno prima o poi con il litigare e farsi gli sgarri a vicenda?
Questa è la storiella che viene propinata al pubblico sovrano e intelligente che approva d'istinto, in realtà gli attori diversi non esistono poiché la danza delle poltrone dei singoli tecnocrati freddi e distaccati, senza vincoli definitivi di appartenenza, non si arresta mai e le linee di confine non si possono tracciare senza una visione chiara di sinergie, interdipendenze e accordi nelle stanze segrete. Ormai le strategie di marketing sono farina di un sacco comune, purché di stoffa pregiata e ingemmata. Non occorre essere dei geni di tecnica aziendale, basta guardarsi intorno a occhi bene aperti, per rendersi conto che il vero serbatoio degli utili di una holding non fa riferimento a una somma aritmetica di singoli mercati da contendere agli avversari, bensì al volume complessivo della ricchezza comune. Quanto al monopolista, può far paura soltanto nel contesto di una politica imbelle e/o corrotta, altrimenti è ovvio, lapalissiano, inconfutabilmente elementare che, allo stato attuale (molto vasto!) delle cognizioni e dotazioni culturali, scientifiche e tecnologiche, un monopolio anche privato costituirebbe un'ottima base di partenza per una composizione organica dei vari interessi territoriali, che esigerebbe ovviamente un intervento assiduo e penetrante dell'amministrazione pubblica nelle decisione private. Quelli che ancora blaterano intorno agli effetti benefici della competizione sulla spesa di disoccupati e precarizzati, se non si riferiscono alle faide degli imprenditori proletari, confondono gli sconti effettivi che la tecnologia renderebbe accessibili con i punti d'intersezione delle curve nei diagrammi di vendite e prezzi.
Il bello (l'orrore affascinante) è che la negatività dovuta alle collusioni e corruzioni impallidisce rispetto ad altri effetti deleteri, tra cui l'accumularsi progressivo del costo delle innovazioni e il conseguente progressivo assottigliarsi dei detentori, custodi e giudici del progresso tecnologico. A costoro (in genere magnati ricchissimi circondati da una corte dei miracoli di lucidatissimi saggi e luminari) l'umanità sta affidando il proprio destino, se (come molti ritengono e fingono di non ritenere perché fa molto più chic venerare papi e santoni che i cervelloni della tecnica, al punto che papi e santoni costituiranno sempre i superbi cavalli, bardati con palandrane e schinieri sulfurei, in groppa ai quali i cavalieri dell'apocalisse cavalcano più solenni e maestosi che su altri ordinari ronzini pubblicitari. NDC) è da fantomatiche ed estremamente rivoluzionarie innovazioni (giammai da un progetto) che quello (il destino dell'umanità) dipende (forse a papa e santone / va la santa orazione / perché da Papi Dione / verrà l'ispirazione. A che pro Papi non dà / a tutti la felicità / per infinita bontà / e senza tanti qui e là / chi ben ragiona lo sa. NDC).
Purtroppo, nonostante le pie speranze dei tecnocrati della domenica, la fertilità della scienza applicata non è illimitata e comunque non procede, settore per settore, con una marcia silenziosa, sistematica e trionfale, ma attraverso 'equilibri punteggiati', ovvero cul de sac e giri viziosi intervallati da botti e balzi improvvisi e dispersi, dove il caso molto spesso premia un impegno assiduo che, a carte ancora coperte, è favorito dalla fortuna più o meno come l'acquirente di un biglietto della lotteria nazionale. Gli effetti sui bollettini dei naviganti e sulla rotta di chi affrontasse quotidianamente le procelle di una libera, liberissima competizione sarebbero molto preoccupanti in una economia globale di piccoli produttori indipendenti, per fortuna i piccoli produttori indipendenti si stanno trasformando quasi tutti in mandatari tenuti al guinzaglio, in 'avventurieri' o in operatori di servizi con pochissimo valore aggiunto (venditori in sostanza di merce lavoro ivizzata), mentre i rischi li sopporta chi li può sopportare ovvero addomesticare, con facoltà addirittura di inventarseli quando serve. Comunque la si metta, ci troviamo di fronte a una sorta di principio d'indeterminazione sociologico in base al quale, se si fissa a un valore desiderato la quota di democrazia ed equanimità, l'ammontare corrispondente di ordine e razionalità si discosta proporzionalmente (in realtà più che proporzionalmente, in quanto, per la termodinamica degli eventi spontanei, intervengono fenomeni dispersivi che aggravano ulteriormente l'impotenza della politica (in buona fede!) priva di Progetto. L'impotenza della buona fede regala poi alla malafede alibi e stimoli vari. NDC), e viceversa: si tratta dell'equivalente, in economia, delle discrepanze e incompatibilità insite nel rapporto sociologico tra libertà e sicurezza, cioè tra diritti di autodeterminazione o di privacy e la protezione da delinquenza o terrorismo. Pertanto, se, procedendo sulla falsariga degli attuali criteri di gestione, l'ordine dovesse regnare sovrano (ma non accadrà mai), aumentando la sicurezza e diminuendo la libertà, i ricchi resterebbero ricchi e anche al sicuro, i poveri sempre meno liberi o sempre più poveri.
Demolire le concezioni tradizionali è un conto, procedere concretamente sulla strada del progetto, infondere la vita a questo monstrum o prodigio di Frankenstein, è cosa ben diversa. Quali clamorose novità ci annunciate in proposito?
La fiducia teorica che riponiamo nel Progetto deriva da una premessa basilare secondo noi inconfutabile: la traiettoria che condurrebbe al porto luminoso partirebbe dalla realtà dello stato presente per attraversare una serie sistematica e razionale di interventi ristrutturativi intesi a modellare, sia nel dettaglio che nell'insieme, ossia strato per strato e settore per settore, e poi combinazione dopo combinazione, processi radicalmente semplificativi, interventi di sgrossamento e ripulitura metodica che, in nessun caso, comporterebbero complicazioni aggiuntive, se si esclude la vista corta delle reazioni psicologiche e le resistenze difensive. Fondamentale al riguardo, inutile nascondercelo, si rivela il concetto di qualità della vita, che va riportato ai termini sobri, essenziali, profondi con cui è stato affrontato dal nocciolo duro delle grandi filosofie del passato. (Poche cose denunciano la finta profondità del clericalismo quanto la prontezza con cui, per ragioni di audience, abbandona la saggezza antica per fornicare con le scemenze modaiole della finta modernità. Che seguito rimarrebbe alle dottrine che predicano l'infinità ed eternità dei valori se esecrassero con forza e convinzione l'edonismo materialistico di quelle fasce piccolo-borghesi che, accanto all'appoggio strumentale dei potenti che però non riempie le piazze, rappresentano il loro sostegno primario, ricattato dall'egoismo anche quando si commuove per grandi ideali umanitari? NDC) Se lo scopo di una vita, a cui devono tendere quelli che non vogliono essere considerati dei paria o degli intoccabili, rimarrà fino alla fine quello di comprare gli ultimi ritrovati dell'industria, siano moto, auto, smartphone o quello che preferite, possiamo mettere una croce argentata sul futuro dell'umanità, decorandola con qualche bel motto francescano e la data di morte che differisce da oggi un paio di secoli o poco più. (Con percentuali di rischio che carreggiano all'indietro fino allo stato attuale, diminuendo in valore, certo, ma conservando due cifre ed evocando perciò naturali principi di precauzione che non vengono adottati solo per puro, scellerato egoismo. NDC) Ciò non significa affatto che per il progetto la tecnologia non sarà importante, al contrario, ma dovrà servire bisogni, predisposizioni e interessi legati alla libertà e all'autodeterminazione di un animale intelligente, non tutte le fesserie di quel superman di plastica con astuccio per anima sempiterna che gli dei del Mercato disegnano nella mente del suddito come programma di azione robotica. Questo è fondamentale perché ci porta a una prima importantissima conclusione: le difficoltà vere sulla strada del Progetto, gli ostacoli più o meno insormontabili, derivano esclusivamente da un eventuale difetto di consapevolezza e volontà da parte delle maggioranze e dalle ovvie resistenze delle potenti e ricche minoranze.
Vediamo ora di fornire alcuni approfondimenti sulle precedenti valutazioni e poi anche sui passi effettivi da muovere per dirigerci in una direzione promettente. Per cominciare tiriamo la prima conseguenza di quanto appena esposto: gli ingredienti fondamentali per mandare a buon fine il Progetto sono già tutti presenti sulla scacchiera del mondo, basta procedere a riconfigurazioni, tutto sommato non proibitive, che scattino dai blocchi di partenza di una impostazione assolutamente primaria ed essenziale: il rovesciamento del rapporto di dipendenza tra stati 'sovrani' e grandi holding finanziarie e industriali. Le multinazionali devono essere emanazione degli stati e non viceversa come accade oggi nei fatti se non nelle forme. Se le forze interne produttive di un singolo stato sono sguarnite in determinati settori, lo stato può scegliere tra: a) la conversione e lo sviluppo delle risorse interne; b) accordi in posizione di monopolio per l'entrata e la distribuzione dei prodotti, senza possibilità d'intervento da parte di altri referenti privati.
Con queste semplici premesse, ovviamente puntualizzate con la necessaria accuratezza, un singolo stato, a prescindere da quello che decidono gli altri, potrebbe già procedere sulla via del Progetto Kolibiano e mai come in questo caso chi ben comincia si troverebbe a metà dell'opera.
Il concetto fondamentale che vogliamo trasmettere, la Verità suprema kolibiana, l'unica Verità d'interesse sociale che secondo la nostra visione può meritare il titolo solenne laddove tutto il resto è scienza settoriale, opinione casuale o mitologia politico-religiosa, si può insomma riassumere così: l'unica salvezza dell'umanità dipende, nel giro di una cinquantina di lustri, dal Progetto di una economia di stato stazionario e il Progetto si può perseguire con relativa facilità procedendo a semplificare il presente, con incrementi anche sostanziosi di una qualità della vita correttamente intesa e sacrifici abbastanza limitati per le élite intelligenti (uomini veri e non bellimbusti impagliati), a parte la decadenza da un titolo di semidio di cui pochissimi dispongono e perlopiù in modo immeritato e lo sfoltimento di patrimoni troppo ingenti per essere spesi con profitto da chi li detiene.
Una semplificazione radicale dell'immane macchinario e la consegna integrale della gestione e supervisione a pubblici poteri con obbligo di trasparenza e verifica incrociata (il bilanciamento dei poteri e delle dipendenze dovrebbe essere affidato a comitati composti da costituzionalisti affiancati da esperti di modellistica matematica e teoria della probabilità, senza alcuna subordinazione degli uni agli altri) costituiscono del resto premesse essenziali e irrinunciabili alla sopravvivenza della democrazia, mentre la complessità dell'economia oligarchica privata e le relative totali opacità (anche verso una politica teoricamente onesta a cui, più che dimenarsi a caso, conviene fidarsi) rendono ormai l'esercizio del voto un vuoto formalismo insensato più simile al gioco delle tre carte che a un'estrazione a sorte. Se il Progetto non si realizza e anzi non viene nemmeno preso in considerazione (non solo non ne viene dato l'avvio attraverso comitati ufficialmente incaricati, ma neppure coinvolge gruppi di volontari coordinati attraverso Internet), se addirittura non viene nemmeno nominato o considerato come opzione di cui almeno discutere, la defezione consegue dall'ignoranza e pochezza culturale di chi ne trarrebbe vantaggi e dalle convenienze opposte di chi disporrebbe dei poteri o almeno delle capacità di avviarlo (gente che vive oggi e non vivrà (probabilmente, non è scritto. NDC) quando il sistema crollerà). Tutti costoro, quindi, se escludono dall'orizzonte del futuro l'unico sole che mai potrà sorgere e tramontare in modo duraturo, discutono solo del buio e del nulla sotto cui nascondono interessi o insipienze che tra qualche generazione si tramuteranno in marcio e liquame.
La supposta facilità con cui le prescrizioni del progetto sostituirebbero gli automatismi della concorrenza a me sembra una pia illusione. Come pensate di definire prezzi, stipendi, incentivi e scelte produttive?
Quanto ai prezzi, di cui stipendi e incentivi sono casi particolari, nessuno sa come si formino se non molto approssimativamente, dato che una teoria economica condivisa che ne renda ragione non esiste e non è neppure annunciata. Questo rende qualsiasi calcolo del prodotto interno di una nazione puramente indicativo in via di confronto percentuale, ma ambiguo in termini assoluti, dato che una diversa concezione di valori che sono in buona parte pilotati e convenzionali ne stravolgerebbe le caratteristiche. (Operazione che, in modo graduale e sottile, potrebbe già essere in atto. Se i grandi istituti pubblici e privati che pilotano le vicende economiche stessero distorcendo di comune accordo il peso e il significato di parametri in apparenza asettici e inalterabili, l'uomo della strada non ne saprebbe assolutamente nulla. NDC) Tutti sanno o dovrebbero sapere, infatti, che i prezzi, compresi stipendi e incentivi, sono fortemente distorti dalle influenze della pubblicità, dalla prevaricazione della comunicazione manipolata, dalle politiche commerciali, dalle intese di oligopolio, dalle lobby di categoria, dai privilegi già acquisiti. Gli emolumenti di manager, faccendieri e speculatori, per esempio, sono orrendamente gonfiati e non corrispondono di solito all'effettiva importanza del compito secondo gli interessi particolari del committente, figuriamoci dal punto di vista del bene collettivo e degli interessi più diffusi. I relativi valori si commisurano pertanto a un'azione di lobby e gruppi di pressione almeno quanto al peso di abilità, oneri e rischi. Le esagerazioni si spiegano con la naturale tendenza del potere a privilegiare se stesso e non occorre neppure far riferimento a malversazione e malanimo, si tratta infatti di ineluttabilità sistemiche: ogni cerchia influente, in assenza di una modellistica progettuale che ne formalizzi le regole (campo di costituzionalisti che ormai soccombono davanti all'accelerazione delle difficoltà imposte dal militarismo economico) o si dissolve o cresce attirando a sé prerogative crescenti che facilitano ulteriori avocazioni (le dinamiche sociologiche ricordano qui la formazione delle gocce di pioggia all'interno delle nuvole (fenomeno della nucleazione), causa locale da cui dipende l'effetto globale del crescere o dissolversi delle perturbazioni. NDC) fino a quando la pressione esterna non si oppone alla dinamica, il che avviene sempre in qualche misura, ma, mentre la forza espansiva è abituale e costante, reazioni disomogenee e aleatorie generano conflitti e instabilità, i ricatti, superate certe soglie, si sprecano ed equità e democrazia risultano alla fine i vasi più fragili. I poteri ballano il ballo dei poteri e i passi e le movenze a cui i poteri si dedicano con maggiore dedizione è il consolidamento della propria insostituibilità. Gli occupanti dei posti ambiti sono sempre pericolanti e fragili se non si alleano ad altri colleghi eminenti e alla fine il sostegno reciproco degli incaricati illustri importa agli illustri incaricati almeno quanto le funzioni a cui sono preposti. Le élite di governo senza progetto trasparente e riconoscibile ormai impiegano la maggior parte del tempo a sorvegliare le condizioni della propria sopravvivenza in quanto tali. Un simbolo di tale piétiner sur place dell'autoreferenza lo ritroviamo nella pacchiana impudenza con cui si insiste a indire (nell'era del terrorismo cronico. NDC) le abominevoli fiere ipertrofiche di ricorrenze, anniversari e incontri al vertice, dove alle funzioni pubbliche impoverite di servizi deviati ad altri fini e ai cittadini limitati nella libertà s'impongono obblighi e costi soltanto per lustrare la passerella di qualche papaverone che, tra frasi fatte, barzellette e accordi già conclusi in precedenza, (definiti o da definire attraverso mesi di lavoro degli sherpa. NDC) si bea di una democrazia ridotta a sfarzi barocchi da ancien régime. Il parlamentarismo ormai impallidisce davanti ai tripudi di un popolino che sotto i palchi inghirlandati gode di allucinazioni e deliri di identificazione, anche se mai intriganti come i brividi di voluttà e gli affondi emotivi che la folla riunita ricavava dalle sentenze eseguite sui patiboli. Quando queste bagarre procedono da efficientissime macchine clericali, il segnale che viene diffuso è inequivocabile, soprattutto se segue un proclamato intendimento di rigenerazione verginale, quel fervore tipicamente cattolico e apostolico che si strugge per l'impossibilità di estasiarsi in una sublime povertà, obbiettivo frustrato dalla crudeltà delle leggi economiche: come è possibile liberarsi di un orpello oppressivo di ricchezza se facendolo esploderebbe il mercato immobiliare? Calma e gesso: intanto le élite di comando hanno dimostrato che il controllo della disciplina infusa in masse di generosa e volontaria ignoranza non richiede il supporto di quisquilie come le idee intelligenti: (che nell'occasione scompaiono senza lasciare la minima traccia. NDC) in seguito si vedrà che uso farne, tenendo conto delle infelici esperienze nei vecchi, rozzi, sorpassati regimi totalitari e dei risultati discutibili di Erdogan.
E veniamo alle scelte produttive, locuzione assurda proprio in una logica di mercato, dove è impossibile scegliere alcunché, ma si può solo seguire la corrente. Quindi, secondo una logica di mercato seguendo la quale il primo a scomparire è il mercato, le scelte non sono mai scelte, ma imposizioni, esattamente come le necessità sono necessità, ma i gusti, le preferenze, le inclinazioni, le sfumature delle macchine desideranti non si determinano in base a una libera decisione del singolo, ma secondo il gioco dei condizionamenti sociali, almeno finché si privilegiano le risultanze statistiche. (la credibilità, per esempio, del Dio Supremo di tutto l'universo e del suo rappresentante con contratto di franchising esclusivo dipende poco dalle prove fornite dagli uffici incaricati del marketing teologico e molto dalle moltitudini di persone che professano di crederci, le quali pertanto, a intervalli calcolati, vengono ammassate in enormi raduni che costituiscono altrettante prove decisive quanto inconfutabili dell'esistenza del Santissimo Dio e dell'affidabilità dei Suoi interpreti accreditati. NDC)
Anche qui, comunque, quello che sembra immensamente complicato e per cui molti ringraziano quei famosi calcoli istantanei del Computer Universale i cui circuiti consistono in miliardi di agenti solerti e affannati, si rivela il calcolo e il verdetto di super-computer (qualche centinaio, a occhio e croce) fatti di silicio drogato con terre rare, debitamente istruiti, come nelle migliori favole, dagli gnomi, elfi e cavalieri jedi delle stanze dei bottoni che piacciono tanto agli unti del Signore.
Vediamo invece, a grandi linee (il prolungamento delle grandi linee in un dedalo di righe sottili spetta ai comitati interdisciplinari predisposti dal Comitato Primario incaricato del progetto del Progetto, qualcosa di molto arduo e impegnativo, certo, ma si tratta di salvare il pianeta e insieme l'umanità, non di far vincere la Ferrari. NDC), come si potrebbe imboccare la strada della rivoluzione: se ci si fa consegnare dall'ISTAT il piano di ripartizione per categorie della realtà sociale ed economica, si può pervenire, attraverso correlazioni e accorpamenti opportuni, a una scansione dell'economia nazionale in una sinossi di settori produttivi ciascuno dei quali assegnabile a uffici centrali di pertinenza e competenza (da costituire privilegiando le professionalità già presenti. NDC) per una gestione che stabilisca una lista esaustiva (drasticamente semplificata) dei nuclei aziendali e delle figure professionali incaricate, lista comprensiva di mansioni, regole ed emolumenti. Naturalmente scelte produttive che meritano almeno in parte il nome dovranno tenere conto delle esigenze minimali del cittadino e non di vessazioni come la competizione internazionale o l'incremento del PIL (rigorosamente aboliti dato che si sta parlando di un modello in stato stazionario. NDC) o di tristi necessità come l'accumulazione primitiva, già incorporata nei capitali delle risorse produttive esistenti (da mantenere in vita il più a lungo possibile, obbiettivo realistico per l'abolizione della concorrenza e non appena si perseguono politiche di manutenzione e assistenza da incoraggiare e incrementare. NDC).
Tutto ciò è utopia? Lo è certamente nella misura in cui l'umanità (che non ha niente a che fare con i singoli individui di cui si compone, NDC) è certamente stupida. Ovviamente alla svalutazione del progetto in utopia contribuiscono moltissimo tutti coloro che non si occupano mai di cose futili come gli individui, ma solo di cose nobili e sacre come l'umanità.
La programmazione centralizzata dei cicli economici imposti e gestiti dal potere statale ha già sbattuto la testa nel muro delle difficoltà insormontabili: come potete pensare di insistervi fracassando la testa di milioni di altre persone?
Il passato non conta un accidente: la povertà di base da cui hanno tratto origine le esperienze a cui accenna richiedeva, assecondando le manie di grandezza di condottieri che non accettavano confronti svantaggiosi con nazioni vicine, un'accumulazione primitiva a tappe forzate che avrebbe generato immensi sfracelli in qualsiasi tipo di regime, anche il più liberale e aperto alle iniziative di singoli cani sciolti rispettosi solo del 'mercato'. Volumi di sofferenza maggiore di quella generata in pochi decenni da purghe e da gulag, in Europa occidentale erano stati diluiti nel corso del secolo precedente in forme meno clamorose, concentrate e inoppugnabili, ma non per questo meno crudeli. Se i pianificatori pensano all'industria pesante e ai cannoni dell'esercito senza accertarsi prima se ciascuno abbia di che nutrirsi e ripararsi, è difficile che il benessere possa nascere per incanto dalle processioni entusiaste che invadevano le strade di Mosca come oggi in Italia le orde di pellegrini e di fedeli. Se inoltre non si dispone di quei computer con cui oggi le grandi Istituzioni Private fanno previsioni del tempo che modificano il tempo e le previsioni dei politici, se non si dispone neppure di calcolatrici Multisumma Olivetti, diventa difficile conseguire grandi risultati nella calibrazione delle diverse componenti e appare, più che inopportuno, assolutamente idiota, tenere a riscontro quei risultati per un giudizio sulle attuali potenzialità. Una programmazione centralizzata e una società giusta ed efficiente quanto studiata a tavolino risultano oggi alla portata di qualsiasi seria compagine di governo che ricevesse il mandato popolare almeno per uno studio teorico, ma non ditelo in giro, molti potrebbero crederci e rovinare la festa e la digestione alle poco serie compagini di governo e alle serissime masnade di baldi conquistatori che impongono leggi della giungla a cui stanno benissimo i doppio petto di Armani e i piviali di Francesco Bergoglio.
Del resto, quanto poco, in prospettiva, ci sia generalmente da perdere mantenendo l'attuale andazzo di sistema, si constata esaminando i movimenti che contribuiscono sempre di più a gonfiare le statistiche economiche. Dato che ogni tipo di servizio e prodotto vi partecipa, immaginate come può incrementarsi la qualità della vita media, se le incidenze che guadagnano più terreno, in cambio di distruzioni e inquinamenti ambientali che non vengono nemmeno conteggiati in negativo, ma soltanto (in positivo!) per quel che concerne riparazioni tardive e insufficienti, sono servizi di consulenza diretti a incrementare i grossi capitali a danno dei piccoli risparmi insieme ai circenses da paese dei balocchi dei pinocchi che, a furia di raccontare bugie a se stessi, hanno ormai un naso lunghissimo che fa chinare le fronti. Ormai a gonfiare davvero redditi e patrimoni sono rimasti soltanto i destinatari dei doni che, volontariamente o involontariamente, i morituri concedono o per pagarsi il biglietto di accesso al paradiso o per beneficiare congiunti inesperti che, in percentuale di circa il 75%, li dissiperanno in scorribande sui mercati finanziari o nei sogni di improbabili 'start-up', tutto grasso che cola per i navigati nocchieri delle navigate 'start-on'.
Come vi permettete di stravolgere, a volte con piglio sarcastico e perfino buffonesco, problematiche che hanno coinvolto per migliaia di anni gli intelletti più acuti, stimolato le passioni più profonde, ispirato le realizzazioni migliori? Non vi sembra che alla fine tutta la vostra scienza si riduca a una sorta di auto-denuncia, di outing con cui confessate in modo cifrato la vostra acre, invidiosa, insipida impotenza?
Noi denunciamo semplicemente un rischio evidentissimo di fallimento dell'umanità: lei dovrebbe preoccuparsi, se nutre qualche interesse specifico, di verificare con mezzi autonomi e impregiudicati da interessi propri e altrui se questo rischio è sufficiente a generare apprensioni, valutare cioè in quale e quanta misura è stimabile, non perdere tempo a sindacare la simpatia e il decoro, i meriti e gli accrediti, la dignità e degnità di chi denuncia. Vede, ponendo la domanda, si è dato la risposta da solo: la gente in effetti pensa come lei che, per essere abilitati ad affrontare argomenti dalla portata supposta sconfinata e incommensurabile, il temerario o i temerari debbano disporre di autorizzazioni così elevate che in pratica possono discendere solo dall'illuminazione diretta di una superiore potenza, da chi è in grado di esibire connotati e credenziali più o meno sacri e religiosi (pochi si soffermano ad analizzare la pregnanza reale (vale a dire la illusorietà. NDC) di questi ultimi termini). Quindi, tirando le somme, la gente in genere ritiene, perché in effetti così è stata condizionata a pensare, che, per occuparsi seriamente del proprio futuro collettivo, distraendosi dalle questioni private, ci si debba collegare a quei livelli di trascendenza personalizzata che, se anche esistessero, evocherebbero comunque a sé tutte le implicazioni e le necessità di pertinenza dispensando qualsiasi altro da 'metterci lingua': la valutazione dei rischi concreti di fallimento ricade così nella giurisdizione di chi non mostrerà mai alcuna predisposizione a una valutazione prudente e obbiettiva, semplicemente perché le possibilità del nobile e spirituale pensiero umano sono enormemente condizionate dalla storia privata e dal background sociale di chi se lo fila con il proprio cervello e quindi chi ha voce in capitolo, gli opinion maker, gli esperti riconosciuti che dovessero occuparsi di questioni più adatte, secondo la cognizione diffusa, ai polpettoni fantascientifici che alla cura normale delle persone serie e rispettabili (vedi il tema dell'apocalisse prossimo venturo), sottoporrebbero i valori dei punti critici che è necessario analizzare a una doppia svalutazione: una relativa alle stime qualitative e quantitative, l'altra alla soglia che tali stime devono superare per giustificare l'adozione di provvedimenti precauzionali. E' chiaro infatti che più le dotazioni in essere e in avvenire del signor X sono cospicue e la sua influenza sociale interagisce con altre similmente altolocate in modo da generare apporti non nulli, più sua signoria posizionerà in alto sulla scala graduata la spia rossa che segnala lo scatto di allarme: la sua accensione costringerebbe infatti a intraprendere mosse sempre in qualche modo e misura pregiudizievoli di uno stato presente favorevolmente impostato in ordine allo sviluppo di una carriera individuale. Ciò si desume dall'analisi di concatenazioni operanti e non si trascina dietro alcun tipo di giudizio morale: la ineluttabilità, almeno statistica, di certi comportamenti dipende dallo status e dalle opportunità, non da quanto le varie anime siano illuminate dalla grazia oppure schiave del peccato.
La situazione resta invulnerabile e impermeabile a qualsiasi tattica o strategia di attacco dialettico attraverso prassi argomentali. Infatti:
a) gli argomenti addotti per suscitare reazioni sono interdetti e preclusi (catastrofi e apocalissi rientrano tra le evenienze considerate programmaticamente assurde e innominabili, puro terrorismo concettuale, mentre le basi portanti e i criteri organizzativi e strutturali delle organizzazioni civili non possono essere messi seriamente in discussione);
b) ogni accesso critico alla costellazione dei valori astratti e ai canoni dei presupposti metafisici che insieme sorreggono in qualche modo la stereotipia ortodossa di motivazioni e incentivi è interdetto e precluso (fedi religiose e infatuazioni ideologico-umanitarie rimangono off-limits anche quando invadono con impudenza il campo della legislazione ordinaria, condizionano costumi e abitudini del cittadino qualunque e comportano scelte e interventi ostili alla razionalità laica e scientifica);
c) la trattazione tecnica delle tematiche sensibili è interdetta e preclusa (le patenti, subordinate a limiti e divieti, che abilitano alla discussione sono tassativamente riservate a figure istituzionali sempre in qualche modo compromesse con le priorità, gli obbiettivi e le convenienze dei piani alti).
In conclusione, tutto considerato e per rispondere puntualmente alla domanda, mi appaiono conseguenti da un punto di vista kolibiano, sia la scelta tattica di collocarsi sempre all'interno o sui margini di una sorta di paradossale punto zero, di desertica terra di nessuno dove sia consentito delineare senza interferenze distruttive prospettive schiettamente rivoluzionarie, dissotterrando magari e ripulendo dai detriti quelle ovvietà che la cultura ufficiale vi ha sepolto a coronamento di un rifiuto pragmatico, sia il perché del ricorso polemico e stilistico a quella che per noi si potrebbe descrivere come ironia socratica e per i nostri critici è invece uno sberleffo volgare e scomposto.
Cultori dell'ambiguità: condivido in pieno questa ficcante definizione di un esimio collega, che fotografa uno dei tratti fondamentali dell'ambigua natura kolibiana, ovviamente uno dei più ambigui. E' con queste credenziali che contate di opporvi ai processi dialettici che caratterizzano la consuetudine politica e sociale?
L'ambiguità, o per meglio dire l'ambivalenza, o per meglio dire la polivalenza o polisemìa, non sono invenzioni kolibiane, ma tratti costitutivi assolutamente fondamentali della fenomenologia umana, anche e soprattutto nella sfera pubblica. Non si può abolire l'ambiguità (uso per semplicità il termine più comune) senza nel contempo disperdere la ricchezza e complessità della prassi comunicativa e culturale. Ambiguità non significa dialettica, non indica quella mistica della sintesi conciliativa sotto cui si traveste la politica dei conflitti, degli armistizi e delle spartizioni, muove bensì da un intreccio di logiche multimodali e multidimensionali, che si accavallano all'insaputa degli attori, intervallate da sobbalzi di pura illogicità. L'ambiguità è inconciliabile perché, in una strutturazione complessa, le traiettorie vitali attraversano riferimenti, pertinenze, priorità, interessi, esperienze, discipline, materie, affetti, motivi, risvolti, influenze, inferenze, accidenti (eccetera) così diversi da potersi difficilmente avvicinare e incrociare. inoltre le interferenze e le sovrapposizioni reciproche eludono qualsiasi tipo di consapevolezza integrale. Alla fine, non si tratta di baloccarsi con paradossi alla Oscar Wilde, bensì di tirare stringatamente le somme di quanto è stato elaborato, sistematizzato, esperito da decenni di studi e ricerche condotte nell'ambito delle cosiddette scienze umane (Qui si fa esplicito riferimento a discipline come antropologia, etnologia, linguistica, semiologia eccetera, ma non rientra certo nelle intenzioni del proponente (anzi!!!!) escludere psicologia ed economia. Lo scopo specifico è riferirsi al massimo rigore perseguibile dalle discipline interessate allo studio delle attività umane per rimarcare come le sintesi che coagulano con ferma precisione scientifica regole descrittive e operative si riducono a meri strumenti tecnici dalla circostanziata e poco flessibile inerenza, le analisi profonde e panoramiche si reggono su acrobazie del linguaggio e risonanze intuitive che disperdono la pregnanza dei nuclei e aprono virtualità sconfinate, mentre in mezzo c'è poco o niente a parte la terra di nessuno della religione, dell'arte e della letteratura dove è bello scorrazzare, ma assolutamente da sprovveduti pensare di ricavarne costrutti normativi. A ciò non si bada come si dovrebbe, perché una incredibile cecità dominante, selezionata da pressioni selettive la cui congruità comincia a decadere appena oltre la dimensione tribale (superata in tempi troppo ristretti, follemente vertiginosi se paragonati ai ritmi dell'evoluzione naturale) continua a pretendere che sintesi di chiarezza e profondità vietate al pensiero razionale rimangano appannaggio di istinti e sentimenti: s'illude cioè che un alone di fumi, scintille e cangianti riflessi sprigionati dal motore della coscienza guidino il tragitto della coscienza stessa. Se il quadro delineato conforma la sostanza dei fenomeni, la politica, o per meglio dire, la Politica priva di Progetto, è solo l'insalata dei vari interessi puntuali condita con una salsa di volta in volta diversa di mistificazioni culturali. NDC). Se ogni teoria di quel genere, quando parte dagli assunti chiari e univoci delle semplificazioni scientiste (per esempio, la semantica tarskiana o kripkiana, la verità come corrispondenza o riferimento intensionale, la teoria dei modelli), è costretta a sfocarli e perfino a dissolverli per corrispondere agli usi comuni e concreti o alle realtà di fatto (tirando in ballo, per proseguire l'esempio, una pletora di conoscenze di sfondo, dispositivi simbolici, sinossi enciclopediche, somiglianze di famiglia e chi più possiede cose raffinate e inservibili più ce le metta), le conclusioni (non conclusioni, in effetti. NDC) di tali indagini si riassumono in una sola certezza apodittica: i singoli uomini come le varie organizzazioni che ne sintetizzano, in modo approssimativo e tendenzioso, le varie esigenze, inclinazioni e attitudini, non perverranno mai a quella poderosa unità di linguaggio e cogente omogeneità di vedute, a quei gradi minimi di formidabile intesa, necessari a dirigere gli automatismi in atto su ogni livello delle varie realtà interconnesse. E se non dirigi qualcosa che ti compenetra, ti circonda, ti sostiene, a esso ti abbandoni e ti fai trasportare. Per questo il gioco della spiritualità, la moscacieca dei valori, le belle statuine religiose, le esortazioni accalorate, i cerimoniosi appelli alla concordia e alla fiducia (se presi alla lettera, se accolti per quello che pretendono di essere e non secondo la loro natura statisticamente maggioritaria, ovvero come codici strumentali, diversivi tattici, astuzie da plagiario, trappole sentimentali, maschere e mascherate della potenza) si rivelano poco più che trastulli insipidi e puerili nella morsa degli avvicendamenti storici e degli ingranaggi della riproduzione materiale. Per questo ogni 'grande uomo', ogni riverito referente dei destini comuni, quando non si rivela un semplice bluff o addirittura un imbroglio, rappresenta un riassunto paradigmatico, uno stereotipo di particolari prevalenze selezionate e imposte da particolari congiunture e contingenze: prenota uno sviluppo e un mutamento solo ricalcando e approfondendo le caratteristiche già presenti. Come è ampiamente dimostrato da infiniti resoconti storici e antropologici, quello che rende 'umano' l'uomo, non è la sua 'umanità', ma l'ingegno con cui è stato capace di migliorare, favorito o meno dal contesto ambientale, le condizioni fisiche della propria esistenza biologica. (Così, lo stesso entusiasmo e la stessa fiducia nel successo che, durante il conseguimento di tali migliorie, rendono una nazione un 'faro di progresso' e un 'esempio di democrazia', possono trasformare lo stessa nazione, la cui potenza in armi offensive è cresciuta molto più del suo spirito civile, nel Satana del pianeta e nell'Impero del male, allorché ogni ricetta comincia a fallire e il benessere declina. Siamo già al momento fatidico? Mancano ancora anni o decine di anni? L'imprevedibilità delle vicende umane non ci autorizza certo a dormire su relativi, se non miserabili allori. NDC) Una complessità disordinata, un pullulante e proliferante groviglio lasciato a se stesso come può non generare oscura ambiguità? (Oscurità di cui necessita la forza politica, economica, poliziesca e militare per imporsi come unica opzione accessibile contro il dilagare di quell'anarchia che consiste nel gioco spontaneo delle motivazioni, delle aspirazioni, degli istinti. La semplice esistenza di un ordine sociale in assenza di piani predeterminati e progetti dettagliati dimostra l'inesistenza di qualsiasi autentica libertà al di là di limitatissimi intervalli, ricreazioni, licenze i quali, guarda caso, non appena si scosta un po' il velo delle apparenze, risultano tra le occasioni più rigidamente regolamentate della vita civile. NDC) Diventarne consapevoli rientra allora tra le esigenze di rilievo capitale, implica il primo sgancio dei perni indispensabile perché la visione possa ruotare e orientarsi nella prospettiva del Progetto. Confidare nelle virtù naturali dell'uomo e nell'ispirazione della luce divina significa al contrario buttare allegramente benzina nel fuoco e soffiarvi tutta la forza della propria vitalità coraggiosa (che sia autentica o solo presunta non fa la minima differenza).
Trovo disgustoso e perfino osceno il parallelismo, se non addirittura la perfetta coincidenza, che la dottrina kolibiana ortodossa instaura tra le vicende storiche delle società umane e il corso dei processi naturali. Una certa, moderata forma di riduzionismo può fungere spesso da prassi chiarificatrice (sappiamo tutti benissimo che le scienze non ne possono fare a meno, che non potrebbero esistere senza), ma occorre mantenere le giuste cautele e distinzioni per non disprezzare e buttare al vento quello che si è omesso per comodità, di solito le componenti della realtà percepita più specifiche, ineffabili e preziose, quelle, per forza di cose, più sfuggenti. A me sembra invece che l'impoverimento e non la comprensione costituisca il vostro obbiettivo primario. Non vi viene mai il dubbio di esagerare?
Il suo è il tipico atteggiamento di chi, per scelta assolutamente pregiudiziale e senza neppure rendersi conto appieno delle varie implicazioni e conseguenze, ha già diviso un non meglio identificato spirito da una non meglio identificata materia dopo di che ha deciso da che parte stare grazie ai propositi di una nobile volontà, lasciando che una parte di sé dimori nel mondo inferiore assistita da medici e magari avvocati, tenuto conto che l'uomo, se è superiore a ogni altro animale, è pur sempre imperfetto. Non c'è niente di più inutile del mettersi a sindacare su questo tipo di scelte istintive finché riguardano la sfera individuale: ognuno si regola come crede e, a quanto sembra, intervengono istinti e predisposizioni di base di cui non si può fare altro che prendere atto. (Ovviamente certe razze di 'intellettuali', come vengono spregiativamente definiti da coloro che necessitano dell'approvazione del 'popolo' per fini di carriera e di successo, avrebbero tutto il diritto di incazzarsi come iene quando allo spiritualismo vengono attribuite caratteristiche di superiorità morale, ma è risaputo che le infime minoranze senza peso elettorale contano meno di niente. NDC) Il problema vero nasce quando una visione esistenziale irriflessiva, che, a mio modesto parere, affonda le radici in un retroterra psicologico e culturale abbastanza rozzo e primitivo, viene trasferita, senza limitazioni e filtri selettivi, sul piano della prassi politica e della programmazione sociale. Domanda: un atteggiamento di base, che viene assunto acriticamente senza alcuna possibilità di fondamento empirico e razionale, ha il diritto di condizionare scelte pubbliche come se queste fossero oggettivamente coinvolte in una certa categoria di rapporti causali, quando la natura delle influenze e dei condizionamenti in atto si colloca nella concatenazione di contesti sistemici completamenti diversi e concettualmente incompatibili?
Perché non prendete atto, una volta per tutte, che l'uomo. come già si diceva ai tempi di Aristotele, è prima di tutto un animale sociale ed è quindi secondo categorie di ordine sociale, prima e sopra ogni altra cosa, che si deve fissarne le coordinate?
Esimio signore, lo scambio e la dialettica tra gli uomini, che ovviamente non esauriscono la realtà, non esauriscono nemmeno la realtà determinante per gli uomini. Dirò di più: non esauriscono nemmeno la realtà 'tra' gli uomini. Anzi, a pensarci bene, di quest'ultima realtà, la sola che le maggioranze considerano seriamente, costituiscono solo gli aspetti transeunti e superficiali. Possiamo farcene una idea, analizzando da vicino dinamiche già attive e cruciali in una dimensione tribale e constatando come queste si intensificano in proporzione diretta con la complessità delle relazioni e delle istituzioni. Esaminiamo, per esempio, la questione dei diritti di proprietà: nelle comunità primitive esistono in sostanza due tipi di beni, quelli rimessi alla disponibilità indifferenziata del gruppo e quelli detenuti in esclusiva dal singolo o da un nucleo familiare ristretto. Gli antropologi hanno in genere convenuto che si tratta di un equilibrio molto delicato per il motivo elementare che qualsiasi deviazione dalla perfetta omogeneità, ogni volta che appare e supera una certa rilevanza minima, tende poi a crescere e approfondire le differenze: non esiste retroazione negativa, ma rinforzo positivo, dove i termini 'negativo' e 'positivo' vanno ovviamente intesi in senso quantitativo e non qualitativo. Perché? Perché chi incrementa la ricchezza comune senza rivestire poteri specifici non incrementa il proprio potere personale, che invece viene favorito dall'accumulo della ricchezza individuale o (soprattutto) di clan, anche per le possibilità che concede di modificare il comportamento altrui attraverso transazioni, influenze, corruzioni, stimoli imitativi. Inoltre la rivalità e la lotta per la preminenza tra famiglie, sottogruppi o clan predispongono una temperie in cui individualismi, gratificazioni dell'ego, desideri di affermazione innescano rafforzamenti reciproci con polarità complementari che doveri di lealtà e di appartenenza sviluppano legandosi a filo doppio con un senso generale di legittimazione e protezione. Insomma, anche in società dove non esistono pratiche economiche propriamente dette, ovvero procedure di espansione della ricchezza che viene in gran parte reintrodotta nel circuito della stessa produzione per ampliare sia la produzione che la ricchezza e così in via continuativa, i meccanismi della salvaguardia, dell'ambizione, del prestigio provocano ineluttabilmente fluttuazioni destabilizzanti. Se in qualunque tipo di società umana automatismi sistemici del tipo di quello succintamente esemplificato emergono spontaneamente a prescindere dal complesso delle consapevolezze e delle volontà e proliferano con il proliferare delle complicazioni, mi sembra scontato che ci troviamo davanti a due alternative inconciliabili: o l'universo è creato e governato secondo le regole imposte da una personalità divina effettivamente esistente (pensiamo a Odino o Zeus o Manitù o vatt... o chissà che... e potenziamone le facoltà per farne qualcosa di degno della civiltà industriale avanzata) o i proclami etici, i moralismi ideali, le nobili petizioni di principio non amministrano il tutto, ma semplicemente vi si immergono e vi giocano come variabili tra le tante e soprattutto come interessi tra i tanti. Ovviamente il discorso delle interferenze sensibili si dilata enormemente concependo l'umanità non come fenomeno autosufficiente, bensì singola specie di quella biosfera la cui integrità rimane requisito primario e imprescindibile. (Può essere interessante accennare qui a un approfondimento di sistematica sociologa applicabile a consessi attuali molto meglio che a contesti più primitivi. Ognuno di noi, vede, guardandosi intorno, come i ruoli e i relativi status legati a funzioni o acquisizioni individuali (anche ereditari) improntino le varie personalità inclinandole a un più o meno marcato senso del dovere non disgiunto da riconoscimenti e gratificazioni. Orbene, se consideriamo un ruolo come produttore di status (la dialettica tra i due termini è tutt'altro che univoca) vediamo che esso presenta una doppia articolazione: interna, ovvero secondo il vissuto del soggetto (interpretazione di sé e dei propri meriti e diritti estensibile alla sfera di intimi e congiunti) ed esterna, cioè secondo il giudizio e le convenienze di un generico pubblico. Si tratta di due aspetti potenzialmente in conflitto e generatori di squilibri paragonabili a quelli indotti dal possesso di beni. L'auto-considerazione sembrerebbe svantaggiata rispetto alla pressione di generici altri, ma in realtà non è così, perché gli altri sono distanti, distratti, non coordinati né omogenei negli interessi e nelle valutazioni. L'interprete del ruolo può disporre inoltre di capacità e accortezza, di doti persuasive, magnetiche, 'assorbenti', può tessere una trama di utili alleanze e dipendenze, può contare sul sostegno molto compatto e specifico di certi colleghi e delle aree omogenee per convenienza. Alla fine l'abuso e la prevaricazione del ruolo da parte di chi lo interpreta, più che resistenze e ostilità, tende a generare un potenziamento e una ipertrofia del ruolo stesso al di là delle sue valenze di puro servizio, il ruolo tende quindi a crescere e prosperare a danno della società in cui si iscrive, da cui si può facilmente dedurre la presenza continua di sollecitazioni centrifughe all'interno di apparati burocratici intenzionati a crearsi uno status autonomo rispetto ai puri aspetti d'integrazione funzionale e ai doveri verso il complesso in cui sono inseriti. E' appena il caso di notare come per organi direzionali implicati in questo tipo di problematiche sia molto più facile, nonché remunerativo, farsi cooptare in un insieme di complicità e interessenze che impegnarsi in battaglie di contenimento che, più il tempo passa, più diventano proibitive. Alla degenerazione che gli automatismi descritti comportano iuxta propria principia si può allora realisticamente opporre solo uno stato di conflittualità permanente, che provoca movimenti anarchici e dissolutivi di gravità non certo trascurabile, ma la cui mancanza o repressione si traduce rapidamente in una risalita vertiginosa della corruzione e del malaffare. NDC)
Quindi, secondo lei, la coscienza individuale e collettiva, l'introspezione e la comunicazione, i valori condivisi non contano niente.
Contano sempre meno quanto più si allargano e si infittiscono le dimensioni e i prospetti dei riferimenti contestuali, per cui, mi consenta, ma è criminoso non rendersene conto mentre la rete delle connessioni planetarie si estende e si aggroviglia. La situazione polemica da lei sollevata, dal punto di vista delle mentalità e dei risvolti culturali, mi sembra analoga a una diatriba che qualche decennio fa intercorse tra i biologi evoluzionisti di scuole diverse, facciamo nomi per non rimanere troppo nel vago: Gould e Lewontin, da una parte (gli scienziati democratici e politicamente corretti) e Wilson e Dawkins dall'altra (i riduzionisti pericolosamente inclini a uno scientismo disumano). (Nei bei tempi antichi dispute esoteriche di quel genere potevano contare su qualche attenzione pubblicistica, evenienza che sembra ormai definitivamente tramontata dietro l'insorgere di ben altre priorità, come quelle che traspaiono confrontando, settore per settore, il novero dei necrologi e quello delle sparizioni illustri. Si sa del resto che ogni ambito di attività professionale, se è in condizione di farlo, privilegia se stesso, quindi gli ambiti contigui all'industria dello spettacolo privilegiano le relative esibizioni e i capitali che vi sono implicati. Se mettono a libro paga aree di giornalismo e di cultura, non rinunciano certo a coinvolgerle in quel traviamento delle gerarchie di senso e significato, quel pervertimento dei gusti, quell'incoraggiamento dell'ignoranza che meglio si adattano all'offerta commerciale del prodotto medio. NDC) La vexata quaestio turbinava intorno alla sociobiologia e al 'gene egoista': W. e D. in sostanza consideravano assolutamente prioritaria la prospettiva genetica nello sviluppo delle specie, mentre G. e L. teorizzavano la partecipazione a livelli diversi di eventi diversi. Entrambe le parti avevano ragione e nessuna delle parti aveva torto, ma in qualche modo i 'democratici' avevano falsato il discorso e sollevato eccezioni tutto sommato inutili. Quello che infatti sostenevano W. e D. si concentrava su una evidenza logica inconfutabile: se l'individualità animale di qualsiasi organismo viene fatta corrispondere al suo corredo genetico e se l'evoluzione dipende dalla fecondità generativa dei singoli corredi (mischiati in un pool, un insieme collettivo di geni (la popolazione)), al netto delle soppressioni e sterilizzazioni prima di una successiva ondata generativa in cui il gioco si rinnova invariato, è ovvio, direi quasi assiomatico, che l'evoluzione, ridotta al nucleo essenziale, si rivela essere una lotta tra geni o complessi genici per protrarre la loro struttura nel tempo e ciò senza alcun bisogno di prefigurare una metafisica di piccoli coboldi indemoniati. Un modello ideale insomma può riassumere fedelmente, in modo purtroppo arido e schematico, (Trista peculiarità, come già i lettori più attenti dovrebbero ormai sospettare, inseparabile da un'accurata ed essenziale esattezza. NDC) i nodi concettuali di una realtà anche se ciò può sembrare un insulto a quella stessa realtà soprattutto quando di fatto si manifesta con una varietà e bellezza sontuose di forme e modi pressoché illimitati. Quello che veramente importa, all'atto pratico, non è il rispetto cerimonioso ed estetico dei fatti, quanto la possibilità di comprenderli e manipolarli. Manipolare significa controllare e dirigere, funzione che l'uomo ha cercato di esercitare molto più nei confronti della natura che nei confronti di se stesso cioè della propria specie sociale, riguardo alla quale le uniche forme di addomesticamento tentate al di fuori delle sedi pedagogiche e in ambiti dove contano solo la forza dei numeri e la forza della forza, si sono rivelate espedienti riconducibili, con varie gradazioni intermedie, alle due grandi categorie del dispotismo e della demagogia. Ebbene, proprio questo auto-controllo la concezione filosofica dei kolibiani richiama a gran voce perché ormai l'ora fatidica è suonata o sta per suonare, il gong che sancisce una perdita di controllo esterno che può essere recuperato soltanto attraverso il controllo interno: un approccio cognitivo alla realtà che consenta una gestione oculata delle società umane in armonia con una ontologia vera e non immaginaria dei fenomeni planetari, delle dinamicità sistemiche e delle effettività psicologiche. E' appena il caso di osservare che, in assenza di simili resipiscenze e trasfigurazioni, apocalisse e caos non sono garantiti, potranno ancora essere scongiurati, ma il prezzo da pagare sarà uno scadimento di qualità democratica fino alla morte per consunzione, il seppellimento senza onoranze funebri del concetto stesso di libertà individuale sotto i monumenti celebrativi dei vari integralismi economico-religiosi. In parallelo, lasciando tempo al tempo, riemergeranno varietà collegate di ribellioni popolari connesse più a scarsità ed esaurimenti inesorabili delle risorse che alle forme gerarchiche di subordinazione e sfruttamento.
Se gli automatismi che voi enfatizzate fossero tutti e solo negativi, il mondo languirebbe sotto il tallone di regimi dispotici. Come giustificate il fatto elementare e incontrovertibile che la maggior parte delle nazioni abbia invece sviluppato forme di democrazia basata sul consenso maggioritario?
La nostra critica non si rivolge al passato: nulla vieta che un sistema progressivamente insostenibile possa aver rappresentato prima di una determinata soglia il miglior modello possibile immaginabile. Quando una qualità diventa un pericolo, è proprio il fascino di quella qualità a costituire una delle insidie peggiori. Del resto, in tutte le cose della vita, pregi e difetti se ne vanno sovente a braccetto e non si possono disgiungere, ma un accordo non è mai garantito in eterno e prima o poi i lacci si tendono e divaricano e prima o poi si spezzano. Il punto cruciale è ben altro e riguarda le incredibili inerzie che affliggono tutte le comunità quando si tratta d'infrangere schemi consunti e ideare soluzioni in grado di mitigare gli aspetti negativi, salvaguardando quelli positivi. In tutte le epoche preindustriali, per esempio, è documentato lo scandalo degli 'accaparratori di grano', fenomeno che si riconnette naturalmente, non a una malvagità delinquenziale, ma a semplici ineluttabilità legate ai meccanismi del denaro e del commercio: se una carestia colpisce determinate zone, mentre in altre, più o meno lontane, il raccolto si presenta normale o abbondante, i prezzi dei prodotti tra zone diverse subiranno ovvi squilibri, di cui approfitteranno i mercanti per costituirsi in poco tempo eccezionali ricchezze. Il mercante fa bene il suo mestiere, ma l'emblema del suo successo si connette sinistramente allo stato di miseria e di fame di questa o quella popolazione. In secoli e secoli, diciamo pure millenni, di persistenza di un fenomeno oltremodo nefasto quanto connaturato a una ordinarietà e legalità di rapporti funzionali rimasti invariati nell'alternanza storica delle più diverse popolazioni, il problema è stato nei fatti dichiarato insolubile, se non nei termini drastici di contromosse violente e reazioni belliche o di rivolta. Perché la soluzione più semplice, collettivizzare il commercio 'estero', dotare cioè ogni popolazione e ogni comunità di una quota di mercanti funzionali alla popolazione stessa, da questa incaricati per gli scambi con le popolazioni lontane e con questa concretamente solidali nel sostegno reciproco e nella compartecipazione di oneri e guadagni, non è mai stata adottata o comunque non è mai stata proposta come opzione reale e codificata nel senso di una corrente prassi metodologica? Si trattava di un accorgimento così terribilmente difficile o così irrimediabilmente contraddittorio? Nel qual caso, come e perché? E' esagerato farne un paradigma dell'asservimento del ceto intellettuale agli interessi dominanti delle classi ricche, semplicemente perché, al di là dello stadio di organizzazione tribale, solo le classi ricche elargiscono emolumenti e consentono licenze, autonomie e specializzazioni?
Per quanto sia le definizioni che la commistione suonino contraddittorie, a me il kolibianesimo appare una sintesi tra un qualunquismo o addirittura un populismo intellettualoide e l'anti-politica che adora i 'governi tecnici'. Naturalmente mi sbaglio, ma vorrebbe gentilmente spiegarmi perché?
Per taluni politica e religione tendono a coincidere, dove la religione va intesa in senso lato, non solo quindi religione confessionale, ma anche religione laica dei valori supposti eterni o molto durevoli. (Quando invece proprio la storia recente dimostra che la data di scadenza tende a distare sempre meno dalla data di emissione effettuata a cura e per conto delle zecche autorizzate, un processo che si ricollega ai ritmi di consumo di energie e risorse e che si arresterà insieme alla crescita media di quel benessere tecnico e materiale che, sotto i più diversi costumi di scena, è il principale se non unico motore della storia. NDC) Costoro, più o meno sinceramente o tendenziosamente, trascurano o sottovalutano gli aspetti amministrativi e di gestione e mediazione dei vari interessi, il che può avvenire per varie ragioni: culturali (l'aderenza a un idealismo filosofico), professionali (un orgoglio di casta o di ruolo), di comodo (un alibi per indulgere a più solide passioni) o altro: l'elenco è solo indicativo e non pretende nessuna completezza. Ciò che conta veramente non è una casistica descrittiva, ma che questa concezione della pratica politica (in buona fede o meno) prelude a opzioni molto meno astratte e molto più compromesse invece con ben concreti effetti di rappresentanza del potere e di gestione degli affari correnti. La politica come monopolio del Valore, la politica grande e nobile alla fine immette sempre in un solo tipo di supremazia che, anche quando ubbidisce a una fisiologica alternanza elettorale, si traduce in sostanza in un governo di larghe intese gestito dal partito della nazione: questo è ormai l'unico tipo di governo consentito dalle forze egemoni e dalle influenze di livello internazionale, non esiste alcuna chance che permetta a una compagine di governare a lungo senza ricondizionarsi in tal senso ovvero senza assumere i connotati e le limitazioni imposte dal moderatismo canonico dello stereotipo borghese adeguato alle specificità del momento storico. Poiché i giochi ovvero i vincoli e le interdipendenze di tipo economico e strutturale (i fondamenti del sistema) non consentono che margini ristretti di mobilità, (Ricordate sempre che la complessità e l'estensione planetaria del sistema sono le chiavi di una coerenza e resistenza che però diventa fragilità nei confronti delle fluttuazioni che si collocano oltre certi valori di soglia. NDC) è ovvio che la vera opposizione (che di per sé, intendiamoci, non costituisce un valore o un contro valore, potrebbe anche rivelarsi una iattura, il ragionamento prescinde completamente (per ora) da simili valutazioni) viene quasi automaticamente contrassegnata con giudizi etici negativi (quali, appunto, qualunquismo o populismo), i quali non denotano altro che un porsi contro una ortodossia obbligata. In realtà qualunquisti, populisti, scissionisti, separatisti, anarchici e via andare, in ogni tempo o luogo, non hanno mai fatto niente di diverso dal rappresentare, bene o male, ottimamente o pessimamente, gli interessi di frange minoritarie. La caratteristica di questi interessi considerati estranei alle regole del buon governo e della gestione responsabile non consiste nell'essere buoni o cattivi, ma nell'essere pericolosi o almeno giudicati tali dalla maggioranza delle élite dirigenti e dei ceti professionali. Quando questi interessi diventano maggioritari o l'assetto dominante crolla e allora può venire fuori di tutto (compreso catastrofi e reazioni dispotiche) oppure comincia una stagione di vere riforme. In entrambi i casi sarebbe molto consigliabile per tutti aver già predisposto un ben preciso piano di azione, ma alla gente responsabile, alle persone di buon senso e senno illuminato, non conviene: un piano di azione ovvero un progetto potrebbe infatti provare con ineffabile, disarmante candore l'imbarazzante verità che il sistema in atto è solo un accidente storico a cui, almeno sulla carta, potrebbero benissimo subentrare soluzioni molto più intelligenti e rispettose dei diritti e degli interessi comuni e maggioritari. I kolibiani non sono né qualunquisti, né populisti, né anarchici, né tecnocrati: sono solo progettuali. (Ritengono cioè che quel tipo di procedura metodologica senza la quale non esisterebbe la tecnologia e quindi la moderna società industriale vada esteso alla predisposizione di fondamenta e lineamenti generali relativi ai fattori di produzione economica che tengono in piedi una società. Un dilemma che qui viene posto è allora il seguente: o il kolibianesimo è una pazzesca forma di semplicismo utopistico o le egemonie culturali sono vittime di abbagli procurati da secoli o millenni di false e perfino ridicole concezioni del mondo ritagliate su misura per favorire la prevalenza del lato oscuro della Forza ovvero dei valori di fitness relativi a una 'struggle for life' adattata alle specifiche caratteristiche della socialità umana, dove, con moduli vari, prevalenze e priorità legate al privilegio individuale devono tradursi in qualche modo nella legittimità del diritto istituzionale. NDC)
Voi kolibiani credete veramente nel progetto o lo usate come spauracchio provocatorio, strumento di un nichilismo assoluto mediante il quale vi divertite un mondo a ridicolizzare il dilettantismo e l'incompetenza (non assoluti, ma relativi alla vastità e complessità dei problemi) di quegli addetti ai lavori che ancora si affannano sinceramente a sciogliere il bandolo della matassa ?
Noi kolibiani crediamo prima di tutto che ciò che è scontato e spontaneo non arriverà mai ad alcunché di giusto, duraturo ed efficiente, poiché non può che rientrare in quella creatività di natura che, almeno in questa particolare specie di universo, per motivi di dinamica intrinseca in cui contano poco o niente i buoni o cattivi propositi e le sceneggiate morali, favorisce le dinamiche del mutamento nella dissipazione, della produzione continua e ridondante di entropia tramite l'ingordigia energetica necessaria alla danza forsennata di isole disperse e scollegate di complessità sistemica. Ciò si è rivelata una macchina incredibilmente produttiva finché il monopolio di una singola specie ha messo in dubbio le regole del gioco imponendo, caso mai avvenuto in mezzo miliardo di anni, il proprio monopolio su uno scenario di cui ha alterato la carica degli orologi, imprimendo alle lancette accelerazioni che, senza tema di serie smentite, possono significare (anche se non (Non ancora! NDC) con certezza assoluta), la prenotazione dell'apocalisse entro pochi, pochissimi secoli. I kolibiani ritengono che, a parte l'arretramento e la soppressione del liberalismo nella massificazione amorfa di regimi fanatici e autoritari, (ma tale massificazione deve essere compressa nel numero e domata nei ribollimenti per non provocare danni anche peggiori di quelli indotti dal 'progresso' tecnocratico in stile occidente. NDC) non esistano soluzioni diverse da quelle che prima di tutto sottraggano queste isole al marasma della competizione consentendo una sopravvivenza in regimi vicini allo stato stazionario, in secondo luogo coordinino tali unità in un insieme strutturato e conseguente, all'insegna di controlli e regolazioni che li facciano adattare alle sfide ambientali ed evolvere alla velocità consentita da un perspicace e lungimirante gradualismo. L'umanità riuscirà a perseguire tali obbiettivi? No di sicuro, se seguita con l'andazzo attuale, incoraggia gli stessi tipi dominanti di culture e mentalità, continua a lasciare libero sfogo a individualismi darwiniani che ormai non possono neppure più vantare il fascino brutale che vi arrecava la selvaggia franchezza dei secoli passati e devono quindi profondersi in una vischiosa ipocrisia che non mitiga e anzi lubrifica gli aspetti deleteri.
Voi kolibiani, fin dal vostro primo 'incedere', mostrate un sinistro ardore nel baloccarvi con scenari apocalittici. Ci credete veramente o praticate una nuova forma di misticismo che definirei 'masochismo filosofico'?
Bah, amico caro, ai posteri l'ardua sentenzia. La moda dei film catastrofici si è molto ridimensionata dopo la prima esplosione, ma non si è mai esaurita del tutto, forse perché interrogarsi sul tipo di tempesta che annunciano i nuvoloni neri sopra l'orizzonte (Solo chi ha difetti di vista mentale può ignorarli. NDC), a prescindere che possano dissolversi o ingrossarsi, non sembra a tutti un esercizio culturale così peregrino, un'abitudine tanto disprezzabile, anche se suscitano la riprovazione di quelli che affluiscono in masse festose per saltellare e sbracciarsi intorno al trono del rappresentante terreno del Supremo Padrone delle infinite galassie di infiniti universi (capo di una istituzione la cui sacralità è attestata da circa duemila (no, dico, signori, ma vi rendete conto: duemila!) anni di longevità. (In cui, peraltro, sotto lo stesso marchio di fabbrica, le canzoni cantate nei vari periodi hanno mostrato molto poche note comuni, forse perché i suggerimenti che arrivavano dall'Alto risentivano della confusione senile di un Emittente che per miliardi di anni deve essersi annoiato moltissimo senza la compagnia di tante belle e simpatiche anime umane. NDC) Magari Dio, che ha già il suo bel daffare nel concedere equanime benevolenza a cattolici di destra e cattolici di sinistra (due conformazioni antropologiche quasi perfettamente agli antipodi l'una dell'altra, molto più del destrorso e sinistrorso 'normali'), non ci disprezza come i più formalisti dei suoi adepti pretendono. (Può essere utile a questo punto riportare la nota di un acuto commentatore non di parte (non abbondano, ma esistono) nel descrivere una violenta polemica locale tra un gruppo religioso 'moderato', intriso di perbenismo e ortodossia, e una setta cattolico-kolibiana intenzionata a una rifondazione teologica radicale. "Gli ortodossi - scrive costui - vedono i transfughi neo-progettuali come un'accolta di spiantati anarcoidi infetti da intellettualismo iconoclasta e disprezzo delle etichette e delle istituzioni, nemici del decoro, vagheggianti sintesi e riscatti che comportano in realtà un ritorno allo stato selvaggio, sanculotti assetati del sangue di tutti i cultori di una socialità dignitosa; gli altri irridono al concetto di una dignità sempre pronta a mettersi in ginocchio, a una moralità asservita a ragioni di comodo e di privilegio classista, all'antropomorfismo che inneggia a una umanità incapace di trarre qualsiasi diletto da libri e natura, bramosa solo di pavoneggiarsi in mezzo a esteriorità cerimoniose profumate con lo sterco del diavolo. Conflitti culturali e di interessi ne sono sorti di ogni ordine e grado, in ogni tempo e luogo, ma pochi hanno visto avversari tanto desiderosi di conferirsi reciprocamente la patente di degenerato sub-umano." Il pezzo si conclude esprimendo dubbi e preoccupazioni intorno alla possibilità che i fatti descritti denuncino i sintomi di una frattura profonda del corpo sociale. NDC) Quello che angustia la maggior parte dei nostri confratelli potremmo considerarlo il rimbalzo speculare della tua contestazione e si manifesta nell'interrogativo più o meno conturbante: una religione che, più che essere ignara, si sente completamente avulsa e in modo perfino schizzinoso dalla consapevolezza dell'inevitabile precarietà e caducità di istituzioni umane non rispettose del contesto in cui si trovano organicamente inserite, è vera religione? E' religioso incitare spropositate masse umane a devastare senza ritegno gli ambienti naturali perché si è convinti, senza nessuna vera cognizione di causa, che la carryng capacity sia automaticamente predisposta al meglio dal Principale? In che consiste questa grande profondità e bellezza dell'auto-esaltazione prima e sopra di tutto? Non certo nell'afflato prometeico dell'avventuriero e dell'esploratore e nemmeno nella protervia colonizzatrice da homo faber et oeconomicus, se vige comunque il precetto di un omaggio sollecito, in verità molto artificioso e superficiale, verso il derelitto impotente e il povero di spirito, verso l'umile che tale deve restare visto che, così com'é, è tanto degno di commosso rispetto. Certi conti a noi non ci tornano. Che cosa poi si proponga concretamente di realizzare una religiosità che parla continuamente di dignità dell'uomo e rimette tutto nelle mani di una potenza espressa da un imperscrutabile giudizio in un imperscrutabile al di là, che cosa sottintenda se non una sottomissione serenamente rassegnata alla competizione comandata dalle leggi di natura (decretando di fatto la implicita divinità dell'ordine costituito. NDC), rimane per noi kolibiani un mistero fittissimo.
Perché i kolibiani ce l'hanno tanto con il cattolicesimo?
Perché occupa attualmente tutti gli spazi di suggestione che una umanità consapevole e debitamente emancipata da ideologie travestite da allettamenti mitologici dovrebbe adibire in un'azione politicamente trasversale dedita alla costruzione di un avvenire sensato e ragionevole, contraddistinto da un incremento medio della qualità di quelle vite che potrebbero ripetersi all'infinito (in inferni e paradisi concreti ed effettivi) secondo un grado di plausibilità scientifica molto superiore a quelli che richiedono una sopravvivenza slegata da muscoli, ossa, visceri e cervello. L'avversione dei kolibiani verso la religione ricorda quella dei giacobini e dei bolscevichi che vi vedevano la negazione del paradiso in terra in cui credevano. (L'avvertimento implicito alle aree più tiepide e il segnale di forza inviato ai sostenitori, rappresentati dalle grandi Convention confessionali, provano che certe avversioni preventive non erano infondate, anche se è stato sciocco e brutale estenderle all'ambito privato. NDC) Noi non crediamo nel paradiso in terra con uguale trasporto o convinzione, noi crediamo che l'unica possibilità di avvicinarlo dipenda da un solo tipo di metodologia, senza nutrire la certezza che l'uomo abbia la capacità di accedervi. Questa capacità, che esista o meno, non troverà certo il terreno di coltura favorevole in menti adulte che vogliono rimanere bambine e richiudersi in un cerchio d'incantamenti e favole surreali, (penosi e controproducenti auto-inganni o ipocrite menzogne di una cattiva coscienza, più combinazioni e varianti. NDC) richiede invece la spregiudicatezza e la determinazione sobria e disincantata di fissare dritto negli occhi la Medusa della realtà. Se questo primo passo sarà sufficiente o meno, non dipende dai kolibiani, a cui tutto si può disconoscere, ma non l'onestà di sottolineare a tratti marcati nodi critici e difficoltà senza preoccuparsi di chi o che cosa ne sia favorito od osteggiato.
E se questa avversione non fosse altro che un indice di invidia?
E' possibile, se per invidia s'intende soprattutto il rimpianto per opportunità che competono immeritatamente a referenti che non saranno mai in grado di sfruttarne a dovere le potenzialità creative. La nostra sfiducia totale, che si può tranquillamente considerare esagerata, non deriva da un disprezzo delle facoltà che attengono al medio simpatizzante cattolico, ma da un giudizio intorno alle caratteristiche strutturali dell'istituzione, fondata su uno strano staterello che assomiglia a una multinazionale specializzata in servizi di assistenza a uno stato molto più grande di cui costituisce il governo ombra grazie alle possibilità di condizionare i flussi elettorali: nessun partito dell'area governativa tradizionale è in grado infatti di scontentare le masse cattoliche senza perdere percentuali di consenso decisive. Siccome i kolibiani, in quanto confessione antagonista, non offrono il fianco a quella vera e propria condizione di ricattabilità, possono permettersi tranquillamente di ribadire, papale papale, che di autentica democrazia non è assolutamente il caso di parlare perseverando quel tipo di congiuntura, al punto che un autentico laico, un cittadino qualunque non appoggiato alle diverse lobby religiose, potrebbe richiedere i danni per violazione dei propri diritti costituzionali, (per esempio, facendo notare come la propria posizione lavorativa, a parità di altre condizioni, risulta svantaggiata sotto tutti i punti di vista per violazione delle regole di concorrenza (mancanza di patrocini accessibili invece ai cultori dell'ideologia cattolica). NDC), naturalmente senza alcuna seria speranza di successo, dato che le leggi del suo stato patrigno sono già state preventivamente condizionate dalle influenze vaticane. Al di là comunque di questi risvolti legati all'ordinaria vita comunitaria, la lobby vaticana, proprio per la promiscuità ideologica che convoglia in un grande carrozzone di ortodossia accortamente complementare e dialettica ai poteri ufficiali, non può dedicarsi ad alcuna azione incisiva nel senso delle riforme radicali a meno di non considerare tale un tipo di massificazione che secondo i liberali kolibiani è tra i più problematici e rischiosi perché si interessa all'individuo per forgiarne la psicologia. (I capi 'laici' si preoccupano solo degli individui che possono creare problemi, i capi religiosi, invece, non si accontentano di conquiste superficiali, vogliono adesioni più profonde, e questo non tranquillizza neppure quando il proselitismo si limita a metodi soft. La promiscuità e le frontiere liquide predicate dai bergogliani tendono in effetti all'unificazione nel segno di valori universali che, esaminati a fondo, in assenza di un garante e fideiussore altrettanto universale (quel Dio che con il signor Bergoglio, chissà perché, non si degna di comunicare), si riducono a un tendenzioso ottimismo liberista. NDC) Ciò che può esercitare ed esercita continuamente è una mediazione assidua e costante in vista del mantenimento di quel tipo di equilibri che favoriscono una conduzione prospera dei propri interessi. Ovviamente quando la santità ha bisogno degli affari per sostenersi, la santità non prevarica mai sugli affari, mentre gli affari prevaricano sempre sulla santità. Il motivo è evidente: gli affari sono concreti ed effettivi come i kolibiani vorrebbero che fosse l'azione progettuale della Chiesa di cui sono promotori; la santità, la carità, la misericordia non esistono al di fuori di azioni che, quando devono essere organizzate in modo fattivo e coordinato, si iscrivono in un macchinario sistemico assimilabile a un'attività imprenditoriale qualunque, in una tipologia che tratta beni e servizi dei generi più diversi, tra cui possono rientrare anche opere di carità e spacci di sostanze illegali. Qualsiasi nobile iniziativa, partito politico o impresa no profit, ben difficilmente riesce a emanciparsi dalla dannazione che incombe come un contrappasso e, per evitare la disarticolazione confusionaria, costringe qualsiasi organizzazione a equipararsi sul piano dell'attività aziendale privata, grande o piccola. Per questo la Chiesa Kolibiana non vuole intraprendere alcunché, intende soltanto progettare l'unica istituzione che può compiere effettivamente del bene in modo sistematico e non aleatorio: la holding dello stato nazione. Purtroppo un programma siffatto non infiamma i cuori, non evoca la sollecitudine di una compartecipazione appassionata, quel fervore che però si consuma in una pirotecnica statica e velleitaria senza l'intervento di quella fredda razionalità amministratrice che alla fine impone il predominio della propria cappa soffocante. Analisi intorno alla mole di siffatte contraddizioni e impasse, che colpiscono l'uno e l'altro campo, ma con pesi e incidenze diversi, spinsero addirittura il Sommo Anonimo a prendere seriamente in considerazione (piano poi abbandonato, non tanto per le scarse possibilità di successo, ma per gli incerti ritorni sul piano dell'immagine e degli scopi specifici. NDC) un accordo di fusione capace di armonizzare le fascinazioni esoteriche del confessionalismo tradizionale con l'architettura luminosa della rivoluzione kolibiana, al punto che non pochi tra i suoi discepoli arrivarono a ipotizzare una sua elezione al soglio pontificio.
Siete sicuri di essere sempre ben presenti a voi stessi quando, soprattutto voi guide spirituali e maestri di dottrina, ve ne uscite con certe boutade che definirei benevolmente un tantino strampalate e balzane?
In effetti, noi kolibiani siamo dei grandi mattacchioni: le spariamo talmente grosse che a volte è difficile prenderci sul serio da parte di chi si limita a sparare ogni giorno nuvole di piccoli pallini contro ogni rara avis che cerca di spiccare il volo dell'intelligenza. Le persone serie che rispettano i canoni provano a confrontarsi con certe nostre tesi assurde, ma non resistono molto, proprio non ce la fanno, non sanno nemmeno da dove cominciare, devono degradarle a scherzi di pessimo gusto o addirittura schegge di pazzia. Del resto, che cosa c'è di più folle della verità, chi riesce a vivere in una luce che fruga con il suo freddo bagliore in tutti gli angoli nascosti? In realtà, alcuni ci riescono, altri no e alla fine è solo una questione di gusti: per esempio, chi coltiva filosofia e scienze, arti o letteratura, rispetto a chi si diletta nel tempo libero con... mettiamo... il karaoke, ha meno remore (forse, in genere) a confrontarsi con certe analisi, si mostra meno restio a tirare conclusioni quasi obbligatorie anche se disturbanti. Probabilmente anche il suo concetto di ciò che è divertente, interessante, emozionante differisce e non poco. (Può risultare di un qualche interesse riportarsi al periodo che vide il passaggio dalla prima alla seconda repubblica, coincidente con lo sviluppo della televisione commerciale. Qualcuno forse ricorda come un famoso conduttore dei primi talk show, che per anni aveva condotto per i canali anche radiofonici della televisione pubblica noiosissime rubriche perfettamente allineate al clima del moralismo edificante in quelle sedi quasi obbligatorio, manifestò, traendone brillanti successi di carriera, una brama quasi spasmodica di ribellarsi a tale temperie rivelando però un tratto assai caratteristico della propria natura: l'attrazione irresistibile che subiva dal mondo dello spettacolo d'intrattenimento, quello di varietà maliziosi, comici di cabaret e canzonette mielose e accattivanti, un ritorno di fiamma che lo induceva perfino a strapazzare ospiti secondo lui troppo seriosi quando non facevano outing sulle proprie tendenze nascoste e non confessavano apertamente quanto fosse immensamente più rilassante e corroborante occuparsi di amabili scemenze invece di macerarsi in mattoni impegnativi legati alla cultura raffinata e concettuosa. Insomma, a costui risultava inconcepibile che qualcuno si occupasse, per esempio, di Shakespeare o di meccanica quantistica ricevendone una qualsiasi gratificazione e che lo stesso non si appassionasse invece con trepidante fervore nell'ascoltare i pettegolezzi e le confidenze di quel cantante o quell'attricetta. E poi ci si stupisce che sia andata come è andata. NDC).
Problema: politica e canali mediatici dovrebbero coltivare gusti e inclinazioni perché sono maggioritari o perché rispondono a certe esigenze ormai inderogabili di consapevolezza e responsabilità? Se si ritiene che credere in Dio e nei suoi emissari terrestri comporta tutta una serie automaticamente collegata di slanci fiduciari mal riposti, si deve ciò nondimeno mostrare per forza quel rispetto della sedicente e presunta sacralità a cui il fedele ritiene senz'altro di avere diritto? Ci si deve ritenere obbligati, in ogni eventuale, ma prima o poi ineluttabile, mescolanza, a sottovalutare gli interessi molto concreti e materiali a tutto vantaggio degli aspetti spirituali? In occasione della giornata mondiale della felicità, che i veri mattacchioni delle Nazioni Unite, gli arguti rampolli di tutte le migliori famiglie liberiste del mondo, hanno indetto a monito e istruzione dei falsi mattacchioni dal sorriso storto, il nostro telegiornale preferito ha svelato il segreto dei segreti: gioia e serenità conseguono dall'altruismo. Dopodiché, a campionato finito, vinto dai soliti nordici grazie all'arbitraggio iniquo dei fattori climatici, rimangono in pista, facendo finta di niente, le seguenti previsioni: tra trent'anni si esauriscono i ghiacciai montani, tra quaranta si esaurisce l'acqua fossile delle falde sotterranee, tra cinquanta finisce il petrolio e quindi anche, probabilmente, la copertura energetica e anche quella agricola, tra sessanta finisce il ghiaccio dell'artico, tra settanta si esauriscono le foreste tropicali, tra duecento o giù di lì il pianeta va letteralmente a fuoco, il metano sepolto negli oceani gorgoglia in superficie e l'atmosfera diventa più irrespirabile delle nuvole di Venere: valori arrotondati e stiracchiati un po' per esigenze retoriche, con un margine di approssimazione comunque non superiore a più o meno venti, e valori che comunque non tengono conto delle dipendenze incrociate e quindi delle relative, mutue accelerazioni. Allora i kolibiani che, per non ammattire, si concedono pillole di umorismo nero distillate dalle paradossali stravaganze dei curiosi costumi umanoidi, gingillandosi con l'altruismo della felicità, rigirandolo e tastandolo in tutti i modi possibili, ne colgono alla fine l'essenza sopraffina: le persone da beneficare non possono essere che i beneficanti, magari riuniti nel club del libero amore beneficante, dato che non solo i miliardi di non ancora nati sono tutt'altro che beneficati dall'altruismo che dà la felicità e che allieta i papa boys del superdione fan club, anche le figliolanze, nipotanze e pronipotanze dei beneficanti ovvero i più giovani aspiranti beneficanti non lo sono e quindi è prevedibile che tali giovani promesse della carità non raggiungeranno mai la felicità beneficante, ma, nella migliore delle ipotesi, dovranno adattarsi a fare quello che ormai ufficialmente non fa più nessuno, ovvero competere per sopravvivere e non più per arricchirsi.
Riuscite a credere per davvero che lo scenario che prospettate, magari grandioso, ma fondamentalmente tetro e inquietante, diciamo pure ossessivo, possa mai soppiantare, se non per l'orecchiamento distratto di una moda che durerà una sola stagione, caduca e transitoria come tutte le mode, la narrazione rassicurante delle tradizionali favole religiose?
Se il kolibianesimo è una moda e tale rimane, sarà una delle ultime, dato che non esiste altra possibilità di nominare un candidato credibile al seggio di Nostro Signore l'Onnipotente se disgraziatamente quello si dimostrasse vacante. Per fortuna, i nuovissimi campioni dell'anti-liberismo liberista, Trump in testa, ci confermano che il trono è stabilmente occupato e che i problemi climatici sono una invenzione di anarchici e miscredenti. Comunque, per rispondere schiettamente al nostro arguto interlocutore, direi che, in assenza di una massiccia conversione di massa, ritengo difficile che il partito kolibiano, che è il maggior partito di opposizione, ma è tagliato fuori da qualsiasi coalizione governativa, possa raggiungere la maggioranza assoluta, per cui siamo curiosi di vedere fino a che punto quegli strati dirigenti che veleggiano indisturbati lucrando a man bassa sulle auto-ipnosi indotte dalle mistificazioni più assurde possono continuare a ignorare rischi e pericoli e come si regoleranno nel momento in cui dovranno aprire gli occhi se ciò, come è molto verosimile per ovvi motivi, avverrà prima che si sollevino le molteplici palpebre delle moltitudini da loro amministrate.
In qualità di uomo di sinistra e spirito umanitario, religioso come si conviene a chi porta un giustificato e anzi doveroso rispetto verso gli sforzi e le aspirazioni umane, voi kolibiani non riuscirete mai a convincermi delle vostre buone intenzioni. Io penso di aver capito il vostro gioco di sedicenti comunisti liberali: siccome è definitivamente tramontato il tempo delle vacche grasse per chi concepisce la libertà come l'arbitrio di singoli individui, quello che vi assilla e vi turba i sonni è un futuro in cui le rivendicazioni sia spirituali che materiali delle masse condizioneranno le politiche economiche e sociali per il tramite pacifico e collaborativo dell'internazionalismo di buona volontà, della forza coordinata del numero senza frontiere. Perché non ammettete di non essere all'altezza di un compito che solo un'autentica ispirazione democratica e un afflato di fratellanza possono assolvere, non certo il fantomatico feticcio di un sogno neo-tecnocratico chiamato 'progetto'?
L'autentica ispirazione democratica di chi? Delle masse? Le quali, quindi, mi corregga se sbaglio, dovrebbero organizzarsi in cooperative di produzione e consumo e rivoluzionare le basi economiche in modo da migliorare la qualità della vita... già, ecco, mi scusi... la qualità della vita di chi? Delle masse o dei singoli individui? E ogni singola efficientissima cellula operativa della luminosa società che ci aspetta da chi sarà gestita? Come saranno distribuiti oneri e responsabilità e ripartiti i relativi vantaggi? Evitando schizzinosamente ogni idea di progetto e mettendo una massina qui e una massetta là per ricavarne massone e massoni migliori? Lei dice di essere di sinistra: dovrebbe per favore spiegarmi che cosa significa dato che io sinceramente non sono in grado di capirlo. E quanto all'essere religioso? Vuol dire ritenere l'umanità composta potenzialmente e prevalentemente di santi uomini e donne in modo tale che basta far saltare il tappo dei pochi reprobi che l'hanno vessata finora ed ecco che tutto zampilla come schiuma di champagne? Effettivamente purismo religioso e rivendicazioni popolari si sono trovati spesso dalla stessa parte a cominciare dai movimenti ereticali del tardo medioevo, eppure, perfino in ambiti rurali estremamente localizzati e ristretti (per esempio in una singola valle sperduta invece che su un intero pianeta avente un diametro di circa 12.700 chilometri) la forza vivificante dell'amore e la comunione delle anime nella luce della verità non mi pare abbiano fornito in genere prestazioni molto eclatanti, o mi sbaglio? Magari, chissà, l'ausilio delle raffinatissime tecnologie moderne riuscirà a far splendere i loro tesori nascosti, se il ceto di specialisti in grado di gestirle e quello dei politici e degli amministratori in grado di approfittarne si convertono sinceramente. Ma lasciamo perdere la religione e concentriamoci invece su quell'altro ineffabile carisma che deriva dall'essere di sinistra, un tratto nobiliare dell'animo che oggi più che mai risulta talmente intimo e prezioso che chi ne detiene il felice possesso si considera esentato dall'obbligo di qualsiasi dimostrazione pratica. Ebbene, per quanto riesca a capire io di questioni tanto 'umanamente' complesse, oserei dire che il grosso della sinistra, anche per questioni di diritto internazionale e i vincoli contrattuali liberisti che rispetta e onora, abbia ormai definitivamente rinunciato alle nazionalizzazioni e alla proprietà pubblica di risorse e mezzi produttivi. Deduco quindi che, tenuto conto che la quasi totalità delle iniziative economiche private di piccolo o molto piccolo cabotaggio tira semplicemente a campare, quando non è alla canna del gas, e il medio o medio-grande che possiede ancora qualche sostanza da spremere è in nota per essere cooptato nella Grande Famiglia di qualche super-holding che è anche talent-scout di pubblici amministratori, si occuperà soprattutto di società civile, diritti delle donne, rispetto delle minoranze, garanzie delle fasce deboli eccetera, quindi di questioni 'etiche' tali che, o il semplice essere liberale rende auspicabili secondo intelligenza e giustizia (nel senso che chi non calpesta i diritti concreti (non ideologici) degli altri ora e sempre dovrebbe potersi organizzare la propria vita come vuole lui e non secondo le volontà di trafficanti e spacciatori di ideali e valori), oppure, oggi più che mai, comportano la manipolazione di gangli delicatissimi per i quali è quasi garantito commettere abusi e discriminazioni e tanto varrebbe decidere tramite i dadi o le estrazioni a sorte, come raccomandava il giudice Brotteaux. Non vi è niente di più scontato dell'inevitabilità del commettere nobili pasticci (che ovviamente possono rivelarsi tali a scoppio ritardato), se ci si prosterna davanti a un controllo assoluto dell'economia da parte di potentati internazionali legati a condizioni di sopravvivenza e sviluppo i cui obbiettivi prioritari e le cui criticità, diventando ipso facto le condizioni pregiudiziali per la vita di tutti, configurano al confronto ogni altra libera iniziativa alla stregua di sinecura e pannicello caldo, anche e soprattutto con riferimento alle tematiche climatiche e ambientali. Per non rimanere troppo nel vago, ricordiamoci sempre che i grossi nomi del capitalismo, perfino nel pieno delle tempeste contestatarie e radical-socialiste, sono riusciti sempre a farsi retribuire dai rispettivi stati la minaccia di chiusura per perdite o addirittura scarsa redditività o i propositi di spostare la produzione all'estero: immaginiamoci l'esito di simili sviluppi al culmine della voga liberista.
I kolibiani si dichiarano di centro, però ho la netta sensazione che la loro acredine si rivolga soprattutto a sinistra e contro frange confessionali orientate a pratiche sociali di sovvenzione e solidarietà: non è la prova che in realtà sono parecchio sbilanciati a destra?
I kolibiani se la prendono soprattutto con la sinistra riformista che non può fare riforme e con l'ipocrisia di chi dirige e commissiona (non di chi svolge!) interventi caritatevoli e ne trae ritorni economici e acquisto d'influenze. I Kolibiani, centristi liberali, rivoluzionari per via progettuale, religiosamente (ovvero filosoficamente) atei e razionali, criticano chi, non avendo imparato niente dalla storia, preme l'acceleratore del massimalismo confusionario, ma stigmatizzano anche la falsa e cattiva coscienza che continua a blaterare di riforme fingendo di non accorgersi che riforme imposte dai nodi strutturali di sistema sono riforme obbligate che lasciano spazi minimi e insignificanti di libertà e non manifestano alcun colore politico a parte il grigio plumbeo, cosparso di tinte sguaiate che sono pugni negli occhi, della massificazione autoritaria. I kolibiani dovrebbero prendersela con le destre? E perché? Le destre sono, per definizione, conservatrici: perché si dovrebbe negare a qualcuno il desiderio di conservare i privilegi e le prerogative che possiede? Come si orienterebbero quasi tutti i poveri della terra e i più arrabbiati dei centri sociali se ereditassero all'improvviso un grosso patrimonio? Per raggiungere i loro obbiettivi i kolibiani non puntano sui santi, sugli esempi di bontà e di abnegazione, sugli eroi fedeli all'ideale fino alla morte. I kolibiani sanno che i tesori sepolti nell'animo umano sono come la Timbuctù del primo ottocento, piena di vagheggiati palazzi d'oro che si rivelano ordinarie casupole di mattoni e di fango. (Agli albori delle grandi esplorazioni, bastavano poche e oscure notizie sulle sabbie aurifere di qualche grande fiume esotico che subito la fantasia popolare innalzava eldoradi sulle sponde ancora sconosciute. Per lo spirito umano vale qualcosa di simile: siccome cartografarlo come si deve rimane impresa faticosa, ingrata, densa di inquietanti incognite, che pochi grandi artisti, perlopiù sconosciuti al grande pubblico, si sono sobbarcata, i più se lo figurano in base alle leggende tramandate dalla letteratura dozzinale, dal giornalismo d'intrattenimento, dagli 'esperti' che vanno in televisione, dagli intermezzi dei varietà, dai predicozzi parrocchiali eccetera e quindi vi affastellano, premute alla rinfusa, meraviglie da favola in cui nessuno crede, ma in cui quasi tutti riterrebbero giusto e doveroso credere. NDC) Il pericolo vero si annida nelle compagini falsamente e ipocritamente progressiste. La destra diventa pericolosa quando la sinistra effettivamente riformatrice (che quindi, oggi, per meritarsi il titolo, deve condursi oculatamente e sensatamente da rivoluzionaria) fa sul serio, quindi se non è possibile prendersela con la destra è colpa di una sinistra che non fa niente per suscitare il lato velenoso e virulento delle destre, quello che scatta all'infuori quando la massa delle prerogative e dei privilegi maggiori viene seriamente messa in discussione e minacciata. Qui potremmo fare l'esempio di Trump, se fossimo così ingenui da ignorare che Bush e Clinton, Trump e Obama sono due facce della stessa medaglia come Papa Ratzinger e Papa Francesco, Berlusconi e Renzi, l'opzione scelta di volta in volta dall'istinto di conservazione del sistema con l'approvazione decisa, l'avallo tacito o almeno l'attendismo possibilista delle élite. (Quando l'economia tira, nella Chiesa predomina il lato morigerato e paternalistico che ammonisce le fasce basse a contenersi nella sobrietà perché prima o poi arriveranno i tempi delle vacche magre, quando l'economia langue e boccheggia il monarca assoluto di sinistra si rivolge umile alle masse evocando una fratellanza monacale la cui umanità distoglie dalla disumanità delle questioni finanziarie (sono queste le fasi in cui le finanze ecclesiastiche si consolidano maggiormente soprattutto grazie alle donazioni). Per la politica vale quasi l'opposto: in tempi di vacche grasse prevale la sinistra finanziaria, aggraziata e presentabile, che macina utili gorgheggiando sui canali mediatici, senza sporcarsi con il grasso dei macchinari e la fatica degli addetti; nei periodi di crisi la destra industriale sciorina i campioni della concretezza e del 'fare', i bulli graditi ai soldati semplici della resistenza a oltranza, blanditi con promesse elettorali in modo da dare la scossa, che in qualche modo si avverte, anche se poi i proclami mangiavoti vengono sistematicamente disattesi in omaggio allo zoccolo duro dei soliti grandi interessi. In Italia si aggiunge un fatto enigmatico e, almeno per gli italiani, di rilevanza non inferiore: in prosperità il campionato di calcio lo vince una squadra qualsiasi, in ristrettezze lo vince soltanto la Juventus. NDC) Finché si gioca a testa o croce con una medaglia sola, quello che vi è inciso non conterà mai come la materia di cui è fatta e oggi il denaro che orienta la politica, più che di carta o metallo, è fatto di quotazioni ai videoterminali. Quando un presidente farà deliberatamente crollare i listini di Borsa (che sta diventando come una gigantesca spugna che assorbe con gradualità e perizia chirurgica il benessere della gente di sempre più bassa e sempre meno media condizione) allora i kolibiani interpelleranno la vera sinistra razionale per fare muro contro l'emergere (eventuale) di quella destra cattiva da cui alcuni dell'attuale destra si defileranno e in cui molti dell'attuale sinistra confluiranno.
A me il kolibianesimo ricorda la degenerazione del marxismo nel leninismo. una caduta da concezioni di largo respiro al gretto tecnicismo che non sa muovere un passo senza il manuale di partito che detta le regole. Che mi rispondete?
Che lei, secondo il mio modesto parere, ha capito tutto all'incontrario. Marx credeva in un determinismo immanente agli sviluppi della storia umana e quindi non delineava un progetto, ma una profezia, un decorso inesorabile degli eventi in accordo con linee di tendenza che prefiguravano contraddizioni insanabili, risolvibili soltanto attraverso una rottura dei vigenti rapporti di dominanza economica e un conseguente stravolgimento degli assetti proprietari e del ruolo arbitrale dello stato non più identificato con una classe, ma con la generalità dei cittadini amalgamati nella figura di un lavoratore che si appropria comunitariamente del surplus (concepito secondo la teoria del valore-lavoro) invece di cederlo a terzi. Per i kolibiani i destini umani non godono rispetto all'ambiente planetario di un'autonomia indispensabile per poter anche vagamente e ipoteticamente concepire leggi di evoluzione specifiche, sottratte a quella instabilità fondamentale che caratterizza ogni sistema quando interagisce con un contesto esterno rispetto a cui il sistema stesso, che influisce in negativo (rispetto a generali esigenze di equilibrio), non dispone di alcuna autentica capacità condizionante in positivo. Come se ciò non bastasse, l'umanità in se stessa, a prescindere cioè dal novero sconfinato delle dipendenze comunque cruciali, dispone di una possibilità illimitata di produrre eventi dei tipi più svariati e quindi, senza specifiche decisioni di riduzione programmatica dei gradi di libertà, non permette alcuna previsione credibile di quello che sarà il suo destino. Lo si vede proprio in rapporto alla già citata teoria del valore-lavoro, che rappresenta una pura supposizione etica, perché ormai è chiarissimo che la scienza economica non sarà mai in grado di pervenire a una teoria del valore e dei prezzi che metta d'accordo i diversi interessi intorno a un'oggettività inconfutabile. I kolibiani assegnano quindi l'ambito fenomenologico delle vicende umane a regimi caotici in senso fisico-matematico, argomentando la plausibilità di rischi quantificabili, per cui, a qualsiasi tipo di vaticinio basato su leggi di evoluzione strutturale, antepongono la necessità, finché si è in tempo, di ridurre quei rischi spropositati e non tollerabili da alcuna intelligenza equanime e non egoista e ciò attraverso una scelta deliberatamente intesa a ridurre le incognite di una complessità esplosiva. Noi non facciamo degenerare il marxismo, lo solleviamo dalle secche di profezie e automatismi semplicistici riadattandolo con quel senno di poi che si fa forte di più di un secolo di nuove acquisizioni scientifiche. Anche la sfiducia che i kolibiani nutrono verso la politica, diventata quasi e per molti aspetti un gigantesco ingombro autoreferenziale, un'attività economica a sé stante, risulta da una revisione rispettosa dello spirito più autentico della visuale marxiana che, a differenza di quanto si ritiene comunemente, non poneva alcuna particolare enfasi nell'organizzazione direttiva delle lotte operaie e nell'attivismo politico e sindacale: qui i kolibiani si differenziano dal leninismo come dal gramscismo e più in generale dalle tradizioni del socialismo, sia burocratico-dittatoriale che parlamentare, e proprio qui la contestazione avanzataci cade completamente nel vuoto. Deve essere comunque chiaro che l'impossibilità di anticipazione individuata dai kolibiani riguarda soprattutto l'imprevedibilità delle reazioni e dei comportamenti umani e non si riferisce a specifiche linee di tendenza economiche e di deriva sociologica. Sulla caduta tendenziale del saggio di profitto, per esempio, che rappresenta una chiave di volta del sistema marxiano, si accordano non solo i kolibiani, ma, a parità di condizioni tecniche, storiche e sociali, la quasi totalità degli economisti, i più ottimisti dei quali hanno però potuto contare finora sugli ausili, le calibrazioni, i rinforzi consentiti dalla globalizzazione. Essendo il pianeta limitato sia in estensione sia in risorse e resistenze, finché non si aprono colonie su altri pianeti, la questione s'incentra ora sul vaso di Pandora della tecnologia, se è illimitato oppure presenta un fondo, se questo è ormai vicino o ancora lontano, se fornirà il rimedio ai danni che provoca. Su questi temi si sta sfarfallando parecchio, quasi sempre, però, dimenticando un dettaglio non proprio da niente: che, senza cambiare lo status quo, l'avanzamento della tecnologia richiederà capitali aggiuntivi sempre più cospicui, nominando di fatto arbitri plenipotenziari del futuro dell'umanità coloro che li detengono privatamente, a meno che gli stati non intervengano assumendo un ruolo direttivo che, se si limita al puro maneggio delle regole arbitrali, si rivelerà fasullo e del tutto impotente a modificare la sostanza delle cose.
Da sostenitore del primo minuto e purtroppo fin da quel primo minuto, non sono riuscito a superare un conflitto che forse è insito in una natura 'umanamente' ribelle all'unica vera costituzione ontologica che possa plausibilmente meritarsi il titolo di Dio. Cerco quindi la tua generosa assistenza di Maestro autorevole per ammorbidire la mia ignavia mentale. Io credo nel Progetto e credo nel Determinismo, ma come posso dal Determinismo attingere la motivazione e la spinta per servire il Progetto e dal Progetto derivare la istintiva conferma del Determinismo, come posso reprimere i demoni interiori che mi fanno apparire le due formulazioni in contraddizione reciproca?
Fratello di dottrina, come sai, i dubbi e le contestazioni, purché sinceri e desiderosi di redenzione, sono molto bene accetti in un Movimento che è stato rifornito da innumerevoli saggi di tutte le risposte razionali a tutti i quesiti più significativi. Partiamo dal Determinismo che, come ben sai o dovresti sapere, è stato definito dai Padri, nella relazione finale del loro primo congresso, una controversa, oscura, problematica, inquietante e indigesta ovvietà. In effetti non esiste responso di psicologia o neurologia sperimentale che non ne confermi l'evidenza rimarcando come il nucleo essenziale della consapevolezza personale consista nel riverbero interno di gerarchie superiori della psiche che, rispetto a tale effetto di risonanza complessiva e collaterale, si rivelano sostanzialmente autonome, anche se psicologi e psichiatri sono invitati in televisione per parlare di tutt'altro e ingenerare ben altre impressioni. Il significato processuale dell'autocoscienza organica è bene esemplificato dall'inversione jamsiana dello schema di causalità primaria, per cui, per andare stringatamente al punto ed estremizzando per ragioni di chiarezza espressiva, non si fugge perché si ha paura, ma si ha paura perché si fugge, non si attacca perché si è rabbiosi, ma si è rabbiosi perché si attacca, non si pensa perché si è coscienti, ma si è coscienti perché si pensa: sullo scheletro dei comportamenti basali si costruisce insomma, nel corso dell'evoluzione, un intreccio di correlati fisiologici interni che, superate determinate soglie d'integrazione sistemica, evoca un senso generale, emotivamente variegato, della propria identità. Per quanto tali argomentazioni si macchino sempre di un eccesso di fumosità metaforica, rimane indubbio che una specie aliena i cui tessuti biologici, compresa la pelle, mostrassero vari gradi di trasparenza al punto da rendere costantemente visibile la generalità dei processi fisiologici, ben difficilmente mostrerebbe la propensione tipicamente umana allo spiritualismo (la sua tonalità emotiva ricorderebbe piuttosto un senso tragico di distacco e alienazione simile al vissuto interiore di robot e replicanti nei migliori film di fantascienza sociologica), il che, se non altro, insieme alla quasi certezza che tutti gli animali evoluti possederanno sempre una pelle molto opaca, fornisce indicazioni sui labili punti di appoggio della maggior parte delle credenze attigue a motivazioni ed emozioni. Quelle più accreditate in effetti si fondano sulla concezione che l'uomo ha di se stesso, trascurando del tutto la questione preliminare se sia giusto attribuire in via pregiudiziale tanto condizionante e programmatico rilievo alla specie a cui si appartiene, per quanto particolare sia. Se si procede secondo certi pregiudizi e priorità, può succedere di rimanere distolti e allontanati dal raggiungere ovvi risultati e conclusioni la cui perspicuità può essere raggiunta facilmente attivando una sequenza d'indagini molto più rispettosa di quelle preminenze e predominanze oggettive che la nostra supponente superbia ci preclude. La domanda cruciale allora diventa: dato il Determinismo (di cui abbiamo trattato qui solo gli aspetti biologici), perché ne consegue la necessità del Progetto? Non dovremmo addivenire a una conclusione esattamente contraria, non dovremmo metterci a braccia conserte e rassegnarci al volere di Dio? No! E perché no? Perché il particolare determinismo di questo particolare universo ha creato una specie animale tra le cui caratteristiche vitali quella di illudersi della propria libertà acquista una preponderanza essenziale, al punto che rinunciarvi sarebbe l'equivalente di rinunciare a vivere. Quindi ogni singola persona può e deve continuare a illudersi di possedere il libero arbitrio (anche se la consapevolezza della sua illusorietà potrebbe risultare utile ai fini di limitare i danni di un'eccessiva spontaneità e mortificare fantasiose protervie), ma ciò deve appunto valere solo in un ambito individuale, privato, mentre contestualmente, sul piano dell'organizzazione di specie, data la preponderanza assunta nei riguardi dei destini planetari, un elementare senso di responsabilità obbligherebbe l'uomo a prendere atto che l'unica forma di libertà di cui dispone consiste nell'attivare le proprie specifiche doti razionali di conoscenza e interpretazione (la sofisticatissima capacità riproduttiva dei modelli neurali) per agire in sintonia con le leggi costitutive ed evolutive dell'universo che lo ha generato. Per rispettare i disposti di un cosmo e quindi la volontà di Dio, l'uomo deve dedicare le sue particolari facoltà al Progetto esattamente come gli altri animali dedicano le proprie, molto meno sofisticate, alla pura e semplice sopravvivenza individuale, non necessitando di altro per adempiere a un compito che deve comunque essere rispettato in quanto preliminare e fondante. Se l'uomo non rispetta la volontà di Dio, di cui, nell'attuale fase evolutiva e in questo specifico angolo di universo, rappresenta la massima protesi operativa nonché l'autocoscienza, l'uomo si rivela niente altro che l'animale infernale (il pessimo assoluto, finora) creato da un disgraziato incidente di natura. E ora rispondimi, compagno: può l'uomo, il principale organo sensorio di Dio (in questo angolino di questo particolare universo), realizzare alcunché di vero e di grande, di giusto e duraturo, abbandonandosi al flusso vorticoso di una competitività darwiniana che ne ha estratto a sorte le anomale e incompatibili eccezioni, un dinamismo divorante che lo scuote come una marionetta, che turbina tra gli scogli di istinti pietrificati in convenzioni e sulle secche che baluginano di illusioni chiamate valori? Non necessita della luce esclusiva e della guida imperativa di ciò che effettivamente lo distingue dagli altri animali ovvero la ragione indagante e teoretica adattata a un uso organico e collegiale in modo da sviluppare una mimesi perfettamente parallela ai meccanismi della causalità primaria? Niente altro il richiamo primigenio di un Tutto che parla con voce grave e profonda al di là della confusionaria barriera di chiacchiere dei mistagoghi da fiera può urgentemente sollecitarci a gran voce, accompagnando l'appello da eloquenti segnali di allerta: di sicuro non le mosse scomposte di chi è immerso nelle sabbie mobili del caos e ordina a tutti di entrarci e sgomitare per venirne fuori più facilmente.
Maestro, la tua parola suona forte e chiara, ma toglimi un ultimo dubbio: come si concilia il determinismo con la casualità irriducibile dei fenomeni quantistici?
La casualità di cui parli è qualcosa di ben diverso dai processi di cui si occupa la statistica macroscopica e si può parlare sensatamente dell'impossibilità di ridurre nozioni e conoscenze a qualcosa di più basale solo quando gli enti in questione si situano a un livello ultimo di accessibilità esaustiva. Se sotto tale livello c'è altro, ma è inaccessibile, dovremmo astenerci da qualsiasi conclusione e limitarci a manovrare simboli e concetti secondo tecnicismi limitati ad ambiti specifici che non consentono altra conclusione che questa: una logica razionale, per quanto strana, esiste, e una logica razionale che rimanda a schemi prevedibili non ha niente a che vedere con il caos dell'arbitrio totale. (l'argomento sarà ripreso più avanti. NDC) Se pensi che, su tale 'libero arbitrio' delle particelle, si è teorizzata la possibilità di costruire computer milioni di volte più potenti di quelli esistenti, capisci bene che qualcosa in quella stravagante definizione suona male. In realtà qui traspare chiaramente un ulteriore e forse ancor più decisivo argomento contro il libero arbitrio umano: se esso discende da una scelta ponderata, rimanda a una combinazione di premesse, regole, condizioni, fattori, elementi da risolvere attraverso una operazione di calcolo o un suo equivalente, un processo che, se perfettamente isolato, tende a un equilibrio e quindi a un esito; se esso dipende dal caso contraddice qualsiasi concetto di responsabilità e da 'libero' l'arbitrio diventa assoluto quanto ingovernabile (il che potrebbe significare semplicemente che il sistema che opera la 'scelta' non è isolato). Che un qualsiasi organismo proceda per 'scelte' e quindi sia condizionato dal risultato di un calcolo in senso lato (poco importa se esterno o interno rispetto a una natura che possiamo definire anche spirituale, se così ci piace) oppure le sue vicissitudini siano estratte a sorte istante dopo istante, il libero arbitrio tra virgolette non è libero o non è arbitrio e non esiste alcun modo razionale, alcuna formulazione sensatamente formulabile attraverso cui concepirlo. Il libero arbitrio è un puro atto di fede assolutamente inconciliabile con la descrizione scientifica e razionale del mondo.
Tutte le volte che si nega la distinzione fondamentale tra giudizi di fatto e giudizi di valore, l'intento guida si rivela sotto sotto uno sbrigativo efficientismo sostanzialmente cinico ed egoista. In che modo i kolibiani pretendono di sottrarsi a questo tipo di critica?
Ai kolibiani non importa sottrarsi a critiche compromesse con dichiarazioni di principio immolate a non meglio precisate purezze ideali. La forma del pensiero kolibiano è ultimativa, prendere o lasciare, possibilista solo per quello che concerne i dettagli della costruzione artificiale che è invece imperativo erigere. I kolibiani non predicano, né cercano di convincere: esprimono semplicemente una visione della realtà a disposizione di tutti. Si accontentano di sapere che, nell'eventualità che avessero ragione, la loro verità non sarebbe una verità qualunque: sarebbe una Verità da onorare e rispettare con mosse e decisioni compromettenti e cruciali. Se la società progettuale rimanga l'unica possibilità di evitare alle maggioranze numeriche un irrimediabile e nondimeno calamitoso impoverimento progressivo oppure una stagnazione ancora più generalmente calamitosa nella precarietà e nel disagio pressante e iper-attivo, se altri tipi di approccio non rappresentino una temeraria sottovalutazione dei presenti e futuri rischi di catastrofe o addirittura di apocalisse, soprattutto per i giovani e le generazioni future, dipende dai nodi oggettivi dell'attuale strutturazione socio-economica e dalle situazioni climatiche e ambientali. Una interpretazione diversa deve fondarsi su contro-stime di probabilità plausibili, sensatamente opponibili a quelle che il nostro movimento sostiene e ha fissato a livelli tali che, tollerati in aree settoriali specifiche come sono tollerate in ambiti generalissimi e su scala globale, comporterebbero sacrifici inauditi (per esempio centinaia di morti ogni giorno per incidenti sul lavoro o un profluvio d'intossicazioni varie). Certo: nel caso di apocalisse o catastrofe, le morti sarebbero concentrate in un tempo futuro invece di essere distribuite ('centellinate') a partire dal tempo presente, ma un argomento siffatto non può rappresentare di sicuro un motivo legittimo e sufficiente d'inazione.
A che cosa vi serve tanta capziosità espositiva, la sagacia di un fine spirito sofistico, se poi la forza ipnotizzante del vostro ragionamento si basa ancora e sempre sull'evocazione di arcane paure, la catena di suggestioni che si dipana da un cupo orizzonte di profezie terroristiche?
I kolibiani non formulano sofismi, bensì proposizioni circa la costituzione del mondo. Noi disegnamo un quadro d'insieme corrispondente a una cognizione della realtà che è filosofica in quanto non è riconducibile a ben precisi e delimitati riscontri sperimentali, ma ambisce alla pregnanza scientifica nel senso che estende e completa con affinità di modi e d'intenti le acquisizioni delle scienze naturali. L'argomentazione generalissima che i kolibiani propongono a sostegno della loro visione consiste, oltre che nella semplicità e naturalità del completamento e della sintesi che fornisce, in questa disarmante constatazione: non esiste nessun dato certo e assodato, empirico o deduttivo, in grado di confutare le tesi kolibiane, mentre le tesi kolibiane eliminano praticamente ogni paradosso, difficoltà e oscurità di ordine logico e strutturale, non attraverso chiarimenti di dettaglio (per quanto strano possa sembrare, non siamo affatto geni dalla potenza divina e anzi disponiamo in media di doti mentali ordinarie, secondo una legge dei grandi numeri che il numero enorme dei correligionari rende senz'altro applicabile), bensì iscrivendoli in un contesto di riferimenti che spianano i misteri o li rendono ovvi e ineluttabili. I kolibiani affermano esplicitamente che, mentre la compatibilità di ogni altra religione con il discorso scientifico è una pura e semplice invenzione derivante da accordi di non ingerenza e non belligeranza imposti dal potere civile per una interessata demagogia del quieto vivere (basti pensare a quanto sono assurde pretese di responsabilità ed equanimità in presenza dei condizionamenti socio-economici e genetico-fisiologici o alla inconcepibilità di un 'pensiero divino' alla luce dell'atomismo assiomatico che si trova alla base di ogni complessità riducibile e decifrabile ed è implicito in ogni forma di pensiero razionale), il panteismo non teleologico del singolo universo auto-riflessivo sconfinatamente raro (universo a probabilità zero o vicino allo zero) neutralizza ogni aporia gnoseologica e si sintonizza con il senso profondo di ogni perplessità e sgomento esistenziali, senza pretendere di intaccare il Mistero ('m' maiuscola), il mistero della pura e semplice violazione della perfetta simmetria del nulla, una cui qualsivoglia risoluzione si prospetterebbe auto-contraddittoria.
Io però mi riferivo all'uso esplicitamente speculativo del timore e dell'incertezza che voi suscitate nella gente.
I kolibiani non comprendono il significato dei concetti di paura o addirittura terrore applicati a scenari e sceneggiature di oggettività ontologica (sempre, in qualche misura, metafisici) o a giudizi razionali intorno a concreti sviluppi quantificabili almeno in un'accezione statistica. Se cercare di guardare in faccia la realtà rappresenta motivo di allarme e di panico, allora dovremmo abolire ogni riferimento al decadimento e alla morte del singolo essere umano dato che non esiste eventualità in grado di coinvolgere chiunque in modo più personale, forte e immediato. In realtà la sobillazione delle paure esiste soltanto nella mitologia negativa di quei poteri consolidati che necessitano del complementare pilastro di quella mitologia positiva che chiamano 'speranza' e che in realtà non è altro che uno specchietto per allodole e allocchi. La speranza, intesa come categoria sociologica, affezione epidemica, riflesso condizionato di una collettività passiva (chi è attivo non spera, progetta!) rappresenta in effetti niente altro che l'ultima spiaggia dei derelitti, la temperie psicologica di chi speranze effettive e credibili non ne possiede ed è quindi costretto a inventarsele o a riceverle supinamente dall'alto. In genere la frottola della speranza si collega all'altra sublime spacconata della politica esortativa ed incantatrice (quella delle rifondazioni e delle grandi Convention pseudo-religiose, quella che si nutre dell'entusiasmo obbligatorio di chi non è invitato alla festa), sto parlando del coraggio di affrontare non si capisce mai bene che cosa, come se avere coraggio senza un motivo plausibile, scalmanarsi ad agire senza uno scopo o una meta, fosse coraggio e non rassegnazione o magari dabbenaggine. La politica e la religione che spacciano le droghe della speranza e del coraggio sono la politica e la religione del popolo bambino che va condotto per mano, di un popolo che, se esistesse per davvero, sancirebbe la morte d'inedia della democrazia per mancanza del nutrimento principale: un popolo capace di meritarsi la democrazia. La democrazia muore per esaurimento della linfa culturale e non per il pugno di ferro dei dittatori: a quello può anche soccombere temporaneamente, ma sotto le lusinghe compiaciute e le false ricette scadute degli astuti pifferai (sempre rigorosamente irrazionali (negli affari pubblici!) e tassativamente ottimisti) si stende con le braccia incrociate sul petto e comincia stentoreamente a russare in attesa del sonno eterno.
Davvero pretendete di fare tabula rasa dei vari pantheon senza istallarvi i vostri idoli e dei? Il Progetto ('p' maiuscola mi raccomando) che cos'è se non l'ennesimo idolo della mitopoiesi ideologica?
Il Progetto è una cruda necessità, la premessa indispensabile per rimettere sulle ruote il carrozzone. Con il Progetto tutto si riattiva, prima di tutto la perenne, incessante modifica del Progetto stesso nel rispetto delle priorità capitali. Quanto ai pantheon, vi abitano soltanto statue e già da molto prima che arrivassero i kolibiani. Il rifiuto della filosofia kolibiana non autorizza nessuna ipocrita rivendicazione di riferimenti incrollabili, atteggiamento perfino ripugnante quando dissimula la miope difesa a oltranza di prerogative e tornaconti di fronte a urgenze di ben altro peso e vastità. Oggi più che mai, i kolibiani ritengono sia consigliabile rinunciare a una fiducia inflessibile intorno all'esistenza di valori eterni indipendenti da storie, tradizioni, climi, territori, razze, retaggi, etnologie... Se l'essenza dell'uomo non è l'anima immortale predisposta da una personificazione divina, nel breve arco dei proverbiali pochi, pochissimi secoli i moventi e le caratteristiche di molte scelte fondamentali si devono commisurare a scenari nuovi e inquietanti per cui non esiste paragone in alcun tratto delle storie passate. Se l'uomo comincia a rappresentare, nei confronti degli equilibri indispensabili del pianeta, una perniciosa epidemia e un calamitoso inquinante, umanitarismi e umanesimi vanno radicalmente ripensati. Se le singole vite si ripetono all'infinito sempre uguali, ogni sofferenza non prenota un riscatto in paradiso, dà solo un altro giro di chiave alla piccola porta riservata dei singoli inferni privati. Detto questo, la plausibilità dei diversi, per ora indimostrabili, scenari, ricade sotto quale tipo di considerazione: religiosa, politica o scientifica?
Ma voi kolibiani vi sentite davvero così perfetti da ergervi a giudici ed esecutori fallimentari di un sistema politico ed economico che è ormai adottato quasi universalmente?
No, tutt'altro, noi kolibiani siamo in genere individui ordinari e mediocri e di sicuro ci difettano quelle qualità che pubblicisti e pubblicitari definiscono 'umane', dedicandovi apprezzamenti tali da risultare comprensibili soltanto alla luce di una rarità che automaticamente qualificherebbe come scarsamente 'umana' la maggior parte dell'umanità. Il senso dell'umorismo di cui disponiamo è notevole, ma piuttosto sibillino e in genere si associa a uno spirito critico che ostacola le spinte emotive di una generosità spontanea e una moralità istintiva. D'altra parte è pur vero che tali doti, in quanto (se prese alla lettera) molto poco darwiniane (poco apportatrici di vantaggi competitivi), richiedono sforzi onerosi di chiarificazione analitica per giustificare l'enorme diffusione e gradimento di cui godono presso le classi dirigenti e privilegiate. Poiché i kolibiani lasciano molto a desiderare in tutto ciò che rientra nel corredo di una faconda promiscuità 'partecipazionista', ai kolibiani manca anche il sostegno di atteggiamenti che, utili e producenti in una finestra geografica e temporale ristretta, si palesano potenzialmente nocivi e deleteri ampliando la visione prospettica. Basti aggiungere che la pratica diffusissima, per esempio, del sentimentalismo auto-assolutorio, diventa, tradotta in linguaggio tecnico kolibiano, niente altro che 'ipocrisia demenziale'. Ovviamente l'ipocrisia in genere non è demenziale, è ipocrisia e basta, più o meno utile e profittevole. L'ipocrisia diventa demenziale quando si cala talmente nei costumi sociali e nelle pratiche etnologiche da trasformarsi in una specie di coazione a ripetere, di cortocircuito psicotico, di obbligo abitudinario e ossessivo. Se alla pratica amministrativa e costruttiva subentra la ritualità della dialettica, il formalismo dei valori, la pantomima dei princìpi, il politico militante, invece di interrogarsi sui veri quesiti d'importanza capitale e coinvolgersi in scelte fondamentali e strategiche, recita di continuo la parte fissa assegnatagli dal logoro, decrepito copione dei tanti disparati e l'uno contro l'altro armati 'punti fermi irrinunciabili'.
Nuotare controcorrente equivale forse a dirigere i flutti dalla parte giusta?
Per noi la parte giusta non può esistere se il corso è già racchiuso tra sponde irrimediabilmente sbagliate. Come certi apparenti difetti insiti nella variabilità genetica delle popolazioni si dimostrano risorse strategiche quando mutano le condizioni ambientali, così essere o diventare uomini senza qualità e neppure identità', più riflessivi che attivi ovvero spontaneamente attivi solo condizionatamente a certi predeterminati disegni di azione, potrebbe rivelarsi un handicap posto al servizio del cambiamento indispensabile. Poiché il kolibiano ritiene che al Progetto non servano chissà quali squisitezze dell'animo, (Finora tali squisitezze, i vari eroismi, ogni genere di sedicente nobiltà si sono pasciuti con le palesi, gigantesche assurdità delle fenomenologie religiose, con le aporie indomabili della responsabilità, del libero arbitrio, della natura personale di Dio, con l'azzardo e la falsa libertà dell'arbitrio nei regimi di caos deterministico: è vera forza quella che rifugge così meschinamente dal coraggio della spregiudicatezza e della ragione? NDC) ma un bagaglio normale d'intelligenza accanto a un semplice cambio di mentalità, uno scatto d'impostazione iniziale a prescindere dai più diversi tipi di giudizi e selezioni, al kolibiano interessano soprattutto le mutazioni e i mutanti nella prospettiva dell'avvenire, non curandosi dei sospetti e delle repulsioni che possono di primo acchito suscitare. Al kolibiano interessa onorare e ubbidire l'unica vera natura di Dio compatibile con l'intelletto che Dio ci ha donato.
Devo confessarlo: sempre più spesso mi domando che senso ha ostinarsi in verità che l'uomo comune è incapace di digerire e all'uomo forte, minoritario quanto decisivo, non convengono. Se il Progetto applaudito da tutti è surrettiziamente osteggiato, sistematicamente minato, implacabilmente tradito, non ci si dovrebbe arrendere e soggiacere a quella specie di transazione assidua e implacabile in cui consiste alla fine la finzione scenica della morale? Come può sopravvivere un qualsiasi tipo di convenzione (e il Progetto, a conti fatti, altro non è che mirabile, sontuosa convenzione) senza le fondamenta e i sostegni dell'ipocrisia?
Caro amico, la verità non è una scelta, ma un obbligo, per la specie più condizionante di un pianeta. Parliamo di verità scientifica, ovviamente, dato che l'interpretazione religiosa del termine rivela solo una idiosincrasia della specifica fede o ideologia che lo usa e ne abusa. La verità scientifica è ovviamente manipolabile e non è mai neutrale, ma perlomeno comporta compromissioni oggettivamente valutabili e precise responsabilità rispetto a un decorso dei fatti che prima o poi emetterà la propria inappellabile sanzione.
L'uomo è quello che è o quello che pretende di essere? Non discende proprio dalle caratteristiche biologiche della specie homo l'opportunità o la condanna a diventare quello che vuole?
La plasticità del comportamento umano si fonda su proprietà strutturali che possono essere sfruttate per il meglio come per il peggio e il risultato dipende dalla misura in cui sono giustamente interpretate e comprese. L'uomo può configurare le linee essenziali della propria presenza nel mondo, ma non può stabilire arbitrariamente la natura di questa sua possibilità. Ogni analisi in merito porta a ribadire quella che, in questo tipo di valutazioni, non è e non può essere che una continua parafrasi del famoso aforisma di Russell intorno al libero arbitrio: se l'uomo, il suo fuoriclasse ufficialmente riconosciuto, può fare effettivamente quello che vuole, purtroppo non può decidere di volere quello che vuole. La decisione è potenzialmente un atto razionale, la volontà un evento fisiologico assimilabile ancora e sempre all'oscuro e primordiale conato intuito più o meno oscuramente da Schopenhauer e da Freud. Se la decisione segue la volontà, è solo il completamento di un processo organico, mentre quello che l'uomo ha definito 'spiritualità' trova senso, funzione e valore soltanto attraverso le facoltà di quel raziocinio scientifico che scaturisce da concreti fondamenti biologici. Qualsiasi altra visione si basa su un'accettazione ambigua e paradossale del determinismo più o meno darwiniano, che ambiguamente e paradossalmente sostituisce la sola strategia di neutralizzazione e rimedio di cui disponiamo: il baconiano utilizzare obbedendo.
Scindere la morale dalla verità è, per un kolibiano, il massimo dei misfatti, ma se la cultura dominante impedisce di sciogliersi da dogmi oscuri e alchimie di interessi sublimati, se comunque, intraprese economiche a parte, privilegia nella prassi comune un impegno emotivo per quanto ondivago, ambiguo, incostante a uno sforzo intellettuale programmatico che i più avvertono estraneo alla propria natura, che rimedi si possono inventare?
Non esistono giudizi di valore separati dai giudizi di fatto, si tratta di una di quelle invenzione assurde che hanno prosperato negli ultimi decenni del XX secolo come epidemie culturali dagli effetti devastanti. Una volta sacrificata la verità all'estetica narcisista dell'antropologia compiaciuta di sé, le insensatezze proliferano e le farneticazioni etiche gareggiano con le banalità epistemologiche intorno a paradigmi, olismi, dualismi trascendentali, anarchie metodologiche, fesserie che sembrano messe lì apposta per confortare l'opinione di Gauss sui filosofi: ce ne sono di veritieri e di originali, ma quando sono veritieri non sono originali e quando sono originali non sono veritieri. In quelle etiche e in quelle gnoseologie, forgiate allo scopo di sorreggersi vicendevolmente, come il sordomuto sulle spalle del cieco, ovviamente c'è, per continuare a usare lo stesso risaputo schematismo critico, del buono e del nuovo, ma il buono non è nuovo, il nuovo non è buono. Ogni autentica religione come ogni autentica scienza si basa sul riconoscimento di una oggettività superiore, per quanto sofisticato e intriso di dubbi socratici: sia la religione che la scienza soccombono agli idoli che la dinamica degli interessi eleva in forza di una creatività pragmatica e soprattutto opportunistica, arretrano davanti alla tempesta di sabbia del cicaleccio tendenzioso che la comodità del privilegio instaura tra una scienza subordinata all'economia e una religione annessa alla politica. Niente intasa e inquina di detriti e paccottiglia il terreno dell'ontologia come le fiere e i mercati di un progresso meccanico e ossessivo. Dove non esiste un forte impegno esistenziale a formulare verità scientifiche utilizzabili concretamente per orientare le scelte fondamentali, non esiste di fatto un'etica civile meritevole del nome.
Ogni civiltà umana è giunta alla soglia del 2000 portandosi dietro la mostra itinerante delle mitologie, i carrozzoni del grande circo dei valori, la carovana di vettovaglie con cui intendenze e logistica della cultura ufficiale nutrivano passo dopo passo stimoli e motivazioni. Come si può concepire una qualsiasi campagna senza organizzare un'adeguata rete organizzativa di sostegni morali? La scienza pura potrà mai sopperirvi o corrispondervi?
Quando si affronta questo genere di questioni il forbito commentatore umanista e pseudo-liberale tralascia una premessa assolutamente fondamentale, ovvero che tutti i grandi sistemi religiosi, ideologici e metafisici, con accenti variamente disposti, valevano prima di ogni altra cosa come descrizioni della natura essenziale di un mondo oggettivo, esterno e indipendente. Questa natura, anche se solo presunta e immaginata, dettava le leggi e condizionava le scelte di fondo in ogni settore e livello, a prescindere da come complicazioni, contraddizioni, devianze e tutti gli sterminati giochi dei casi e delle psicologie seminassero di trappole il cammino e ostacolassero le prescrizioni più solenni (contribuendo anche, molto spesso, a smussare le rigidità e gli abusi dei diversi contesti). Su un piano puramente ideale, alla realtà del sistema del mondo si poteva solo obbedire e la libertà dell'uomo, un concetto relativamente spurio e tardivo, per i nove decimi della storia umana è consistito in un solo tipo di scelta: piegarsi o soccombere. Non è mai esistito un regno esclusivo dell'uomo prima che fosse comandato e istituito dalla classe dei Nuovi Prometei, mercanti, ecclesiastici e imprenditori in marcia compatta sotto i gonfaloni araldici del Borghese Totale. La scienza (che, nel migliore dei mondi possibili, altro non sarebbe che l'ottimizzazione metodologicamente accurata di una raccolta di conoscenze effettive sul tipo di universo che ha generato il fenomeno 'uomo') ha incrinato la credibilità delle visioni tradizionali da cui è scaturita, ma non ha potuto sostituirvi alcuna nuova concezione ontologica semplicemente perché è stata comprata e privatizzata dai Grandi Interessi Riuniti, peraltro secondo una sceneggiatura abbastanza scontata.
Voglia tu con pazienza assistermi nei dubbi di dottrina. Ieri sono stato deriso da un tale che mi ha chiesto che senso avesse mischiare insieme utopie da rivoluzionario e problematiche scientifiche inabbordabili anche da super-esperti di settore. Non ho saputo rispondere e sono uscito scornato davanti a testimoni.
Qualsiasi grande progetto non può ignorare la natura del mondo in cui si attua. Se si prescinde dall'azione politica, ogni stranezza personale non conta (perfino guardare il festival di S.Remo non è, a rigore, peccato), ma trattare, per esempio, il numero onnisciente di Borel come un irrilevante fantasma, quello sì è antikolibiano, significa acconsentire a un difetto della psiche esplorante. Quel numero esiste perché esiste una realtà dell'universo e che l'uomo non possa conoscerlo non fa differenza. Proprio qui rifulge il valore simbolico di questo come di altri numeri (Omega, per esempio, o lo sviluppo completo di pigreco): nell'esistenza dell'inconoscibile. L'uomo deve smetterla di credere che le proprie possibilità costituiscano una discriminante assoluta per l'esistenza e/o la rappresentazione esterna e oggettiva delle cose e dei concetti. Ragionando allo stesso modo, dovremmo ritenere che quello che avviene chilometri sotto la superficie del pianeta rimanga imperscrutabile e senza importanza, invece milioni di persone ne hanno subito le conseguenze nel tempo. La terra trema, i pendii franano e i fiumi esondano perché la natura non sarà mai e poi mai schiava dell'uomo, dato che nessuno, neanche Dio, può disporne senza coincidere con la sua completezza. Perché insistere su questioni tutto sommato esoteriche? Perché così si impedisce che la cultura ufficiale d'élite sostenga in modo dissimulato e criptico visioni del mondo apparentemente innocue, ma di fatto impregnate di un tipo di metafisica che, oltre a sponsorizzare un fideismo assurdo e deteriore che mortifica il livello culturale medio di una folla indiscriminata, implicitamente rende irreale e improponibile la razionalità operante del legislatore sinceramente e genuinamente rivoluzionario. Questo è un infimo seme di conoscenza che con umiltà un maestro qualsiasi depone nella tua ragione per fortificarla.
Maestro, scusami, non intendo assolutamente mettere in dubbio il valore di sostegno delle tue sagge indicazioni, né svalutare l'incoraggiamento della tua implicita assoluzione, ma che cavolo è un numero onnisciente di Borel e come pretendiamo noi kolibiani di raggiungere un consenso plebiscitario con simili argomenti?
Questa tua osservazione ti costerà per penitenza l'obbligo di leggere una lista di libri che ti sarà consegnata all'uscita, entro un anno dovrai presentarti agli esami di verifica e se non li supererai perderai tutti i diritti e le agevolazioni a cui la tessera del movimento ti abilita. Un numero onnisciente di Borel, uno dei tanti, è il numero o una versione del numero che risponderebbe a tutti i quesiti relativi al nostro universo formulabili in una lingua naturale. Possiamo concepirlo come una sequenza di tesi oppure di domande con risposta affermativa o negativa. La sua concepibilità in modo semplice e chiaro come pura sequenza di caratteri o di bit a prescindere dall'impossibilità di determinarlo e conoscerlo ridicolizza in partenza ogni pretesa di conoscenza metafisica fornendo una misura, ahimè alquanto miserabile, dei tesori di conoscenza divina accessibili allo spirito umano. Per contrasto ogni metafisica spiritualista ne esce con le ossa rotte a meno che non decida seduta stante, prima di sottoporsi a quella devastante macchina della verità, di limitarsi ad attività puramente pratiche o estetiche, rivalutando l'idea di utopia e quindi di progetto come unico e solo obbiettivo trascendente non viziato da incongruenze invalicabili. Avanti il prossimo.
Questa storia dei numeri di Borrelli o di Paddington o vatelapesca (vatelapesca o vattellappesca?????!!?) mi suona veramente curiosa. Se ho capito bene, il cambio di una sola cifra in quelle lotterie infinite cambierebbe il decorso della storia universale e questo quando (come da presentazione di un libro scientifico a cui ho assistito ieri) il ruolo dell'osservatore e del puro e semplice concetto d'informazione non può essere eliminato dalla formulazione delle leggi quantistiche. Non le state sparando troppo grosse?
Speriamo di sì, visto e considerato che sarebbe compromettente apparire tersi e ineccepibili a chi ha una visione assolutamente distorta della prassi scientifica. Ruolo dell'osservatore, informazione... sta parlando del mondo o di una moda culturale già avviata al declino senza peraltro essere smentita da coloro che, quasi all'unanimità, ritengono che qualsiasi stravaganza sia molto meglio dei soliti mattoni 'positivisti' (citando i quali non è necessario sapere a che cosa si allude esattamente). Parlare di stravaganze è però elogiativo quando ci si riferisce a banalità travestite da tesi rivoluzionarie. Perché banalità? Perché ogni esperimento di un sofisticatissimo automa costruito dall'universo può solo consistere nell'interazione di due pezzi del medesimo universo e quando la parte cosciente indaga sotto una determinata scala di grandezze, le sollecitazioni che provoca coinvolgono necessariamente le corrispondenti dimensioni degli strumenti, impediscono l'isolamento relativo dei microsistemi e compromettono quei principi di separazione su cui si basa l'ordinaria indagine scientifica. Le modalità strutturali, le regole del gioco, i criteri normativi e fondanti, i princìpi costitutivi dell'universo sovrintendono al decorso indipendente degli eventi come alle interazioni tra un organismo e il suo ambiente, caratterizzano il singolo fatto isolato come il rapporto tra un sistema nervoso e gli accadimenti da esso percepiti. I formalismi della meccanica quantistica devono così affrontare i limiti ineluttabili di una distinzione problematica tra soggetto e oggetto, adattarsi a una indeterminazione basilare e insuperabile che costringe a concepire gli esperimenti come responsi di costruzioni artificiali che almeno in parte prefigurano risultanze inscindibili dalla teoria inclusa negli strumenti. Un fatto che non è modificato da una osservazione è diverso da un fatto che si tramuta necessariamente in una relazione / interazione, ma già il fatto in sé di antica memoria, il noumeno kantiano, configurava il paradosso linguistico di qualcosa che, mentre viene espresso e concepito, rimanda a qualcosa di essenzialmente non esprimibile e non concepibile. Eppure non esiste difficoltà, aporia, paradosso, contraddizione, antinomia, nessun tipo di problema filosofico che non si sciolga come neve al sole se considerato secondo la premessa fondamentale che l'uomo che indaga il mondo è creatura consustanziale a quel particolarissimo mondo da cui è stato generato e in cui riscontra se stesso nella condizione di coscienza rappresentativa del mondo medesimo. Se questo non costituisce un argomento decisivo a favore del determinismo kolibiano, che cosa potrà mai costituire una qualsiasi prova a sostegno di una qualsiasi tesi?
Laddove la fisica quantistica svela la realtà come sovrapposizione di stati che si dividono, per così dire, quote di realtà secondo modelli irriducibilmente probabilisti, voi vedete una conferma in più per professare un antico, indifendibile determinismo. Non vi viene mai il sospetto che il vostro uso sofistico della scienza alla fine metta capo a un tipo deforme e mostruoso di dogmatismo religioso?
E a lei non viene mai il sospetto che il risultato, se non lo scopo, di certe sottigliezze culturali sia proprio quello di seminare dubbi perenni e aprire orizzonti sconfinati ad affascinanti possibilità caratterizzate soprattutto dall'impossibilità di prestarsi a una scelta razionale? Milioni di pagine, profluvi di forbitissime analisi subissano la dialettica culturale di avvisi, avvisaglie e avvertenze (dedicate a un pubblico fanatico di scienza, malato di scienza, cupidamente e parossisticamente invaghito di logica ferrea e razionalità inflessibile) con cui si manifesta la caritatevole premura di svegliarci dall'incanto maligno della scienza, con meritevole sollecitudine si informa che niente nella scienza è perspicuo come sembra (una gigantesca e ovvia banalità che nessuno dotato di una minima speranza di generare granelli di conoscenza di qualsiasi tipo può permettersi di ignorare) e intanto il mondo dell'intuito, dell'emozione, della 'spontaneità' sentimentale (questa fantasmagorica e camaleontica baraonda fieristica delle più proditorie e velleitarie illusioni) è presentato come il reame apollineo dell'ordine soprannaturale. Alla fine, quando la cosmologia hopi riceve attestati ufficiali di credibilità pari all'astronomia, tutto è pronto perché la scienza vera, la scienza modesta e consapevole, si occupi soltanto di cose concrete come gli utili delle multinazionali e le vittorie della Ferrari, l'opinione pubblica abbia finalmente le mani libere per godersi le invenzioni dell'industria dello spettacolo e sui fatti contingenti e sporadici, svezzati da fisime e ossessioni di sistema, si esercitino le linee di indirizzo dei pareri che contano solo perché dispongono del potere di contare.
Se la pratica scientifica ordinaria, non la mistificazione che ne fate voi kolibiani, incorre in grovigli e oscurità, i nodi non si possono sciogliere con un atto della vostra paradossale magia.
Prendo atto che secondo lei è magia porre a premessa l'ineluttabile imperscrutabilità dell'immanenza, (in quanto, appunto, immanenza. NDC) ovvero constatare (perché di pura constatazione si tratta) che la creatura che scaturisce da una totalità è circoscritta da limiti invalicabili circa la perspicuità di questa totalità, in una dualità fondamentale tra coscienza limitata e onnicomprensività incosciente. Non è il caso di placare certi istinti luciferini e prometeici per dedicarci meglio a un mondo concepibile? Se qualsiasi teorema geometrico o sistema di equazioni, tradotto in manufatti e costrutti solidi ed effettivi da architetti o ingegneri (a volte bastano modellini con filo di ferro e qualche rotellina), mantiene le promesse fatte sulla carta, invece di stupirci per l'incomprensibile e irrazionale potere della matematica e immaginarci facoltà che si collegano direttamente alla mente divina, non sarebbe meglio prenderne atto e ricavarne una strategia generale di approccio a qualsiasi tipo di problematica, nessuna esclusa? Non sarebbe ora di concludere una volta per tutte che se la scienza fallisce nel decifrare gli eventi più comuni, avviene non in seguito alla carenza dei principi (ne occorrono pochissimi per fondare tramite sviluppi iterativi discipline enormemente difficili), ma a un accumulo ovvio e inesorabile di complessità, a cui non si rimedia certo presupponendo la superiore saggezza di una ispirazione divina, ovvero attribuendosi poteri, quelli sì, magici. Qualunque persona intelligente, (ma l'umanità non è intelligente, soltanto i singoli individui e le singole tribù lo sono o lo potrebbero essere, l'umanità no, l'umanità è addirittura stupida. NDC) prendendo atto dello stato delle cose, concluderebbe che occorre ridurre la complessità generale, non accantonare le pretese direttive del pensiero scientifico (che, in senso lato, è l'unico pensiero degno di questo nome al di fuori della pratica artistica e letteraria) e quindi agire in modo esattamente contrario alle tendenze di un mondo dove la razionalità si sta limitando al privato aziendale mentre la politica, aggiustamenti di dettaglio a parte, si occupa seraficamente di mitologie e narrazioni puramente suggestive, elevando, un decennio dopo l'altro, sempre gli stessi peana, che sono poco più che ritornelli, alla santa provvidenza di automatismi socio-economici il cui giocattolo non è purtroppo eterno e forse si è perfino già rotto. Se un orologio comporta l'esistenza di un orologiaio l'esistenza dell'orologiaio comporta un cerchio di causalità da chiudere, non un orologio e un orologiaio di livello superiore, altrimenti, ogni volta che usiamo un concetto dobbiamo ipotizzare per forza di attingere da un magazzino dei concetti comprensivo del concetto generale di concetto in generale e del concetto del rapporto tra una mente e un concetto e del concetto del rapporto tra una mente particolare e un concetto particolare, sviluppando le varie combinazioni, ciascuna con il proprio concetto di concetto e quindi di concetto di concetto di concetto, dove ogni concetto non conta per sé, ma perché vola verso un santo, illuminante, esaustivo infinito che è un concetto supremo che, in quanto tale, esiste e però non esiste, il che è una contraddizione che la logica aborre, ma la dialettica hegeliana adora, perché è qualcosa che richiede una sintesi con cui si può ricominciare da capo partendo dall'origine delle cose terrene e quindi si può creare un circolo, ma che circolo! Mica una roba (Eh, no!) asfittica e volgare come quello degli empiristi e dei logici.
E questo che cosa c'entra con la meccanica quantistica?
Questo c'entra con i polveroni culturali a cui la meccanica quantistica ha fornito pretesti succosi, non certo per responsabilità della stragrande maggioranza degli addetti ai lavori, piuttosto per gli orecchiamenti maldestri di pubblicisti in vena di brividi esotici. Il punto fondamentale riguarda la violazione della disuguaglianza di Bell che senza, entrare in dettagli, dimostrerebbe che o il principio di realtà, ovvero, in estrema sintesi, la necessità di una causa specifica per ogni fenomeno specifico, o il principio di località (l'impossibilità di interferenze a velocità superiori a quelle della luce) vanno radicalmente rivisti sconvolgendo le concezioni date per scontate della fisica macroscopica. La questione si connette alla famosa e vessata questione delle variabili nascoste, cioè alla presunta incompletezza della meccanica quantistica: si dimostrerebbe che tali variabili, presupponendo che i fatti registrati derivino da relazioni e dinamismi che mettono capo a elementi primi oggettivi e identificabili, fornirebbero risultati in perfetta aderenza alla disuguaglianza di Bell, che invece viene violata da particolari esperimenti di fisica quantistica: qui si manifesta tutta la stranezza di quella disciplina rispetto alla cognizione comune e la presunta sconfessione del famoso aforisma di Einstein secondo il quale non è consentito a Dio dilettarsi modificando la realtà attraverso un lancio di dadi. Perché i kolibiani (insieme a tanti altri) ritengono che tale visione comporti una forzatura indebita di particolari sottigliezze riconducibili a una visione molto più aderente a una nozione adeguatamente sofisticata del determinismo? Per una serie di ottime ragioni, tra cui: 1) la meccanica quantistica si identifica nell'insieme dei suoi formalismi teorici e quindi ogni rilievo sperimentale che con quei fondamenti si accorda non può dire qualcosa di diverso e di più rispetto a quanto essi esprimono; 2) i formalismi adeguano ai principi di conservazione della dinamica classica (sistemazione di Hamilton e successivi raffinamenti) una indeterminazione essenziale, insuperabile, legata a limiti ontologici che si fanno sentire alla scala dei fenomeni indagati (principio d'indeterminazione, complementarietà onda particella e, su un piano più generale (aggiunta in parte arbitraria, ma, secondo me. illuminante), inesistenza fisica del punto matematico senza dimensioni e del numero reale costituito da infinite cifre); 3) quello che si inserisce all'inizio o durante una costruzione, se non viene annullato come a volte accade ai numeri complessi o immaginari in certe operazioni di calcolo, ricompare alla fine e quindi l'indeterminazione non può che rappresentare un ospite permanente e scomodo; 4) questo ospite invadente, indisponente e obbligato non si accorda con il principio del terzo escluso e quindi con la logica classica, tampina quindi e indispone, da maleducato impiccione, la matematica adibita alle questione specifiche, anche se non sembra prestarsi agli uffici della logica intuizionista e introduce invece un altro tipo di logica; (Rilievo tecnico non indispensabile. La materia è esposta qui con tratti un po' superficiali e analogicì e del resto questa stessa nota si prefigge un generico chiarimento di ordine concettuale senza entrare in dettagli troppo tecnici. L'interpretazione dei formalismi quantistici secondo Von Neumann e altri suggerisce una illuminante sintesi tra logica matematica, teoria assiomatica degli insiemi e modelli fisici di realtà opportunamente semplificate, il tutto schematizzato attraverso la struttura algebrica detta reticolo. Dato un sistema e la lista di parametri che occorre fissare per definirne lo stato, lo si può connettere a un corrispondente reticolo definito da una rete di relazioni intese come operazioni algebriche tra elementi che sono sottoinsiemi di valori delle variabili indipendenti che caratterizzano i fenomeni in studio. Tali operazioni si possono anche interpretare come formule di un calcolo dei predicati che contengono proposizioni intorno ai rapporti di dipendenza tra i vari stati del sistema fisico. Risulta così evidente che per la fisica classica, macroscopica, il reticolo d'elezione si identifica con l'algebra booleana, mentre la fisica quantistica, in base alle assunzioni introdotte per ovviare ai vari tipi di indeterminazione 'cronica', induce le relazioni tra gli enunciati descrittivi a violare proprietà commutative e distributive. Sembra comunque evidente che le stranezze e le anomalie epistemologiche a cui costringe lo studio della dimensione microscopica vada riferito a un approccio logico-formale che codifica una relazione gnoseologica e quindi tali stranezze e anomalie, lungi dal pregiudicare il determinismo classico, vadano riferite a una ontologia di confronto tra soggetto organico e ambiente indagato. Le leggi quantistiche appaiono in sostanza la conseguenza di interazioni tra comparti di realtà entrambi intessuti di una stessa materia fondamentale (se così non fosse non potrebbe nascerne alcuna teoria, ma solo una serie di riscontri incomprensibili e i difetti di conoscenza non rimanderebbero a schemi fissi e ripetibili che invece appaiono naturali se si riflette che l'oggettività delle relazioni /interazioni tra aree di mondo è pari a quella dei fenomeni isolati) la quale rimanda comunque a dimensioni minime fondamentali (la scala di Planck) che finché non saranno esplorate (e probabilmente non potranno esserlo mai fino in fondo) non autorizzano altra conclusione diversa da quella che, per una coerenza generale dell'universo, richiama comunque un'armonia perfetta tra micromondo e macromondo. In conclusione, quindi, allo stato attuale dell'arte e dei lavori, si può tranquillamente affermare che i paradossi quantistici non autorizzano alcuna conclusione su una 'vera' realtà dell'universo inconciliabile con concezioni scientifiche più tradizionali. NDC). 5) d'altra parte, proprio quando sembra di dover soccombere a una strana anarchia, la quantizzazione del cosmo e l'esistenza di dimensioni fisiche minimali (tempo e lunghezza di Planck), introdotte proprio dai paradigmi quantistici, rivoluzionano il concetto di realismo e località, il realismo perché ogni fenomeno di cui possiamo avere un riscontro cela sotto di sé uno spessore di realtà, di cui non abbiamo e probabilmente non avremo mai cognizione alcuna, misurabile in un ordine di grandezza (espresso in unità elementari) pari a circa 10 elevato a 20 (il valore esatto qui non importa più di tanto e comunque si muove insieme ai progressi della ricerca. NDC); la località perché qualsiasi insieme finito di valori, per quanto inconcepibilmente immenso, è scientificamente descrivibile da leggi di tipo polinomiale, ovvero da espressioni per cui non esiste differenza tra località e globalità, dato che una curva di tipo polinomiale è completamente determinata dalle proprietà differenziali di ogni singolo punto (ogni serie di potenze delle funzioni analitiche si arresta così, nella realtà, a un esponente finito). (la considerazione della finitezza di un qualsiasi universo è quindi sufficiente a riconciliare il punto di vista di Stephen Wolfram basato sugli automi cellulari di Conway con una fisica tradizionale che utilizza funzioni complesse che rispettano la condizione di Cauchy-Riemann. Occorre però abituarsi a un rovesciamento per quello che riguarda i concetti di precisione e approssimazione: se l'universo è una macchina reale con spazio delle fasi finito e discreto, le leggi espresse da formule matematiche risultano approssimazioni (la prova è che danno risultati espressi in numeri reali), mentre la sola e massima possibilità di coincidenza assoluta dipende dalla simulazione numerica che si estende all'intero universo (la situazione ricorda l'approssimazione delle somme parziali di serie di numeri interi mediante formule analitiche dal cui risultato occorre troncare i decimali). NDC)
Alla fine sembra di poter concludere che, se è anche vero che qualche scotto di natura concettuale a certi handicap fondamentali di conoscenza si è pur costretti a pagare, la consistenza e l'intelligibilità dell'insieme, se proprio non ci scuote la brama di buttarci a capofitto in brividi d'incomprensibile stranezza, ne esce abbastanza rinfrancata insieme a quei dovuti margini di complessa oscurità che concedono alle menti avvedute la certezza che l'universo racchiude abbastanza tesori profondi da accreditarsi come autorevole, legittimo e immanente creatore dei fatti biologici e più specificamente delle inestimabili meraviglie umane. E' ovvio che un fondo oceanico di 1020 circa (si intende il fondo inesplorato e forse inesplorabile. NDC) mattoncini elementari, disposti uno sopra l'altro sotto la massa acquosa dove le strabilianti forme ittiche delle menti più mirabili fluttuano boccheggiando in branchi o in solitudine, concede ampio spazio ai giochi di variabili nascoste e probabilità fantasma e in più promette molti altri ricchi premi e cotillon. (Locuzioni invero un po' curiose per significare che un universo finito costituito da atomi spaziotemporali indivisibili costituirebbe nel suo insieme una macchina di Gandy che, grazie alle illimitate possibilità creative derivabili dalle combinazioni ripetute punto per punto di regole ricorsive elementari (che lo scienziato ritrova riassunte in formule matematiche ricavabili dall'analisi di contesti opportunamente isolati e semplificati) calcola se stessa ovvero la progressione dei propri stati generando qui e là al proprio interno complessi organici che interagiscono con l'ambiente e nell'interazione modificano parti di sé che si articolano e strutturano in modo da replicare aspetti di aree del mondo limitrofe. Se effetti imprevedibili possono turbare la perfetta chiusura eleatica di questo immane congegno, deriverebbero o dal suo estendersi all'infinito o dall'influenza, per quanto minima, di altri universi, non certo dall'anarchia intrinseca delle singole particelle. NDC).
Signori kolibiani, io vi sto guardando intensamente negli occhi e dal profondo del cuore vi chiedo: riuscite davvero a credere che tutte le straordinarie sottigliezze e ineffabili varietà che la psiche umana riscontra in se stessa possano ridursi al movimento d'ingranaggi per quanto immensamente complicati e materializzati da particelle esotiche invece che dagli elementi atomici di cui abbiamo comune nozione?
Signore, la ringrazio per una domanda appassionata, a cui rispondo sì. Vede, il sottoscritto ritiene che io e lei, in questi effimeri momenti di agostiniana inafferrabilità nel cui frangente interagiamo comunicativi, stiamo assistendo proprio alla parte di quei funzionamenti organici che il sistema complessivo costituito dai nostri corpi ci permette di avvertire. Pensi al mondo senza l'aggiunta di me e di lei, prima della nostra nascita, e al mondo privato di noi dopo la nostra morte, pensi poi all'irrisorio frammento temporale di mondo che ci ha contenuto e potrebbe ripetere all'infinito la nostra recita infinitesimale, ma lo consideri dal punto vista di chi è nato dopo la nostra morte. Nella miniatura di quel segmento di universo, colto dalla prospettiva di una coscienza generata successivamente alla nostra scomparsa, se il passato esiste, esistono tutti i movimenti della nostra macchina corporea, ma la nostra coscienza esiste o non esiste? Forse che esista o non esista non fa alcuna differenza, dato che, scomparsi noi, è scomparso anche il nostro punto di vista e un paesaggio deriva da un complesso di cose che non viene alterato dal fatto che ci giriamo da un'altra parte e non lo guardiamo più. Se pensiamo alla inconsistenza e fragilità di ogni singolo essere umano valutato in questo modo, è difficile convincersi che si possa seriamente odiare qualcuno (si può al massimo sghignazzare per certi esibizionismi tronfi e grotteschi) o che valga la pena giudicare con qualsiasi metro oggettivo un individuo così totalmente avvolto nell'essenza di Dio da non potersene separare in alcun modo, anche se certi comportamenti farebbero pensare a tutt'altro. La licenza e il privilegio dell'odio o, più modestamente, della riprovazione indignata noi kolibiani la concediamo volentieri a concorrenti di fede che sono anche più bravi a incartare quei sentimenti nelle confezioni regalo di una disinteressata sollecitudine.
Aggiunte del 20 ottobre 2016
SPEZZONI ANTOLOGICI DI EXPLOIT (GREATEST HITS) DEI PIU' RINOMATI PREDICATORI KOLIBIANI
Non è vero che mi sono misteriosamente dileguato. Alcuni dei nostri divi, come leggerete nel seguito, lo affermeranno a coronamento di ipotesi inquietanti, di supposte trame e complotti dei quali sarei uno dei promotori, se non un lupo solitario, ma pensate veramente che Belfameth, il Grande Supervisore, avrebbe consentito un'intrusione tanto manifesta e deleteria?
D'accordo con i membri del Consiglio, il Dialogo dei Congiurati, per la sua estrema importanza, è solo rimandato a tempi più propizi insieme a quella stupefacente sorpresa finale e quell'impatto clamoroso che confermo e rinvio per un calcolo sapiente, poiché si è stabilito che debbano coincidere con il massimo vertice della Rivelazione Kolibiana.
Consigli per il lettore volonteroso: la Bibbia Kolibiana ha ormai raggiunto dimensioni considerevoli almeno se paragonata alla media delle comunicazioni via web, anche se è poco più di una inezia rispetto a quanto promette un nugolo di scalcianti frugoletti che non vedono l'ora di parteciparvi, intelligenze ancora da svezzare sotto lo sguardo amorevole di Athena Cosmica, Protettrice di tutti i veri e grandi Progetti. Al fine di alleviare i nuovi adepti e attutire l'impatto demoralizzante di un impegno eccessivo, ci permettiamo di osservare che il presente testo, per quanto ponderoso, nella galleria dei secoli non si erge come il perentorio richiamo a una visita guidata, né blandisce il viandante con le insegne da taverna dell'agiografia precotta e la vita del santo montata pezzo per pezzo, no davvero, vi procede bensì con uno sviluppo estemporaneo che segue un cammino a zig zag e che spesso si volge all'indietro. Benché non rispetti una trama e appaia più come una centrifuga di storie schizoidi e cubiste mischiate a catene deduttive e marchingegni teorici, alla fine configura un'avventura 'umana', anche se in territori ostili e inospitali; accumula parole come una vita accumula eventi, con criteri capricciosi che a volte chiariscono brani delle sequenze precedenti, a volte li rendono più confusi o li stravolgono, arrancando verso una coerenza d'insieme per nulla garantita e comunque passibile di interpretazioni diverse appena si abbandona il filo di Arianna di un Progetto la cui patologica stranezza risalta in proporzione diretta a patologiche stranezze molto maggiori. Solo il Progetto ('p' maiuscola , mi raccomando!) spiegherebbe e farebbe comprendere, solo il Progetto determinerebbe e risolverebbe, quel dio costruito dall'uomo che spodesta il Dio inventato dall'uomo per specchiarvisi. Per il resto, signori, arrabattiamoci pure con ideali e valori, ma non facciamone, vi prego, qualcosa di slegato dalle nostre modeste esistenze e, in quanto a queste... oh, quanto vorremmo razzolarvi a caso per insistere ora qui e ora là a gustare meglio certi momenti o a illuminare certi angoli oscuri, sforzandoci di rendere quella insignificante favola narrata da un idiota qualcosa di sensato e decifrabile almeno in qualità di paragrafetto di una saga molto più vasta e significativa! Ebbene, cari amici lettori, qui vi è concesso una seppur pallida e mediocre analogia di questa facoltà, qui, se avete buone gambe e resistenza opportuna, potrete andare a zonzo nella massa di parole soffermandovi dove più vi aggrada, sicuri che, concesso il giusto grado di concentrazione e disponibilità, qualche spunto interessante o concetto succoso ne ricaverete. Se per dilatare uno spirito magnanimo o affilare l'ira funesta del peloso Achille, lo deciderete voi in piena autonomia, fermo restando che questo rimane un sito per persone religiose in senso filosofico-esistenziale, tutt'altro che consigliabile, dunque, a nature religiose in senso dogmatico-istituzionale e pericoloso anche per i materialisti umanitari privi di quelle protesi senza le quali si combinano solo disastri. Per tutti gli altri consiglio abbigliamento da esploratore e assortimento di scarpe opportune, rinunciando in caso di clima sfavorevole.
N.b. (for dummies): 'peloso' al posto di 'pelato' non è una svista, ma un'acuta boutade.
Avvertenze e scuse. I nostri divi, i grandi patriarchi che tutti gli avversari corretti e leali ci invidiano, si esprimevano in un forbito e arcaico linguaggio che oggi a molti appare incomprensibile e desueto. Anche se i singoli autori si fossero mostrati consenzienti, ordinari scrupoli filologici, uniti al nostalgico desiderio di conservare intatta una testimonianza storica e documentaria della vita e della cultura che furono, non ci avrebbero permesso di offrirvi una versione tradotta in puro stile internet-bobdylaniano, secondo la scuola letteraria che oggi va per la maggiore, che più incontra la sensibilità del pubblico sovrano e che accumula milioni di euro a ogni buona occasione e così facendo sostiene l'economia traballante dello show business e della superba e gloriosa canzone americana. Non saremo certo noi a deplorare il plauso di Supreme Maestà che del resto, in qualità di politici democratici, prima che sovrani, cui compete l'onere e l'onore di emettere commenti intelligenti per persone intelligenti, onde non rischiare di parlare a vanvera si sobbarcano l'impegno gravoso di studi accurati, riguardino le sottigliezze della critica culturale oppure l'architettura complessa di riforme proposte in un paese lontano, di cui occorre per giunta conoscere l'etnologia e la storia, oppure le imprese eroiche di un florilegio scelto di esemplari esotici che vengono menati in pellegrinaggio approfittando di un buco in un taccuino fervido d'impegni.
Promozione La presente Summa Teologica contiene più stimoli di riflessione e discussione di qualsiasi opera mai pubblicata finora. I singoli autori, notoriamente persone caute e modeste come i buoni avvisi della razionalità ci impongono, si sarebbero mostrati alquanto restii ad accettare una tale enfasi, ma ai Curatori interessa di più la magra figura che l'Umanità rimedierebbe perseverando nell'ignorare la Bibbia Kolibiana, con ulteriore grave nocumento di quella già labile reputazione che è necessario salvaguardare in ordine a un felice esito della partita cosmica e planetaria. Poiché, come è ormai risaputo, la reputazione conta sopra ogni altra cosa, attendiamo ringraziamenti da coloro che, dalla reputazione della specie homo ss, in quanto suoi esimi rappresentanti, ricavano lo splendore della luce riflessa.
Discolpe (comunicato sindacale) Dovendo sottolineare come molti autori dei singoli scritti si siano in passato mostrati contrari a qualsiasi intervento correttivo, noi Curatori decliniamo ogni responsabilità, sia civile che penale, per eventuali strafalcioni, veniali o capitali, qui e là reperibili, i quali vanno imputati senz'altro agli estensori originali dei testi.
Aquilon Fronesius ('Euritmico') Influenzato dai risultati di matematica sperimentale desunti dalla scansione al computer di grafi colorati e altre fonti elementari di problemi NP completi (sviluppi esponenziali di complessità combinatoria da schemi molto semplici e comprensibili), mostrò, nella celebre serie dei 'Modelli Trappola', come le discontinuità tutto o niente e le rotture di uniformità e simmetrie che intervenivano entro ristretti intervalli di transizione (quello 'scatto della trappola' che si riscontra, per esempio, nelle curve di probabilità dei conflitti di colore viste come funzione del rapporto tra numero dei lati e numero degli spigoli in una serie di grafi sufficientemente estesi ed elaborati), potevano fungere da simulazioni econometriche di una cartografia sociale dove le aree di disagio e di benessere, le sperequazioni tra redditi, le impari opportunità si fondevano e si appiattivano oppure si frammentavano in blocchi irregolari e scoscesi oppure si proiettavano nell'instabilità del caos: tutto ciò avveniva secondo fasi di stasi o evoluzione lineare spezzate da scompensi e ricomposizioni profondi e improvvisi, conseguentemente alla modifica dei rapporti numerici di parametri sistemici riferibili a cose come tassi d'interesse, liquidità circolante, medie e varianze nella distribuzione delle risorse, volume dei debiti, esposizione finanziaria al rischio e anche fattori psicodinamici quali la spinta dell'ambizione o una generica attivazione energetica che Euritmico ritenne di rappresentare attraverso una misura del consumo di droghe stimolanti. Ascese a un top di viralità il video in rete di quando, dalla platea di un congresso internazionale, in mezzo a uno stuolo di politici attoniti che non capivano nemmeno di che cosa mai stesse parlando, accusò i rappresentanti delle banche centrali e di altri comitati occulti di conformare deliberatamente un paesaggio multidimensionale delle correlazioni grafiche di base in maniera tale da preservare squilibri e privilegi accanto agli effetti illusori di indici artificialmente gonfiati.
Le moderne città occidentali, anche se ancora lontane dal modello concentrico di nucleo dirigenziale più cintura protettiva più slums più bidonville, stanno diventando un febbrile brulichio di acquiescenza e rassegnazione, un crogiolo di caos sonnolento simile al dormiveglia agitato di un vulcano dormiente. Le disuguaglianze risaltano evidenti, dal miscuglio di strampalata miseria e mediocre ricchezza nel coacervo dei più diversi edifici, spesso nello stesso isolato, come, sul verso psicologico, dalle fisionomie comprese tra gli estremi del malinconico rancore represso dei vecchi autoctoni dalla vita fallimentare e la vitalità aggressiva dei giovani rampanti, soprattutto immigrati: il secondo estremo destinato per la maggioranza a convergere sul primo, soltanto in tempi mediamente sempre più ristretti e salvo rari doti e fortune solitamente non rispettose di antiche e ormai desuete virtù morali.
Chi le regole le subisce, chi le contravviene, chi le rispetta e ne è rispettato, chi le rispetta e non ne è rispettato, chi le crea e le rispetta e, alla sommità della piramide, chi le crea e le contravviene, qualcuno perspicace potrebbe credere d'intuirlo a vista con un'alta probabilità di successo, ma forse si sbaglia.
Tutto questo sembrerebbe situarsi al di là del raggio di prensione del razionalismo tradizionale, soprattutto se si considera come la stupidità, perlomeno un certo particolare tipo, in quanto fodera protettiva avvolta intorno alle fragilità neuro-vegetative della coscienza, rappresenta un optional ambito negli ordinari tornei dove sono in pallio le tessere e i gettoni che favoriscono una sopravvivenza migliore. E' necessario distinguere, però, la lotta nella mischia dalla valutazione distaccata di cause, processi ed esiti, se anche la più afrorosa e turbolenta porzione di umanità alla fine corrisponde a un ingorgo concentrato, una congestione spaziotemporale di ontologia cosmica.
Secondo me, mentre un certo tipo di competenza pratica, quella sicumera attivistica che è boria del fare senza conoscere e quindi dell'imporre e comandare, fallirà miseramente nella guida e nel controllo di una complessità che sempre prolifera dal basso e mai s'irradia dall'alto, una comunanza profonda di scienza, arte e letteratura, non i singoli approcci, può ancora connettersi a una realtà che non è costruzione verbale, soggettiva, ipotetica: è realtà punto e basta.
Penso che non si riuscirà a evadere da un impotente stato di scissione schizofrenica delle facoltà culturali fino a che non ci si sforzerà di cogliere la consonanza profonda tra a) verità scientifiche e matematiche dilatate oltre il virtuosismo acrobatico di dettaglio fino a restituirci un riflesso inequivocabile delle più pure leggi del cosmo e b) verità letterarie, artistiche e filosofiche intese come intuizioni mimetiche trasmesse da un'auscultazione attenta della condizione umana quale si ritrova a essere e non quale si vorrebbe che fosse: le une e le altre verità rese vive e pulsanti soltanto da processi di attivazione reciproca.
Mi spiace argomentare in un modo che probabilmente va di traverso ai metafisici dell'assolutismo sociologico, agli idolatri dell'antropologia prima e sopra di tutto, ma questi metafisici e questi idolatri, anche se né essi né la loro divina società se ne accorgono, stanno andando di traverso al mondo.
Non sarei mai arrivato a concepire neppure un vago presentimento dei Modelli Trappola, se non pensassi e sentissi così.
Scimis Undsuink ('Homotipo') Carattere naturalmente amabile, aperto, disponibile, generoso, rappresentò un punto di riferimento importantissimo in qualità di mediatore tra le diverse correnti soprattutto nella fase difficile che precedette l'affermazione internazionale del Movimento. Spirito sciolto, vivace, curioso, inquieto, avventuroso non trascurò alcun aspetto dello scibile umano e perseguì con acutezza e tenacia ogni linea di ricerca che potesse rivelarsi utile al fine supremo della realizzazione del Progetto. Purtroppo, più guadagnava in profondità di comprensione e ampiezza di visuale, più le sue complicate elucubrazioni diventavano ostiche e perfino incomprensibili per l'affiliato medio, anche di grado elevato. Accadde così che, procedendo negli anni e smarrendo la capacità e la voglia di estenuarsi nei ricami e merletti della cucitura diplomatica, i commenti, le avvertenze e i richiami che animavano la sua cura assidua e partecipe cominciarono a cadere nell'indifferenza e nel discredito generali: non ricevendo i suoi moniti la dovute attenzioni, Homotipo, che nel frattempo era incorso in alcuni problemi di salute mentale, divenne sempre più irascibile e combattivo. Da maestro di buona creanza e arti persuasive, si trasformò in un seminatore di zizzania di portata storica e metafisica.
Quanto più la situazione generale esige la composizione in un grande disegno d'insieme di tutte le costruzioni teoriche partite in ricognizione di una o l'altra delle tante impalcature che contribuiscono faticosamente a sostenere l'immane complesso labirintico della realtà accessibile al cervello umano inteso come particolarissimo prodotto della realtà medesima, le problematiche e le contraddizioni che indicano all'avanguardia pensante di noi kolibiani la soluzione esclusiva di una pianificazione cooperativa e comunitaria, favoriscono la direzione opposta e indirizzano la mente sociale a prosternarsi davanti al cieco determinismo sancito dal predominio delle volontà più forti: il lupo arriva puntuale ogni qual volta le pecore pasticcione, sconsideratamente affannandosi, smontano un pezzo alla volta le assi del recinto che le ospita, anche se l'odierna scimmiottatura democratica costringe il lupo a vestirsi da agnello.
Dopo questa tonante premessa, intendo tuttavia proporvi qualche spunto più modesto e particolare, la cui concreta considerazione possa illuminare rischi e opportunità sulla strada di un progetto che, come un ordine cavalleresco trincerato dietro difese potenti, la sana dottrina impone ai suoi adepti di perseguire nonostante i tempi nefasti.
Il primo brevetto di codice a chiave pubblica (sulla strada infestata di ladroni viaggia una scatoletta di nessun valore che il destinatario può utilizzare così com'è per codificare un messaggio, il messaggio viaggia in senso contrario verso il proprietario della scatoletta sulla strada infestata di ladroni, i ladroni, anche se rubano il messaggio o la scatoletta o entrambi, non ottengono niente, perché la scatoletta può essere aperta solo da chi l'ha costruita e così il messaggio) portava la sigla RSA, che corrispondeva alle iniziali del cognome dei tre inventori. Di questi, due ebbero l'idea, l'altro fu chiamato a svolgere i compiti tecnici e dichiarò alla fine che mai aveva affrontato professionalmente tematiche tanto insignificanti, facili e noiose.
Nell'era di Internet e delle comunicazioni via cavo e via etere, un supertecnico può non accorgersi che su banali problemi di fattorizzazione dei numeri potrà cominciare a fondarsi un settore di primaria importanza economica come quello dell'e-commerce, mentre fini analisti della civiltà tecnologica possono fermarsi davanti a modeste difficoltà di ordine specialistico.
Al di là dell'esempio adottato, fortuito e magari, come fatto in sé, falso o distorto, mi sembra importante intuire come la considerazione di simili discrepanze di attitudini e visuali rivestano grande importanza per una giusta e proficua concezione del Progetto soprattutto in vista del coordinamento di mentalità che vi dovrà contribuire, dell'attribuzione e bilanciamento di responsabilità e dipendenze gerarchiche.
La problematica rivela tutto il suo aspetto infido e spinoso soprattutto se ci si interroga su quali enormi e clamorose cecità possano mai affliggere persone peraltro abilissime a vendere le proprie qualità (reali o fasulle) sui mercati del prestigio, della reputazione e del potere.
Eljah Hombono Sexpil ('Cartasio') Si interrogò a fondo sui legami apparentemente indissolubili tra democrazia e stupidità, giungendo alla conclusione che alla base di certi perversi rapporti sussisteva quella predisposizione psicologica che denominò 'illusione del mondo comune': la falsa credenza , innata nella singola entità cerebrale, che ci si possa e ci si debba riferire tutti a una visione concorde del mondo privilegiando lo stesso insieme di principi, norme, valori. Poiché le cose non stanno affatto così, ma l'attrazione verso un substrato certo e uniforme agisce come un obbligo morale e un richiamo di natura superiore per non dire divina, s'ingenera una classica commedia degli equivoci nella quale, come in ogni contesto confusionario, refrattario a qualsiasi criterio giurisdizionale, in cui però ciascuno ritiene per istinto di possedere le chiavi interpretative, le accidentalità più strambe attecchiscono e diventano per ciò stesso elementi integranti di una varietà percepita come unità cogente, un amalgama che, nel momento stesso in cui omologa, centrifuga, quando comanda ordine evoca subbuglio, in una spirale rapinosa che alla fine può trovare un freno soltanto nell'arbitrio della forza. Esplorò tutte le bocche del vulcano Afronembo e si posò con un batiscafo sul fondo della fossa Manapaniko.
Chi si è cimentato in qualche tipo di lavoro creativo, la cui riuscita è sempre e comunque legata al rispetto almeno parziale di determinate regole, sa che uno sviluppo per tentativi ed errori non è mai slegato da un procedere per piani cognitivi, per olismi e 'insight', e sa altresì che vale il viceversa.
O si esegue un algoritmo come fa un computer o per avere una pur vaga idea di dove si arriverà bisogna prima cominciare.
Provate ora a immaginare che al posto della politica schizofrenica e amleticamente autoritaria della post-democrazia commissionata dai plenipotenziari economici nel plenipotenziario rispetto degli ossequi e delle riverenze formali da tributare a un popolo che deve essere populista (se no che popolo è?) in tutto, tranne che nella presunzione di conoscere i propri interessi, stiano già viaggiando in rete e siano già parzialmente o embrionalmente attive nella società reale le linee portanti del grande progetto innovativo che i kolibiani auspicano a gran voce.
Supponiamo anche che alle problematiche, ai nodi, alle complicazioni di quel progetto si appassioni una quota abbastanza cospicua di quegli internauti che attualmente cazzeggiano su tutto e il contrario di tutto.
Non cambierebbe radicalmente la concezione generale di che cosa è pensiero e che cosa è solo chiacchiera, di che cosa è utile e concreto e che cosa è utopia?
George Harry Stonehungs ('Paris garden') Promotore della cosiddetta Intifada Kappa (che in seguito definì 'Inticacca'), lasciò il consiglio supremo sbattendo la porta da par suo e fondò 'Eideros', una setta dei tre liberi amori. Dopo lo scioglimento, raccontò e analizzò in dettaglio i dissidi per gelosia e interesse che cominciarono a sorgere tra i ricchi rampolli già dopo un mese dall'avvio avvenuto in un'atmosfera ascetica e idilliaca. Varò un dizionario delle 'Verità paradossali o fatti inconfutabili eccessivamente riassunti e schematizzatì' dove incluse frasi come 'l'uomo dovrebbe essere capace di vivere in solitudine o in coppia o comunque in gruppi (famigliari o no) molto ristretti, munito di pochi scopi sociali e poche gratificazioni di base, rapportandosi agli altri soltanto quando ha qualcosa di effettivo e preciso da esprimere, offrire o chiedere'.
Si è molto detto e scritto sulla particolare impostazione tonale che la Bibbia Kolibiana conserva in piena e rispettosa osservanza dei canoni raccomandati dai Padri.
I Padri stessi parlarono di zona grigia da evitare tra finzione più o meno letteraria e progetto operativo, sottintendendo che l'una doveva imporsi in qualità di nunzio e corifeo dell'altro finché non fossero maturate le condizioni per una pianificazione seria, appropriata, sistematica, secondo una qualità e quantità ottimali di contributi opportunamente coordinati e diretti (il celebre 'progetto del progetto')
Se, nel mondo dominato dai sonnambuli con incubi aggressivi indotti dalla cupola aliena, la verità nuda e cruda viene presa in consegna e incarcerata già sulla soglia di casa, se non può circolare indenne senza i rinforzi e le franchigie della finzione, ci si abbandoni pure ai vaticini farneticanti del sogno: l'importante è che si avvolgano e stravolgano intorno a quel nucleo di fiamma viva che prima o poi brucerà l'involucro esterno e rivelerà la differenza tra onirismo fatuamente calamitoso e onirismo profetico.
Entrando più nello specifico, un antico e arcano eloquio ermeneutico e filosofico, restìo all'aggiunta di vuoto pneumatico previsto nella ricetta comunicativa più consona all'industria culturale, avrebbe dovuto solennemente scandire nel futuro l'anelito a un'autentica liberazione analogamente a come, nel presente, il chiacchiericcio circuente ed esibizionistico, la sottintesa propaganda, il convulso protagonismo dei 'new media' caldeggiavano una colorita e dinamica acquiescenza verso una uniforme, corriva, sommaria, abborracciata, monotona tirannia larvale.
Un sottotesto neanche tanto velato irrideva alle degenerazioni di una prassi politica ridotta ormai a ripetizione ossessiva di esteriorità rituali ferme alle concezioni antropologiche dell'aristotelismo medievale, sofistica ma in modo colpevolizzato e represso, nutrita da quella puerile nostalgia di una compiacente e umanissima Legge Eterna della cui improponibilità ci si consola con capziose frivolezze, con la compiaciuta lusinga dell' 'essere umani', con i panegirici alla specie dominante improntati a narcisismi iperbolici e motivi così grotteschi che, se ne accettiamo i presupposti, non si riesce proprio a capire perché l'umanità dovrebbe vantare qualche prerogativa o pretesa in più rispetto alla cavallinità o alla suinità (riferimento, l'ultimo, dovuto non a un desiderio di provocazione, ma all'affinità genetica del suino verso l'uomo, inferiore solo a quella dei primati).
Mikayazzi Miroshira ('L'amico della pallavolo') Autore di un breviario di retorica kolibiana con cui intendeva perfezionare la tecnica del 'fendente teoretico riservato al guerriero Ninja Kol' e promuovere in genere le arti marziali di 'quella predicazione aggressiva che intende spianare la strada all'avvento del Progetto quando sarà chiamato a gran voce dall'umanità rinsavita'.
I Padri deliberarono in seduta congiunta che, fino al momento in cui non si fosse instaurata al centro dei circuiti della pubblica opinione, con tutta la sovrana preminenza che meritava, l'idea della società artificiale costruita tramite progetto, nessun kolibiano avrebbe dovuto abbandonare le note inquietanti e graffianti del pastiche letterario e pamphlettistico e si sarebbe anzi espressamente attivato per schivare come il diavolo quel fascismo della falsa bontà che corrispondeva ormai alla definizione corrente di 'politica', almeno di quella più 'produttiva', beninteso solo per chi la conduce.
Furono in molti tra i primi fedeli a non comprendere appieno motivi e significati di una disposizione che consideravano eccessivamente restrittiva, penalizzante, manichea.
Forse non vedevano con la necessaria chiarezza i trucchi, gli agguati, le trappole, gli inganni, le perfide lusinghe con cui un sistema moribondo protraeva la propria vampiresca vecchiaia.
Se si fosse proceduto a deporre le armi della critica distruttiva prima che una impalcatura teorica fittizia fosse stata interamente demolita insieme alle fascinazioni rincretinenti dei suoi sontuosi archi immaginari, se il mandato progettuale fosse stato consegnato nelle mani dei soliti politicanti che se lo sarebbero rigirati pensierosi alla stregua di ogni altro curioso oggetto da deporre quanto prima in bacheca e ripescare come specchietto o spauracchio per casi sporadici e fini strumentali, ecco quello che sarebbe accaduto: esperti non adeguatamente ricondizionati, ovvero i tecnici specialisti di questa o quella disciplina, che, per le leggi di carriera, costituiscono la fauna intellettuale più plastica, malleabile, docile ai fili di questo o quel burattinaio (vedi, per esempio, comitati presidenziali dei saggi, perizie giudiziarie, acrobatici riaggiustamenti di accentuazioni, priorità, prospettive tra sentenze che si smentiscono a vicenda), i tecnici, che contano qualcosa soltanto nella misura in cui servono interessi economici primari, sarebbero stati raggruppati in mandrie di consulenti strapagati nelle quali ciascuno si sarebbe distinto in base a un ben preciso cartellino di appartenenza, avendo già implicitamente ricevuto il mandato principe, la linea d'indirizzo primario, quel colpo di assestamento orientativo che precede, sovrasta e configura la sostanza di ogni altro specifico incarico: essere positivi e costruttivi, ovvero minimizzare con coraggio o rimarcare con senno, secondo convenienza, le difficoltà e le contraddizioni oggettive e irriducibili, fare in modo insomma che, o con la presenza o con l'assenza, non compromettano l'aurea ispiratrice che promana dall'etichetta appuntata sul risvolto o sul taschino.
Dorothea Ashalonne ('Aspasia') Grazie al fascino e alle sottili arti seduttive, seppe circuire e manovrare i membri più influenti del Consiglio e quando la sua attrazione scemò per un disgraziato incidente (da cui trasse ispirazione per ribadire la regina di tutte le filosofie, la sempreverde lamentazione stoica della caducità inesorabile e del fato beffardo e indifferente), disarmò le velleità vendicative dei suoi incauti zimbelli grazie a una superiore intelligenza e ai dossier accortamente accumulati.
Costruire razionalmente una modalità generale di assetto antropologico rispettoso, molto più che di uno specismo narcisistico, delle leggi naturali e delle esigenze sistemiche planetarie (e quindi del singolo individuo qualunque che a tali leggi e vincoli corrisponde molto meglio di un concetto di umanità che, come quello di Dio, alla fine non dispone di una univocità sufficiente per esistere), rappresenta la risposta a un enigma capitale, una scelta di vita o di morte, non uno dei tanti atti di teatralità istrionica che intasano il magazzino della cronaca-storia.
Progettare e costruire una società armonica e funzionale può costituire un programma semplice e inevitabile quanto un azzardo vertiginosamente utopico: dipenderebbe dalle probabilità di apocalisse, se gli uomini le sapessero leggere e interpretare, soggiace invece al solito gioco di mentalità e vezzi antropologici di cui non si capisce mai bene come si vorrebbe se le regole dell'interesse vi risaltano perché tutte le altre rimangono indecifrabili o perché contano effettivamente di più.
Se la democrazia a un certo punto conduce nella metà del cerchio opposta al raggio vettore che conduce alla società ideale e tuttavia continua a contrassegnare l'optimum in una strategia di minimax, bisogna rassegnarsi a indossare l'armatura macchiata di ruggine del donchisciotte rincoglionito e ricominciare a prendersela con il mondo e l'umanità perché sono quello che sono: caricarsi di ridicoli puntigli e penose ossessioni diventerà allora l'impresa epica e gloriosa dei Padri.
Mika Iliade ('Trilussa') Menestrello di strada, aedo errante, rappresentò nel corso degli 'Anni Gloriosi' la componente più picaresca e anarchica del movimento, sostenuto dalle libere offerte che affluivano copiose al termine delle sue estemporanee ed elettrizzanti predicazioni. Dopo la morte (avvenuta in circostanze misteriose) si scoprì che disponeva anche di un ottimo fiuto da investitore, del quale poté approfittare una numerosa prole irregolare, un paio di componenti della quale seppe rinverdire i fasti dell'esimio genitore.
Nell'epoca d'oro o satanica del capitalismo d'assalto, le concezioni del bene e della virtù si ripartivano in due grandi campi ideologici contrapposti, l'uno condiscendente ai requisiti individuali di eccellenza che consacravano il conquistatore economico, l'altro consono alle necessità reattive di coesione solidale tra anime lasciate alla deriva oppure ammucchiate sotto una sola etichetta valida per tutti.
I piccoli, medi e grandi capitani d'industria, sempre adeguatamente spietati (consentitemi forzature retoriche che facilitano la chiarezza dei concetti) negli strati bassi della società creavano ricchezza e insieme sottomissione: entrambi crescevano, la prima in misura ridicola rispetto alle ricchezze che si formavano in alto, ma in percentuale notevolissima in rapporto al valore di base incrementato, la seconda (la sottomissione) in forme lenite dal senso confortante dell'omologazione orizzontale e dalle sirene oniriche che cantavano miraggi di promozione sociale alimentati da sogni mitologici legati alla macchina dello spettacolo.
La diversificazione e l'allargamento delle prospettive di carriera, insieme all'incremento proporzionale degli intrattenimenti ludici tenuti per mano come bambini da impegni severi, inaugurarono qui e là per il mondo effimeri periodi di democrazia effettivamente liberale.
Oggi le due etiche, individualistico-aristocratica e democratico-solidale si sono unificate sotto il sigillo formalistico della religione di Stato e il motivo è evidente: è finito o sta per finire il potere che produce una ricchezza comune che, per quanto mal distribuita e peraltro discutibilissima e difficilmente traducibile in qualità della vita, si può tecnicamente definire tale. Nel frattempo, per necessità di sopravvivenza strutturale, la sottomissione, invece di attenuarsi, si accentua, sostenuta però da metodi costrittivi molto più sottili, dissimulati, indiretti, resi necessari dall'impossibilità di ipnotizzare il popolo con le lusinghe usate in passato.
Oggi tutti, nessuno escluso, sono individui, il popolo è una brutta parola: il bruto che ringhiava rintanato in un caotico coacervo di suoi simili (uno psicotico con scompensi affettivi che chiedeva solo amore e attenzione) è diventato uno spirito gioviale che guarda con ottimismo alle sfide che lo attendono e onora quei capi umanissimi, ordinari, alla mano (la prova è che non producono niente!) del cui novero, se non fa parte oggi, potrebbe far parte domani oppure in un'altra esistenza.
Luigi Cerbottani ('Teletropico') Talento scientifico e inventivo, mise a punto il celebre Topodromo, dove la corsa dei topi con la cuffia, orchestrata da impulsi inviati a stazioni del sistema limbico del singolo animale (che a loro volta rinviavano segnali a un unico centro di coordinamento ispirato a un automa probabilistico basato su un sofisticato modello connessionista) realizzava uno schema efficace delle correlazioni necessarie a instaurare un sistema di controlli reciproci e automatici tra organi di decisione politica dotati di proprie competenze e autonomie. Ognuna delle gabbie skinneriane opportunamente integrate in una super gabbia denominata 'Alveare o Formicaio Cognitivo', dopo un certo numero di prove, raggiungeva un livello cooperativo caratterizzato da una omogenea ed efficiente distribuzione del cibo. Traducendo termine a termine i parametri originali dell'appropriata simulazione con i corrispondenti tecnici e operativi dello specifico apparato istituzionale simulato, si garantiva un altissimo livello di efficienza in concomitanza a una correttezza e trasparenza massimali e ciò restava valido per ogni funzionario incaricato a prescindere dalla collocazione nella gerarchia. Ovviamente la quantità e qualità del cibo rilasciato al premere della leva corrispondeva ai valori della busta paga.
Ora valutate il presente quesito: è possibile che un comitato di ricchi e benestanti, un ceto di funzionari statali e in genere una classe dirigente variegata per livello e settore si coordino in modo tacito, informale, quasi inconsapevole o comunque non esplicitamente intenzionato (e perfettamente rispettoso delle leggi vigenti), così da condizionare il corso degli eventi sociali e politici secondo propri desideri, visioni, convenienze?
Per esempio, alcuni giudici potrebbero nutrire la convinzione, maturata discutendo tra amici o in occasione di questo o quel meeting o ricevendo la telefonata, più o meno allusiva, di un superiore o pari in grado, che un regime di sentenze troppo fiscali e un conseguente eccesso di condanne di funzionari pubblici e alte cariche potrebbero ingenerare ostilità nei confronti delle istituzioni e un pericoloso spirito di anarchia e ribellione.
Tali giudici, nella propria intimità prima ancora che con decisione visibile, potrebbero orientarsi verso una clemente flessibilità, risolversi ad attutire il lato rigido e formale della giurisprudenza per valorizzare meglio le componenti 'umane' ovvero i cardini del supremo sacramento del perdono: il beneficio del dubbio e l'ammissione della possibilità di sbagliare.
Se rispondete: è possibile (non certo, possibile!), voglio vedere con che faccia oserete d'ora in avanti avversare i kolibiani!
Laib Gong Korper Ding ('Diapason') Formulò la famosa lista di invarianti costituzionali, teoremi di conservazione, vincoli limitativi, minimi inferiori e superiori, soglie reattive e insomma tutte le leggi condizionanti dell'antropologia politica, a partire da quel principio del coefficiente fisso di peso che esemplificò assegnando un valore di consistenza materiale e di effettività efficiente sia ai singoli termini della serie morale sia a quelli della serie fisiologica, mostrando come ogni singola tipologia caratteriale o sintesi cooperativa di mentalità, quando optava per un certo valore di una serie, si trovava poi vincolato a scegliere uno di quelli dell'altra serie la cui somma con il primo si mantenesse in un range di variazione molto limitato.
Ah, la miseria umana! Dieci anni di continui esercizi per diventare un violinista appena appena passabile (Alfred De Musset).
La vera natura dell'uomo è lo spazio vuoto del cielo (Buddismo zen).
Anonimo 1 avrebbe fatto incidere queste proposizioni sulla sua pietra tombale se non vi avesse conferito un epitaffio ancora più bello e profondo, ovvero la totale inesistenza: il più bel cerimoniale mai inventato, l'assenza di funeree retoriche consacrata a sberleffo come una dimenticanza o noncuranza, splendido omaggio consustanziale in onore della potente e metafisica compagna, dell'amica-nemica di sempre, la morte.
Su quelle due proposizioni, che A1, in coppia, riteneva una sintesi insuperabile, un cortocircuito aforistico inarrivabile (lui che aveva letto più di un milione di libri!) si sono spesi migliaia di volumi febbrilmente consumati (e divorati) nella spasmodica ricerca della verità esegetica.
La sfida che ora mi tenta e che avrò la temerarietà di affrontare per il vostro diletto di ascoltatori affezionati e devoti chiede di abbozzare una interpretazione che conservi qualcosa della stringata penetranza del campione interpretato.
Partirei aggiungendo un'altra tipica citazione del Nostro: l'inferno sono gli altri (Jean-Paul Sartre). Si riferisce allo sguardo oggettivante della folla intesa come giudizio fossilizzato, la sua pretesa di incapsularti in riscontri semplici e inconfutabili quale può essere un dato fisico o caratteriale d'immediata evidenza (come una grossa voglia vinacea o lo strabismo), di plasmarti secondo specifiche illusioni e distorsioni di una soggettività altrui che di fatto risulta inafferrabile anche al soggetto che la vive, il quale proprio per questo motivo ricerca riferimenti fissi e solidi agganci nell'omologazione mortifera degli schematismi ambientali.
Organismi e ambienti alla fine si confrontano in un circolo vizioso di vertiginosa e instabile equivocità, dove di autentico, ossia di concettualmente definibile senza invenzioni e assurde forzature, sopravvive solo il complesso delle dinamiche di sistema.
Quella equivocità è la fonte di ogni dogma e potere perché solo dogmi e poteri predispongono il terreno solido di un apparato di convenzioni cementato da leggi e decreti, qualunque essi siano.
Le aspirazioni profonde a una vitalità incondizionata, alla piena libertà di espressione (lo spazio vuoto) s'infrangono, ancora prima che intervenga la censura ufficiale, davanti agli esiti assiomaticamente miserabili di risultati esistenziali consegnati a uno scacco che appare ormai irrimediabile dopo la cacciata dall'eden pieno di insidie serpentine dell'istintività animale.
Ce lo comunicano le fotografie statistiche del disagio effettivo, non una estetica da melodramma.
Gli spazi di libertà 'vera' sprofondano oltre ogni orizzonte e si volatilizzano nella sovrastante, onnipresente, irraggiungibile lontananza del cielo.
Non rimane che adorare quella irrimediabile assenza e intanto esercitarsi al violino sacrificando la propria vita per qualche sequenza di note degna di riconoscimenti e di applausi.
Il Progetto Kolibiano intende consegnare il violino alla società affinché ne moduli la natura metaforica e assegni ogni tipologia di esercizio ai giusti talenti, mentre lo spazio vuoto del cielo verrà lasciato alle libere scelte individuali.
Se quella idea semplice e meravigliosa riuscirà ad avviare un cammino di salvezza, dipende dalle potenzialità di homo sapiens, non da quelle di loschi, infidi, stronzissimi kolibiani.
Drusilla Antipatris ('Tylenol') Si suicidò quando perse fiducia nell'Avvento del Progetto, consegnando da ultimo il seguente messaggio: 'Se tutto quello che valeva la pena di scoprire e pensare è già stato scoperto e pensato e mi sento obbligata a concludere che il grosso dell'umanità, la fetta a cui converrebbe, non disporrà mai delle forze e dell'ingegno sufficiente per costruirsi scientemente e deliberatamente un modello di società accettabile, che senso ha prolungare l'agonia di un corpo e una psiche malati?'
In che modo i Padri avrebbero potuto scagliare con forza maggiore il loro dardo infuocato?
Io dico che ai nemici della vera dottrina dovete rispondere semplicemente così: non esistevano modi migliori e più energici.
Se una intelligenza comune, cristallizzata in una specifica fase storica e congiunturale, non coglie la necessità evidente di un tipo unico ed esclusivo di soluzione radicale, ci troviamo probabilmente davanti a questa alternativa: o quella intelligenza non esiste o sta effettuando una scommessa contraria dopo avere consultato le quote degli allibratori, si sottomette, cioè, ai verdetti del solito gioco speculativo di interessi distribuiti tra vari bilancieri.
Come ci si rivolge a gente stupida o che si dà alle scommesse presentando i propri azzardi come una scelta responsabile ispirata a grandi idealità?
Se appunto nella vuota prosopopea moraleggiante insiste uno dei difetti peggiori di una convivenza ormai disfunzionale, non serve molto soffiare nei tromboni e nei corni che accompagnano le annunciazioni solenni, si può al massimo mettere alla prova il linguaggio dei fatti affilandolo in modo che non risulti una predica.
Naturalmente, una filippica sprovvista di croci e di altari si ritrova aggrovigliata nella trappola del suo medesimo paradosso, con l'aggravante che un principio oggettivo di coerenza impedisce di uscirne anche se cadere in buca o girare in tondo rientrano tra gli scotti quasi garantiti.
La politica diventa il nemico primo, molto prima di questo o quel gruppo politico, semplicemente perché il gioco o la partita del compromesso già in avvio sanciscono la compromissione del gioco o della partita.
Si possono e si devono discutere razionalmente le modalità di costruzione, ma costruire secondo il progetto kolibiano invece di perseverare nel peccato nasce da una delibera cruciale e dirompente, non dalla mistica della mediazione-pattuizione.
Meggy Bodiego ('La cicala folle') Coloriva le prediche con fascinose pantomime danzanti accompagnate dalla musica suggestiva degli 'Isteria e basilico', finché valutò male gli spazi per un balzo, ruzzolò dal palco a testa in giù e cadde nelle braccia di un baldo maschione che, dopo averla salvata con energia e prontezza di riflessi, la affascinò immediatamente e le parve un segno del destino. Purtroppo si trattava di un agnostico viveur capitato là per pura curiosità e superficiale estetismo, un tale che presto la traviò allontanandola dalla giusta dottrina.
Un sistema modella a propria immagine e somiglianza e con automatica scioltezza le forme comunicative autorizzate all'utilizzo dei megafoni ufficiali.
Comunicazione e strutturazione si integrano con corrispondenze quasi istantanee: è quello che una scontata metafora denomina 'chimica sociale'.
Finché il tutto, bene o male, si regge sui suoi piedi di argilla, la 'libera espressione democratica' non contravviene mai esigenze fondamentali di controllo, chiacchiera e bavaglio diventano facce della stessa medaglia nella misura in cui la concessione a dire tutto e il contrario di tutto dipende da regole 'di buona creanza' che, più appaiono innocenti e sensate, più nascondono insidie micidiali.
Tu, suddito, onorerai il Padre e il Padrone: è lo slogan che accomuna tutti i messaggi dell'imperatore, stampigliato come post scriptum o motto del blasone su ogni missiva burocratica, anche quando concede deroghe e licenze in direzione dell'anarchia.
Se Padre e Padrone sono farabutti patentati, un giusto modo di accennare e sottintendere, illeggibile per i profani, consentirà di non violare i vincoli di onorabilità del Padre e del Padrone, nonché i relativi sacrosanti diritti.
Davide Giacobbe Rudabaugh ('Aknaton') Di lui non è stato tramandato granché a parte il fatto che era un formidabile adoratore della 'Suprema Trinità' (Bacco, Tabacco e Venere), il quale però mangiava parecchia frutta e verdura e anche perciò (unitamente al fatto che, con invidiabile senso di sicurezza, avvertiva se stesso come un pascià comodamente stravaccato al centro dell'universo), riuscì ad arrivare a centodieci anni suonati pesando non poco sulla pubblica previdenza.
Supponiamo per assurdo che i vertici, la crema, il non plus ultra delle capacità direzionali sia laiche che religiose decidano oggi di rilasciare a un popolo di sudditi trasformato per magia in pubblico sovrano una dichiarazione la cui sostanza potremmo parafrasare così: amici, abbiamo finalmente deciso di prendere il diavolo per le corna e di varare quell'iniziativa che avremmo dovuto intraprendere da tempo e per una ragione o per l'altra abbiamo sempre rimandato, ci riferiamo a un disegno esauriente e sistematico di società armonica integralmente e dettagliatamente progettata.
Mettetevi ora nei panni del popolo bue o pubblico sovrano messo davanti a un simile proclama: non avrebbe la sensazione che qualche conteggio fondamentale è stato sbagliato fin dall'inizio di una lunga sequenza di calcoli e che alla fine si stia capovolgendo una enorme frittata?
Immaginatevi la scena, governanti che convocano governati per confessare: finora vi abbiamo preso per i fondelli, le visioni del mondo che raccomandavamo si sono rivelate fasulle, si palesano inesistenti gli automatismi che davamo per certi, inefficaci i valori che pensavamo prescritti dalle leggi del cosmo.
Vi sembra uno scenario plausibile? Certamente no, eppure un analogo dietro front, in scala molto minore, avviene regolarmente, beninteso senza dichiarazioni di pentimento, quando si tratta di ritirare alla chetichella, partendo dal basso, un intero impianto di agevolazioni e garanzie che risulta ormai incompatibile con la tenuta di un assetto generale molto più docile alle 'riforme' imposte dalle forze primarie.
Detto questo, che speranze rimangono, nel prosieguo del XXI secolo, di prevenire insorgenze catastrofiche senza spalancare il campo a derive autoritarie, se una legislazione complessa non può di sicuro scaturire da movimenti di popolo?
Consentitemi una ulteriore perplessità: a che serve rottamare uomini se lo stesso non avviene con le idee e le concezioni di fondo che sovrintendono alle decisioni veramente importanti?
Che cosa si può fare di diverso dal sedersi sulla sponda del fiume e aspettare che la corrente trascini i cadaveri di amici e nemici e si prenda anche il tuo?
Forse solo aprire le finestre e cantare a squarciagola la giusta canzone.
AL Mukkabella ('Padrino') Com'è ben noto, nella sua vita compì alcuni atti meritevoli, ma anche molte azioni riprovevoli. Comunque era un formidabile predicatore e tutto quanto perorò merita ascolto a prescindere da dati biografici che se dovessero costituire un ostacolo alla ricezione dei messaggi interessanti e potessero essere esaustivamente conosciuti, probabilmente indurrebbero a rifiutare ogni creazione originale e meritevole concedendo la parola soltanto alla fiera delle banalità e forse nemmeno a quella. Forse la formula magica, mai evocata, del buon governo sta nell'eleggere persone con una cattiva reputazione che, rimproverata da tutti, susciti anche rimorsi nell'interessato, invece di eleggere, come sempre si fa, persone che sanno nascondere bene le proprie magagne. Lo stesso Mukkabella, del resto, ebbe a osservare nel corso di uno dei suoi più notevoli excursus oratori che una delle frasi più infelici imputabile a un grande scrittore, costretto a farla fuori dal vasino per uno dei soliti sconsiderati corteggiamenti da cronista in cerca del fioretto quotidiano, fu un'osservazione relativa a George W. Bush, al quale il grande scrittore non avrebbe affidato neppure la gestione di una cartoleria. Riprendendo le sue testuali parole (di Mukkabella): "Il grande scrittore sembrava non essersi accorto, in cinquanta anni di onorata carriera, che fare il presidente della Repubblica Americana come di qualsiasi altra repubblica o fare il supermanager non è più difficile che gestire una cartoleria: difficilissimo, quasi impossibile, è conquistare la carica, ma se possiedi tutte le cattive qualità per procurarti i necessari appoggi e le indispensabili dipendenze reciproche e alla fine ci riesci, il lavoro diventa poi, fortune e sfortune a parte, anche per il vantaggio offerto da appoggi e dipendenze, quasi una sinecura, soprattutto per gente così scafata da coronare con successo l'impresa titanica e abbastanza megalomane da servirsi in modo spudorato dei vantaggi di cui dispone." Ambasciator non porta pena.
L'idealità fascista e quella comunista (ugualmente nobili o ignobili se si prescinde dall'ingegneria istituzionale e di come vi rispondono fatti ed eventi), si trasformano nel riferimento variamente negativo che i termini fascismo e comunismo oggi perlopiù sottintendono: avviene quasi in automatico per le rigidità che le due concezioni, antitetiche tra loro ma solo in astratto, presentano rispetto alle complicazioni delle società tecnologiche avanzate.
Il liberalismo quasi esclusivamente economico si tramuta ineluttabilmente, per dinamiche intrinseche ai processi produttivi e distributivi, in liberismo economicista e oligarchico.
Il socialismo degenera in 'sinistra sociale' ovvero in 'socialità sinistra', dato che millanta come squisitezze antropologiche tratti comportamentali che appartengono al novero di un assistenzialismo settario che, generalizzato al di fuori dell'impalcatura capitalista, non starebbe in piedi.
Nel culto della volontà, un tempo tipico cavallo di battaglia della destra sociale, ora ingentilito e reso trasversale nel segno di quell'epica solidarista che suggerisce ai giovani come fare della propria vita (e del proprio lavoro) un dono, liberismo e 'sinistra sociale' tendono a convergere verso equilibri di non belligeranza attivando criteri di spartizione per aree d'influenza secondo cui il liberismo fa il bello e il cattivo tempo su destini individuali vieppiù sottratti alle canoniche protezioni civili e previdenziali e la sinistra si crea la propria variegata rete di mutuo soccorso incistata nella pubblica amministrazione attraverso i nervi e i canali sanguigni di organismi associativi che dilatano e smembrano il modello sindacale in concomitanza con lo sfrangiarsi dell'antico 'proletariato' in ceti molto più mobili, caotici e indefinibili.
La macchina clericale, che nei bei secoli andati, lucrava su lasciapassare, permessi d'immunità, attestati di clemenza e insomma tutta una polimorfa gamma di 'polizze assicurative' che fungevano da ammortizzatori e lubrificanti nell'ambito di spietate lotte civili e militari, attualmente (modificando poco o punto di una funzione da vigili del fuoco tenuta all'erta da mitologie pauperiste, dogmi sempiterni e soprattutto prebende, lasciti e sovvenzioni) funge da modello organizzativo e fonte ispiratrice a entrambi i rami principali dell'odierna ontologia sociologica: all'oligarchia liberista procura braccia e cervelli, alibi metafisici e garanzie di stabilità controfirmate dalla massima carica dell'Universo, al volontarismo e solidarismo degli 'accorti' trasmette quei giusti e calibrati ingredienti di disciplina e ordine gerarchico senza il cui apporto qualsiasi fabbrica di generosità, per quanto circoscritta e di parte, si rivela un'accolta di velleitarismi e una specie di caricatura francescana.
A coronamento del bel quadro generale, il colonialismo e lo sfruttamento di risorse delle nazioni altrui continua imperterrito, ma ora si palesa democraticamente sportivissimo, nel senso che oggi si è colonizzatori, ma domani si può diventare colonizzati.
Il viceversa è rarissimo, però non si può escludere del tutto.
Fabienne De Crecy Parasmoulenche ('Athena') Carattere dolce e intelletto notevole: ascoltiamola.
Trascurando la differenza filosofica tra idealismo in atto con allegata concezione in qualche modo sacra del potere, da un lato, e materialismo scientifico o realismo naturalistico e sociologico, dall'altro, che cosa rimane della tradizionale differenza tra destra e sinistra?
Risposta: niente!
Perlomeno niente di culturalmente ed eticamente rilevante, dato che le lotte tra classi diventano una banalità aneddotica da cronaca quotidiana, valutabile esclusivamente in termini di apporti elettorali, una volta che si è ammesso e anche concesso che la divisione in classi è consustanziale al concetto stesso di società organizzata, ciò che in parte (in una buona, ottima, calibratissima parte) rimarrebbe vero anche sotto l'egida ispiratrice del Progetto Kolibiano.
Anche la lotta di classe, ovvero, con una espressione meno aulica, il conflitto degli interessi, tende a essere eliminata dall'orizzonte degli eventi significativi quando l'unica classe che conta diventa alla fine quella dei dirigenti di vario genere, collocazione e livello: secondo nozioni e criteri avvalorati dalla stessa casta dirigenziale, che detta le norme igieniche dell'espressività comune, non si tratta però di una classe bensì di un ceto professionale di servizio, un ceto che serve sempre, per spontanee inerenze e interessenze virtuose, la comunità e mai e poi mai gli interessi che pesano di più: le buone intenzioni predominano per legge divina, quindi basta e avanza la vigilanza morale di Mamma Chiesa.
Naturalmente il termine 'materialismo' è qui adottato per semplice conformità a una usanza storica, restando implicito che modalità di schematizzazione astratta, quali quelle che attengono necessariamente a processi di ricognizione ipotetico-deduttiva empiricamente condizionata, meriterebbero senz'altro, se la definizione non fosse ormai squalificata, quell'appellativo di 'spirituale' che la fine intelligenza politica si arroga invece in proporzione diretta al suo coinvolgimento nella concretezza fisiologica delle diatribe quotidiane.
Laura Sbattiferro ('Ammonite') Una deliziosa, acutisima, pungente pettegola, una personalità dirompente e vitale, dai molteplici, spesso contraddittori, talenti e interessi, sempre inquieta, ma mai in modo prevaricante e disordinato.
In fondo il presente assetto delle società occidentali, vale a dire l'apparato di frottole funzionali e convenzioni mitologizzate che contribuiscono alla stabilità di un insieme di convivenze antropologiche, farebbe pensare a un optimum autoconsistente e a un equilibrio complessivo difficilmente modificabile se contasse solamente l'interna congruenza tribale del nucleo isolato.
Ovviamente non è così: proprio le connessioni e le interferenze legate all'olismo sistemico della globalizzazione economica, le stesse che hanno legittimato le sperequazioni gerarchiche e quindi una anomala (temporanea) solidità statica delle relazioni, comportano e importano con effetto ritardato inerenze e criticità che fanno dei modelli vigenti costruzioni di carta su fondamenti di sabbia.
Sconosciuto (Trascrizione di Balas Epistimo) Sembra che il burocrate citato in una veste non propriamente immacolata fosse uno dei tanti mosconi che svolazzavano indegnamente attorno alla sublime Idea di Progetto, concupendola in modo spasmodico, anche se represso, come sempre accade ai tecnocrati di complemento che, per la loro indegnità, in mancanza del meglio che potrebbe offrire una forza di concezione per loro irraggiungibile, finiscono per prostrarsi servili davanti alle abnormità ciclopiche (che fanno la cacca quando meno te lo aspetti) generate dagli eccessi spontanei delle proliferanti viscere naturali. L'anonimato del contributo che vi sottoponiamo, sia che dipenda da un ritiro volontario di paternità, sia che consegua da una sorta di damnatio memoriae, forse rimanda a una curiosa diatriba culturale che coinvolse il Movimento in un periodo particolarmente critico e che riguarda la definizione dispregiativa di 'burocrate': è infatti noto come, da un certo punto in poi, una corrente non trascurabile ritenne che, in armonia con i caratteri di strutturazione normativa inerenti al concetto stesso di società progettuale, la visione burocratica, previo opportuno trattamento rigenerativo, non dovesse essere ulteriormente soggetta a vituperi, bensì radicalmente rivalutata a discapito della mitologia autarchica del condottiero energumeno uso a millantare le spinte creative soltanto per sostituirvi quanto prima i propri arbìtri e capricci.
Come mai il solito burocrate bigarré de merde di qualche organismo o commissione internazionale di ovvia e automatica ispirazione tecnocratico-liberista, se la prende con il 'populismo' solo quando si manifesta scontento e protestatario e nulla ha da ridire invece verso il populismo della stupidità e della faciloneria, il populismo sprovveduto e arrendevole della superstizione e dell'ignoranza, il populismo che detesta la critica intellettuale e coltiva mitologie arcaiche e luoghi comuni assurdi?
Quando si tratta di vendere merci o di comprare voti il tecno-burocrate non ha nulla da obbiettare se si conquistano le simpatie del popolo populista vellicandone le inclinazioni populiste, sottintendendo che il popolo populista non ha nessuna necessità di progredire culturalmente, è sufficiente che rimanga docile e collaborativo, così s'innesca quel circolo virtuoso autocatalitico della pace sociale che è un circolo vizioso autocatalitico della decadenza culturale.
Purtroppo per lui, il buro-tecnocrate bdm non tiene conto che il popolo populista non è il ricetto della beata e ingenua idiozia, ma (comprensibilmente e in perfetta corrispondenza con il dinamismo egoista delle classi agiate) una massa amorale, opportunistica, machiavellica che, con una incidenza crescente che è già superiore al 50%, comincia a pensare di essersi messa in buca da sola e a cercare qualche via di uscita non affibbiata d'imperio: è questa resipiscenza che il burocrate bigarré de merde rifiuta, giammai i prodotti storici deteriori del populismo, per esempio il clericalismo abnorme ed eccessivo e i fenomeni patologici (che a quello quasi necessariamente e comunque statisticamente si correlano) di una gigantesca corruzione e una criminalità fuori controllo.
Perché il burocrate bigarré de merde, che rappresenta una ideologia critica e scientificamente avveduta (anti populista!), non rivela, per esempio, a un popolo populista, che egli stesso ritiene che abbia il cervello intasato dagli effluvi della pancia e quindi non possa arrivarci da solo, che per una mente critica e scientificamente avveduta (anti populista!) è semplicemente demenziale affondare per la zavorra assassina di un abnorme debito pubblico che potrebbe essere risolto dall'oggi al domani, senza vessare il popolo populista?
Come? Semplicemente espropriando o tassando come si deve i beni ecclesiastici e/o riassorbendo l'enorme evasione e tutta l'economia sommersa e criminale mediante la moneta elettronica e l'abolizione di qualsiasi proibizionismo su droga, prostituzione e simili.
Perché il buro-tecnocrate o tecno-burocrate, in ogni modo bigarré de merde, non lo dice? Forse perché il populismo clericale e delinquenziale conviene ai mandanti del BT o TB bdm (critico e scientificamente avveduto) mentre il populismo di protesta no?
Urukazi Tsumotu ('Zadok') Guidò una clamorosa, fulminea sortita, una vera impresa da sette samurai, al cuore del potere centrale, ma non riuscì a trovarlo perché non esisteva più. Cercò il cervello, ma non esisteva più neppure quello, per cui lui e la sua squadra se ne tornarono a casa senza gloria e con lo scorno ulteriore di non essere riusciti nemmeno ad allarmare chi si era già portato a casa le frattaglie che ancora valevano qualcosa.
E' noto che i matrimoni che manifestano una resistenza maggiore avvengono tra persone che all'istituto laico o religioso del matrimonio non credono affatto.
La spiegazione è presto detta: mentre quelli infervorati da un fiero spirito civico e dal fuoco sacro dell'etica impersonale sposano una moglie o un marito, gli scettici o i realisti sposano una donna o un uomo.
Vivere tutta una vita accanto a una donna o a un uomo è difficile, ma non proibitivo, vivere accanto a una moglie o a un marito è quasi impossibile.
L'esempio mi serve per introdurre in modo ameno, quasi una barzelletta o uno sketch, un analogo paradosso di cui sarà analogamente chiarita la natura di quasi ovvietà.
E' noto che le società migliori sono quelle totalmente prive di afflato eroico, spirito mistico e intensa sensibilità etica e metafisica (non sto citando Brecht, o forse sì, ma fa lo stesso).
La spiegazione è presto detta: afflato mistico e spirito eccetera si connettono alla volontà o alla necessità di richiedere al cittadino abnegazione e disponibilità al sacrificio quindi si pongono in proporzione inversa alla qualità della vita presente o futura.
L'Italia, come al solito, fornisce 'strane' esemplificazioni di uno 'strano' bestiario: è difficile infatti stabilire se era meglio quando i cosiddetti furbetti del cartellino spadroneggiavano per la loro valenza simbolica di nemici del padrone o è meglio adesso che vengono messi alla berlina, licenziati o quasi imprigionati.
Ci limiteremo a osservare che è comunque 'strano' vedere molti pensionati che l'hanno fatta franca indignarsi con i loro tardi e sfortunati epigoni, anche se si comprende come, dal loro punto di vista, sentano di avere agito per un nobile ideale, mentre oggi sono costretti a constatare il menefreghismo brutale di gente che agisce sotto stimoli di puro egoismo individualistico.
Zadok
Nelle società che almeno si sforzano di essere laiche come la costituzione prevede un prelato di alto o altissimo grado riceve un trattamento giornalistico calibrato sulla media della considerazione generale, che va ripartita tra gli adepti della chiesa di pertinenza e la folla variamente modulata di agnostici, scettici e atei.
Quindi nelle società che almeno si sforzano di essere laiche come la costituzione prevede, un prelato di alto o altissimo grado ha diritto a un livello di deferenza giornalistica abbastanza simile a quello del politico di alto o altissimo grado, il quale ha diritto a un formale rispetto e tutto quello che ottiene di più lo deve alle sue possibilità di condizionare i vari organi editoriali.
Nelle società che nemmeno si sforzano di apparire laiche come la costituzione prevede, un prelato di alto o altissimo grado riceve un livello di deferenza giornalistica così elevato da indurre veramente a pensare che il prelato di alto o altissimo grado rappresenti effettivamente i disposti e le intenzioni del Padrone Supremo di tutto l'universo e che nell'esistenza di tali disposti e intenzioni il prelato di alto o altissimo grado creda veramente.
Nelle società che nemmeno si sforzano di apparire laiche come la costituzione prevede, un prelato di alto e altissimo grado riceve dunque la deferenza giornalistica che merita chi ritiene che pace, giustizia, prosperità ricadranno copiosi su tutti se si rispetta la volontà del Padrone Supremo di tutto l'universo, mentre chi sostiene che pace, giustizia, prosperità debbano conseguire da una costruzione consapevole e meditata di intelletti umani opportunamente organizzati riceve la riprovazione e lo scherno giornalistici che giustamente si riservano ai fantasiosi vanesi riempiti di sogni e di chiacchiere.
Omonadio Longimanikus ('Arcano') Per tutta la vita lottò contro gli alter ego e i fantasmi che la sua temerarietà di esploratore nel rasentare le soglie della follia gli scatenava contro. Alla fine ne uscì parziale vincitore venendo a patti con il lato oscuro della Forza, da cui ottenne il permesso d'instaurare una forma creativa e singolare di bellissima follia.
I Padri prescrivevano una sorta di medicina omeopatica contro la regia psicotica che imperava e purtroppo continua a imperare scandendo la coreografia assurda di un corpo sociale affetto da schizofrenia cinetica: il tronco che abbozza gli ampi e lenti gesti di una grave saggezza millenaria e le gambe che si affannano invece ad assecondare le cadenze frenetiche imposte con la frusta dai domatori del progresso tecnologico.
Non esiste differenza ideologica attiva e condizionante che non rappresenti anche una frattura antropologica profonda e quando una contestazione seria a un sistema malato non esiste, la generalità e uniformità dell'estensione morbosa implica che il prossimo evento sicuro sarà il crollo rovinoso del sistema.
Esistono infinite coppie di estremi contrapposti nel circolo ermeneutico: afoso chiacchiericcio aggressivo e fresca o tiepida declamazione ironica, ne rappresentano una.
Quando l'opinione pubblica si riduce a un accavallarsi di lingue babeliche (sfoggio pirotecnico che frastorna e illude circa la natura ed estensione della libertà effettivamente concessa), il frastuono prevale e spesso raggiunge le note acutissime dell'incanto etico-religioso.
Heron Shenatir Allowani ('L'ispettore del tempio') Raccontava che, già avviato a morte rapida e certa a causa di un tumore irreversibile diagnosticato con assoluta certezza, si ritrovò miracolosamente guarito dopo un mese trascorso in una specie di rapimento estatico nel quale la sua mente, impegnata in una lettura convulsa che ricordava come una specie di vertiginoso risucchio, fu trasfigurata dall'opera omnia del Sommo Anonimo.
Perché dispiegare una lussuriosa e cangiante cortina di capziose premesse teoriche davanti alla 'Idea Adamantina del Progetto'? Non rischia di distogliere la già flebile e ondivaga attenzione popolare dal rutilante e soverchiante obbiettivo?
Il rutilante e soverchiante obbiettivo in realtà è un gigantesco uovo di Colombo e un imperativo taglio di nodo gordiano da cui i controllori dell'informazione vogliono distrarre il pubblico sovrano per ragioni di mera, stolida, mercenaria convenienza, mentre la cortina lussuriosa e cangiante non è che un filtro preventivo inteso a neutralizzare le capziose e speciose obbiezioni che vengono seminate ad arte quando si tratta di confondere alla vista una tipologia risolutiva che, nella sua naturalistica ovvietà, può essere ignorata e trascurata soltanto per il prevalere del bieco, cinico, volgare interesse.
Non è possibile filtrare il male senza strumenti che si attaglino alle sue dimensioni e alla sua morfologia: precisamente in questo consiste il carattere precipuo di quella che i nostri più celebri esegeti hanno nominato 'Omeopatia dei Padri'.
Se la ricetta per guarire mali millenari risulta tecnicamente difficile come ogni costruzione sensata, ma anche scontata e perfino lapalissiana nelle generalità essenziali del proprio disegno strategico, la filosofia giusta, la filosofia che rende, non può che consistere nell'abbattimento razionale di tutte le false credenze, opportunisticamente sponsorizzate, che su quella filosofia proliferano come una gigantesca massa parassitica che ne soffoca e stravolge i connotati.
Un sistema di mentalità acquisite, un inviluppo di equivoci convenzionali costituiti in un'architettura teoretica, non sono attaccabili dalla mera logica degli argomenti, richiedono la sobillazione dell'intero tessuto dialettico, l'evasione dagli interdetti sociali e dall'eugenetica discorsiva.
Estrella Sherazadi ('Dolce Pleroma') Fu definita 'stella polare delle scienze kolibiane', ma rivestì nondimeno ruoli amministrativi e organizzativi, né disdegnò di buttarsi nella mischia quando le circostanze lo richiesero e fece addirittura a cazzotti con un rozzo e brutale infedele che, pur essendo il doppio di lei, dopo quell'incontro dovette rinunciare a qualche penna del suo borioso abito da buffone.
Più un messaggio trasmette informazione, meno risulta significativo per le motivazioni soggettive del lettore.
Un testo di pura enunciazione descrittiva persegue o un intrattenimento di tipo romanzesco o un resoconto tecnico per fini particolari: non lascia residui al di là del piacere ludico o dell'utilità pragmatica.
Le caratteristiche timbriche, ritmiche, armoniche di un messaggio (dichiarative, espressive, vocative...) si modulano in relazione agli scopi e si complicano in rapporto diretto con le ambiguità e gli enigmi della scena referenziale.
Intanto, la curva a parabola rovesciata che esprime il rapporto tra efficienza e grado di attivazione nell'esecuzione di un compito rappresenta un diagramma di psicologia sperimentale tra i più interessanti in assoluto: con l'aumento degli stimoli e del coinvolgimento, il risultato dapprima migliora fortemente, poi rallenta, raggiunge un massimo, decresce e poi precipita.
Il grado di fervore motivazionale deve posizionarsi a un alto livello per prestazioni facili e ripetitive, rimanere molto più contenuto se l'operazione esige una complessa sequenza di scelte.
Dopo di che, considerando come le forme comunicative prevalenti derivino dalla specifica manipolazione del consenso di cui la struttura economica necessita, siamo pronti a tirare le conclusioni
Primo: in una società elitaria il popolo amorfo (che può benissimo coincidere con un 'corpo elettorale'), per rimanere anodino e manipolabile, deve essere continuamente infuso di alti ideali.
Secondo: il funzionamento asettico della macchina tecnocratica richiede processi di massificazione indissolubilmente connessi alla necessità di sostenere gli indici economici che ne costituiscono la benzina.
Terzo: la massificazione determina spinte distruttive e degenerative che risultano inevitabilmente e drasticamente preponderanti rispetto ai lenitivi delle sofisticazioni tecnico-scientifiche che la selezione economica produce, così le trombe dell'epica risuonano dalla vetta dei grattacieli avveniristici sulle preponderanti rovine della decadenza entropica.
Marvellous Waddingham ('Morfina') Avendo vissuto anni contrassegnati da moderato e locale prestigio e anni di relativa disfatta, si accorse che, dovendo scegliere, avrebbe rivissuto gli anni della disfatta e non quelli del prestigio, dopodiché concepì il Progetto come mezzo per liberare l'umanità dalla dannazione del successo e godersi in pace il frutto acidulo del fallimento. Ossessionato dall'odio per il fanatismo degli ambiziosi, gongolava sadicamente ogni volta che quelli raggiungevano vertici spropositati rispetto a una miserabile natura di povero cristo debole e mortale.
In una società effettivamente evoluta l'impegno costante in una complessità attiva, reso fluido da forme opportune di controllo fisiologico ed emotivo (che possono essere ottenute soltanto attraverso una filiera educativa che attualmente assume le forme della fantascienza purissima) prevarrebbe sul trambusto della continua eccitazione energetica imposta dai regimi di concorrenza distorta e dall'allucinante dispersione al contempo anarchica e marziale del liberismo gerarchico.
Esso si basa sulla capacità dei capi, provvisti di una inossidabile imperturbabilità, di suscitare una frenesia moltiplicativa che intende simulare la proliferazione inarrestabile della creatività naturale.
Nonostante il motivo ispiratore, che trae linfa da un confessionalismo di origine tribale ancora condizionato dai miti di fertilità e della Grande Madre, i circuiti avviati, rispetto a una scala dei tempi sufficientemente estesa, si rivelano privi di qualsiasi effetto virtuoso, automatismo omeostatico o finezza cibernetica, finendo in preda a instabilità e scompensi controllabili soltanto attraverso interventi autoritari che a loro volta si assoggettano a instabilità e scompensi privi di autoregolazione interna.
Alla fine, le chicche di alta tecnologia, come elefanti bianchi in un deserto basaltico, ben lungi dall'incastonarsi in qualità di gemme di coscienza superiore nel variopinto parco delle meraviglie biologiche, si rivelano condensazioni organizzative che, come ogni altro comprimario dello sterminato campo di battaglia, lottano per attingere da un serbatoio comune a somma minore di zero quantità sempre più ingenti di energia da dissipare in processi di razionalità forzosa la cui mobilità e continua inquietudine induce, al netto di somme e sottrazioni, una mole crescente di disordine.
Una casistica di gusti e interessi specifici collaborano allo sfacelo, mentre per ora abbozza a un rimedio blando soltanto uno stato di crisi che appare come un destino inconscio da trauma rimosso, un obbiettivo di conversione perseguito con totale mancanza di consapevolezza riflessiva.
Areta Sodeman Siswanto ('Santo eccesso') Propugnatore della svolta dogmatica e clericale in base alle seguenti argomentazioni (limitate ovviamente alle discussioni interne di circoli ristretti): la gente sa e capisce poco o niente delle dinamiche complesse che esulano da esperienze personali e coinvolgimenti professionali, né le interessa saperne o capirne di più del poco che sa e capisce. La gente aderisce a una causa o a un ideale attraverso atti di fiducia che ritiene salutari e liberatori e tali risultano in effetti se conferiscono rilassamento e sicurezza. La fede religiosa consiste dunque in niente altro di diverso rispetto a una convenzione terapeutica in cui non interviene alcunché di profondo o elaborato: è insomma un placebo di ordine generale e superiore. Il grosso della gente non contribuirà mai attivamente all'edificazione del Progetto se non attraverso un sostegno generico e una predisposizione emotiva favorevole. Poiché il Progetto, alla fin fine, comporta componenti non eliminabili di convenzione e scelta arbitraria, conti alla mano, mistificazioni metafisiche che trasformino il panteismo tra virgolette in panteismo effettivo (se ilozoista o animista o teleologico si valuterà poi) e successivamente, secondo i meccanismi tipici che presiedono all'escalation monoteista, in cosciente volontà deliberativa di ordine superiore (Dio), possono solo arrecare bene a una causa il cui obbiettivo fondamentale è una costruzione che deve essere sì armonica e razionale, ma anche, per ovvie esigenze di stabilità e solidità, venerata e riverita come conseguenza di una necessità inderogabile.
Vi siete mai domandati perché i Padri decisero di stigmatizzare tutto un complesso di cosiddette qualità umane, rischiando di apparire come i demonizzatori dell'umanità molto più che i censori dei vizi e delle infingardaggini dei vertici gerarchici e delle egemonie storicamente determinate?
I detrattori che hanno tirato in ballo un patologico complesso di superiorità, hanno avuto buon gioco nell'enumerare tratti biografici e caratteristiche psicologiche e comportamentali che, per essi, irrimediabilmente avvinti a categorizzazioni vecchie e inconcludenti, ricadono nella mera eccentricità statistica, e per noi, fedeli devotissimi, codificano la testimonianza di un balzo delle più genuine virtualità antropologiche verso l'ineffabile sublime dell'eccellenza assoluta.
Volendo limitarci ai riscontri dottrinali più efficacemente produttivi ai fini di un costruttivismo collegiale e liberatorio, noi diciamo semplicemente questo: i Padri consideravano imperativo ribellarsi al manicheismo metafisico proprio dell'opposizione fisiologicamente determinata, quell'identificazione semantica della bontà e della giustizia con la mancanza di potere che condivide la responsabilità dei disastri storici insieme al suo riflesso complementare e simmetrico: considerare il potere ipso facto come una spia di un consenso divino, sempre operante a prescindere da come lo si intenda in modo esplicito quanto nebuloso.
Che il potere buono provenga sempre ed esclusivamente da regole buone e che le regole buone inevitabilmente si inventano e si ottimizzano in modo analogo a come si inventa e si ottimizza un aeroplano o una centrale elettrica: ecco la proposizione che i padri intendevano affermare a fondamenta di tutto il loro sistema.
Che apparisse invece agli esseri umani (alla maggioranza) come un'assurdità e quasi una bestemmia: qui i Padri coglievano la stortura non superficiale, ma anzi molto profonda, che occorreva correggere preliminarmente se si intendeva accedere davvero e non per finta a qualsiasi ipotesi di salvezza inaugurando un nuovo stadio, storico e insieme evoluzionistico.
Lishong Geroboamo ('Nabuccolo') Il mordace fustigatore dei 'mummìfici' e degli 'ultraminus paleoplus', spina nel fianco del 'Mosè a cui sono state inviate tavole scritte nella lingua di un altro pianeta'.
I Padri possedevano il dono della preveggenza?
Lo scientismo che informa la religiosità kolibiana ci impedisce di considerare plausibile l'assunto se non dopo i necessari emendamenti e stravolgimenti interpretativi.
Esistono approcci alle cose del mondo che le rendono vibranti, significative e perspicue e altri che le consegnano a un regime di passivo mutismo o a una verbigerazione caotica.
Di sicuro l'idealismo implicito, dissimulato, perfino codardo che informa la dominazione del materialismo antropocentrico non facilita una comprensione adeguata del linguaggio della natura.
Se un organismo umano, nella sua generalità, viene considerato uno spicchio di universo dove si concentra una enorme mole di correlazioni e dinamismi e dove s'intreccia una enorme mole di entità separabili almeno concettualmente, una enorme mole di tasselli problematici connessi alle più diverse aree fenomeniche cominciano a muoversi verso significative promesse d'integrità e coerenza, mai mantenute fino in fondo per ostacoli e impedimenti la cui ammissibilità si presenta comunque anch'essa nel segno di una nuova chiarificazione.
Chissà perché, questa semplice e naturale visione delle cose a un sacco di gente non piace, si preferisce assegnare al fenomeno umano (nella sua generalità) un territorio privilegiato ed esclusivo che non solo gode di franchigie assurde nei confronti di tutto ciò che non vi appartiene eppure lo ha generato e lo contiene, ma addirittura si ritrova insignito di poteri che definire magici non è per niente esagerato.
Ciò deriva da una tradizione culturale che impone convenzionali artefatti e modelli ermeneutici e prescrittivi ormai definitivamente scaduti: più utili che dannosi (forse) in ambiti locali abbastanza ristretti da convalidare pragmaticamente falsità tatticamente produttive che non cozzano contro una realtà esterna ancora controllabile e addomesticabile; irrimediabilmente inadeguati, invece, in uno scenario esteso all'intero globo terrestre da cui nessuna società riesce a isolarsi, le cui remote propaggini diventano anzi sempre più influenti e decisive.
In tali condizioni, un contesto umano, dove il termine in corsivo assume tutte le intenerite sfumature etiche e sentimentali che i supposti detentori vi annettono arbitrariamente, risulta una pura astrazione mitologica, dato che il termine 'umano' si carica ora di connotati problematici e sinistri legati a una causalità dilatata nei termini trascendenti di un destino impersonale e inesorabile.
Anan Protopappas ('Zelota') Rigorista inflessibile, considerò sempre una disgrazia l'adesione indiscriminata al Movimento di masse sempre più ingenti ed entusiaste, al punto che predisse la percentuale di popolarità varcata la quale ai veri seguaci del Progetto sarebbe stato conveniente dimettersi e iscriversi a qualunque differenziazione partitica del 'Super-partito del pasticcio e dell'inazione', dato che a quel punto il kolibianesimo vi si sarebbe omologato in pieno diventando, proprio per il suo ribollente coacervo, la corrente meno promettente di tutti in vista di una rivoluzione effettiva. In sostituzione di un allargamento della base dei simpatizzanti e delle conseguenti deviazioni, promulgò la cosiddetta 'teoria dell'incanto subliminale' ovvero un proselitismo camuffato e strisciante che avrebbe dovuto segretamente coinvolgere gli elementi migliori delle varie compagini, le quali non potevano essere completamente composte da sprovveduti storditi e arraffoni.
A chi si rivolgevano i Padri, vox clamantis in deserto, visto e considerato che: a) non esisteva un pubblico sufficientemente eclettico da cogliere la bellezza e la pregnanza del loro messaggio;
b) la cultura sopravviveva ormai soltanto come divisione del lavoro e patto di non belligeranza tra predicatori etico-politici e titolari di specializzazione disciplinare;
b2) i primi, chierici con vocazione terapeutica e persuasiva, ammannivano lezioncine di buona democrazia nei modi e nei toni della letteratura giornalistica, i secondi, quando uscivano dalla torre d'avorio, divulgavano arcane meraviglie per un pubblico avido di rivelazioni esoteriche da assumere a scatola chiusa;
c) l'esistenza di ogni essere umano, a qualsiasi livello della scala gerarchica e mentale, si svolgeva ormai all'insegna del relativismo più assoluto e dell'opportunismo pratico e individualista;
c2) a contrastare i timori che automaticamente l'istinto di sopravvivenza connette a ogni visione ristretta e soggettiva, si ergeva il contraltare di un idealismo istituzionale, culturalmente egemone, fondato sulla fiducia nelle virtù demiurgiche e taumaturgiche del pensiero umano, glorificato all'insegna di credi religiosi, che a parte una pletora ornamentale di stravaganze superficiali, condividevano l'oggetto fondamentale del culto, ovvero l'umanità deificata;
d) il concetto di analisi integrale e massimamente comprensiva di una condizione esistenziale insieme biologica e sociale si trovava ormai accantonato nel deposito dei vecchi cimeli ammuffiti insieme a qualsiasi visione di ristrutturazione radicale e riscrittura ex novo dei destini storici e dei verdetti già emessi di giurisdizione economica e politica;
e) il globalismo veniva letto come congiuntura definitiva intervenuta a sancire l'impossibilità di un protagonismo razionale seppellito ormai sotto un malcelato senso di liberazione dagli assilli della responsabilità;
e2) le classi dirigenti si ritenevano sollevate dagli obblighi di predisporre un minimo di garanzie sostanziali grazie al ritorno in scena dell'emergenza estrema e brutale;
e3) l'allegoria gratificante della grande impresa caritatevole, il boato di pura appariscenza dell'etica ecumenica e millenaria calpestava la prassi della buona amministrazione e la puntigliosa costruzione delle regole;
f) dopo che l'economia aveva assunto le sembianze del golem gigante, plenipotenziario di una meccanica panantropica, si poteva considerare solidale e democratico anche un apparato che quotava i cittadini in base alla forza economica, valutandone quindi alcuni migliaia e anche milioni di volte più di altri;
g) tale sistema rifiutava l'eutanasia perché la vita era reputata un bene talmente prezioso da annullare tutte le altre differenze ed era concessa in usufrutto al singolo individuo per concessione divina gestita dai procuratori clericali, curiosa osservazione di costume che può apparire superflua a chi non vi rinviene un embrione dei più importanti ingranaggi tipici attraverso cui l'etica, da strumento organico e procedurale di ricerca e tutela di un bene comune, diventa mistificazione che, espropriando, persuade e controlla.
Tutto ciò avveniva ovviamente in base a quelle sentenze di maggioranza che promuovono opinioni e punti di vista scomodi al livello dei tradizionali e fisiologici capisaldi del comune sentire conformista soltanto quando il gradimento relativo supera la soglia del 50%.
Solo allora viene concesso il visto minimale di accettabilità e l'esenzione dall'obbligo di ripugnanza: prima, non se ne parla nemmeno, si trattasse anche del 49,999999999999999999%.
Ebbene come poteva, in questi chiari di luna subissati da trilli e gorgheggi degli usignoli servili, la voce stentorea dei padri resistere imperterrita sui suoi severi registri profetici?
Ricordiamoci le parole del Sommo Anonimo: "Adorare Dio, il vero Dio, è sempre un atto che si ripaga da sé, non occorre che sia remunerato dalla bigiotteria del riconoscimento e del successo, così pesante e fastidiosa da indossare.
La luce della Verità tanto più ritempra le forze fisiche e psichiche quanto più è scevra dai rumori e dalla confusione delle folle, soprattutto quelle che si collezionano in seno individui unici e inimitabili incubati nelle teche elettroniche della proliferazione clonale".
La Verità basta a se stessa, si può perfino permettere di essere antipatica, la menzogna necessita della falsa simpatia degli ipocriti che prendono con la mano dietro la schiena il doppio o il triplo o il decuplo di quello che hanno pubblicamente donato con l'altra spargendo soprattutto benevolenza e sorrisi.
La Verità si può costringere all'indigenza e finanche all'inedia, ma o sarà riscattata da quel Progetto che liberando l'uomo dalle costrizioni materiali lo ricondurrà pacificato a quel pastore dell'Essere che è il pensiero profondo, o trionferà inarrivabile sopra le rovine fumanti dell'immane suicidio collettivo.
Mishneh Fazekas ('Maccheronico') Dapprima oltranzista, divenne esponente di spicco della fazione favorevole alla teoria dei due stati complementari o società separate connesse a un unico stato, secondo le diverse impostazioni: fautore cioè di una continuazione del vecchio sistema liberista accanto a una popolazione abilitata a scegliere una propria organizzazione neo-comunista adeguatamente integrata con i cosiddetti conformisti. Elaborando insieme alla sua scuola vari modelli d'interazione cooperante, mise grande cura nel rintuzzare le critiche in base alle quali, in un tipo di organizzazione bipolare, o il conformismo liberista avrebbe ben presto ghettizzato gli elementi esterni a prescindere dalla loro entità, corrompendo i responsabili direttivi e ricattando gli altri fino a ridurli a fonte di manodopera svalutata, oppure i neocom, raggiunta una preponderanza numerica, avrebbero cercato d'inglobare gli esterni attraverso un processo di fagocitazione analogo alle vecchie forme di prevaricazione rivoluzionaria o egemonia livellatrice, ingenerando disordini e dissidi irriducibili, destinati a sfociare nella solita svolta autoritaria. Per quanto ingegnose e spesso accattivanti, le sue prese di posizioni si dimostrarono sempre vulnerabili alle obbiezioni dell'ala più ambientalista, che ebbe spesso buon gioco nel dimostrare come le sue concezioni non apportavano spunti migliorativi all'ecologia planetaria e agli sviluppi climatici e addirittura, per alcuni aspetti, rischiavano di rivelarsi peggiorative.
Il problema strategico fondamentale che si trovarono ad affrontare tutti i grandi Patriarchi del Movimento possiamo sintetizzarlo così: se le forze egemoni interessate allo status quo tengono saldamente in pugno le redini della società e non possono essere seriamente condizionate da una probabilità del 10% circa (da qui alla fine delle loro esistenze) di apocalisse indeterminata, stabilita con metodi non unanimemente accettati, se inoltre le uniche asserzioni capitali che contano, quelle della religione e della scienza, si trovano sotto il loro stretto e diretto controllo, che terreno culturale si può scegliere o inventare per posizionarsi in una guerra di logoramento teoretico che non sia già decisa in partenza dal bilancio delle forze in campo?
Per inciso osserviamo che, nonostante esistano obblighi di correttezza minimale e contrazione di debiti morali non diversamente estinguibili che da un decisivo cambio di rotta, non li proponiamo neppure quali elementi basilari di convinzione, non per crudeltà o depravazione di questo o quel ceto, che tale rimarrebbe anche con un ricambio completo dei protagonisti, ma per i disposti inesorabili dei macchinismi sistemici.
Obblighi e debiti riguardano naturalmente le generazioni future e quelle più giovani verosimilmente condannate, in prevalenza, a un avvenire di precarietà e assai arduo mantenimento di posizioni già acquisite alla nascita, il cui dono rischia di diventare presto un handicap e una colpa.
La soluzione adottata risuonò solenne nel documento riassuntivo del Secondo Congresso Internazionale: la religione della Ovvia Verità surrettiziamente negata ovvero il panteismo non teleologico del determinismo scientifico integrale, temperie ontologica ed esistenziale che concede all'umanità nel suo complesso un solo tipo di libero arbitrio, quello che consegue dalla messa in campo di tutte le facoltà razionali già dispiegate nell'impresa scientifica ed economica, concentrate però sulla costruzione del progetto unificato globale inteso come indirizzamento, regolazione e controllo di ogni singola iniziativa nell'ottica del bene comune.
Naturalmente, benché masse adoranti, a un certo punto, superato un enigmatico valore di soglia, cominciassero ad affluire ingrossando le schiere dei devoti e ancora oggi si convertono copiose, non si trattava di creare una nuova religione, quanto di sbaragliare l'alleanza, costituita sotto l'egida dell'economicismo autoritario, tra la deriva relativistica d'élite e il fideismo dogmatico plebeo, stabilendo il principio che, contro l'ircocervo del conseguente spiritualismo pseudo-hegeliano, onnipresente anche se quasi mai dichiarato, Verità eterne molto più plausibili di quelle comunemente ammesse potevano essere invocate dall'oggi al domani in perfetta contrapposizione a schemi millenari furbescamente o convenzionalmente o supinamente accettati.
Insomma, seguendo la metodologia quasi elementare di prendere alla lettera truismi tenuti in quarantena secondo il principio del divide et impera, ogni parziale riconoscimento dei quali si doveva severamente limitare a un proprio specifico e vigilato recinto sotto la premessa obbligatoria dell'improponibilità di ogni sintesi d'insieme, per dirla con la vecchia favola i re si ritrovavano nudi in mezzo alla strada e nonostante tutte le piaggerie che continuavano ad accompagnarli apparivano tutt'altro che belli.
Ashdod Ianneo Kelawang ('Decapoli') Si oppose alla svolta parlamentare, rivendicando il carattere profetico della predicazione kolibiana e insistendo che il suo crisma qualificante e duraturo doveva vertere su un costante richiamo alle manifestazioni della volontà di Dio, a prescindere da come ciascuno potesse intendere la parola 'Dio': che la intendesse come coscienza e volontà diretta a uno scopo o come insieme dei combinati consequenziali della 'Macchina Assoluta', alla fine non rivestiva alcuna importanza in ordine alla visione di quanto il destino andava preparando.
Una società perfetta è un concetto sospetto, una società ottimale è un concetto ben fatto.
In natura, non esiste niente che non sia ottimale; ciò che non è ottimale non nasce o si estingue rapidamente, ma la natura ha un suo metodo che l'umanità non condivide e anzi avversa.
Ciò che la storia umana può realizzare e di fatto realizza è l'ottimalità rispetto a interessi specifici di caste e organismi egemonici (che, in qualche modo, si arrogano sempre diritti di rappresentanza popolare), esattamente il contrario di quanto la biosfera prevede in ordine a una generale resistenza e stabilità.
Gli atti di predazione naturale avvengono per esempio con una incidenza ben calibrata rispetto alla produzione delle entità predate, mentre la predazione economica, interna ed esterna, attuata a vari gradi e livelli da homo ss, spadroneggia senza alcun limite di autoregolazione intrinseca (come dimostrano gli incredibili, assurdi sbilanciamenti nella distribuzione della ricchezza) e qui dobbiamo parlare di limiti consapevoli e strutturati, non d'insorgenze coattive, omeostatiche o retroattive di un darwinismo sociale che, rispetto al darwinismo naturale, non può contare sulla indispensabile quantità e varietà di elementi costitutivi in grado di garantirne la stabilità funzionale, nell'ordine ovviamente dei milioni di anni e non dei pochi, pochissimi secoli destinati alla recita umana.
L'umanità in sostanza getta tutte o quasi le proprie specifiche risorse, esorbitanti rispetto alla media delle prerogative animali, sul piatto di appropriazioni e vantaggi di specie trasferiti quasi integralmente agli esemplari dominanti, mentre dedica poco o nulla delle sue eccezionali capacità all'obbiettivo per cui tali capacità sembrerebbero espressamente indirizzate ovvero alla gestione oculata e consapevole di un mondo che dalle relative incurie, defezioni o incompetenze risulta gravemente destabilizzato.
Hector Balas Zakrinos ('Il mirifico coniglio') In tavole rotonde e dibattiti ufficiali, ogni volta che, ciclicamente e a turno, riceveva la parola, perlopiù ribadiva la stessa tesi con le stesse parole, essendo già preventivamente noto che avrebbe insistito su un punto di primaria importanza finché non ritenesse che gli avversari ne avessero recepito la sostanza e abbozzato almeno un tentativo di replica che entrasse effettivamente nel merito invece di mettersi a parlare d'altro. "Mi accusano di usare il modo più subdolo di fuggire i confronti e rintanarmi in difesa, ma non faccio che sottolineare come la maggior parte delle conversazioni avvengano tra sordi assorti ciascuno nei propri affari, pure esibizioni di retorica cerimoniale, scambi di tessere e certificati ideologici che passano da un visore all'altro facendo solo clic".
Quanto siano stati favoriti i fautori dell'economia di 'libero' mercato (mai l'aggettivo tra virgolette è stato usato in modo più improprio) dalla piega assunta dagli eventi storici, può difficilmente essere oggetto di qualche esagerazione anche volontaria.
Per quanto si possa rifiutare un simile punto di vista in seguito a un pregiudizio favorevole nei confronti dell'assetto peggiore a eccezione di tutti gli altri, dovrebbe risultare lampante a chiunque che l'attuale vischioso coacervo di duttili e opportunistici moralismi formali al servizio di un'architettura di sperequazioni auto-alimentate vive tuttora di rendita lucrando sugli aspetti allegorici e archetipali del nazismo hitleriano e del comunismo sovietico oltre che sui danni procurati dalle dilettantesche forzature di un massimalismo libertario stordito dalle sirene dell'intimismo edonistico e della mitologia ideologica.
Che nel modello fascista o comunista di assetto statale, archiviato ormai con tanto di apposizione di sigilli satanici difficilmente emendabili, siano intervenuti fattori antropologici e di patologia psichiatrica che, con buona pace di molti geometri della storiografia, poco hanno a che vedere con le linee effettive d'impianto giurisdizionale, da alcuni è considerato indubbio e da altri una specie di bestemmia.
Osserverò solamente che, se trascuriamo le deviazioni sadiche e psicotiche (che nessuno sa esattamente in che misura siano consustanziali alle dottrine, accidentali o addirittura legate a tare antropologiche di base dell'umanità) e gli aspetti coercitivi legati a feroci lotte di potere sia interne che internazionali, le relative concezioni, per quello che hanno di univoco, a me appaiono sempre più simili, almeno per quanto riguarda la struttura ideale, a quello che l'attuale modello statunitense rivela di essere al posto di quello che dice di essere: se sostituiamo ai ministeri della propaganda e della cultura ideologica le celebri università (dove il ceto medio s'indebita a vita per il miraggio della scalata all'olimpo) e l'intellettualità snob tipo NYT o WP (che poco o nulla ha fatto per rimediare ai costi esorbitanti dei servizi sociali e poco o nulla rende quindi alle masse disagiate), io non vedo una grande differenza tra un sistema di lobby gestite dal potere centrale più militarizzato del mondo e i regimi dispotici del XX secolo, il che sottintende un forte scetticismo riguardo alla valenza attuale dei formalismi elettorali rispetto a contenuti di democrazia sostanziale.
Si può obbiettare che l'architettura generale di sistema conta relativamente se vige un apparato di regole e garanzie a tutela della vitalità e correttezza dei confronti, ma si fa presto a replicare che tali regole e garanzie, se non attengono o attengono sempre di meno a specifiche strutturali, finiscono col dipendere dal benessere medio e quindi si riveleranno molto fragili quando questo declinerà o verrà seriamente minacciato.
Comunque sia (l'ultima questione è qui citata più per motivi polemici che per la sua specifica pertinenza), al kolibiano vero interessa molto di più il fallimento del socialismo reale e quindi, più efficace purtroppo di qualsiasi contestazione teorica, il discredito o, con un francesismo, lo sputtanamento nei fatti che esso continua a rappresentare dell'idea costruttiva e sempre più insostituibile di 'utopia' progettuale e pianificazione economica da proiettare su uno standard globale. Anche se ammettiamo che l'esperimento originale è stato compromesso, oltre che da un ambiente storico-sociale inadeguato, dallo stato prematuro e insufficiente delle tecnologie soprattutto informatiche, quel che è fatto è fatto e le sue conseguenze pesano a tutto vantaggio del conservatorismo prospetticamente irrazionale.
'Libero' mercato, 'utopia' progettuale: su tali virgolette e quello che rappresentano ci sarà moltissimo da lavorare.
Il Mirifico Coniglio
Se i difetti sedimentano e si trasformano in 'valori', se la prevaricazione, in un'accezione puramente furbesca della democrazia, indossa i paramenti dell'etica, la correzione delle abnormità, prima della fondazione del progetto, non può avvenire in modo spersonalizzato e neutrale, non può cioè evitare di dirigersi contro qualcuno e qualcosa, soprattutto contro i riflessi condizionati e le reazioni automatiche, fossilizzati in concrezioni istituzionali, di un'animalità umana enormemente problematica e deviata, quell'animalità che invece costituisce l'obbiettivo idolatrico di un potere che se ne serve come creazione fittizia di un bene comune, assoluto e a prescindere, senza cui perderebbero efficacia le morali della manipolazione civile e della rassegnazione hobbesiana all'inganno.
La palese incongruenza di una persistenza di complessi e influenti organismi teocratici accanto al dominio pratico-operativo della scienza e della tecnica in ogni ambito della vita quotidiana è più che sufficiente, se seriamente analizzato, a comprovare e delucidare l'assunto.
Maccabeus Pommerenke ('Probatico') Teorizzò la prassi dell'obbedienza come massima figura esistenziale insieme al momento dialettico della discussione orientata a uno scopo, cioè la ricerca graduale e collaborativa di esiti razionali capaci di fondare una intesa comune basata sui risultati e non sulle compiacenze narcisiste del puro espletamento di un esercizio sociale. Nella sua concezione, il progresso tecnico-progettuale esigeva l'ancoraggio univoco e definitivo dei nodi di una rete sufficientemente mobile e questi nodi, che Probatico definiva 'capisaldi', potevano garantire la necessaria stabilità soltanto se investiti di quell'atto consapevole e volontario di fiducia a cui Probatico conferì l'appellativo di 'obbedienza socratica'.
Ma insomma, signori compagni, la negatività proclamata dai Padri deve essere considerata atto malevolo e sinistro, come vogliono i volitivi mentitori che spronano all'inazione, o geniale mossa decisiva per superare una impasse già diventata cronica?
La Chiesa Kolibiana ci dà la risposta.
Oh, non perché nelle sue predicazioni e nei suoi testi sacri si preservino preziose verità e sconvolgenti rivelazioni: di quelle noi cerimonieri e seguaci facciamo volentieri a meno in favore e gloria di Monsieur de Lapalisse.
No, la Chiesa Kolibiana espone il teorema dell'avvenire mediante il suo semplice esserci, nell'ergersi solitaria e tetragona di contro alle dottrine sostanzialmente univoche e monocordi, differenti soltanto per quello che serve a spartirsi aree d'influenza e di vantaggio, delle chiese rivali.
La Chiesa Kolibiana esiste e urla a tutte le altre chiese: io sono qua e parlo un linguaggio diverso. Ci fronteggiamo ad armi pressoché paritarie e nessuna può prevalere se non a prezzi altissimi.
E allora? Come la mettiamo?
Chiunque ambisca ancora a usare i lumi dell'intelletto o almeno a cercare di farlo vede adesso chiaramente che l'idea del progetto rimane l'unica soluzione valida e proponibile anche se alle altre chiese non conviene: avvalorerebbe infatti l'idea fondante dell'ispirazione kolibiana e quindi equivarrebbe a una loro capitolazione.
Siamo quindi a un vicolo cieco?
I mirifici Padri ci hanno già suggerito un mirifico escamotage: realizziamo il progetto e poi la chiesa kolibiana si scioglie.
Le altre a quel punto facciano il cacchio che vogliono.
Se il progetto sarà adeguato e cogente e non la solita pezza da piedi riformistica, ogni singolo essere umano a quel punto avrà margini bastevoli e strumenti tecnici adeguati per farsi i propri cacchi impippandosi dei cacchi degli altri.
Saranno dunque restituiti a una libertà circolante e concreta tutti i crismi rivitalizzanti delle sane dinamiche espressive individuali, essendo smascherata la falsa libertà ancella dei moralismi strumentali e tendenziosi, oppressori di quella stessa sfortuna e quello stesso disagio che fingono di salvaguardare almeno quanto sono sterminatori di salute e bellezza.
Ai comunisti liberali kolibiani non interessa la loro chiesa, ma soltanto quel tipo di Progetto liberatore che può essere ottenuto soltanto attraverso uno spirito condiviso di disciplina e obbedienza.
Bill Smit ('Bill') Quasi sconosciuto, comunque perentorio.
Se prima di costruire, è necessario smontare e se il falansterio fatiscente che occupa spazi indispensabili continua a disporre delle credenziali pubbliche di regno millenario, come puoi invocare l'opera santa di demolizione se non ergendoti a santo patriarca e profeta?
D'altra parte, se uno dei più fondamentali torrioni di menzogna proclama l'esistenza reale di una grandezza umana puramente fittizia, che sempre agisce attraverso la forza concreta di astrazioni tradotte nelle maschere teatrali di una grande commedia culturale, a un pubblico avveduto di una generica scena mediatica un autentico riformatore, che li indossi spontaneamente o meno, apparirà, consapevolmente o meno, vestito contemporaneamente con i costumi del santo e del clown.
Tali costumi, un popolo serio (un popolo, cioè, che conserva un minimo di voce in capitolo) li concede spontaneamente soltanto per il gusto di lordarli alla prima occasione, ma spesso i condottieri di popolo più smaliziati sanno come costruire versioni moderne degli abiti di scena: queste soggiogano un popolo trasformato in pubblico spingendolo a 'investimenti libidici' e ciò in proporzione diretta alla incredulità e allo scetticismo con cui nonostante tutto tale pubblico ritiene di schermirsi.
Questo pubblico 'smaliziato', che applaude frenetico a quello a cui non crede, si illude perfino di mostrare condiscendenza verso certe mitologie che 'in fondo al cuore' giudica innocue, stravaganti, simpatiche, quindi chiude generosamente gli occhi su giri vorticosi di affari che è portato istintivamente a considerare come fumo senza arrosto, vento che intossica ma non sfama coloro che reputa volonterosi utopisti che fanno andare la manovella dello spiedo come se fosse una lotteria della fortuna o la pedaliera di un triciclo.
Indossando i paramenti del santo clown senza credenziali di sorta, popolari o elitarie, i Padri si esponevano volontariamente a scomuniche e radiazioni generosamente comminate da tutti, tranne che da quegli individui, forse (per quello che ne sapevano) inesistenti, su cui si poteva contare per le evoluzioni che a loro interessavano.
Randolph Gordon Papez ('Didachè') Possiamo considerarlo, a tutti gli effetti, quello che si definisce 'un grande uomo'.
Il primo mito deleterio da cui l'umanità dovrebbe liberarsi, sgretolando il terreno su cui poggiano tutti gli altri giganti dai piedi di argilla, è quello dei 'grandi uomini'.
Non sono mai esistiti, né mai esisteranno in futuro 'grandi uomini', dato che il concetto porta a presupporre che esistano 'uomini per tutte le stagioni'.
In realtà si può ammettere soltanto il concetto di uomo giusto al momento giusto, valido per una categoria di riferimenti pubblici a cui si deve sbarrare ogni accesso alla dimensione psicologica e privata.
Gli pseudo grandi uomini della storia, quelli che si sono mossi con qualche verosimiglianza verso un modello astratto irraggiungibile, sono casi fortunati di ereditarietà dinastica.
Nessun altro tipo di scalata al potere è compatibile con una traduzione in termini etici del concetto, l'unica che dovrebbe interessare una società sana.
Per il resto, esistono svariati tipi di gigantismo caratteriale a seconda di quali componenti della personalità vengono dilatate in modo più o meno patologico.
Tra le più utili al successo di qualsiasi tipo è perfino inutile ricordare i tratti paranoici sublimati, l'usurpazione dei meriti, volontaria oppure no, e l'abile versatilità nello sfruttare la fatica altrui.
Ambiziosa capacità di lavoro e acuta intelligenza specialistica aiutano molto a scalare le difficoltà di specifici campi disciplinari, ma non si vede proprio quale 'assoluta grandezza' quel tipo di qualità possa mai favorire.
Detto questo, risulta del tutto pletorico mettersi a commentare la 'stranezza' (nel XXI secolo!) di quelle organizzazioni statali che lubrificano i movimenti di penetrazione economica avvalendosi della consulenza di eroi terreni oppure di santi, ovvero di eroi ultraterreni tali che gli eroi terreni non sono neppure degni di lustrare loro le scarpe.
La celebrazione dell'eroe terreno presenta nondimeno aspetti altrettanto sorprendenti, soprattutto quando si concentra su ordinarie e fallibili figure istituzionali osannate da altrettanto ordinarie e fallibili figure istituzionali: è incredibile constatare come queste ultime davvero non si accorgano (o, quando se ne accorgono, pretendono che il popolo non faccia lo stesso), di come in effetti stiano soltanto celebrando se stessi insieme al ruolo che rappresentano.
In sintesi forse banale, la differenza tra 'grande uomo' e maniaco dipende da questioni di gradazione degli ingredienti e bilanciamenti delle fortune, oltre che dalla mutevole rinomanza d'interessi e priorità tipica del periodo temporale e della collocazione spaziale di pertinenza.
Sconosciuto (Mungo Jerris?) Mungo (o Mingo) Jerris non si sa bene chi fosse. Pare che disponesse di una mente eccelsa, un apparato neurale che un'ammiratrice entusiasta definì 'chiquita 10 e lode'.
La condizione del singolo automa biologico molto sofisticato che nasce, si sviluppa, decade e muore modificando la complessità dei circuiti interni nel rispetto di una legislazione cosmica pregressa e in connessione con le sfide e le influenze ambientali che in minima parte contribuisce a sua volta a forgiare (i cosiddetti 'grandi uomini' sono effetti, non cause, non creano, bensì condensano, amplificano e fanno rapprendere e irrigidire il sentire comune), questo microcosmo ecologico che sconfina in un enigma a metà strada tra la brutalità di un dispotismo planetario e l'allegoria di un dramma metafisico, può essere metaforizzato seguendo fili logici e consequenzialità discorsive variegati almeno quanto i propositi e gli obbiettivi che promuovono tesi sempre in una certa misura (minima o massima) arbitrarie e in un'altra (massima o minima) sensate.
Troviamo così, sparse nella Biblioteca di Babele, letture kantiane, hegeliane, marxiste, freudiane, junghiane, lacaniane, bergogliane, berlusconiane, renziane, per citarne, in ordine d'importanza, tre esempi presi da tre diverse tipologie, soltanto nove dei milioni o miliardi esistenti (in base alla ben nota algebra esplosiva degli intrecci combinatori, numeri elevatissimi si raggiungono facilmente variando il paniere degli ingredienti fondamentali, i quali si suddividono già secondo sterminate categorie culturali o etniche o psicologiche o psichiatriche o sentimentali o esistenziali o logiche o disciplinari o psico-ambientali o vattellappesca (vattellappesca?)).
Si tratta alla fine, se si commisura il tutto alla complessione di una pseudo-realtà schiacciata tra i due infiniti pascaliani, di volatili filigrane simili a sottilissimi reticoli di muffa di cui gli uomini non 'grandi', ma 'veri', gli uomini che auscultano e si auscultano, non spaventandosi davanti agli abissi della propria inconsistenza, testimoniano la ridicola insufficienza.
Ahimé, quanto è sbagliato sfuggire al nichilismo ontologico, che rappresenta in fondo l'unica autentica porta di accesso a una sempre vaga e illusoria felicità, per sostituirvi il nichilismo dell'annichilamento nel subisso delle cure materiali, anche se parlare di errore è assolutamente improprio quando ci si riferisce piuttosto a una condanna ineluttabile.
Nel presente stadio dell'evoluzione storica tale condanna non è più ineluttabile e l'assoluzione si chiama 'Progetto'.
Al Progetto i 'grandi uomini' si oppongono per salvaguardare la propria monumentale grandezza di pietra con le corazze di carta velina delle dottrine fasulle.
Sconosciuto (Gianni Pinotti?) Gianni Pinotti era un tipo singolarissimo, capelli rosso vermiglio e barba lunga fino all'ombelico, considerava la barba un simbolo delle miriadi di fili che connettono l'omphalos al Logos e i capelli il risultato di una fiamma apparente che ricadeva inane nei rivoli intrecciati di innumerevoli vermicelli. "Ecco che cosa intendo evitare nelle mie predicazioni: - concludeva - che il burattino dell'autocoscienza rimanga impigliato nella contemplazione ipnotica dei propri fili colorati." Non sappiamo fino a che punto riuscì nel suo intento, ci accontentiamo di rimanere impigliati nelle volute delle sue frasi suadenti.
L'aspetto più curioso, riferito alla quotidianità del vivere, dell'ascesa esponenziale di complessità per il banale accumulo aritmetico di singole entità che poi si rapportano, si collegano o si separano in gruppi diversi che a sua volta si rapportano, si collegano o si separano in gruppi diversi finché l'unità di partenza non si ricostituisce in singola unità di sistema temporaneamente stabile e immutato, intendo il carattere precipuo, insomma, dell'analisi combinatoria applicata ai fatti e agli eventi dell'antropologia ordinaria, tutto ciò manifesta una problematica insidia non appena si considera che tale complessità è incompatibile con il concetto elementare della pura sopravvivenza ed è in effetti drasticamente filtrata e quindi abolita a priori dagli apparati cerebrali che modulano i meccanismi della vigilanza e dell'attenzione.
Dove tali apparati difettano, come avviene in varie manifestazioni psicotiche, l'individualità biologica soccombe a un delirio e a una confusione che rivelano un eccesso piuttosto che una carenza di realismo.
Il problema vero consiste nel fatto che tale complessità non solo esiste come fenomeno costante e inconfutabile, ma si costituisce in complessione intensificata, con caratteri emergenti di rinforzo, proprio nell'ambito delle relazioni umane.
Questo suggestivo e curioso incontro-scontro tra ineluttabilità fisico-matematiche, espedienti selettivi della biologia di base e ulteriori sottigliezze e complicazioni dovute alle caratteristiche anatomo-fisiologiche di homo Sapiens Sapiens si traduce, sociologicamente parlando, in una specie di commedia degli equivoci in cui (a parte un livello, abbastanza raro, di comunicazione puramente enunciativa e/o puramente fatica (conversazione grooming per il gusto della stessa)), è difficile che il singolo interlocutore interpreti correttamente il quid della discussione in cui si trova impegnato, dove per 'quid' s'intende il nucleo logico e semantico di un'analisi conoscitiva o costruttiva, non i guadagni e le perdite al gioco del successo.
In termini politici ciò sta tranquillamente a significare che due interlocutori di opposto schieramento potrebbero trovarsi (è possibile e probabilmente probabile, non obbligatorio) a difendere tesi opposte in modo tale che, entrambi, se avessero la possibilità di sondare con adeguata perizia e profondità il proprio mondo interiore di motivazioni intime, inclinazioni naturali, convinzioni profonde eccetera giungerebbero a capovolgere le rispettive posizioni e abbracciare l'uno le tesi dell'altro.
Ecco in sostanza svelato il mistero del perché la politica tradizionale alla fine si risolve o in una tenzone di interessi materialistici o in una fiera della vanità connessa a un fantasmagorico balletto dialettico senza capo né coda, al punto che prolungate crisi di governo coincidono quasi sempre con un miglioramento del clima sociale e degli indicatori economici.
Per questo la politica, come il potere, idolatra se stessa: perché altrimenti dovrebbe ammettere che, come la potenza è nulla senza controllo, così la politica è nulla senza Progetto.
Amelia de Paperis ('Morgana') Per ragioni biografiche e di 'coinvolgimento' diretto, non sono in grado di esprimere giudizi spassionati e imparziali, ma vi assicuro che immergersi nel suo mondo sontuoso e immaginifico è impresa rischiosa quanto affascinante.
E' noto come i primi scrittori kolibiani non disponessero di un seguito quantitativamente adeguato e quindi incorressero nel giudizio di cassazione inappellabile da parte dei fabbricanti di facezie culturali.
Il loro attuale successo mondiale possiamo ritenerlo un mero segno tra i tanti di quella mutevolezza di gusti e di valori che consegue da movimenti strutturali profondi: questi coinvolgono porzioni di umanità senza che le medesime porzioni riescano mai a farsene un minimo di ragione apparente senza promuovere a causa efficiente quei gusti e quei valori che altro non rappresentano se non meri sintomi delle cause misteriose che hanno provocato i movimenti strutturali profondi.
Ecco il punto cruciale: la famosa (una volta!) distinzione tra struttura e sovrastruttura. Essa può costituire un buon filo interpretativo anche per comprendere l'iniziale insuccesso del kolibianesimo come filosofia pubblicistica.
Lo stranissimo fenomeno, assolutamente incomprensibile nella sua sostanziale enormità, così infamante per il medio rappresentane della specie umana, va interpretato alla luce dei maestrini di pensiero dell'ermeneutica sessantottina, definizione forse ingiusta e schematica, ma comunque utile a fornire (forse) una indicazione pregnante.
Le censure all'espressività sociale messe in luce, per esempio, dai rappresentanti di quella che si chiamava un tempo 'antipsichiatria' (alla stessa stregua di come la politica kolibiana viene ancora chiamata oggi antipolitica), si sono adornate di acutissimi rilievi, ma non hanno potuto evitare le trappole che attendono al varco le analisi puramente umanistiche e il loro idealismo nascosto.
L'equivoco fondamentale che agisce in sottofondo nelle opere di analisti (a rappresentare i quali, per non rimanere troppo nel vago, possiamo assumere Foucault come eponimo), comporta la sovrapposizione di libertà sociale e libertà individuale, come se i due termini fossero unificabili o anche solo assimilabili.
Il risultato lo si ha sotto gli occhi tutti i giorni, guardando la televisione o collegandosi in rete. Nell'agone della comunicazione pubblica ogni interdetto è caduto, non esistono divieti ad alcun tipo di linguaggio, fosse anche quello della profanazione e della follia. L'unico divieto riguarda un altro ordine di questioni, quelle che attengono ai valori 'nobili', quei valori che, come ci segnala la definizione stessa, non appartengono al popolo, quindi a una libera manifestazione e autogestione delle energie sociali, e richiedono invece una verifica e una censura esterna e quindi dall'alto.
Essi non sono più catalogabili, ovviamente, all'insegna della morale sessuale (pudore, morigeratezza, santità del vincolo matrimoniale) o dell'amore patrio e istituzionale (spirito di sacrificio, abnegazione, orgoglio combattivo), si caratterizzano bensì secondo gli interessi dell'internazionalismo economico (ecumenismo, non discriminazione, rifiuto del razzismo e della xenofobia).
Storicamente è facilissimo constatare che quando il capitalismo si fondava sulla conquista coloniale e la relativa competizione tra nazioni (nella fase tecnologica dominata dall'industria pesante priva o quasi di tecnologie elettroniche, informatiche e comunicative) i valori erano sic et simpliciter rovesciati e i discorsi in Vaticano (una delle poche istituzioni che, peraltro, da allora, è rimasta praticamente immutata) pure.
Come è stata declinata la calcolata liberazione delle forze espressive dal basso di cui le più sottili correnti contestatarie lamentavano la grave insufficienza?
In modo, che, mentre lì era la festa, gli interdetti di cui si diceva non solo non sono caduti, si sono anzi moltiplicati per quanto attiene al discorso cosiddetto 'colto', che è poi l'unico discorso tecnicamente e quindi politicamente efficace in senso direttivo (in senso effettivo può essere efficace qualunque cosa, per esempio la caduta di un asteroide).
In sostanza 'colto' è stato tradotto, pena la cassazione e ridicolizzazione per mancato rispetto delle consegne, in 'specialistico' e specialistico significa riservato a chi possiede patenti professionali agevolate e controllate da preminenze istituzionali e di appartenenza sociale (raccomandabilissimo al riguardo il master ottenuto in qualche università lontana, dove non è facile capire che cosa si potrà mai ottenere di così mentalmente prezioso a parte la possibilità d'instaurare contatti sociali prelibati e rarissimi o di venire a conoscenza di segreti per camarille iniziatiche)
Specialistico deve dichiararsi in via preliminare ogni discorso meritevole di considerazione, a meno che non si collochi con i giusti crismi all'interno dell'unico tipo di generalità accettabile, quella che attiene in via esclusiva al discorso etico, politico e religioso dell'ortodossia consolidata, ossia quella convenzionalità che per volare alto necessita del sostegno di gruppi di pressione caratterizzati da una influenza cospicua e comunque compatibile con le egemonie vincenti.
Morgana
Molto più incerto appare risolvere il dubbio relativo alla domanda se la mappa delle legittimità, l'urbanistica sotterranea dei divieti, la segnaletica degli interdetti dominino anche le prescrizioni relative agli obblighi di dichiarazione ideologica e alle forme concettuali dei messaggi oppure intervengano qui statistiche relative a processi cognitivi più generali.
Un messaggio ambiguo secondo gli schematismi di appartenenza settaria o partitica trova parecchie resistenze e, come già sottolinearono i padri, elementi di destra ed elementi di sinistra (per usare vecchi schematismi) risultano più ostici agli avversari quando sono mischiati insieme che quando si evidenziano con modalità monocorde. Se poi la cosa si mischia a un basso rapporto tra numero di parole (numeratore) e numero di concetti (denominatore) la ripulsa decolla. Entrambi le circostanze, come del resto la refrattarietà alle commistioni tematiche e umorali, favoriscono una certa qual forma di ottusità utile al potere, ma potrebbe essere uno dei tanti favori che al potere offre l'antropologia piuttosto che il risultato di una deliberata trama di condizionamenti sapienti, ammesso e non concesso che le due questioni ricadano in ordini fenomenologici diversi e non s'intreccino indissolubilmente su un medesimo livello di realtà.
Comunque sia, senza l'assenso di tutta una serie di aristocratici arbìtri, padroni del campo o semplicemente ausiliari di fatalità fisio-antropiche, si è tagliati fuori da ogni credenziale relativa al possesso di diritti culturali, anche perché nel frattempo il livello intellettuale di quello che non è più popolino populista, bensì pubblico sovrano, è stato schiacciato sotto il livello di guardia dall'oppio delle televisioni 'libere' come di quelle pubbliche liberamente agite dai campioni del tecno-umanesimo autoritario e psicotropo.
Faremi Sollasissi ('Pitagora') Possiamo considerarlo l'antesignano della corrente culturalista, quella che predicava la depurazione semantica di ogni linguaggio previo smembramento dei relativi messaggi in elementi raggruppati secondo la pertinenza semiotica. La scuola che egli contribuì a fondare raggiunse risultati notevolissimi nell'analisi combinata, logico-ermeneutica, dei testi di autorevoli protagonisti della scena sociale, i quali, grazie anche all'integrazione di fatti biografici nella corrente interpretativa, risultarono sostanzialmente inconsapevoli della natura rappresentativa ed efficiente di ciò che asserivano con grande convinzione, questo ovviamente nell'ipotesi che fossero sinceri..
Dov'era il baco fondamentale, la premessa distorta che inficiava tutto l'impianto, insomma il peccato originale che macchiava e continua a macchiare il pensiero dei dotti antidotti esistenzial-debolisti?
Mi riferisco a ciò che rappresenta, non certo il motivo, ma comunque un indizio o sintomo significativo per cui si sarebbe potuto intuire alcuni aspetti della sociologia post-contestataria, tra i quali un popolo che si ritrova ora osannato se esulta e si scalmana per i circenses predisposti dal senato imperiale nei vari colossei più o meno virtuali, un popolo addirittura divinizzato se, appena oltre i cancelli entro cui the show must go on, si frantuma in individui sottoposti alle leggi ferree della selezione economica, un popolo che è al contrario vilipeso e trattato alla stregua di massa informe quando non reprime inconsulte reazioni legate all'emergere delle proprie volgari convenienze maggioritarie.
In sostanza i dotti fenomenologi o semiologi o vatelappesca (vatelappesca?), abbattendo in quanto rigidamente autoritaria la distinzione marxista tra struttura e sovrastruttura, hanno sottratto la sovrastruttura a qualsiasi ipotesi di razionalità univoca e comune, consegnandola a oratori ciceroniani, faccendieri e mestatori dei suburbi, tribuni e liberti delle clientele (leggi: guru delle più eterogenee qualità di marketing), tutti coloro che servono gli interessi dei detentori della struttura. Costoro se la ritrovano tanto più saldamente in mano quanto più un vento di anarchia e di spregiudicata libertà sembra spirare nei luoghi canonici dove scorrono e s'involano le ore di libera uscita concesse al consesso civile.
Fondendo al calor bianco, secondo i dogmi dei semiotici superfini, supefighi e superfidi, struttura e sovrastruttura, permettendo bagni termali in un crogiolo voluttuoso di linguaggi equiparati sul piano dell'indifferenza episodica, non c'è voluto molto perché si riaffermassero, sotto i più diversi travestimenti, esigenze di ordine fondamentale tutelabili soltanto, a questo punto, attraverso i soliti principi di autorità adeguati e riformulati secondo la particolare effettività delle forze maggiori temporaneamente in carica (oggi di natura prevalentemente economica, domani... chissà!).
A tali forze arride la possibilità, propiziata da una pletora di sofisticazioni tecnologiche e organizzative, di trasformare strumenti di controllo in fonti ulteriori di lucro, mezzi di vessazione in spottoni autocelebrativi, di tradurre forme di permissività in clamorosi autogol di massa, indicatissimi per un mondo di produttori e venditori che necessitano nello stesso tempo di varietà scollacciati e discorsi papali, dei report televisivi di stragi e disastri insieme ai conseguenti ringraziamenti solenni a quel dio implacabile la cui misteriosa giustizia salvaguarda tutte le autorità presenti e anzi le fa brillare per determinazione ed efficienza quando sferra i suoi enigmatici colpi.
Pensate che ridere se costoro nell'al di là si ritrovassero un Papi Dione che, secondo l'arbitrio che gli concede la propria natura personale, odiasse sopra ogni altra cosa i leccaculo.
Pitagora
Gli aspetti costrittivi e illiberali dell'etica metafisica, laica o religiosa, risaltano evidenti quando si consideri il rovesciamento totale, rispetto al giusto e all'auspicabile, della dialettica di singolarità e generalità in corrispondenza ai poli correlati della produzione materiale e di quella culturale ed eidetica.
Mentre, infatti, il benessere, almeno teorico, dell'individuo umano esigerebbe compartecipazione, corresponsabilizzazione e solidarietà sul fronte dell'attività economica e dei relativi vincoli e pressioni, affiancate da una possibilità totale di libera espressione sul piano delle idee e dei comportamenti, almeno di quelli compatibili con un macchinario organizzativo che promuove criteri di agevole sopravvivenza, nelle società più complesse, statali e non tribali, avviene esattamente il contrario: si getta il generico individuo x, privo di tutele non ereditarie, nella bagarre del commercio, dei servizi e dell'industria, legandolo però a filo doppio per quanto riguarda le potenzialità ideative e immaginative, per non parlare del libero gioco degli istinti, addirittura disarticolato e ricostruito ex novo con mille falsificazioni e divieti.
Questo deliberato, intenzionale rovesciamento si delinea molto più chiaramente negli obbiettivi di fondo intuibili sulla base di esibizioni retoriche e stravaganti mitologie dei valori, piuttosto che nelle dinamiche concrete, almeno dove persiste una certa quota di spirito anarchico, inestricabilmente connaturato, del resto, all'esercizio di ogni democrazia anche solo formale.
Tale spirito anarchico, contrabbandato per vivacità dialettica, si dispiega comunque nella superficialità di manifestazioni innocue e folkloristiche, severamente confinate secondo un criterio di valvola di sfogo che non disturba il personale alla guida e anzi allevia le fatiche dei controlli senza influire sulle dinamiche del rovesciamento.
Al di là dei proclami di facciata, il rovesciamento è perfettamente esemplificato nelle filosofie religiose e funge da spia inequivocabile di quanto esse fungano in effetti da gendarmeria teoretica dell'ortodossia conservatrice, al punto da collidere a volte con un dinamismo tecnocratico che comunque e nonostante tutto necessita del coordinamento dogmatico e sacerdotale per lubrificare gli attriti che il proprio militarismo (in senso lato) inevitabilmente produce.
Si deve poi considerare come i meccanismi descritti, nel corso di quella bolsa cronaca di cui si compone ogni vicenda storica, vengano mascherati e metamorfosati dalla chimica sociologica degli impasti corporativi, partitici (o settari) e sindacali, dove l'associazionismo opera in apparenza da promotore di costrutti organici e solidali, in realtà predispone i nuclei difensivi e offensivi in cui si coagulano soprattutto interessi tanto più variegati e frammentari quanto più prevaricano esigenze elementari del semplice cittadino indifferenziato e indistinto.
Renzo Matteo Pianissimo ('Blockbuster') Esponente dell'ala dura e pura, si ritrovò imbrigliato in un giro di affari e collusioni che a tutt'oggi presenta molti lati oscuri, ma seppe districarsene molto bene, facendo tabula rasa, tagliando nodi gordiani e ricostruendo ex novo apparenze sontuose le cui modalità di progetto ebbe l'abilità di presentare come 'un esempio in scala della grande marcia di avvicinamento al Progetto'.
Allo stato presente delle cose risulta quindi totalmente sbagliata l'impostazione strategica delle mentalità e delle culture con cui, in via prevalente, si affrontano i problemi politici, economici e sociali?
Ebbene sì: totalmente e irrimediabilmente sbagliata (ovviamente nell'ottica degli interessi numericamente prevalenti, non di quelli ponderabili in base alle carte più o meno truccate che vengono distribuite all'inizio del gioco)!
Semplicemente e ineffabilmente si capovolgono, costringendoli a camminare sulla testa, i termini fondamentali delle questioni.
Dove è possibile pianificazione sistematica e direzione imperativa si lascia (su una linea di principio teorica che deliberatamente ignora i dinamismi effettivi) libero gioco all'iniziativa dei singoli, che ricadono ineluttabilmente in schemi darwiniani,
Dove non è possibile alcuna regolazione e controllo, ma solo, volendo, brutale repressione, si dettano prescrizioni pompose rigorosamente tratte da un libro universale dei sogni.
Progetta tassativamente l'economia e i vincoli di coesistenza formali, lascia libero tutto il resto: così ci hanno intimato i Padri.
Sia gloria a loro e per sempre!
Blockbuster
Consideriamo l'istituto del lavoro cooperativo: splendida invenzione, almeno sulla carta, ma come lo avrebbe pianificato un kolibiano?
Si può raccontare in modo chiaro e sintetico: un semplice elenco di nomi, da costituirsi con accordi privati e da regolarsi come strumento di lavoro collettivo anziché individuale. Un kolibiano avrebbe poi aggiunto quanto prima il passo successivo: la sparizione del lavoro individuale.
Invece di considerarlo un ente giuridico autonomo assimilabile a un'azienda sotto mentite spoglie, ne avrebbe fatto qualcosa come un'assemblea di condominio, con amministratori responsabili incaricati della gestione dei contratti e della divisione degli introiti.
Lo stato e quindi la magistratura avrebbero tutelato la trasparenza e liceità del tutto tramite una legislazione ai minimi termini, semplice ed essenziale.
Punto e basta, salvo gli accorgimenti tecnici (e le complicazioni) di dettaglio che, si sa, tendono a proliferare, ma che possono essere comunque sorvegliati e riprogettati in modo che non travisino le buone intenzioni di partenza.
Che cosa avviene in realtà? Che le cooperative, con l'ausilio di trucchetti banali, automatismi spontanei e occorrenze e soccorrenze più o meno implicite, risultano aziende come le altre salvo un maggiore beneficio di agevolazioni e favori fiscali, si affermano cioè come nuclei d'interesse privato particolarmente idonei all'utilizzo del lavoro precario e squalificato secondo il patrocinio di enti politici e 'morali' che se ne servono per consolidare il potere di organi collettivi diretti da funzionari appartenenti alla casta dei dirigenti nonché (differenza fondamentale rispetto al dirigente aziendale vero e proprio) allo sterminato gotha od olimpo o walhalla del mondo politico-amministrativo, improduttivo ma distributivo.
Helga Alsheimer ('Il soffio di Lorena') Tenne una vivacissima corrispondenza con molti membri di spicco del Movimento, un epistolario che è tuttora considerato tra le testimonianze più vivide e i resoconti storici più fedeli delle tensioni sotterranee come delle convergenze creative che animavano una dialettica fermamente risoluta a risalire gradino per gradino, tra difficoltà e contrasti, la scala del Progetto.
Lo sbrigativo semplicismo adottato da molti per sancire l'equivalenza assiomatica di progetto e utopia s'infrange penosamente davanti a un elenco di provvedimenti essenziali e per nulla fantascientifici che renderebbero pacificamente abbordabile un cammino di riforme radicali anticipandone molti degli effetti più virtuosi.
Adottiamo qui un concetto di realizzabilità che si riferisce alle difficoltà tecniche, ideative e costruttive, non alla possibilità di ottenere adesioni sincere da parte di tutti coloro il cui mancato assenso e perfino una resistenza passiva potrebbero sabotare la consistenza di un impianto peraltro perfettamente logico, coerente, armonico e plausibilmente perseguibile in base a possibilità pratiche oggettive.
Ai punti, che tutti conoscono a menadito, desumibili dallo schema generale di progetto posto a introduzione e prologo della Bibbia Kolibiana dopo averli enucleati dalle impostazioni più rivoluzionarie, possiamo aggiungere pochi provvedimenti di quasi immediata accessibilità:
a) sostituzione del singolo lavoratore con la figura giuridica del lavoro collettivo adeguatamente sostenuto e garantito;
b) offerta da parte del sistema commerciale di kit completi a prezzi controllati in grado di venire incontro alle esigenze minimali di sopravvivenza e benessere del singolo membro della comunità, per esempio un menu settimanale completo, surgelato e precotto, adeguatamente calibrato e modulato in base a esigenze nutrizionali diversificate per sesso, età e tipo di attività oppure macchinari dalla durata illimitata perché forniti di tutte le garanzie e assistenze necessarie allo scopo;
c) politica di edilizia pubblica connessa al presidio e alla valorizzazione del territorio, irrobustita da una filosofia abitativa capace di adottare e incrementare tutte le raffinatezze di un minimalismo dignitoso in stile Ikea;
d) offerta gratuita di spazi demaniali e sostegni adeguati messi a disposizione di chi si facesse promotore di iniziative collettive meritevoli, includendo nel termine anche e soprattutto ciò che, senza pregiudiziali di tipo moralistico, promuove benessere, tenuto nel debito conto che ogni accesso e facilitazione verso attività gratificanti e piacevoli consente di svincolare la qualità della vita da obbiettivi e risultanze legati al progresso economico, allentando contemporaneamente la pressione sulla Natura.
Se tutti fossero disponibili, ciascun punto sarebbe analizzabile, progettabile e attuabile, in collaborazione con industrie esistenti vincolate a contratti pubblicamente sorvegliati, da gruppi opportunamente incaricati, coordinati e sorvegliati, incontrando difficoltà inferiori rispetto a moltissime altre iniziative che a tutt'oggi funzionano senza problemi (grandi imprese scientifiche e di esplorazione spaziale, vari tipi di organismi internazionali, associazioni e consorzi produttivi, gruppi di acquisto eccetera).
La vera difficoltà riguarda la necessaria trasformazione preventiva dello stato in un super organismo economico secondo un modello assimilabile a quello di holding multinazionale, struttura che, per sopravvivere, deve raggiungere ormai valori di bilancio paragonabili a quelli di interi stati sovrani, il che è impossibile non diventi politicamente costrittivo e vincolante in molti modi diversi.
Nel momento in cui l'economia globalizzata diventa ipso facto strumento di condizionamento politico, la politica dovrebbe riattivare modelli adeguati di pianificazione economica fondati sull'economia pubblica, se non vuole ridursi a portaborse e galoppino di corte nei confronti di poteri effettivi dipendenti dai grossi capitali privati. Ovviamente, uno stato che diventa protagonista della scena produttiva e distributiva è visto come il fumo negli occhi da una quantità sterminata di quegli stessi interessi privati, tra cui spicca la convenienza di fare incombere sul singolo essere umano una minaccia continua di miseria al fine di abbassare il costo del lavoro e diminuire la forza contrattuale della relativa offerta: il concomitante calo nella domanda di beni può essere facilmente compensato in un mercato esteso quanto l'intero pianeta, dove tra l'altro l'oligarchia non teme concorrenze esterne, dati gli altissimi costi di entrata, mentre esiste una miriade di espedienti per addomesticare le concorrenze interne.
Basta ritenere plausibile l'ultimo paragrafo ed ecco che ogni demonizzazione dell'attuale sistema, non solo perde i connotati della ferocia estremista: diventa quasi obbligatoria, così come l'equiparazione dei governi che collaborano allo sfruttamento generalizzato a teste di ponte delle scorribande conquistatrici di eserciti stranieri riuniti sotto le insegne dei grandi marchi.
Il soffio di Lorena
L'emigrazione rappresenta una delle più grandiose e nefaste calamità della Storia proprio per quegli aspetti che gli idolatri del progresso giudicano con più favore, il suo tradursi cioè in propulsore dello sviluppo accelerato di una economia di mercato che ha vieppiù travalicato i tempi e i ritmi di un ordinato e coordinato procedere del progresso tecnico, se lo valutiamo in rapporto alla concomitante crescita di un benessere medio effettivo.
Ciò e le argomentazioni successive valgono per il presente e per il passato, nella considerazione fondamentale che non esista, come in realtà non esiste, un quadro politico e sociale in grado di organizzare il fenomeno in modo generalmente utile e produttivo e che anzi il quadro politico e sociale sia tale da subire in conseguenza del fenomeno soltanto accentuazioni degli aspetti negativi, con approfondimento contestuale di tutte le difficoltà che si frappongono a ristrutturazioni effettivamente migliorative.
L'emigrante, in quanto individuo selezionato dalla massa di origine, portatore rispetto a quella di qualità superiori almeno nel senso dell'intraprendenza e del coraggio, ma spesso anche dell'abilità e dell'intelligenza, sottrae al paese natale risorse umane e le aggiunge a un contesto privilegiato in cui, per una debole posizione contrattuale di persona svantaggiata disposta a concessioni al ribasso, contribuisce a rassodare il privilegio o almeno la resistenza dei privilegi e delle supremazie conquistati dalla nazione ospite, alimentando in parallelo i privilegi e le supremazie personalizzati ossia la polarizzazione di censi e poteri e la radicalizzazione delle sperequazioni interne (é perfino superfluo osservare che, se l'immigrazione non convenisse alle classi dirigenti, le frontiere sarebbero vigilate da poliziotti armati fino ai denti e in mare non ci sarebbero motovedette di salvataggio, ma cannoniere, cose che avverranno puntualmente quando il fenomeno diventerà intollerabile per tutti).
Tutto ciò si è sempre verificato, ma ovviamente è risultato latente o attenuato o addirittura assorbito e metabolizzato in senso positivo, nelle fasi di espansione economica e di democrazia relativamente vitale: nella congerie di una stagnazione globale gli effetti negativi dell'immigrazione si stanno accrescendo in modo esponenziale.
Ovviamente proprio la drammatica disparità delle ricchezze favorita dalla globalizzazione, unita al deterioramento inesorabile dell'ambiente terrestre, ha già reso o renderà tra breve l'emigrazione, nell'attuale assetto complessivo di sistema, un processo incontenibile come ogni sequenza auto-catalitica, anche perché può rappresentare e rappresenta una reazione di potenze svantaggiate sul fronte finanziario e industriale contro altre potenze che della manovrabilità finanziaria e industriale si servono per aggredire con ingerenze e condizionamenti arbitrari: il presupposto dell'assalitore, in questo caso, è che il fenomeno sia gestibile soltanto entro determinate soglie di ritmo e quantità e costituisca un attacco micidiale al di là di quei limiti.
La situazione è quindi interpretabile nei termini di finalità oligarchiche che, sui vari fronti dello scacchiere, superano ogni limite di un'accorta moderazione e sconfinano nel puro e semplice azzardo.
Il soffio di Lorena
L'aggressività economica devasta le specificità etnologiche, le identità culturali e quindi le forze coesive di popolo non basate su meri interessi, quindi effetti perfettamente speculari indotti da diaspore per motivi bellici e di invivibilità vi si commisurano con un alto grado di pertinenza e leggibilità, dopodiché è moltissimo probabile che alla fine, consapevolmente o meno, la molla principale di tutto il bailamme faccia capo alla solidarietà tra grandi preminenze, che continuano a intendersi anche quando sono costrette a combattersi per ineluttabili conflittualità legate a un tipo o l'altro di 'mercato' ovvero un tipo o l'altro di lotta tra egoismi rivali.
Prima o poi i giochi di queste complicate partite sfuggiranno di mano anche ai loro attori primari e andranno a esplodere chissà dove, come e quando, per cui i Kolibiani non vedono altra soluzione che lo smantellamento finché si è in tempo dell'economia multinazionale sostituita da un complesso di holding-nazioni ciascuna dotata della sua piena e intangibile sovranità territoriale e padrona di organizzarsi con libere alleanze e sinergie su una scacchiera mondiale radicalmente demilitarizzata, a parte un esercito comune a tutte le nazioni del mondo concepito in modo da evitare 'gli sgarri'.
Se non si trova una soluzione teoretico-costruttiva a quella che sta diventando una guerra di tutti contro tutti sotto una geometria di mobili e scomposte sinergie optate sulla spinta degli impulsi oscuri di una spietata avidità per di più obbligata e irrefrenabile, i pochi, pochissimi secoli dei Padri rischiano di diventare pochi, pochissimi decenni.
Da ministro di un culto che non resiste se non appoggiandosi a convinzioni razionali, ribadisco il nostro atto di fede primario: o l'utopia del comunismo kolibiano o il caos!
Renzo Mattone ('Nonno IA') Esperto di Intelligenza Artificiale, di cui, nella parabola luminosissima, ma purtroppo accelerata da eventi sfavorevoli, di una carriera comunque ammirevole, divenne presto il decano e il simbolo austero, dedicò quelle che egli stesso ebbe a definire 'arti magiche' alla creazione di ausili elettro-meccanici e sofisticati expert system che coadiuvassero i condottieri del movimento in sostituzione di consiglieri e assistenti troppo spesso condizionati da una tendenziosa ruffianeria.
La fenomenologia religiosa, intesa come modalità esistenziale di una comunità di fedeli vincolati a un'autorità superiore, informa un proprio concetto deteriore di democrazia contraddistinta dalle categorie della rinuncia e del rimando: soddisfazione e godimento non sono mai adesso e ora, ma dopo il compimento del dovere, il sacrificio per una nobile causa, l'abnegazione in vista di un bene superiore; serenità e contentezza non giungono estemporanee e incondizionate, ma subordinatamente al compimento di un disegno, all'espletamento di una funzione, alla prestazione di un servizio.
In fondo la religiosità ha tanto successo nel mondo semplicemente perché concepisce l'utopia della città celeste, del regno millenario, della resurrezione nella gloria, ma realisticamente e prudentemente evita di saggiare la consistenza dei relativi sogni collocandoli in una posizione di non verificabilità che è anche l'unica in grado di garantirne l'inalterabilità: questo tetragono realismo sancisce la superiorità politica delle religioni favoleggianti rispetto a religioni umanitarie di cui le prime finiscono per avocare a sé le istanze declinandole in forme molto più 'moderate'.
La religione autentica è sempre religione di massa dato che solo una massa può accreditare tali tipologie di atteggiamento come mediamente preferibili a tutte le altre, vale a dire più consone all'effettivo svolgimento dei destini comuni intesi come risultato di un bilancio statistico.
Va da sé che l'andazzo dominante per quanto riguarda l'attesa della qualità esistenziale più probabile risulterà sempre strettamente correlato ai principi generali di ordine gerarchico e controllo funzionale ritenuti meglio indicati per evitare i pericoli della disgregazione anarchica.
Una democrazia dove prevale lo spirito religioso non potrà mai diventare una democrazia veramente liberale, dato che ogni vera libertà presuppone componenti di azzardo e indisciplina che stridono con i processi metodici di macchine istituzionali dove la divisione del lavoro governativo è ripartito tra autoritarismi metafisici e tecnologie elitarie, entrambi le categorie largamente immunizzate rispetto a qualsiasi condizionamento proveniente dal basso o, come si diceva una volta, dalla base.
Le domande cruciali diventano allora: perché finora la coerenza di ogni stato si è fondata su un tipo o l'altro di etica religiosa (fede in una chiesa, in un partito, negli automatismi di sistema, nella vittoria del proletariato o nell'eroismo degli uomini forti), a volte malamente camuffata, invece che affidarsi ex novo e per intero alla progettualità tecnica e razionale?
Perché, dopo l'apparente trionfo della prassi politica di tipo occidentale sui modelli 'idraulici' orientali, l'imperante liberismo ha scelto la democrazia religiosa di massa invece di quel liberalismo democratico dell'autodeterminazione collettiva che può essere costruito soltanto attraverso una ingegneria razionale?
C'è di mezzo qualche genere di 'cui prodest'?
Nonno IA
La prima domanda che ogni persona seria dovrebbe porsi in questa particolare fase della civiltà s'impernia sull'alternativa tra riforme di routine e riforme radicali: può il presente assetto globale evitare crolli clamorosi e distruttivi senza modificare in modo profondo le proprie linee strutturali?
Non porsi neppure la domanda contraddistingue la forma in essere del nuovo fascismo (o vetero-comunismo), il cui connotato inequivocabile è una sintesi tra tecnologia d'élite e idiotissime mitologie assunte senza il minimo spirito critico e anzi in odio e perfino disprezzo (pecunia docet) dei livelli minimi necessari a un'intelligenza dignitosa.
Questa deve essere prima bistrattata e vilipesa, poi incarcerata e giustiziata e la sua testa issata su pali alle porte della città come monito accanto a quei simboli gioiosi del potere che oggi acquistano le sembianze di Padre Pio o Madre Teresa di Calcutta, della Madonna che appare ai figli di artigiani o impiegati comunali.
D'altra parte, è noto che, se sei capace di aggiungere quantità industriali di sofferenza in sovrappiù rispetto al decorso naturale degli eventi:
a) sei un sadico perverso, se lo fai per piacere personale;
b) sei un dittatore sanguinario o un terrorista se agisci per un ideale fuori moda;
c) sei un politico decisionista, se agisci per un ideale alla moda;
d) sei un santo o un eroe, se il tuo scopo è illuminare la grandezza del Signore e soprattutto dei suoi rappresentanti terreni.
Nonno IA
In realtà, una considerazione non secondaria, sottaciuta per ragioni di opportunità tattica, chiama in causa un ben noto topos del rapporto tra prodotto intellettuale e fruizione di massa: il rifiuto da parte dell'opinione pubblica prevalente di tesi che pretendono una evidenza documentaria e scientifica puntando ad affermazioni troppo radicali ed effettivamente scomode e dirompenti.
Se, al fine di ottenere il visto e l'autorizzazione all'ascolto, è sempre e comunque consentito fanfaronare nel senso dell'ottimismo e della lieta disponibilità di animo, a prescindere dagli effetti tutt'altro che positivi di fronte all'incombenza d'insidiose oggettività avverse (certe o anche solo probabili), una scossa troppo energica al paradossale quieto vivere dell'autoritarismo competitivo impone coefficienti minimi di affidabilità pari al 100% magna cum laude, proibitivi perfino per leggi scientifiche o sanzioni di crimini commessi davanti a una folla intera.
Così le rivoluzioni non possono essere rigorosamente programmate per motivi di ordine superiore o sacrosanti principi di precauzione: 'scoppiano', agitano le acque, favoriscono ricambi sempre opinabili della classe dirigente e infine s'inchinano ai vincoli di forza maggiore, biologici, economici, psichiatrici...
Le rivoluzioni rompono il giocattolo e poi lo rimettono insieme con il bostick.
Pompeo Mignolo ('Cogliostro') Assistente di Renzo Mattone, in arte Nonno IA, approfittando del calo di vigilanza dovuto ai ben noti motivi, ritenne giusto modificare secondo il proprio (notevolissimo!) acume e la propria discrezione gli ausili elettro-meccanici e i formidabili expert system di cui il grande condottiero si circondava ricevendone preziosi suggerimenti e conforti.
Un fascismo (o vetero-comunismo) vile e strisciante deve prima di tutto aborrire il fascismo (o vetero-comunismo) dei gerarchi trinariciuti se vuole stendersi come lo scendiletto dove cammina lei, l'oligarchia illuminata, e servire i privilegi dei più umani tra gli umani.
Per prolungare l'immobile status quo delle adorate masse precarizzate e tenute vive da un rimescolamento continuo, necessita di un tipo di persuasioni che le vecchie classi dirigenti, quando si sentivano padrone del gioco, rifiutavano per ragioni di credibilità e decoro irrinunciabili.
Una classe dirigente veramente moderna e liberale rifiuterebbe il grottesco delle mistificazioni religiose, che viene invece riattivato contro ogni plausibilità quando si rivela utile a condizionare le mandrie del voto, gli armenti che si riuniscono sotto la vigilanza dei cani pastori, i portatori del crisma democratico per eccellenza: la divinità del numero.
Percentuali cospicue di strati sociali illuminati da una compattezza che eccede il frazionamento naturale degli interessi, nobilitati da un coefficiente di massa che riconduce la libertà non alla lievità, ma alla gravità, gettano sul piatto della bilancia, insieme alla carente scolarizzazione di base fatta precipitare in un buco nero dalla tipologia dominante della comunicazione mediatica, l'invecchiamento al galoppo di una popolazione che perde bilioni di neuroni ogni giorno che passa.
Cogliostro
Quando il giudizio spetta ai censori dei gruppi editoriali più influenti, la ripulsa può essere accompagnata, in camera caritatis, dal consiglio di tradurre in creazioni di pura fantasia gli spunti di maggiore interesse drammatico e suggestione emotiva.
Come la tragedia greca, il teatro elisabettiano e i grandi concerti del 'rock alternativo' dimostrano, le realtà intollerabili tradotte in allestimenti artistici e simbolici non producono autentica energia sovversiva, ma solo catarsi e psicoterapia di gruppo.
E' la ragione per cui, se oggi si vuole cogliere reperti di oggettività naturalistica sull'imbarbarimento della civiltà opulente, soprattutto negli States (ma si sta ancora peggio in periferia dove non rimane aperto, se non in casi rari, nemmeno questo labile spiraglio di verità), si prestano allo scopo film, serie televisive e romanzi (ovviamente una selezionata minoranza) molto più degli scritti di analisti accademici che in genere, per sopravvivere professionalmente, devono specializzarsi prima di tutto nel cogliere i divieti d'ingresso alle zone riservate e i segnali di pericolo intorno ai terreni minati.
Le varie eccezioni minoritarie non fanno che confermare la regola comune.
Cogliostro
La trama di violenza, illegalità, sopruso, feroce privilegio di cui è intessuta la civiltà statunitense e di conseguenza le classi dirigenti che fungono da catena di trasmissione dei suoi diktat auto-conservativi, non emergerà mai dall’analisi di saggisti tanto più fedelmente installati nell’establishment quanto più forbitamente critici e riformisti, ‘grandi firme’ di nobili testate vendute e anche ‘vendute’ e perfino vendute ai centri del potere industriale e finanziario, ma da romanzi neri e graffianti, film che non verranno mai trasmessi da RAI1 in prima serata (solo, se va bene, su RAI2 o 3 da mezzanotte alle tre, ma sempre, rigorosamente, con mezz'ora di ritardo rispetto alla programmazione), da serie televisive che ci raccontano situazioni una cui parafrasi discorsiva e concettuale si tirerebbe addosso una reazione meccanica di anatemi e ostracismi.
Alternative del resto non ce ne sono: chi attacca frontalmente il potere si auto-discredita e anche quando rivela pure e semplici e scandalosissime verità alla fine se ne carica come di una colpa sua propria.
Questo accade con una naturalezza e una facilità assolutamente irridenti: è sufficiente per la pubblicistica di regime mettere in luce le caratteristiche più ovvie, naturali, incontrovertibili della persona da colpire, fare emergere quasi con noncuranza singolari caratteristiche di ambiguità e stranezza il cui mero dato di presenza oggettiva il bersaglio condivide di sicuro con tutto il resto dell’umanità insieme a qualche tratto nobile e perfino eroico: quest’ultima tipologia viene ovviamente sottaciuta ed è esaltata invece per quanto concerne personaggi che si prestano a una narrazione servizievole verso gli interessi che hanno voce in capitolo e condizionano i canali mediatici che contano.
Tutto ciò è lampante e assiomatico. Lo sintetizziamo per maggiore chiarezza: a) certe verità scomode non si possono dire; b) chi contraddice (in modo pericoloso) la regola del silenzio è un essere oscuro, problematico, dalle motivazioni contorte (lo è di sicuro perché ogni essere umano lo è, come, d’altra parte, ogni essere umano è anche un po’ ‘divino’; c) mettere in luce il lato ipogeo o solare delle persone ha risonanza pubblica soltanto se vi intervengono i grandi mezzi d’informazione; d) i grandi mezzi d’informazione non falsificano (quasi) mai, semplicemente sottolineano od omettono; e) i grandi mezzi di comunicazione soggiacciono ai nuclei dell’effettività economica; f) sottolineature od omissioni si insinuano sotto la pelle dei sudditi sapientemente e sottilmente bersagliati; g) alla fine, presso il grosso dell’opinione pubblica, la sensazione di marcio non è associata a chi ne è responsabile, ma a chi lo rivela, mentre ogni presunta nobiltà è costruita a immagine e somiglianza di chi quella nobiltà sfrutta per fini molto pratici e materialisti.
La morale della favola è sempre quella: se vogliamo far merenda con Nutella, i numerosi funzionari presi in castagna hanno diritto a godersi i frutti della loro obbedienza al sistema mentre gli Assange devono finire in galera.
In questa situazione ogni denuncia si neutralizza da sola, per farsi sentire è costretta ad assumere i crismi della positività a ogni costo, la soffice piaggeria del marketing, un piglio benevolo da intrattenitore.
Ci si trova quindi costretti a configurare tutto ciò che già schiaccia e asservisce, che ha già prodotto e produce danni gravissimi e irreparabili come un pericolo di là da venire che strati bene intenzionati e responsabili stanno già affrontando armati di buona volontà: diventa insomma obbligatorio soffocare ogni verità in un imballaggio di menzogne, dissolvere il messaggio razionale nelle suggestioni emotive che lo contraddicono lasciando, nella psiche che riceve il flusso sdoppiato e anzi biforcuto di segnali, soltanto echi intrinsecamente tranquillizzanti.
Mestruo Eckhart ('Venereo') Convinto che l'amore universale predicato con varie modulazioni dalle religioni cristiane e dalle principali correnti umanitarie, non servisse assolutamente a niente, se sinceramente professato, e risultasse palesemente dannoso se usato come sottile arma di controllo e ricatto da configurazioni psico-sociali disegnate sull'involucro esterno di compagni strutturate da motivi e criteri molto più solidi e conseguenti, dedicò molto del suo lavoro scientifico alla ricerca e definizione di concetti di simpatia e solidarietà che non penalizzassero le differenze nette e irrimediabili tra individui realizzati appieno soltanto quando inseguono un proprio personalissimo stile di vita, inseguì cioè una tipologia dell'amore sociale privata di quella vena sadica, presente in ogni filantropismo pedagogico, che gode nel soccorrere e nel beneficare uomini ridotti a pupazzi con una complessa fisiologia materiale, una doverosa gratitudine e nient'altro. Da rimarcare la sua analisi di un razzismo della bontà visto come evoluzione socio-economica di un razzismo della cattiveria: riferendosi alle società rurali del profondo sud degli Stati Uniti nella prima metà del XX secolo e oltre, argomentò che l'invenzione di un livello di umanità inferiore da comandare e sottomettere costituiva un naturale sfogo animale, ovvero un tentativo fisiologico di compensazione per esistenze mediamente dure, monotone, ossessive, in cerca di qualsiasi pretesto che rivalutasse il concetto di sè e giustificasse il diritto a favori quasi magici: nella fattispecie il colore della pelle. Orbene, secondo lui, nelle società a economia evoluta, vite mediamente strampalate, anomiche, sovraccariche di stimoli eppure sempre in qualche misura insoddisfatte e umiliate ricercano lo stesso tipo di rivalsa in masse disagiate rispetto alle quali si pongono allegoricamente nella posizione del nobile di nascita che elargisce beneficenza e lenitivi. Per quanto riguarda la pars costruens, tentò, con alterni e controversi risultati, una sintesi tra pietismo classico di stoici ed epicurei, lamentazione schopenhaueriana e dinamico illuminismo liberale.
Non esiste mistificazione peggiore di quella che lancia allarmi in modo educato e rispettoso della tranquillità del prossimo suo da amare come se stesso, perché così qualsiasi allarme vero e sentito può venire automaticamente degradato alla categoria del già detto e anzi del ripetuto in modi insopportabili, screanzati e villani, dato che, come tutta la gente sveglia può facilmente constatare, urlarlo con i denti digrignati non è certo elegante come incartarlo nella confezione luccicante di un cioccolatino.
Quanto a rimedi drastici, è meglio scordarseli e se solo rimedi drastici potrebbero servire, pazienza: se ne riparlerà quando le probabilità di catastrofe supereranno il 50%, ovvero quando non ci sarà più niente da fare se non aspettare fiduciosi confidando nel Padreterno misericordioso. Nel frattempo gli uomini di buona volontà saranno forse passati a miglior vita ricevendo esequie onorifiche e scaldando nel ricordo il cuore della gente brava, onesta, laboriosa (probabile, ma non garantito).
Da questo jeu de massacre può salvarsi soltanto chi si tiene a bersaglio ambienti che, almeno teoricamente, rappresentano un nemico dei buoni in quanto tali, cioè di tutti, in quanto non c’è nessuno che non si considera buono finché recita una parte istituzionale ovvero qualsiasi canonico lavoro retribuito: per esempio Assange non può salvarsi di sicuro, come detto, ma Saviano, se si limita ad attaccare la camorra, sì.
Uno come Saviano può quindi, volente o nolente, essere tirato in mezzo dal gioco della politica come uomo di parte implicato in una dialettica governo-opposizione ormai svuotata di ogni sostanza culturale e simbolica. Attenzione, però: anche in questo caso tutto non fila così liscio e pacifico come potrebbe sembrare, per il semplice motivo che prendere seriamente di petto la criminalità organizzata significa implicitamente attaccare certi aspetti del potere politico legittimo. Molti dei buoni per diritto burocratico non scritto, molti di coloro che brigano professionalmente per accreditare titoli di merito etico e morale alla parte che in un modo o nell’altro li paga, non potranno allora esimersi da sfumature di diffidenza e sospetto.
Venereo
In ogni ambito, comunque, basta dire la verità e il vento prima o poi cambia: si tratta di calcolare i tempi nel modo giusto, il che è sempre al limite del possibile e anche oltre.
Quando il vento cambia, il criterio migliore per stabilire se si tratta di un mero capriccio atmosferico oppure di un cambiamento climatico sostanziale consiste nel verificare se i nuovi poteri si limitano a ribaltare sottolineature e omissioni preoccupandosi soprattutto di ristrutturare il walhalla dei santi e la geenna dei reprobi oppure si concentrano su quelle verità scomode che, in quanto tali, risultano in qualche misura ostiche e invise a prescindere di chi si alterna ai posti di guida e comando.
Venereo
Nell'era dei vampiri gentili, a cui alludeva il Poeta, l'inflazionata, decadente e decaduta aristocrazia che predomina necessita del supporto di demagoghi che sono giardinieri delle menti senza la cui sapiente cura l'ambiente circostante si riempirebbe di ostiche asperità.
Un demagogo è un sofisticato culture di alchimie che, intervenendo con principi di semplificazione selettiva in quella piccola, ma intricatissima giungla di suggestioni interpretative e orientative che è ogni cervello umano, garantisce la conservazione indispensabile di una massa critica di voti.
Il demagogo aristocratico si riconosce perché ama spiritualmente il popolo, ma non il modo in cui il popolo ama carnalmente se stesso e persegue oscenamente i propri interessi naturali; il demagogo aristocratico ama un gregge mansueto di individui che perseguono interessi più alti: a costoro egli fa capire che il riflesso innato per cui si ritengono tali e cioè individui e non cloni eterodiretti è la scintilla divina che la perizia dei sacerdoti del tempio trasformerà in dinamismo economico e produttivo.
Il male, per il demagogo aristocratico, è un individualismo fisiologico istintivamente refrattario ai concetti di valore fabbricati ad usum delphini, la recalcitranza che rifiuta investiture e lasciapassare obbligatori per chi vuole accedere al titolo di 'persona umana', Il bene è invece un individualismo metafisico che quei concetti onora.
La differenza di caratura tra un individualismo e l'altro si misura in termini di convertibilità economica: tutto il resto, per i succhiasangue di complemento dei vampiri gentili, è noia e non significa niente.
Lolla Frigida ('Ghinea di Tacco') Collaboratrice e amica di Mestruo Eckhart, in arte Venereo
La mitologia dell'amore universale esige, accanto a una prosaicità dell'ordinario intinta nelle amenità da baccanale pubblicitario, l'esaltazione della sofferenza. Soltanto un eroico climax sacrificale suscita le empatie indispensabili per attivare, accanto alla gradevole solerzia felicemente egoistica dei laboriosi goduriosi, correnti di solidarietà e d'immedesimazione.
Una tecnica di comando ingegnosa necessita di simili accorgimenti, dato che infatuazioni verso individui felici esigono una conoscenza personale e comunque una energia sensuale e libidica ben difficilmente traslabile sul piano della coesione sociale indiscriminata.
Va da sé che una tale impostazione instaura vincoli invalicabili alla quantità di benessere diffuso ragionevolmente raggiungibile, soprattutto perché ottiene una svalutazione preliminare delle aspettative e una conseguente produzione di alibi e scappatoie che rendono senz'altro più comodo l'esercizio del potere.
Licenze per gioia e 'letizia' effettivamente godute al di fuori degli spazi di proiezione simbolica e dei circoli del privilegio, vengono concesse soltanto in subordine dal culto metafisico dell'abnegazione ed esclusivamente come premio per il dovere compiuto.
Poiché un amore impersonale, una generica infatuazione verso l'umanità in quanto tale, o una porzione specificamente limitata di essa, rappresenta una fantasmagoria mitologica senza radici nei geni e nel soma, un fittizio conato della psiche indotto dai condizionamenti esterni, chimera volatile e inconsistente insufflata da un artificio culturale, il senso di colpa che vi si genera per una oscura consapevolezza d'insincerità quando la cupola sacerdotale evoca dalla viscere della massa la generosità obbligatoria, contamina e frena gli impulsi più naturali: anche questa fenomenologia collabora alla promozione di una 'religione del libro' a ingegnoso instrumentum regni.
Ghinea di Tacco
Tramutare i segni inequivocabili e le specifiche costitutive di una condizione d'impotenza negli incitamenti a 'tenere duro', a persistere, a non perdere di vista la meta immaginata oltre la totale, assoluta opacità degli ostacoli, non è sintomo di tenacia e di coraggio ovvero lo è solo in rapporto esclusivo con quella consistenza egoista e autoreferenziale che è la fenomenologia tipica in cui sguazza il competitor darwiniano.
Capita che non sia così, a volte, che volontà oneste e impulsi sinceri trovino pure cittadinanza in non poche occasioni della intricata vicenda umana, ma come si fa a distinguere se il grosso della narrazione che ci si racconta l'uno con l'altro ricade sotto la giurisdizione del velleitario e dell'irrazionale, appartiene a un libro dei sogni la cui dettatura procede da intenti oscuri e logiche indecifrabili?
Ghinea di Tacco
Il pubblico richiede a gran voce che i propri gusti 'sovrani' siano vellicati e serviti, ma questo può valere come condizione e sostanza di democrazia se costituisce ipso facto per il politico una sinecura che lo esenta da intraprese molto più impegnative, se rende gli atti di governo compiti di retorica formale e non di una scienza delle decisioni?
La democrazia si suicida senza gli antidepressivi dell'utopia, questo è indubbiamente vero, ma l'utopia che non si tramuta in pianificazione e progetto produce solo i devastanti effetti di una droga pesante.
Fabrizio di Hoensthollern ('Pa' Trizio') Antesignano degli alieni di serie A e idolo incontrastato dei primi sonnambuli risvegliati.
Non esiste etica dei valori che non si riveli, metaforicamente parlando, nazista in ambito inter-specifico e abusivamente discriminatoria e quindi razzista nel contesto intra-specifico.
Al moralismo arbitrario fondato sull'usurpazione di prerogative teocratiche i kolibiani intendono sostituire il dominio delle regole.
Per i kolibiani l'umanità, in quanto specie, è solamente un animale che si distingue dalle altre forme zoologiche solo per eccezionali potenzialità di scoperta empirica connesse ad altre, parimenti illimitate, di schematizzazione secondo modelli astratti e simbolici declinabili in svariate formulazioni linguistiche.
Per onorare la propria natura scientificamente definita e lasciare libero gioco non distruttivo alle complicate sottigliezze proprie dei fenomeni psichici e di coscienza che rinviene in se stesso, l'uomo deve sistematicamente ricercare e costruire modalità armoniche di presenza e interferenza nell'ambiente terrestre che impediscano effetti destabilizzanti e catastrofici, garantendo a ogni membro un trattamento ispirato a criteri elementari di giustizia come quello di ricevere un minimo, commisurato a un minimo di buona volontà collaborativa e compatibile con l'armonia generale di sistema, e un eccesso in base al contributo fornito in rapporto alla medesima armonia.
Se l'uomo, generalmente inteso, ne è capace, bene, altrimenti rappresenta solamente un esperimento fallito della Natura.
Entrambi i termini dell'alternativa per il momento rimangono aperti.
Tutto il resto è noia e non significa niente (al di fuori del linguaggio strumentale degli interessi consolidati).
Pa' Trizio
Se si prescinde dall'aspetto teleologico, non sussiste alcuna differenza sostanziale tra un determinismo scientifico integrale e un panteismo religioso.
Una ulteriore aggiunta, quella dell'autocoscienza dell'unità onnicomprensiva, conduce dal panteismo religioso al monoteismo tradizionale.
Il 'panteismo' scientifico è compatibile con qualsiasi epistemologia seria appena quella smetta di schermirsi dietro cautele agnostiche e ambivalenze sentimentali e pragmatiche, limitatamente però alla possibilità di un tutto autoconsistente la cui esistenza richiede la premessa fondamentale di un'assenza di contaminazioni e influenze provenienti da altri universi di un ipotetico multiverso.
Invece l'aggiunta di una finalità evolutiva e della consapevolezza operativa rimangono, non solo estranee, bensì specificamente antinomiche e contraddittorie con le basi logiche e strutturali del discorso scientifico, semplicemente perché nessun sistema ha la capacità di riprodurre al proprio interno una replica completa e corretta di se stesso senza al tempo stesso modificarsi in modalità incontrollabili e perfino indefinibili dal sistema stesso.
Ogni rapporto di conoscenza e quindi ogni azione che, per essere coerente e conseguente, vi si connette in modo inestricabile, presuppone, esternamente al rapporto stesso, relazioni che si modificano e modificano il rapporto stesso contestualmente e sincronicamente al suo esistere.
Riproduzione e controllo non possono rientrare in una funzione totalizzante comprensiva di se stessa.
Funzionalità ed essenza non sono logicamente sovrapponibili.
Se non è possibile per un uomo comprendere Dio, un Dio giusto non può pretendere di essere compreso.
Un'adorazione senza comprensione è solo adulazione e piaggeria.
Per quanto possiamo capire ed esprimere senza cadere nell'arbitrio più totale, un Dio giusto creerebbe un opossum perché faccia l'opossum e un primate perché faccia il primate, non un caribù che cerchi di imitare un'aquila o una scimmia che scimmiotti un alieno dotato di super-poteri.
Wladimiro Kashmir ('Casimiro') Si definiva 'il suddito più brillante del duca di Hoensthollern'.
Quando giovani donne si suicidano perché il filmato di un atto sessuale in cui si sono o sono state coinvolte è stato diffuso su internet, dei commentatori intelligenti dovrebbero interrogarsi su come suddividere le responsabilità tra: a) i mascalzoni che hanno fatto scempio dei diritti di una persona a disporre di dati relativi alla propria intimità; b) l'ipocrisia di un sistema legale che vanta disposizioni riguardanti quei medesimi diritti e poi fa pagare uno sproposito le relative procedure d'intervento; c) la demenza scurrile di una società che fa vergognare a morte una persona sessualmente esibita quando nessun tipo di umiliazione o altra particolare forma infamante dovrebbe procedere da atti che la natura ci comanda e che si relazionano con il tipo di esperienza esistenziale più intensa e gratificante in assoluto.
Noi non nutriamo il minimo dubbio al riguardo: le responsabilità vanno pesate in ordine inverso rispetto all'esposizione che ne abbiamo dato.
Per maggiore chiarezza, intendiamo specificare come segue i termini del problema: se una persona può andare fiera e ottenere consensi allorché si dimena per un entusiasmo incontenibile davanti a un divo della canzone o a un calciatore in braghette o partecipa a una cerimonia religiosa atteggiandosi meccanicamente secondo le prescrizioni del rituale o divora una pietanza mostrando un gradimento compiaciuto da gastronomo esperto, noi non abbiamo niente da obbiettare: de gustibus eccetera. Quando però siamo costretti a constatare la sproporzione assurda in reazioni che da empatiche diventano addirittura brutali e annichilenti quando, invece di certe ordinarie, ma comunque opinabili, manifestazioni antropologiche, vengono diffusi comportamenti di tipo sessuale, non temiamo di apparire troppo drastici se ne deduciamo un grado elevatissimo di patologia sociale.
La discussione intrapresa si porta dietro alcune interessanti e spinose domande.
Se per il naturalismo e panteismo kolibiano la sessualità rientra in una sfera di moralità superiore, quanto veleno si devono ingoiare i nostri compagni di dottrina senza poter reagire e anzi dovendo contenersi per non incorrere in sanzioni avverse? E' giusto che non possano aspirare a una tutela giuridica del proprio concetto di sacralità (che ovviamente non si limita alla sessualità in se stessa, ma evoca un più integrale e pregnante senso di una fisiologia adeguatamente sublimata)?
Se hanno ragione i kolibiani e allo stato attuale le disfunzioni di sistema possono essere preservate dalla degenerazione catastrofica solo attraverso un ben definito progetto ristrutturativo, come può generare e approvare un progetto adeguato una società tanto profondamente malata?
Michaela Pistorius ('Grilletto') Studiando la sociologia della devianza si convinse che il suo precipuo carattere distintivo si concentrava non tanto su abissi di disperazione e sopraffazione, sullo strazio lancinante dei nervi: questi potevano a volte e magari spesso o molto spesso fungere da causa pregressa, ma il vero ambiente di coltura delle trasgressioni più pericolose rimaneva il grigiore di un eterno presente spianato dall'impossibilità di scorgere, dentro il cerchio uniforme dell'orizzonte, qualche differenza di ordine emotivo, intellettuale, esistenziale o morale, alcuna possibilità di annuncio o resipiscenza dal passato come dal futuro. Sotto il peso soffocante di questa amorfa e vischiosa incombenza, vita e morte si equivalevano come due racchette di ping pong tra cui la coscienza rimbalzava senza possibilità di uscire dal gioco; l'unica differenza era il suono più acuto che produceva l'impatto con la morte nella cantilena incessante emessa da un folto pubblico che assisteva restando immobile come in uno stato di trance.
Dopo che l'alternativa tra continuità e rivoluzione e la domanda capitale su quale scelta rivela più buon senso sono state correttamente poste, è ancora lecita una risposta nel senso della conservazione e dei normali o corrivi consigli, ma solo finché si possiede l'onestà intellettuale di confessare che essa dipende da percentuali di rischio capitale tuttora (probabilmente, ma non certamente) inferiori al 50%, anche se superiori a quello che imporrebbero elementari principi di precauzione applicati al presente.
Tali principi diventano obbligatori se si assume quella prospettiva etica che tutti a parole proclamano di rispettare, ma che in realtà contravvengono in maniera addirittura perversa: sto parlando di scelte assiologiche allargate oltre l'orizzonte temporale degli attuali viventi e quindi comprensive dei diritti alla vita e al benessere delle generazioni future.
D'altra parte, non è difficile rendersi conto del perché le religioni che favoleggiano di eden sempiterni non vedano tanto di buon occhio, accanto alla eventuale scoperta astronomica di altre creature intelligenti sparse per il cosmo (a cui potrebbe aggiungersi la prova dell'esistenza di altri universi), un prolungarsi eccessivo della catena generazionale.
In effetti il paradiso acquisterebbe aspetti un po' troppo... inflazionari.
Grilletto
Il massimo livello di cretinismo liberista è raggiunto quando si afferma che facendo scomparire lo stato scomparirebbe la corruzione.
Anche qui il misfatto, degno emulo di tutte le brutture commesse da apparati che non opprimono con la forza, bensì narcotizzano e raggirano, si palesa come delitto di omissione: si dimentica di apporre un aggettivo: 'illegale'.
Il liberismo sradica la corruzione illegale per sostituirvi quella legale, vale a dire un carico di soprusi e rapine di beni e diritti comuni consentito dalle leggi vigenti.
Se infatti l'aspetto etico della politica (interpretabile, nel migliore dei mondi possibili, come azione disinteressata di funzionari pubblici ai fini di ottenere una più equa distribuzione d'introiti, prerogative, incentivi, ricchezze e quindi una strutturazione più armonica del macchinario economico) viene sacrificato agli automatismi darwiniani di sistema, è ovvio, in base a principi essenziali di economia, che l'animale dominante userà la proprie caratteristiche antropologiche non affilando i denti e le zanne (almeno non in maniera esaustiva e nemmeno preponderante), ma forgiando regole e disposizioni a vantaggio delle proprie esigenze predatorie.
Non a caso i paesi evoluti più corrotti del mondo (in modo illegale) sono quelli più intrisi da ciò che generalmente potremmo chiamare 'misticismo' (anche se il termine, applicato al cattolicesimo, suona a dir poco paradossale), mi riferisco a India e Italia.
La compenetrazione religiosa del costume nazionale, instillando tutto un retaggio storico di cautele, vezzi scenici e declamatori, ipocrisie, comporta la sopravvivenza accanto al globalismo tecnologico di forme mitico-assembleari strettamente legate alle inclinazioni cerimoniali più diffuse e quindi di un ceto politico affetto da una prosopopea che non può fare a meno della santità e dei valori: quando questo genere di amministratori diventa realista, il che non avviene quasi mai a prescindere da convenienze particolari, spesso e volentieri diventa anche corrotto.
In sostanza, oggi come oggi, la corruzione (illegale) tende sempre più a fungere da misura dell'indipendenza del potere politico rispetto all'arbitrio economico.
Grilletto
Una pianificazione teorica ('artificiale') e integrata dell'economia, della politica amministrativa e dell'organizzazione gerarchica e associativa è tuttora considerata dalla maggioranza degli esseri pensanti una pura e semplice utopia.
Accade così che quasi tutti, chi per convinzione, chi per rassegnazione, assistono inerti e ipnotizzati all'incedere di un'apocalisse che, ci si augura vilmente senza poterne avere certezza, riguarderà le generazioni future e non gli attuali viventi.
Se però si scruta attentamente il cuore di quella utopia presunta al fine di verificarne il grado di realizzabilità, si potrebbero incontrare gradite o sgradite sorprese.
Si potrebbe scoprire, per esempio, che poche mosse preliminari, compromettenti e radicali quanto sicuramente passibili di progettazione con la necessaria dovizia e precisione di dettagli conservando, in un primo tempo, la maggior parte dell'impianto strutturale vigente, spianerebbero la strada a una serie conseguente di riadattamenti progressivi tali da rendere la definizione della nuova architettura, almeno sulla carta, una trafila organica di processi quasi automatici.
Consideriamo tre formidabili, autentiche riforme ovvero rivoluzioni (la parola 'riforma', isolata, suona sempre debole e svilita nella fase declinante di una civiltà): 1) la nazionalizzazione e collettivizzazione del sistema finanziario; 2) l'introduzione della moneta elettronica assoluta; 3) l'inversione del rapporto di sudditanza tra stato centrale e grande industria multinazionale (attualmente la grande impresa privata, al centro dell'impero, controlla e seleziona il personale della politica sia per filiazione diretta sia attraverso incentivi di carriera e portafoglio, presiedendo alla formazione e vigilanza dei quadri attraverso una spartizione di massima che assegna al versante industriale la sovrintendenza delle centro-destre e a quello finanziario quella delle centro-sinistre).
Prima di affrontare nello specifico i tre punti, che qualcuno potrebbe già scartare come assurdamente estremisti e che a noi appaiono pure e semplici istanze di razionalità liberate da interessi preesistenti e dai vincoli di quelle contingenze che gli storicismi metafisici ossequiano solo perché sono accadute, occorre spazzare il campo da tutti i drammatici equivoci che circondano come una nube di vespe assassine la gestione dei pubblici affari soprattutto per quanto riguarda il problema della correttezza e dell'efficienza.
Che le questioni di una buona amministrazione statale e delle condizioni che la favoriscono o deprimono debbano essere poste in via assolutamente preliminare, è ovvio, ma a noi kolibiani appare altrettanto ovvio che non si tratta di qualcosa che attenga a visioni strategiche o presupposti sistemici di un tipo o dell'altro: le problematiche relative s'iscrivono in un ambito di normale prassi e profilassi della gestione abituale. Se non sono state ancora risolte, si deve alla malafede o incapacità di tutti gli aventi causa, soprattutto quando le istituzioni pubbliche controllano da tempo immemorabile una caterva di attività aziendali.
Accusare di utopia un programma politico perché non tiene in debita considerazione sprechi e inettitudini delle amministrazioni collettive equivale implicitamente ad accusare di malversazioni e vandalismi coloro che se ne occupano: non esiste una sola ragione al mondo perché dirigenti pubblici debbano risultare meno 'performanti' di dirigenti privati una volta che l'ambiente sia stato opportunamento ricondizionato, e questo sì è per davvero un compito e un obbiettivo del progetto o, se si vuole, dell'utopia.
Pensarla diversamente comporta ritenere, parafrasando Keynes, che il massimo bene dell'umanità consegua dai suoi peggiori difetti, il che rimanda alla mano invisibile di Adam Smith, quindi alla mano di Dio e quindi alla natura divina dell'uomo: una palese contraddizione di cui incuriosisce moltissimo la circostanza che pochissimi se ne siano accorti.
Come si vedrà, alcuni portati delle rivoluzioni fondamentali come da elenco pregresso promettono decisivi miglioramenti sia sul fronte delle capacità operative, sia su quello, ahimè non meno importante, delle insidie legate a corruzione e stimoli devianti.
Raffaello Pinza ('Sancio') Pseudonimo, non è ancora appurato se di Paris Garden (55% di probabilità), di Cogliostro (35%) o di Venereo (15%). Tutti gli altri, compreso Kalamanduk, si spartiscono la fetta restante.
Il supremo compito storico-metafisico dell'umanità consiste in questo: togliersi di mezzo.
Non alludo ovviamente a quegli harakiri di gruppo che a tre quarti circa del XX secolo diventarono una pratica molto alla moda presso serial killer abbastanza perspicaci da vedere come lo spirito di setta e la religiosità delirante si acconciassero molto bene alle proprie particolari inclinazioni.
Se vi alludessi veramente dovrei, per coerenza, ripudiare il credo kolibiano e rimanere fedele a una religiosità di massa che, in modi più contorti e meno consapevoli, con spirito di sacrificio subliminale intorbidito da motivazioni ipocrite e confuse, soggiace a istinti assimilabili a quelli degli assassini cerimoniali.
Precisiamo allora che 'togliersi di mezzo' può tradursi con qualcosa come 'sospendere e abolire quelle vessazioni e auto-vessazioni masochiste con cui l'umanità sta opprimendo il pianeta' oppure 'abbandonare miti di superiorità che cominciano con la proclamazione scettica della relatività di qualsiasi sapere scientifico e finiscono con la riedizione di dogmi millenari tradotti in termini di esagerazioni narcisiste'.
Togliersi coscientemente e consapevolmente di mezzo significa insomma, da parte dell'umanità, assumere in pieno la propria natura di puro e semplice animale intelligente accettando il carico di responsabilità che deriva dall'immenso e pericolosissimo potere gestionale, di salvaguardia o distruzione, conferitogli per verdetto di natura.
Accettare obblighi ineluttabili che impongono una rinuncia esplicita e tassativa alle deviazioni patologiche di un delirante dominio teocratico sulle altre forme viventi non comporta alcuna mirifica abnegazione o santità: in gioco c'è, prima di tutto il resto, la propria durata nel tempo.
I ruoli disponibili sono sostanzialmente due: quello di animale intelligente replicato a lungo e quello di anima stupida replicato solo poche volte nel contesto terrestre, ma gioiosamente aperto a tutta una eternità di nuovi sbarazzini disastri in iper-urani danteschi allestiti come i parchi giochi dei film horror, alcuni addirittura con Benigni (Umberto) come usciere.
Inutile dire che entrambi presentano le proprie attrattive, dal che si capisce facilmente perché molti chierici accorti cerchino di evitare una scelta che si affannano a dimostrare non necessaria e anzi dannosa.
Non ascoltateli: una scelta s'impone ed evitarla non rappresenta una terza alternativa, ma una scelta mascherata.
Sancio
Dovendo esaminare punto per punto la concreta realizzabilità di ogni fase del Progetto, per quello che concerne difficoltà e ostacoli, eviterò di rimarcare, semplicemente perché ovvie e scontate, le resistenze e relative pressioni degli interessi contrastanti.
Un ulteriore presupposto generale, che, esplicitato qui, non ha più necessità di essere ribadito ogni volta, riguarda la considerazione di due aspetti distinti e concomitanti, ciascuno meritevole delle necessarie attenzioni costruttive: la funzionalità tecnica di un sistema astratto azionato e diretto da maestranze e maggiorenti forniti di onestà e capacità ideali, da un lato, la messa in campo degli opportuni apparati di formazione, controllo e verifica, dall'altro, necessari per affrontare gli ostacoli e le complicazioni di una realtà incasinata e bastarda.
Antidoti e premunizioni si presumono del resto facilitati proprio dal complesso di ristrutturazioni di cui si sta parlando, dato che l'innesco consapevole e premeditato di circoli virtuosi deve giocare una parte fondamentale in qualsiasi processo di riforme apprezzabili.
Forse è utile però, per uscire decisamente dal vago, proporre un esempio specifico. Prendiamo dunque il cancro della corruzione: la trasparenza assoluta delle transazioni lo sbaraglierebbe, d'altra parte si sa che fondamentale al riguardo rimane la possibilità di rintracciare le movimentazioni che coinvolgono i conti esteri.
Si può ritenere il problema dei trasferimenti e delle transazioni internazionali insanabile senza accordi specifici altrettanto estesi, il che apre anche il tema della necessaria dilatazione e unificazione geografiche dei provvedimenti affinché essi risultino efficaci. Tali tematiche i kolibiani se le tengono ben presenti, non si potrà mai accusarli di astrazione o faciloneria.
Il fatto è che è facilissimo accusare di avventatezza e dilettantismo chi attacca certi nodi cruciali di sistema, difficile è accorgersi quando questi assumono aspetti tali da renderli incompatibili con i presupposti irrinunciabili e i nessi critici dell'intelaiatura portante di qualsiasi società sana.
Se la globalizzazione diventa il meccanismo privilegiato dell'alta delinquenza, riciclata attraverso qualcosa come una etichetta giuridico-cortigiana controllata dall'aristocrazia del censo, cupola incombente a cui ogni disposizione legislativa dei singoli stati deve inchinarsi, è più utopico proporre un modello rivoluzionario da impiantare localmente, auspicando che sia presto seguito da altri e preparandosi ai formidabili ostacoli che si susseguiranno finché ciò non sia avvenuto con la necessaria intensità e diffusione, oppure sperare nella salvaguardia dei valori democratici fondamentali da parte di un sistema che li usa come decorazioni sulle mura esterne di un mattatoio dove gli stessi valori vengono macellati (pitture magari commissionate a street painter dell'area antagonista)?????
Un certo sospetto di spreco donchisciottesco nell'apporto energetico kolibiano può anche indurre una dolente rassegnazione (molti l'hanno ravvisata perfino nella pubblicistica dei Padri): non ce ne rammaricheremo, né vi spenderemo una briciola del nostro sdegno, ma questo scetticismo rimane assolutamente incompatibile con l'entusiasmo progressista, questo sì suscettibile di nauseata ripulsa quando non rispetta coefficienti minimi di coerenza.
E' giunto dunque il momento di una scelta improcrastinabile tra progetto federale delle nazioni libere, concordi ma non monocordi, e liberismo ecumenico delle egemonie delinquenziali (di cui mafie, droni e terroristi rappresentano soltanto delle punte di iceberg).
Kalamanduk
Supponiamo che in sostanza sia tutto molto teorico, che alla fine poco o nulla di quanto richiesto a gran voce dai kolibiani si realizzerà mai per le resistenze implicate. Avremo sprecato fiato e tempo inutilmente?
Certo, è così, se è quisquilia dimostrare che il paradiso sulla Terra può esistere, ma la costituzione antropologica in se stessa o perlomeno la versione che si è andata costituendo nel tempo storico a fronte delle tante possibili, anche e soprattutto per meccanismi di selezione darwiniana, non vuole o non può raggiungerlo benché costi soltanto un cambio di mentalità e uno sforzo più o meno simile ai piani di fabbricazione completi di qualcosa come un mega computer o un grosso aereo.
Le difficoltà oggettive, dirà qualcuno, appartengono al dominio della Natura, non dell'uomo. Può darsi, ma non è argomento che possa tenere se si ci si focalizza sul fatto inconcepibilmente scandaloso e ripugnante che, con tutti fondi spesi in consulenze di esperti perlopiù fasulli ma sempre molto bene allineati, neppure un soldo riguarda l'edificazione teorica di scenari radicalmente alternativi: che cosa di diverso potrà mai rivendicare il diritto di unire in matrimonio etica e politica?
Niente, cari signori, niente, a dispetto di tutti i fumi soporiferi che spandono ogni giorno guru e santoni venduti a Mammona.
Perché il Progetto latita? E' troppo difficile? Certamente no. E' troppo pericoloso? Certamente sì.
Un progetto di riforma radicale, anche se limitato alle carte su cui è tracciato, è molto più minaccioso (ovviamente per quelle complessioni che ben conosciamo), anche se molto meno catastrofico, di tutte le masse vendicative di miserabili ed emarginati.
Per altri versi, già il semplice parlare di Paradiso Terrestre, non costituisce un lapsus che rivela l'utopista mascherato sotto un linguaggio scientista?
Noi abbiamo usato quella locuzione in termini volutamente provocatori.
Se il Dio programmatore esistesse e avesse creato la Terra disponendovi l'umanità come una specie di esperimento in corpore vili, con l'intento, una volta predisposto il quadro generale, di permettere alle cose di procedere secondo leggi predefinite in cui Egli non interviene più, assisterebbe incuriosito proprio per constatare se le caratteristiche di base dell'umanità si riveleranno idonee a conservare l'ambiente originario accomodandovisi al meglio.
Che cosa sottintendono i vari miti intorno alla cacciata dall'eden e alle età dell'oro se non quel fallimento iniziale inteso come premessa e fonte di ogni disgrazia in grande stile?
Se allora la natura umana si sostanzia nel groviglio di relazioni che la avvolge, se l'etica non può definirsi né avvalorarsi al di fuori della pratica sociale, a che cosa servono i fioretti individuali a fronte di una impotenza che si configura come un enorme peccato di specie?
Ci vuole proprio il dio che sì fa uomo ed espia per tutti, come il perspicace marpione cristiano intuisce gettando il suo commiserante più che compassionevole sguardo sullo zoo di tutti gli zoo, ma a che cavolo serve se poi ci risiamo daccapo?
Una dimostrazione di fattibilità del 'paradiso' funziona come una messa in scacco permanente della politica e della religione ufficiali, un rinvio a giudizio di tutte le vuote chiacchiere di coloro che se ne servono ormai soltanto come strumento di carriera e ingranaggio di trasmissione delle volontà secondo egemonie e privilegi fossilizzati.
Tutto ciò è quisquilia?
Hannibal Pirro ('Aquila') Studioso dell'interazione sociale, ne sviluppò una critica serrata approfondendo il concetto di maggioranza fasulla, ovvero quel tipo di preponderanze numeriche che arbitrano i confronti e i conflitti in un corpo elettorale e che non si basano mai su bisogni primari di chiara definizione e trasparente natura, ma sulla massa manipolabile dei bisogni secondari, la cui fertilità riproduttiva genera una teratologia di sequenze sempre più autonome e distanti dalle costituzioni individuali. "E' come, nell'intermezzo prima di uno spettacolo, un invito a ballare per chi possiede i migliori posti a sedere: quelli che saranno trascinati nelle accattivanti e sensuali volute, al cessare delle musiche e all'alzarsi del sipario su quello spettacolo che è il vero scopo della loro presenza, troveranno il posto occupato e dovranno lasciare la sala. Molti, la maggioranza, lo sa, ma tutto è orchestrato in modo che sia molto difficile resistere a certi richiami." Quando le regole del gioco sono disposte non in base a quello che una persona è, ma a quello che vorrebbe o, secondo il fatidico 'Altro', dovrebbe essere, quelli che si trovano nella condizione favorevole di poter essere quello che sono (perché, per esempio, possono discorrere o amoreggiare su un comodo divano senza doversi sottoporre alle coreografie dello struscio) giocano sempre in casa, con l'arbitro a favore e almeno due punti ottenuti a tavolino.
Tutti dobbiamo mostrarci immensamente grati alla musica e, più in generale, all'arte popolare e alternativa, potremmo addirittura spingerci al punto di affermare che nessun ambito sociologico si rivela più fecondo e significativo quanto a reperti documentali utili a definire lo statuto antropologico di concetti fondamentali come quello di affiliazione democratica e pregnanza dei valori.
Quali scuole migliori, inoltre, ai fini di una valutazione della frattura fenomenologica e delle antinomie inguaribili che presiedono al rapporto tra le categorie del pubblico e del privato?
Forti del relativo contributo di esperienze potremmo addirittura stabilire due preziosissimi teoremi che, per analogia, ci soccorreranno quando si tratterrà di stabilire in che proporzione sentimento e ragione devono intervenire a fortificare una politica pianificatrice.
Eccoli, ridotti all'osso: a) la qualità artistica è inversamente proporzionale al livello di agitazione termica; b) l'agitazione termica è inversamente proporzionale all'efficacia oggettiva dell'impegno umanitario e civile (se e quando è conclamato).
Potremmo aggiungere un corollario comune: il potere usa i concerti rock come valvola di sfogo ossia agone ghettizzato in cui far confluire ribellioni che mentre si sgolano sempre più forte, diventano nel contempo sempre più fittizie e virtuali.
Alle precedenti formulazioni si perviene considerando lo svolgersi degli eventi sia sul palco che nelle platee o gallerie antistanti, riguarda cioè sia i santoni (a volte milionari, a volte meno) che officiano i riti, sia gli spettatori democraticamente accaldati e vogliosi quanto impotenti, anche se la verità delle formulazioni va intesa in termini di ampia preponderanza statistica vulnerabile a qualche eccezione.
Un rito religioso, una cerimonia commemorativa, un corteo dimostrativo eccetera equivalgono, per esempio, a un concerto rock raffreddato sotto la supervisione del potere centrale (diviso eventualmente in due o più fasi ormai equivalenti), quindi non nel modo giusto.
Aquila
Le benemerenze acquistate dai Santi Padri Kolibiani nel criticare espressamente i grandi istituti religiosi e gli altri centri, occasionali o meno, di santità (inclusi le commemorazioni funebri ufficiali trasformate in vetrine di rappresentanza e i 'grandi eventi musicali' dei teatrini rock, pop, pip, pap e sgrunf) non saranno mai sufficientemente rimarcate.
Nessun altro argine veniva infatti alzato a quei tempi contro i devastanti uragani di tendenziosità che soffiavano a velocità folli costringendo anche la gente migliore che non voleva essere spazzata via dai propri compiti lavorativi o percorsi di carriera a scansarsi per poi fare finta di niente.
Due esempi dovrebbero bastare: i servizi giornalistici con i piani sequenza di crolli e macerie mandati in split screen insieme a un riquadro immobile di un crocefisso rimasto appeso a una parete 'protetta' (sottolineando il simbolico messaggio di qualcosa che magari è stato appeso lì, a bell'apposta, in un tempo posteriore al disastro) e la frase rilanciata nei titoli di tutti i tiggì più importanti che le distruzioni non sono opera del terremoto e quindi di Dio: sono opera sempre e comunque degli uomini.
Ovviamente, non si capisce perché Dio sarebbe in grado di adempiere ai soccorsi richiesti dalle innumerevoli preghiere che ogni istante si elevano come nebbia dal suolo, per esempio in occasione della malattia di un figlio, ma sarebbe invece impotente quando c'è di mezzo la stabilità di un terreno.
Ancora più ovviamente, se il terremoto fosse stato di livello 7 o superiore e non 6 (che è più o meno il limite entro cui le prevenzioni inappuntabili possono far fronte con relativa sicurezza) ci si sarebbe guardati bene dall'emettere simili dichiarazioni, oltretutto molto spinose in termini di risarcimento danni (!).
Aquila
Come può un laico vero, un razionalista di buon senso scagliarsi contro gli unici interventi che cercavano di correggere uno dei difetti più esiziali di una dialettica democratica rivendicatrice di un'autentica liberalità senza avervi titolo e diritto? Qual era la ragione vera per cui s'intendeva preservare a ogni costo aree protette dai crismi della sacralità, settori operativi dove si millantava neutralità e nondimeno si svolgevano manovre politicamente compromesse da parte d'interessi ben mimetizzati e assistiti grazie proprio a certe patenti d'immunità?
Se esiste una discriminazione tra sacro e non sacro esiste un pensiero di serie A (sacro) e un pensiero di serie B (non sacro): come si fa a non rendersene conto oppure a considerare la distinzione innocua e anzi doverosa?
In realtà la semplice esistenza di quella distinzione moltiplica enormemente i rischi di una deriva autoritaria e il fatto che persista in spregio di ogni vero spirito critico indica che quella deriva è espressamente voluta da molti e variegati ambienti i quali, davanti alla famosa alternativa ineluttabile tra lo stato stazionario della rivoluzione progettuale e la stagnazione sotto un severo regime paternalista hanno già effettuato la loro scelta.
Prima o poi il regime paternalista scivolerà verso un dispotismo sempre più accentuato, ma pochi reputano che sia il caso di occuparsene adesso.
Se anche si trattasse (secondo una interpretazione più ingenua che generosa) di rispetto del principio di maggioranza, è quasi banale ricordare che il liberalismo vero stima la forza delle idee a prescindere dal peso politico, il liberismo (che è solo una forma evoluta di autoritarismo) si concentra invece sui criteri di predominanza che sono più facili e convenienti da manovrare.
Di tutto ciò si ha riprova ogni giorno che passa: una molto significativa riguarda le escursioni di parecchi gradi degli indici di ortodossia relativi a medie e piccole testate, già relativamente disinibite e liberali in considerazione di un uditorio di nicchia, nel momento stesso in cui, per il solito gioco di concentrazioni che prosciuga uno dopo l'altro tutti gli spazi d'indipendenza mediatica, sono attirate dall'orbita di centri economici grandi abbastanza da destare l'attenzione degli interessi dominanti e sono quindi richiamate, nell'assoluto rispetto della loro libertà (s'intende!), a un superiore e libero impegno morale nell'espletamento di liberi impegni educativi.
Ned Plurimus ('Origamo Uragano') Psicologo sperimentale, condusse la serie di celebri esperimenti basata sui famosi 'protocolli modulati', questionari studiati per evidenziare aspetti diversi e spesso contraddittori della personalità di soggetti ai quali era stato garantito l'anonimato e ai quali, dopo l'aggiunta ai moduli da loro compilati di un commento esterno opportunamente 'addomesticato', veniva chiesto di scegliere uno o più moduli compilati (a loro riconsegnati in copia) da presentare a gruppi di 'esaminatori', opportunamente differenziati per composizione e scopi. L'analisi statistica di tali scelte evidenziava come i tratti della personalità più confacenti ai meccanismi di identificazione intima e alle aspirazioni autentiche, per quanto potevano essere avvertiti e riconosciuti dal singolo soggetto attraverso l'esame di sé, venivano considerati pericolosi e scarsamente agibili in ordine a una riuscita sociale, mentre al tempo stesso si considerava inammissibile ogni falsificazione od omissione in ordine all'instaurazione di sincere relazioni affettive. Origamo Uragano stesso ne trasse spunti importanti per irrobustire stimoli e scopi della sua militanza: "Le religioni e le politiche tradizionali fanno pressione affinché l'uomo soggiaccia alla dittatura dell'alter ego vessatorio, qualcosa di analogo, se prescindiamo dalla mitologia familiaristica e sessuale, al Super-io di Freud. Questo è inevitabile e definitivo finché viene tenuto fuori dal gioco l'uovo di Colombo del Progetto Kolibiano." E aggiungeva: "Se nascondere le proprie inclinazioni profonde è considerata una mossa indispensabile ai fini di ridurre i rischi di fallimento sociale, nessuna forma di amore e sentimento può intervenire seriamente in un pubblico dibattito costruttivo, proprio perché amore e sentimento dovrebbero in quel caso assumere forme stereotipe e fungere da principi discriminativi e censori. Le religioni di 'amore', quando esulano dalla sfera della sensibilità privata e debordano in quella politica, equivalgono quindi a religioni di menzogna antropologica prima che metafisica."
Ed eccoli, puntuali e imperterriti, scontati e invincibili come quelle epidemie che ormai nella rete globale si susseguono con l'implacabile monotonia delle scritture notarili, i ritornelli dell’aristocrazia sobillatrice, quella che continuamente incita, scuote, esorta, sollecita, sprona, incoraggia, pompa, martella, sospinge perché abbisogna di una energia da marionette elettriche o diesel per prolungare una pigra e ipocrita egemonia consuetudinaria.
Ascoltateli umili e ammirati quando sentenziano che non bisogna avere paura dell'altro, che occorre mantenere una disponibilità ad accogliere e servire, che è doveroso aprirsi, dialogare, condividere!
Non si deve insomma temere figuracce compiendo da sprovveduti dilettanti quello che i saggi consiglieri eseguono da professionisti esperti e remunerati in ossequio a interessi 'superiori'.
Ama il prossimo tuo più di te stesso!
Da che pulpito, grande e santo pulpito, massimo, massimissimo pulpito!
Per questi predicatori, il libero rapporto umano è più prezioso di ogni altro tipo di approccio e interazione, solo lo sfogo dell'individualità onesta e sincera conta veramente, tutto ciò che mobilita gli inesauribili tesori che l'anima eterna, a differenza della psiche transeunte, contiene ed è portata per vocazione spontanea a riversare all'esterno.
'Naturalmente', in via propedeutica e cautelativa, occorre prima depurare l'anima di ogni contenuto che possa pregiudicare la bontà delle interazioni, quindi preservarla da ogni inclinazione anche solo genericamente contigua a qualcosa come istinti e stimoli fisiologici naturali.
'Naturalmente', bisogna filtrare e selezionare le differenze in modo che non rappresentino ostacoli a un'integrazione intesa come omologazione sublimante dopo sgrossatura da accidenti e rarità; le differenze devono essere abolite ogni qual volta si sovrappongano a una comune essenza umana sbugiardando il marchio di specie eletta stampigliato alla nascita, quindi le vere differenze devono scomparire e basta, il che non fa male ai ritmi produttivi, anche se, beninteso, non sono quelli che contano, no davvero, non sono importanti i fini materiali, ma gli orizzonti di salvezza eterna che la procurata ginnastica di disciplina e sacrifici ineffabilmente dischiude.
Sempre più 'naturalmente', però, l'altro deve rimanere 'altro', libero di esprimersi e di mettere quindi in vetrina speciosi artifici rituali accanto ad altri speciosi artifici rituali, di esibire le particolarità cinofile del proprio Dio uguale e diverso in quel festival permanente della convenzionalità antropologica che celebra i fasti dell'uniformità esistenziale effettiva: oggi un nudista che non rispetta le zone protette finisce ancora alla gogna per oscenità, né lo aiuterebbe proclamarsi adepto di una setta mistica del libero amore, ma 'un costume da bagno' che avvolge il corpo in un penoso bozzolo soffocante offendendo il senso di libertà e sensualità ancora concesso ai piacevoli ghetti da spiaggia merita senz'altro una comprensiva e pensosa disponibilità.
Ancora più 'naturalmente', è necessario fortificare quel concetto di 'legge e ordine' che sovrintende al proficuo e produttivo funzionamento di ogni società, rendendo operativo un tipo di 'legge e ordine' che sia più cogente e condizionante delle fallibili prescrizioni umane e legiferi nelle pieghe di ogni struttura psicologica estirpandone le componenti capricciose e autonome, sostituendole con una unità più autentica e profonda.
Si deve insomma consentire l'azione dei 'decreti divini' e dunque di obblighi e rispetti la cui presenza testimoni la bontà fondamentale di una persona, configuri uno stereotipo interiore di salute pubblica privo di storture e devianze, il che abilita una nube lucente di garanzie spirituali e diritti eterni ad avvolgere la gestione riservata e in incognito di molte delle corrive e banali norme che vincolano di fatto il sistema delle relazioni e degli scambi sociali.
L'insieme di queste dinamiche, se agito secondo i canoni della giusta dottrina, non può mai limitare e impoverire: deve per forza liberare e arricchire.
Così sta scritto e così deve essere.
Stanislao Posterov ('Manicheus manicus manescus') Predicò i caratteri di priorità temporale, ma anche di lungimiranza propedeutica, rispetto all'avvento del Progetto, dell'instaurazione di un regime comunista di tipo tradizionale, naturalmente sfrondato di ogni mitologia e metafisica, a partire dalle pretese di dominazione imperiale.
Come tutti sanno si è molto discusso circa la totale assenza di diplomazia dei Santi Padri. Qualche commentatore frescone, corista apocrifo dell'ultimo minuto, si è spinto fino a lamentarsene come di una nota stonata, una migliore elaborazione della quale avrebbe consentito una presa più celere del movimento nell'ambito della società civile.
Intendo rintuzzare con fermezza simili pericolose deviazioni revisioniste.
Quando un messaggio urgente di verità suprema non può vellicare in nessun modo i maggiorenti in grado di deciderne la diffusione e il successo ufficiale, quando il monito che vi risuona allarma e incattivisce gli arbitri e i selettori della pubblica opinione, non per libera scelta, ma per l'ineluttabilità dell'incombenza oggettiva, non solo non è sbagliato, è consigliabilissimo e anzi irrinunciabile che anziché velare e addolcire le critiche, si proceda a esplicitarle e radicalizzarle in modo che non permangano ambivalenze o equivoci.
Si dovrà magari saltare una generazione prima che un meritato ascolto ottenga i salutari e auspicabili effetti, ma intanto i relativi pensieri attecchiscono in menti fertili e non avvelenate e i germi si preservano nel tegumento in attesa della stagione propizia.
Qualsiasi comunicazione che necessita dell'avallo di fieri avversari per durare e trasmettersi, se pretende di comprarsi la loro benevolenza, potrà sopravvivere soltanto a prezzo di stravolgimenti del proprio essere fino alla morte per procura del capovolgimento totale: una cessione di diritti e proprietà di idee a favore di coloro che se ne faranno un alibi fingendo di ponderare i segnali e le indicazioni mentre si volgono e si avviano in direzioni incompatibili e contrastanti.
Questo vorrebbero i signori revisionisti: che i Santi Padri avessero mendicato il patentino di pubblicisti accreditati a quella classe dirigente i cui interessi andavano in qualche modo scossi e addirittura violentati per poter sperare in una minima possibilità di riforma effettiva.
Se ritenete che una classe dirigente sia eccessivamente remunerata, percepisca introiti addirittura assurdi e questi introiti costituiscono di per se stessi un male a prescindere dalle prestazioni corrispondenti, vorrei sapere come fate a comunicarlo a chi di competenza mantenendolo lieto e disponibile mentre si caccia in gola di buon grado la prodigiosa pillola indorata.
L'esempio addotto, solo apparentemente rozzo, rende bene l'idea delle difficoltà polemiche che si sono sobbarcati i Santissimi Padri e così insistiamo a servircene come spunto chiarificatore.
Se accusate un consesso di dirigenti di percepire troppo per quello che fanno, state tranquilli che troverete qualcuno di loro, che si reputa molto più abile degli altri (quindi non qualcuno, ma molti di loro), a dichiararsi d'accordo con voi.
Ma i Fondatori volevano esprimere tutt'altro concetto, si proponevano di lanciare la tesi che una retribuzione eccessiva è un danno capitale di per sé, anche quando il dirigente rende per dieci persone pagate la metà, e questo perché automaticamente sviluppa quella sindrome di iper-attività e desiderio di strafare costi quello che costi che avvia le azioni e reazioni di una pletora di giochi al massacro, genera cioè i mostri dell'efficienza assassina che conviene solo ad ambiti ristretti per tempi ristretti, mentre a lungo andare semina mine galleggianti nelle fogne della città di tutti.
Inoltre questi mostri devono fare carte false per sostenersi a vicenda creando ambienti le cui priorità s'incentrano su un sostegno reciproco dei partecipanti a danno di considerazioni molto più generalmente magnanime.
Caro amico revisionista io ti chiedo: come puoi sperare, usando simili argomenti, di accaparrarti la benevolenza di censori strapagati o comandati a bacchetta da censori strapagati o che comunque nutrono in cuor loro di esserlo un giorno perché tale è la loro vocazione suprema e nessun'altra? Servirebbe mettere in campo arti retoriche degne di un ambasciatore della Serenissima?
Quando reputi che un certo tipo di classe dirigente, non per la qualità delle persone, ma per i risvolti sistemici che la coinvolgono, sia il male da curare in via preventiva se si vogliono risolvere davvero tutti gli altri mali, che strategia di comunicazione potrai mai adottare per accedere a quei canali davanti al cui imbocco stazionano i cerberi della stessa classe dirigente?
Come si fa a non capire che l'idea stessa di Progetto presuppone un'articolazione solidale e articolata che ricade o nell'incubo della demagogia impotente o nell'utopia dell'aristocrazia illuminata o in entrambi, se non si propone già in partenza la priorità di una ristrutturazione profonda delle inevitabili interessenze gerarchiche e quindi di una concezione innovativa dei poteri decisionali e dei relativi meccanismi di controllo?
Secondo me, esprimersi con estrema franchezza rimane l'unica scelta opzionabile, punto e basta.
Si attirano rancori, ci si fa il vuoto intorno, ma si sparge anche la semenza di un messaggio chiaro e vigoroso (per chi ha la voglia e i mezzi per raccoglierlo nonostante gli auto-certificati grovigli di asperità che certe problematiche impongono all'onestà intellettuale). Se il messaggio sarà raccolto o meno, se genererà effetti positivi o nefasti, diventa un genere di questione che, al limite, non riguarda nemmeno più colui che, magari a torto, magari in preda a perverse allucinazioni (chi potrà mai dire con sicurezza come e da che parte stanno il bene e il male?), comunque ha considerato un dovere personale procedere alla relativa emanazione.
Vacla Rigoris ('Megarico') Si oppose a un eccesso di relativismo sottolineando l'implicita unità e univocità del Bene derivante dal riferimento necessario all'indivisibilità del cosmo come somma armonica di tutte le occorrenze. A chi lo accusava di ricadere in un tradizionale panteismo di tipo gnostico o spinoziano, rispondeva sibillinamente: 'Se quello che è , è, e non si può cambiare, che cosa di diverso si può affermare che conti veramente?" A chi lo accusava di annichilire così sul nascere l'idea stessa di Progetto, rispondeva meno sibillinamente: "Se l'umanità ne è all'altezza bene, altrimenti l'umanità è un insignificante accidente di nessun valore." In effetti, anche se dargli ragione ci fa progredire poco o punto, è difficile dargli torto.
La prima avvertenza, la più importante, a cui deve attenersi l'intellettuale saggio in senso docile e funzionale, cioè utilizzabile come ricambio da agganciare alla macchina, comporta il disprezzo della 'tuttologia'.
L'intellettuale acuto e collaborativo, cioè servizievole alla causa del potere comunque espresso in ogni specifica fase dell'alternanza formale (non importa se in carica o in attesa di subentro), ha l'obbligo di specializzarsi, ovvero abbandonare ogni velleità di comprensione non settoriale, dato che una pretesa del genere denuncerebbe l'ingenuità di credere che esistano moduli di raziocinio funzionale alla disamina di ogni questione politica e culturale, portando quindi la tipologia procedurale di un'effettiva dialettica a rivaleggiare con i criteri di decisione e sanzione preferiti dai vertici della piramide sociale, ovvero i principi di autorità già stabiliti.
Specializzazione significa 'ruolo' e quindi integrazione con i dinamismi in essere, di cui si deve dare per scontata la immutabilità e insostituibilità di sostanza: i soli abilitati a mettere in discussione questioni di congruità generale devono rigorosamente rimanere quelli che non hanno nessun interesse a farlo se non nella direzione che a loro stessi, in quanto casta ristretta, maggiormente conviene.
L'intellettuale profittevole e quindi organico non ha alternative professionali oltre quella di schierarsi in campo per una partita truccata: ha avuto le sue chance in un particolare scorcio del secolo scorso, ma, inteso come figura tipo, statisticamente composta, le ha buttate al vento ripudiando le architetture consapevoli della ragione e vendendosi a ideologie volontaristiche e teologie degli automatismi sociali.
Ora deve per forza aborrire la messa in campo di un'autentica dialettica perché questa, sovrapponendo la dinamica di interessi esplicitamente dichiarati alle sceneggiate rituali dei valori, pregiudica i tributi di lealtà e appartenenza senza i quali non si accede a una monetizzazione di facoltà riducibili in sostanza a questioni diplomatiche di eloquio e d'immagine. Escluse queste, non esistono nemmeno, in una realtà strutturalmente e tecnologicamente complessa oltre ogni limite di guardia, possibilità di adibire in concreto valenze interpretative indipendenti il cui esercizio remunerato presuppone abilitazioni e accrediti da parte di quei centri erogatori (di spinte, favori, prebende...) la cui solidità è legata a filo doppio con la produzione autarchica di regole, filosofie, meriti, significati, concetti, qualità.
Recuperare una decisionalità effettivamente democratica senza ripetere i pasticci del passato presuppone un Progetto Collettivo che presuppone una decisionalità effettivamente democratica. La storia dimostra che questi circoli viziosi ermeneutici e procedurali si risolvono soltanto attraverso fratture evolutive implicanti una metamorfosi non immediata, una maturazione graduale, ma profonda, dei costumi culturali e delle mentalità.
Senza un cammino preparatorio che dipende dalla chimica sociale, la storia ricade in mano a maitresse e papponi che, siccome sanno come trattarne profittevolmente le attrattive e le grazie, si guadagnano l'appellativo di grandi uomini o donne, meteore che brillano in cielo, ma quando precipitano al suolo esplodono e distruggono.
Ci vuole ben altro, per sottrarsi alla grande catastrofe, che le ricette dei duci che possiedono il copyright di utilizzo e sfruttamento delle piccole catastrofi sulle quali prosperano.
Megarico
Qualsiasi cammino di salvazione richiede utilizzi adeguati e quindi riforme radicali del concetto stesso di lavoro di gruppo, soprattutto per quanto riguarda un giusto mix tra studi specialistici e focalizzati, da suddividere e approfondire secondo necessità, e un eclettismo preliminare da devolversi a una critica panoramica dell'impianto e dei ruoli. Il problema fondamentale concerne la dialettica tra specializzazione e globalità, l'articolazione dei rapporti di dipendenza categorica e reciprocità dinamica tra approcci di dettaglio e strategie più generali.
Incidentalmente, osserviamo che non esiste un motivo particolare perché un tipo d'incombenza sia più remunerato di un altro a prescindere da una misura dell'onerosità effettiva. Nell'economia privata e nel corrispondente mondo politico il prestigio, in tutti i sensi, è legato al posto occupato lungo una catena di comando e in genere presuppone un'azione prevaricante nei confronti dei gradi inferiori e dell'ambiente esterno all'area aziendale, termini di valutazione che in una economia pubblica devono perdere consistenza.
Probabilmente occorrerà stravolgere o almeno riadattare molti riflessi condizionati di una tecnocrazia autoritaria strettamente connessa alla cultura umanistica più pedissequa e superficiale.
Christo Ballanzani ('Pecunia dolet') Coordinatore e poi rettore del primo esperimento di comunità ascetica kolibiana sul modello del monachesimo buddista e cristiano-medievale.
Che cosa significa utopia?
Pretendere che un lupo affamato non divori l'agnello indifeso che gli si trova davanti è utopia, ma ottenere che un lupo che riesce a provvedere più agevolmente e più proficuamente a tutte le proprie esigenze fondamentali si astenga dalla selvaggina fresca fino a che punto e in che senso si può considerare una nobile impresa disperata ovvero una utopia?
E' utopia presumere che in occasione di una tipologia nota e ricorrente di catastrofi i soccorsi e le pratiche di emergenza scattino con assoluta precisione programmatica attivando una serie di automatismi politico-amministrativi?
E' utopico auspicare che ogni catastrofe e ogni atto terroristico non si tramuti in una vetrina pubblicitaria a vantaggio delle esibizioni muscolari di un'area di preponderanza anche pubblicistica che oltretutto si provvede così di un alibi per fallimenti su fronti di ben altra ampiezza e già pregusta il momento di gestire una formidabile mangiatoia affaristica o d'interventismo militare?
Affermare che il progetto di una società artificiale rientra sempre e comunque nei canoni dell'utopia, equivale alla tesi che l'uomo che vince le sfide o almeno non vi soccombe è un carnivoro non addomesticabile.
Se esiste una differenza insanabile, una distanza incolmabile tra un approccio utopico-progettuale di riforma della società e una gestione realista e pragmatica degli interessi espressi dalle diverse compagini sociali, allora, per le specificità inerenti a una evoluzione mondana non regolamentata da disposti divini nella fase avanzata di una civiltà tecnologica, le possibilità di un effettivo esercizio di autodeterminazione democratica risultano puramente illusorie, per cui, assiomaticamente, ogni speranza di progresso sostenibile o perfino durata nello status quo si affidano alla saggezza che Dio infonde a quegli spiriti superiori gratificati infallibilmente dal dono del successo economico.
Tali rappresentanti dell'eccellenza umana, che ogni ottimista giudica animati da un desiderio sincero di beneficare l'umanità, senz'altro privi di qualsiasi componente di vanaglorioso cesarismo e assolutamente liberi da condizionamenti di casta, manifesteranno il sistema delle loro convinzioni più profonde quando dovranno effettuare una scelta tra a) delegare a circoli intellettuali sufficientemente eterogenei ed eclettici un progetto di riforma radicale; b) affidarsi all'ennesimo carrozzone dell'assolutismo illuminista, più o meno deviato, sul tipo di Scientology o della Chiesa Vaticana.
Kalamanduk Il Giovane Figlio di Kalamanduk
Sia il testo che il non meglio identificato responsabile di editing che ne annunciò la pubblicazione parlando di ‘stupefacente colpo di scena finale’ non sono mai pervenuti: l’uno e l’altro si sono volatilizzati e nessuno sa se si tratta di due scomparse o di una solamente.
In fondo potremmo pensare che sia proprio questo ‘lo stupefacente colpo di scena finale’.
Ma una sparizione o riapparizione di dossier e delle relative eminenze grigie possono rappresentare uno ‘stupefacente colpo di scena finale’ in un paese dove strati immensi e proliferanti di galoppini, faccendieri, intermediari ombra manifestano una immensa perizia prestidigitatoria quando si tratta di ventilare e alludere sulla scorta di documentazioni fantasma che possono addirittura riapparire, dopo mezzo secolo dai fatti, nell’intercapedine di un locale pubblico frequentato ogni giorno da decine di persone?
Un dossier, un resoconto, una registrazione basta immaginarseli e farli immaginare, in fondo, e, sulla base di quella fantasia ventilare e alludere (o far ventilare o alludere).
Nella fattispecie, che cosa? Che i congiurati alla fine non hanno mai agito perché si sono accorti che era tutta una immensa baracconata, una messinscena, un delirio controproducente?
Nella fattispecie, che cosa: il kolibianesimo o l’opposizione violenta?
Che l’opposizione violenta a un potere può vincere soltanto se rappresenta un altro potere più o meno uguale (in tutti i sensi) e contrario (in pochi sensi specifici) oppure perde perché di fatto è stata suggerita e manovrata dal potere stesso a cui diceva di opporsi, questa alternativa elementare possiamo tranquillamente annetterla al novero dei truismi e delle ovvietà: i kolibiani sono i primi ad averlo insegnato quando ancora qualcuno poteva avere dei dubbi al riguardo.
Dunque?
Signori, io non ho voglia di spaccarmi la testa su questi falsi enigmi da quattro soldi, quindi, anziché continuare a lambiccarmi su quel fantomatico colpo di scena finale ve ne voglio offrire uno che sia veramente tale, che non deluda oppure deluda, ma in modo che la delusione sia quasi un atto liberatorio e nonostante quella delusione inevitabile lo scoop superi in grandezza tutti i colpi di scena che siano mai stati architettati dai più fertili sceneggiatori possibili e immaginabili in tutte le parti di universo possibili e immaginabili.
Su certe cose è inutile fare il modesto, dato che il semplice trattarle nella loro ciclopica, incommensurabile estensione denuncia una corrispondente temerarietà.
Mi toccherà partire un po’ alla lontana.
Sigle delle case produttrici, nomi di autori e attori, accrediti vari e si parte.
In uno splendido pomeriggio di tarda primavera il protagonista è disteso sull’erba al centro di un grande parco: vede le foglie degli alberi rabbrividire, flettersi, stormire, gli uccelli saltare tra i rami o sfrecciare nell’aria, i raggi di sole riverberare tra le fronde oscillanti, i bordi frastagliati delle nuvole fluttuare, sovrapporsi, contorcersi.
Tutto meraviglioso, eppure Johnathan Phileahs Ahbhernathy, così si chiama il nostro eroe (ambasciator non porta pena, il nome non l'ho mica scelto io!) che pure è uomo in grado di conquistarsi certe libertà assolutamente individuali, si rende conto che qualcosa non va, che dietro le apparenze distese una insidia striscia minuscola e quasi invisibile con le sue mortali sacche di veleno pronte a iniettare.
Noi spettatori, gli dei seduti in poltrona che, come Apollo o Athena, non possono modificare il decorso della vicenda, ma solo interferire con l'evento della replica artificiale tramite azioni di disturbo e sabotaggi maliziosi (come spegnere il proiettore), lo subodoriamo ancora meglio di quella fittizia creatura di luce riflessa: nessuno va a vedere un film dove un sonnacchioso rilassamento pervade uniformemente la trama. Se l’incipit è blando ci aspettiamo nondimeno e anzi a maggior ragione che il nostro lazzarone estemporaneo finisca presto nei guai e giustifichi la spesa del biglietto.
Siccome però io sono un predicatore e non uno sceneggiatore, vi richiamo all’ordine del giorno e vi rovino subito la sorpresa: l’inquietudine che increspa il velo di corrusche e beate apparenze, tutta quell'amena leggerezza intessuta di arbitrio e libertà, si chiama causalità universale.
Ebbene sì, fratelli, non posso lasciarvi pascere di illusioni come si consente ai nostri rivali di fede, perciò vi rivelo che se ogni trillo, svolazzo, amena screziatura disponesse effettivamente di quelle licenze che ostenta, quella minima aleatorietà affogherebbe l'intero universo nel caos.
Taddeus Lopster (‘Ghiribizzo’) Ordinario di teologia scientifica kolibiana
La intrascendibilità della pura esistenza intesa come nozione primitiva elementare non ulteriormente analizzabile (l'essere come puro e semplice 'opposto del nulla' non diversamente definibile o sezionabile) deriva dall’impossibilità di procedere a una suddivisione gerarchica non relativizzata a una natura specifica di sistema, dalla inconsistenza di ogni ipotetico criterio di confronto tra livelli indipendenti di oggettività minimale, esperiti o arbitrariamente posti.
Analizziamo la sequenza ontologica fondamentale: Nulla, Caos, Universo, Dio: Nulla è l'indifferenziato, il non predicabile, il punto singolare dove ogni legge si ammutolisce disfatta; Caos è un miscuglio di entità individuali sopraffatte dal calore ovvero da un'accelerazione parossistica del tempo e dello spazio; Universo è una coesistenza di ordini parziali e transitori stabiliti tra un numero adeguato di elementi distinti sottoposti a regole di composizione e di evoluzione; Dio è... che cos'è Dio? Una non meglio precisata esistenza superiore.
Dio, rispetto alle sue creature, come i grandi miti di fondazione lasciano trasparire, rappresenta uno scarto analogo a quello tra nulla e caos, ma non tra caos e universo, comporta qualcosa di più dell'intervento di un criterio legislativo, presuppone infatti la ricerca di un principio primo dell'esistente che spieghi l'esistente medesimo, ma un principio, per quello che ne possiamo sapere e capire, non è altro che un criterio e una regola applicabile a entità preesistenti, un ipotetico principio che fondasse l'esistente sarebbe un esistente che necessiterebbe a sua volta di un principio di fondazione antecedente. Non è possibile attribuire ad alcunché una proprietà ultima e autoconsistente: una volta fissatala, risulterebbe inevitabilmente strana, contingente, arbitraria.
Un principio che sia principio di se stesso non può esistere esattamente come non può esistere un numero più grande di ogni altro: solo il nulla non è accidentale.
Al massimo esiste (se esiste), all'interno di un singolo universo, una spiegazione del suo funzionamento, ovvero modi di collegare i suoi fatti sistematici (configurati attraverso fatti sistematici preliminari (analoghi fisiologici delle categorie kantiane)) più semplici ed esaustivi di tutti gli altri.
Ghiribizzo
Uscire dal nulla presuppone una creazione eterna e infinita di 'cose': poiché la morte configura la vita come un serbatoio limitato di eventi, è questa limitatezza che temiamo più della morte, il momento fatidico del bilancio amaro da parte di chi, dato che 'nulla è per sempre', può appagarsi solo della potenzialità illimitata, di un infinito 'al di là'.
Il concetto polisemico di Dio è un costrutto convenzionale, pragmatico, il cui valore sociale è facilmente messo in crisi da considerazioni, per così dire, di etica generale: perché l'incomprensibile Dio dovrebbe apprezzare creature che violano la sua incomprensibilità, illudendosi di poterlo creare? Perché quelle creature non si limitano a interagire al meglio, umilmente, con ciò che possono conoscere e interpretare, pretendendo titoli altrettanto incomprensibili come quello di anima immortale?
Eccetera.
Se ogni ricerca accessibile alla mente umana parte da elementi strutturali e funzionali che, dopo raffinamenti opportuni e inderogabili, si traducono ineluttabilmente in moduli logici e scientifici, reintroducendo di fatto il monismo sostanziale che si intendeva estromettere, Dio vuole che noi ci limitiamo a quella ricerca e di sicuro irride alle nostre egoistiche preghiere.
Ghiribizzo
Con il famoso aforisma 'in natura non esistono pasti gratis', si sottintende in effetti che ogni pasto che un animale consuma deve essere sottratto a qualche altro animale: un dogma basilare dell'economia darwiniana e non progettuale. All'interno di tale economia, ogni preghiera è allora immorale o grottesca come quella di uno sportivo che chiede l'assistenza di Dio per vincere la gara alla faccia di tutti gli altri concorrenti, almeno di quelli che non pregano come lui.
La sola forma autentica di preghiera, inclusiva di quegli effetti terapeutici e da placebo psicologico già scientificamente verificati (soli elementi di legittimità in manifestazioni peraltro assurde) si chiama 'arte' e consiste in esercizi mentali di catarsi esplorative, in canti da pastore errante rivolti a un senso personificato di irrimediabile lontananza.
Se ci si allontana da quei consapevoli miraggi, quei giochi astratti di sapiente mistificazione, non rispettando i giusti limiti in un senso veramente religioso, disprezzando e usurpando 'Dio' in nome di una megalomania umanista che dimentica i limiti di conoscenza che 'Dio' ci ha imposto, ogni pretesa di superiore intelligenza metafisica troneggia tronfia e risibile quanto impotente sulle formulazioni contingenti e oggettive, si volatilizza in deliri che pretendono di superare, con puerili atti di magia da illusionista dilettante, le difficoltà e oscurità che aspettano, a ogni nuovo varco dei tanti di volta in volta escogitati, una parte qualsivoglia che cerchi di comprendere (in tutti i sensi) il tutto qualsivoglia da cui è scaturita e a cui appartiene.
Golon Mafrisko ('krisalide') Preside del Combinato di Gradiska, scuola internazionale di eclettismo kolibiano.
L'intrascendibilità dell'esistente è sancita una volta per tutte, per dogma invalicabile inerente alla natura del mondo (di qualsiasi mondo!), dall'incomunicabilità tra funzione ed essenza.
Se la funzione non comunica con l'essenza, la funzione riempie lo spazio della rappresentazione e l'essenza si riduce a quello spazio unico e indistinto.
Lo comprova la sterminata batteria di impossibilità, antinomie, contraddizioni, paradossi con cui va a scontrarsi qualsiasi soggetto che tenti di chiarire a se stesso le condizioni metafisiche che consentono alla propria soggettività di essere tale, mentre le condizioni funzionali s'impongono con una evidenza quasi elementare.
Se è possibile giustificare e comprendere con lo studio anatomico e fisiologico di circuiti ormonali e nervosi il senso della fame o della sete e altri stati funzionali interni tra i quali si colloca, ai vertici della gerarchia, la percezione delle proprie facoltà psichiche, non è possibile trovare un trait d’union, un substrato comune, un meccanismo di omologazione ontologica che permetta di ridurre i processi psicologici a quelli fisici (e viceversa).
Possiamo semplicemente accettare come un dato di fatto che l’esistenza di qualsiasi organismo animale comporta l’acquisizione al suo interno di un senso generale della propria individualità, più o meno primordiale e oscuro.
Da un punto di vista scientifico, i suddetti fenomeni si distinguono dagli eventi generici soltanto perché possono essere colti da una prospettiva unica e non riproducibile, quella dell'animale al cui interno avvengono: si tratta di un problema di prospettiva e di complessi funzionali che registrano altri processi funzionali.
In fondo, se si smette di ragionare per 'cose' e si ammettono solo funzioni nell'ambito di un substrato comune (un puro e semplice principio di limite e di distinzione?) il problema può considerarsi risolto: una individualità cosciente è un complesso di funzioni dotato di un modulo semplice o composto che registra particolari effetti del suo medesimo funzionamento.
Le caratteristiche di un universo che contempla la possibilità di forme viventi consentono pure questa forma di sdoppiamento valida per l’uomo o un cane come, in forme estremamente primitive, per un’ameba. Le differenze e accentuazioni emergenti in parallelo con la complessità zoologica concernono verosimilmente le differenze e accentuazioni di tale complessità, i livelli funzionali in cui gerarchicamente si scompone e si ripartisce per necessità di coerenza organizzativa: può percepire stimoli provenienti da processi digestivi o cerebrali soltanto l'animale che possiede i corrispondenti apparati.
Chi non si rassegna al rispetto di tali confini, è costretto a separare artificialmente l’uomo dal contesto zoologico per conferirgli uno statuto divino, ma l’itinerarium mentis in deum si traduce nello sprofondare in un mistero sempre più fitto, come i mistici medievali intuivano molto bene, dato che è impossibile o almeno perfettamente inutile cercare di giustificare qualcosa attraverso qualcosa di più complesso. Un computer si comprende attraverso la prolificità combinatoria di procedure ricorsive elementari implementate in macchine teoriche e schemi logico-grammaticali (tra cui rientrano perfino rapporti tribali di parentela e decorazioni geometriche di mura o tessuti)), non certo pensando a matrici di 0 e di 1 collegate tra di loro in sequenze temporali.
Le tecniche persuasive di matrice clericale si basano su modelli esplicativi del genere, ovvero innumerevoli e gigantesche matrici di bit opportunamente fuse in una nuvola d'immane potenza indistinta, corredati da istruzioni per l'uso dove si formula il paterno consiglio di contenere la sete di sapere se non si è adeguatamente illuminati da una santità alla cui assenza i più sono costretti a rassegnarsi. Tutti i sussurri provenienti dalle alte sfere, religiose o laiche, invitano intanto a confidare nella certezza umile e gaudiosa che il Tutto è in ogni caso risolto e, se gli si concede tempo e pazienza, lavora per il bene comune.
Giustificare i processi mentali superiori attraverso qualcosa di così complesso che gli stessi processi mentali non saranno mai in grado di comprendere, dato che da essi la mente e la capacità di comprensione si generano, è un atto di rinuncia che si può tranquillamente intraprendere senza tirare in ballo l’ontologia superiore di Dio e scandalizzare Occam (che però era un prelato e quindi, in questo caso, probabilmente farebbe finta di niente rivolgendosi altrove)
Krisalide
Dio che cos’è alla fine dei conti? Un’astrazione nominale che non fa che alludere appunto a una misteriosa ‘ontologia superiore’ senza specificarne meglio la natura ossimorica.
A saggi e sapienti, antichi o moderni, non rimangono aperte che due soluzioni: o un monismo determinista (un ‘panteismo’ spogliato di elementi teleologici) o l’ammissione di categorie ontologiche diverse e non confrontabili, ognuna delle quali è assolutamente impotente a spiegare qualsiasi altra.
Dio e il suo creato non potranno mai né spiegarsi né comprendersi reciprocamente, poiché Dio e 'libera scelta' sono concetti antitetici (la libertà presuppone uno spazio esterno agibile e la scelta una mossa verso un altrove) e se una creatura non è frutto di una 'libera scelta', la creatura è parte di Dio o si situa accanto a Lui come un assurdo accidente.
Il monoteismo tradizionale, nella migliore delle ipotesi ovvero scartando le interpretazioni mitologiche e le caricature involontarie, si traduce in un panteismo teleologico che si rivela già così una contraddizione in termini, basta pensare che qualcosa come uno scopo, un disegno, un obbiettivo può essere agito soltanto da una singolarità soggettiva che agisce dentro un ambiente molto più vasto e irriducibile alla sua costituzione naturale, alla sua ‘seità’: lo schema di base rimane quello dell’animale affamato che ricerca il cibo con tutte le sue varianti fisiologiche e non cambia salendo nella scala degli istinti fino a sostituire l’impulso della fame con sempre più complesse appetizioni o aspirazioni, anche quelle cosiddette spirituali, tipiche di una psiche umana 'finemente educata'.
Una totalità onnicomprensiva, per esempio un qualsiasi universo effettivamente isolato, può solo modificarsi in base a leggi non ulteriormente giustificabili, nonché assolutamente imperscrutabili nei loro effetti se considerati da qualsiasi punto di vista confinato all’universo medesimo.
Ma questo è un modo scorretto di esprimersi: non è possibile affermare che le Leggi siano passivamente subite da un qualsivoglia universo, dato che Leggi e Universo non si possono separare e distinguere: senza un punto di vista privilegiato, ovvero nel rispetto di una onnipresenza assoluta, il tempo si rivela una illusione concomitante allo sdoppiamento della coscienza animale e alla sua prospettiva di osservatore unico, originale e inimitabile, pertanto le leggi dirigono le trasformazioni quanto le trasformazioni determinano le leggi.
Oderico da Sivensterre (' Leader minimo' o 'Minimo moralista') Esponente di spicco, prima dei Pretoriani di Passo del Moccolo e poi delle Sentinelle dei Faraglioni, sette predizionali.
Esattamente come non esiste alcun progresso teoretico, bensì al massimo il soddisfacimento di un impulso emotivo pagato con un intorbidimento della consapevolezza nel segno del capriccio e della confusione, nell’inventarsi una ontologia divina da sovrapporre a una ontologia naturale, analogamente non avviene alcuno scarto qualitativo o balzo categoriale nella importanza e complessità delle problematiche in gioco passando da sensazioni di fisiologia animale, come il senso di dolore e di fame, al piano dell’autocoscienza umana: su entrambi i livelli il grado di mistero legato allo sdoppiamento tra denotatum e connotatum (estensione e intensione, significato e senso…), insomma tra una oggettività e il pensiero che la riguarda, è pienamente realizzato: se si risolve una fenomenologia si risolve anche l’altra (e viceversa).
Nella sensazione di dolore o di fame (di sete, di paura, di piacere…) il passaggio dalla percezione dell’oggetto esterno alla percezione di un processo interno è già completa: passare dalla percezione di uno stato chimico-situazionale a quello di uno stato eidetico comporta soltanto uno spostamento dell’attenzione a un livello gerarchico-funzionale superiore, qualcosa di pienamente comprensibile se si è compreso lo stadio precedente.
L’orgasmo di un cane e il cogito cartesiano presuppongono quindi, né più e né meno, la stessa quantità e qualità di enigma scientifico e filosofico.
L’enigma ovviamente riguarda il concetto stesso di oggettività, ovvero in che modo, all’interno di una concezione onnicomprensiva del mondo, gli eventi soggettivi si costituiscono alla stregua di enti effettivi.
Il mistero nasce ovviamente dalle modalità attraverso cui qualsiasi manifestazione soggettiva (di un uomo come di una rana, di una balena, di un orso) sembra collocarsi al di fuori dell’universo dopo avere attraversato un passaggio che costituisce l’accesso a un’altra dimensione, pare dunque identificarsi con qualcosa di non oggettivabile se non da parte dell’organismo biologico che produce l’evento, inseparabile quindi dalla sua singola ed esclusiva prospettiva esistenziale.
Dato un qualsiasi organismo animale in grado di discriminare uno stato interno di sofferenza da uno stato interno di piacere, siamo costretti a supporre nel nucleo di essi fenomeni irriducibili a qualsiasi legge fisica fondamentale, dato che mai una particella potrà mai essere influenzata da un campo energetico riferibile alle relative nozioni soggettive.
Le soggettività configurano un mondo di qualità che rispetto alla pura immanenza di ‘essenti’ esteriori sembra qualcosa di irreparabilmente aggiuntivo.
In realtà le soggettività non possono prescindere da un raddoppiamento speculare che è anche inevitabilmente rappresentazione di un mondo, quindi è quel raddoppiamento e rappresentazione che in realtà viene esperito, sono gli strumenti della percezione e non gli oggetti a cui la percezione si riferisce a costituire quella differenza rispetto all’evento inanimato che anche al più materialista degli uomini appare così ‘anomala e spirituale’: la soggettività è prima di tutto percezione dei propri processi interiori, della propria prospettiva particolare, della propria natura sistemica e relazionale.
Se l’individuo biologico è una costruzione reale del mondo reale, la soggettività è oggettiva, non soggettiva, si produce e si sviluppa attraverso le medesime ineluttabilità che contraddistinguono ogni altra presenza nel mondo, percepita dal soggetto di percezione contestualmente alle condizioni di possibilità dell’atto percettivo medesimo: è plausibile che questa seconda percezione o meta-percezione si presenti in forma oscura ed embrionale anche nelle forme biologiche più primitive, chiarificandosi progressivamente in dipendenza a particolari sofisticazioni degli apparati nervosi centrali delle varie specie.
La forma canonica con cui si esprime tutto la sua enigmaticità rimane comunque una distinzione ‘interna’ tra piacere e dolore, il più generale principio fondante del comportamento animale lungo qualsiasi ramo del cespuglio zoologico, ma piacere e dolore non sono domini e plaghe della coscienza che il soggetto possa stabilmente occupare, inferni e paradisi del relativo vissuto: sono segnali di avvertimento legati alla catalogazione di processi e oggetti, vademecum predisposti da un lungo tirocinio sistemico trasmesso attraverso le generazioni animali, mappe per la conduzione di un corretto percorso di sopravvivenza. Soltanto l'animale homo sapiens ne assolutizza il senso al di là degli specifici fini informativi e prescrittivi, incorrendo nei classici handicap conseguenti al paradosso edonistico.
Tali constatazioni tutto sommato banali sono sufficienti ad affrontare e risolvere il mistero? Se ci si dimentica per un momento che ogni mistero non puramente relativo e prospettico è irrisolvibile (anche perché una ontologia che sviluppa al suo interno nuclei di apertura soggettiva molto verosimilmente si trova al di là delle capacità di comprensione dettagliata ed esauriente dei nuclei medesimi), e ci si prova poi, davvero e senza ambiguità e finzioni, a rassegnarsi a quello che ribadiamo essere il principio fondante di ogni indagine produttiva e non velleitaria, ovvero la già citata intrascendibilità dell’esistente, la risposta è: sì!
Kalamanduk Il Giovane
Se esiste un mistero assoluto e irriducibile, non può che trattarsi di questo: l’assoluta e irriducibile intrascendibilità dell’esistente anche da parte delle attitudini umane più specifiche e caratterizzanti in rapporto al resto della biosfera.
Ciò risulta lampante e inoppugnabile non appena si pensi che qualsiasi mistero supremo svelato a un essere umano si tradurrebbe in un testo assolutamente inadeguato sia in quanto a contenuto emotivo e immaginale, sia in quanto a contenuto informativo (la sua potenza algoritmica misurata in bit): gli assidui lettori di letteratura gialla dovrebbero intuire bene il senso di questa impossibilità su un piano intuitivo e sentimentale, e lo stesso vale per gli informatici sul piano tecnico e scientifico.
Una qualsiasi divinità accessibile all’intelligenza umana si manifesterebbe drammaticamente inadeguata, nient’altro che un grumo caricaturale di descrizioni finite, ispezionabile come qualsiasi altro macchinario fenomenico.
Lo stesso vale per ogni valore o principio etico: o è nulla o è protocollo linguistico comprensibile e traducibile in atti e comportamenti.
O è nulla o è uno schema legislativo di riferimento, un frammento di Progetto.
Le affermazioni precedenti potremmo considerarle senza tema di smentita conseguenze di una legge universale: ogni soluzione di qualsiasi intrigo, per quanto ingegnosa, risulta deludente rispetto alle suggestioni emanate lungo il percorso di esplorazione ed è valutabile soltanto in termini pratici e materiali comprensivi di eventuali benefici arrecati alla sensibilità psichica soggettiva.
Niente di finito potrà mai placare una irrazionale sete d'infinito, ma l'infinito in atto non può esistere, è fonte di antinomie irrisolvibili e tutto quello che un uomo può sperimentare nella sua vita è drammaticamente (e irrisoriamente) finito come la totalità della vita stessa ed è valutabile e avvalorabile soltanto come bilancio di piacere e dolore.
Se l'uomo realizza il Progetto, imprime sul pianeta un marchio di umanità inteso come il contrassegno originale di una specie effettivamente unica e originale, se l'uomo non realizza il Progetto partecipa semplicemente, senza alcuna distinzione che non sia clamorosa appariscenza apportatrice di effetti anomali e sconvolgenti e dunque primario fattore di stress e nient'altro, alla gara di tutte le gare, allo spettacolo di tutti gli spettacoli, al destino di tutti i destini: la biosfera in evoluzione-involuzione nei suoi mobili e incerti confini rispetto all'intera natura terrestre.
Solo il Progetto risolve.
Il Progetto rappresenta il massimo dei traguardi, un concreto limite di trascendenza invalicabile.
Signori, ecco a voi, papale papale, quella strabiliante verità che gli spiriti santi contenuti nelle uova di legno non vorranno mai riconoscere: il kolibianesimo ha risolto tutti i misteri fondamentali dell’esistenza, prova ne è che li ha lasciati assolutamente intatti.
Ed ecco l’ultima clamorosa sorpresa a cui tutte le altre chiese dovranno rassegnarsi: se Dio esiste inarrivabile e sovrano nella sua imperscrutabilità (e Dio non può non esistere, una volta fissati i suoi limiti e le sue 'impossibilità' concettuali), i suoi santi sono i Kolibiani.
Non dovete assolutamente perdere la prossima puntata:
DIALOGO DELLA VEGLIA, NOTO IN ALTRE SEDI COME DIBATTITO DEI CONGIURATI O ANCHE RIPASSO DELLA NOTTE DI GETSEMANI (COSIDDETTA)
Dove, rinunciando agli accenti sarcastici e assumendo modi consoni alla gravità e alla tensione del momento, i congiurati Brunilde Ghiotta, Gaucho Marx, Melò Patacca, Mago Merdino, Fallo Di Rigore, Papa Franesco, Totò Regina, Golia Profondo, Messa Linda (nomi di battaglia) e molti altri, per consolidare gli stimoli motivazionali, ripercorrono le tappe salienti del pensiero kolibiano a partire dal teorema dell’apocalisse o maledizione del caos quadratico da corpo nero, convenendo infine che la tecnica di azione rivoluzionaria da loro scelta si commisura all’insurrezionalismo tradizionale come l’epistemologia del caos e delle strutture dissipative, esplicitata e disinibita nel senso del determinismo ‘panteista’, si commisura al positivismo ‘meccanico e newtoniano’ dei tempi di Marx: tutto ciò, come si confermano reciprocamente e con foga riempiendosi i bicchieri, dovrebbe chiamare a raccolta e spronare masse sempre più ingenti e travolgenti di rivoltosi. Essi, i congiurati, concludono anche di peccare per eccessiva bontà, dato che le fotografie a culo nudo rappresentano una ben misera reprimenda per caporioni bastardi che, pur disponendo di voce in capitolo, tollerano senza colpo ferire né battere ciglio percentuali di rischio in doppia cifra o quasi, relative non a una figuraccia della nazionale agli Europei, ma a una catastrofe mondiale di primissima grandezza, aspettando la quale non rinunciano oltretutto, neppure quando dormono, a ordinare dosi cavalline e maniacali di ottimismo farmacologico per sudditi. In realtà l’ottimismo ha successo presso i condottieri perché: a) rende succubi e malleabili i non condottieri; b) illude i condottieri che sia facile capire e manovrare le cose, distogliendoli dal darsi all’ippica. I congiurati mostrano di credere che la devastante profezia dei Padri offrirà il destro alle masse per dare il ben servito a un sistema che le opprime e spingerà le élite nauseate dalle proprie medesime frottole a mettere mano a quelle nuove idee di cui, come aristocrazia culturale, necessitano come del pane e dell’aria; reputano invece improbabile che le menti di qualsiasi livello reagiscano stravolgendo l’assalto della verità nell’euforia del delirio, fino al punto di danzare estatici e leggiadri nella notte di tempesta squassata da lividi fulmini. Levando in alto i calici, i congiurati…
Basta così: non vogliamo certo svelarvi in anticipo lo stupefacente colpo di scena finale.
Aggiunte del primo maggio 2016, revisionate al 2 giugno
PILLOLE QUINTESSENZIALI DI FILOSOFIA KOLIBIANA TRATTE DALLA SACRA EPITOME DEI DIALOGHI SCOLASTICI
Avvertenze. Come è universalmente noto perfino alla perniciosa schiatta dei peggio ignorantoni, anche e soprattutto in seguito alla sterminata aneddotica desunta, a un estremo, da un nuovo genere di narrativa erotico-sapienziale, all’altro dal blob pruriginoso del gossip diffuso (fenomeni che proprio dalle interazioni di cui si sta parlando hanno attinto gli spunti maggiori (dotti e pupilli dei dotti al posto dei fratacchioni boccacceschi, dunque, sostituzione profana speculare a quella delle weltanschauung, chi ha orecchi per intendere, intenda!))… come è universalmente noto, dicevo, la didattica kolibiana, in veste di istituto ausiliario da inquadrare (accanto ad altre più o meno canoniche forme relazionali) in un organismo sontuoso e vastissimo di trasmissione delle conoscenze, avallava una tipologia di rapporti analoghi alla coppia erastos-eromenos delle antiche accademie greche, prescindendo però da connotazioni sessuali e comunque ammettendo, secondo libere scelte, tutte le quattro combinazioni (ff, mf, fm, mm).
In questa rassegna, data la scarsa rilevanza della questione in ordine alle tematiche scelte (riservandoci eventualmente una ulteriore sezione dedicata a conversazioni intrise di una sensualità tanto criptica (beninteso nel segno di un’arcana raffinatezza) quanto scevra di infingarde dissimulazioni e adulterazioni gastronomico-religiose), è stato espunto ogni riferimento al sesso dei protagonisti, denominati ‘discepolo’ o ‘maestro’ anche quando il testo primitivo si riferiva a ‘discepola’ o ‘maestra’.
Alcuni dei colloqui riportati risalgono a procedure di esame per il superamento dei corsi ufficiali e in proposito è forse utile ricordare, anche se servirà soltanto a quei peggio ignorantoni la cui curiosità non risulta in questo caso sufficientemente stimolata, che le interrogazioni kolibiane, con consapevole e motivato rovesciamento delle prassi abitudinarie, prevedevano che fosse il discepolo a rivolgere domande al maestro e non viceversa. Ci si è basati sul presupposto che dal tenore dei dubbi, delle curiosità, delle dissonanze cognitive, del desiderio di definire contorni che appaiono sfumati o contorti, s’intuisce molto di più sulla volontà di comprensione effettiva di quanto possano chiarire risposte dalle quali, per il limitato tempo di esame, non è possibile fare emergere l’autentica penetranza dell’approccio conoscitivo: scrostarlo cioè dall’infarinatura superficiale di uno studio, forse anche attento e metodico, ma pur sempre inguaribilmente burocratico, eterodiretto, succube di una funzionalità rigidamente assegnata e prescritta. (Sam Tommasi)
Sul problema cruciale se siano pazzi o malvagi i kolibiani oppure siano pazzi o malvagi i non kolibiani oppure si tratti di una presa in giro universale da cui l’umanità non riuscirà mai a venirne fuori con tutti gli ammennicoli a posto.
DISCEPOLO Si è molto discusso e criticato intorno all’aggressività polemica assiduamente ostentata dai Padri, sulla loro supposta protervia, quella imperterrita alterigia così insolita nelle menti particolarmente sagaci e sopraffine. Vuoi tu, maestro, delucidarmi sugli esiti più recenti dell’annosa esegesi compiuta dai nostri valenti saggi intorno a questo argomento?
MAESTRO Tu sai bene che intorno a tale vexata quaestio sono stati spesi fiumi d’inchiostro e di parole, forse più che su Gesù Cristo o Renzi. Lo considererei quindi un esordio poco commendevole per un esame di secondo livello, d’altra parte notevolissimi risultati sono stati raggiunti solo di recente, potrei dedurre allora che tu ne abbia avuto sentore benché non siano stati ancora pubblicati, il che ti farebbe onore.
D. Proprio così, maestro, me ne parlò il Patriarca Anacorigine senza tuttavia dilungarsi come avrei desiderato e sperato.
M. Bene. Partiamo dalle ridicole accuse di alterigia, spocchia, supponenza, superbia e a quelle parallele di eccessivo sdegno, disprezzo, aristocratico sarcasmo. Supponiamo per un momento che siano fondate e poniamoci di conseguenza la domanda: come si conciliano con l’ironia e l’autoironia? Una risposta semplice e plausibile fu fornita dal perfido Plutogirone, il nostro più temibile avversario: il massimo comune denominatore o minimo comune multiplo va ricercato nel profondo nichilismo dei Padri, nel loro disperato, scettico pessimismo. Ti sembra una sintesi plausibile?
D. Plausibile come può esserlo l’astuzia di un sofista, ma quando ascolto le vibrazioni profonde che mi trasmette la lettura degli antichi testi, io so che così non può essere, che c’è di più, qualcosa che le menzogne del mondo non riescono neppure a scalfire.
M. Bravo! E che cosa può essere? Vediamo, cerchiamo di immedesimarci nello spirito dei tempi. Come si caratterizzava la società dell’era del declino? Come tutti i periodi di decadenza: tolleranza e permissività non sincere e non meditate, dovute per intero ad astenia, confusione, incertezza, un ambiguo stordimento funzionale a uno sfruttamento strisciante, meschino, furtivo, bieco, lascivo, ipocrita, furbesco da parte di una inflazionata aristocrazia in movimento, composta perlopiù da giovani e meno giovani aspiranti e avventizi, anziane glorie ammuffite, cloni di ciambellani in disarmo, il tutto pesantemente adagiato sopra un popolo immobile rimbambito dal plagio mediatico delle più recenti tecnologie e ancora troppo pasciuto rispetto alla media mondiale per considerarsi innocente. Si trattava, insomma, della solfa che tutti conosciamo, il calderone di quell’acquiescenza torbida e inquieta dovuta all’impossibilità di risolvere l’interrogativo di fondo che molti più o meno consciamente cominciavano a rivolgere a se stessi e che suonava così: sono sfruttatore o sfruttato?
D. Il tipo di società ideale per confessioni rivali esperte nel gestire complessi di colpa e peccati originali.
M. Quelle sindromi per cui non si sa se l’ipnosi rilassante è la cura più indicata, si sa però che è la più desiderata. E come si può comunicare con i sonnambuli che vogliono essere tali e, risvegliati di colpo, si fanno prendere dal panico e detestano chi li ha risvegliati? Le alternative sono due: o risvegli il sonnambulo afferrandolo quando è vicino a una buca e mostrandogli nel contempo il pericolo che stava correndo o se sei in un film di fantascienza con alieni che hanno impiantato una macchina per creare sonnambuli (descrizione metaforica perfettamente attagliata alla realtà), combatti gli alieni. Se non puoi combattere gli alieni perché sono troppo forti e intelligenti e se, per un’altra disdicevole circostanza, non riesci proprio a tenere la bocca chiusa davanti a tanto ludibrio, puoi solo metterti a discutere con loro. Siccome però sono troppo intelligenti (altrimenti non sarebbero riusciti a curvare lo spaziotempo e a creare la macchina sonnambulatrice) e non è possibile che non sappiano quello che stanno facendo, allora o invochi la loro benevolenza e pietà oppure fingi che sia necessario enucleare concetti e principi che gli alieni conoscono e riconoscono di sicuro, ma non applicano perché i loro interessi vertono in tutt’altre direzioni. Puoi sperare così, se non ti ammazzano prima e nel caso esistano ancora formalismi di legittimità minimale, che, quando diranno a un non alieno che lo rendono sonnambulo per il suo bene, sarà meno facile per loro conservare la faccia di palta.
D. E se vuoi parlare sia ai sonnambuli che agli alieni?
M. Devi rinunciare prima di tutto ai sonnambuli che quando sono risvegliati rimangono dei tontoloni, dato che il dialogo con gli intelligentissimi alieni esige uno standard minimo per non essere condannato in partenza.
D. Qualsiasi opera di persuasione nei confronti degli alieni non richiede però toni molto più diplomatici di quelli adottati dai Padri?
M. Assolutamente no, proprio qui rifulge la loro incredibile, possente genialità. Essi, i santissimi Padri, non si rivolgevano ad alieni qualunque, ma ad alieni con determinate inclinazioni verso l’obiettività, la nobiltà di spirito, la sportività, la vera eleganza, il gusto intellettuale dell’imparzialità, ma anche del paradosso, della critica iconoclasta, della sfida: su questi i Padri volevano fare breccia, solo in costoro, in mezzo a una gelida massa d’impermeabile compattezza militaresca e di viscido sentimentalismo fideista, avrebbe potuto attecchire il seme di un ravvedimento futuro. Questi alieni arabili e seminabili, amanti delle provocazioni come poteva ancora accedere ai tempi quasi mitici delle antiche libertà, sarebbero rimasti disgustati davanti a tiritere, rigiri, cautele, finzioni, inutili preamboli e dilazioni, essi conoscevano la natura di fondo delle questioni e solo dall’azione d’urto di conseguenze che potevano avere trascurato o non accuratamente valutato sarebbero scaturiti i motivi di una eventuale attenzione.
D. Sono esistiti effettivamente alieni folgorati sulla via di Damasco dal sarcasmo catastrofista dei Padri?
M. Si discute molto circa il peso relativo sullo sviluppo del movimento da parte di alieni di classe A in incognito e sonnambuli risvegliati. Di sicuro gli alieni di classe A si sono rivelati un prodotto biologico di estrema rarità, una razza in via di estinzione se non già estinta del tutto, a conferma di quanto sia difficile rimuovere dalle personalità lo strato ceroso degli interessi e di come la finta democrazia calata dall’alto standardizzi i profili in senso strumentale, supportando la tesi di Planck secondo cui ogni idea innovativa si afferma per il ricambio demografico più che per la forza di convinzione. Sull’altro fronte, ci sono voluti anni perché un numero sufficiente di sonnambuli si risvegliasse.
D. Mentre sono stati moltissimi gli alieni di classe V, W, Y eccetera che nel frattempo hanno violentemente attaccato e perseguito sia il sarcasmo che il catastrofismo.
M. Dimostrandone la pertinenza e imprescindibilità. Gran parte del sarcasmo si riferiva implicitamente, infatti, alla scontata e inevitabile condanna del catastrofismo da parte dei benpensanti pronti a gridare istericamente (ma contegnosamente) allo scandalo del pessimismo, ad additare gli untori che sobillano le paure di pancia del popolo populista (milioni di persone con la pancia al posto del cervello), una massa tanto inferiore da temere la miseria quando è palesemente ovvio che l’uomo superiore, l’uomo di qualità non la considera degna della minima attenzione, soprattutto quando si trova bene intrufolato e acquattato nel piumone del parassitismo partitico e consociativo.
D. E il catastrofismo era tutt’altro che infondato, come poi si è visto.
M, La corrispondenza o meno di certe apprensioni con i dati di fatto era l’ultima cosa che importasse alla bassa aristocrazia aliena (quella che, secondo le di essi medesimi specifiche lamentele, era costretta a sporcarsi le mani con un pianetuccio periferico da quattro soldi e la sua sordida specie dittatoriale), non contava un bel tubazzo di niente se i Padri ci azzeccassero o meno. I modi beffardi e parodistici non si riferivano di sicuro ai dubbi circa la verità delle proprie affermazioni, se mai a una meditata sfiducia verso l’efficacia delle verità, soprattutto se allarmanti e pressanti, in un clima culturale dominato dall’astuzia sofistica del privilegio e dei grandi interessi. Per altro verso, dove la forma e il tono diventavano le sole variabili importanti, mai e poi mai i Padri si sarebbero acconciati a usare forme e toni adeguati ad alieni che volevano soltanto essere rassicurati sulla felice conclusione del proprio arco di vita rimanendo sordi ad allarmi circa quisquilie di nessun interesse come i rischi dell’evoluzione o involuzione planetaria.
D. Qualcuno sostiene che il catastrofismo puntava soprattutto a fasti retorici poco documentati.
M. Qui lavora un altro equivoco di fondo coltivato ad arte. I Padri non insistevano su questioni di dettaglio e riferimenti a questa o quella pubblicazione, intendevano invece svolgere un tipo di discorso logico-filosofico che, riferito adeguatamente ai fatti, non poteva essere rifiutato se non da un pregiudizio ostile.
D. Come procedeva la sostanza del discorso?
M. Prima di entrare nel nucleo vivo delle questioni, dobbiamo distinguere due ordini di livello. Il primo potremmo riferirlo a una sorta di sociologia della meta-comunicazione ed è quello sul quale ci siamo mossi nel portare avanti gli ultimi argomenti. I Padri volevano evitare a ogni costo di finire nelle trappole che a quell’epoca affollavano i vari tipi di relazioni umane in modo che qualsiasi scambio si ritrovava preso al laccio e schiacciato in una omologazione orizzontale dove ogni cosa, trascorso il tempo effimero di un fugace brillio alla moda, ricadeva come brace spenta nell’inanità più totale. La conseguenza immediata e automatica di tali fenomenologie decretava la fine della cultura come effettivo progresso intellettuale e la sua sostituzione con gettoni e accrediti convalidati e autorizzati da mere forze di potere economico e poi, in subordine, politico. Niente e nessuno, in questa temperie, poteva ormai esprimere alcunché di veramente valido e significativo se non facendosi portavoce di interessi in grado di ricevere ascolto dai centri di controllo dell’effettività sistemica.
D. Tutto parificato e relativizzato alla volontà dei più forti e, in subordine, dei più fastidiosi!
M. Per uscirne, quindi, bisognava rompere i giochi e rovesciare il tavolo, almeno a livello teoretico, sul piano di una idealità astratta, cioè, che apportasse almeno questo di conclusivo: che fosse inconfutabile e quindi, una volta rifiutata secondo inesorabili disposizioni ‘superiori’ e meschini condizionamenti ‘interiori’, mostrasse l’evidenza dell’inganno dialettico, la vacuità pretestuosa di una disponibilità al dialogo soltanto formale, le cerimoniosità democratiche di facciata, attente al rispetto dell’etichetta, ma sorde alle istanze concrete e pressanti, nonché oggettive, che disturbavano i manovratori. Quanto la situazione fosse drammatica risultava senza ombra di dubbio da talk show televisivi indipendentemente dall’impegno e dalla professionalità dei conduttori: rilievi, osservazioni e ragionamenti cozzavano tra di loro rimbalzando all’indietro e rimanendo inerti e inespressivi senza che mai si potesse giungere a qualche sintesi significativa soprattutto per la invulnerabilità dei rappresentanti di una tecnostruttura che ormai erano perfettamente addestrati a circoscriversi in un’area d’intoccabilità, a costruirsi intorno barriere trasparenti che sorgevano per incanto dalla solidità tautologica del potere consacrato dal semplice fatto di esistere dentro una società svuotata di strumenti reattivi efficaci.
D. Parole e solo parole da una parte e decisioni operative dall’altra a prescindere dal contesto e da come si ripartivano i ruoli. Nessuna vera comunanza culturale che potesse mediare attraverso una qualsiasi azione collaborativa.
M. Sì, tremendo! Nazioni appena uscite dalle cappe soffocanti di consociazioni, concertazioni, corporazioni, sindacati, appena liberate dal codazzo sferragliante di moral hazard, lemon principle, free rider, immediatamente ricadevano nell’autoritarismo economicista dettato dalle potenze imperiali a cui, in cerca di aiuto per uscire dal pantano, la classe dirigente aveva venduto la nazione con mani e piedi legati, né c’erano grosse speranze di riscatto se il lato etico e morale era abilmente sorvegliato dalle truppe di complemento clericali, le sentinelle dell’internazionalismo liberista armate di ricatti morali e paralizzante, ingordo antropocentrismo. Uno schifo!
D. Che cosa potevano fare allora singoli uomini sparsi e isolati come i nostri Padri, nemmeno in contatto tra di loro?
M. Ecco il punto: che cosa potevano fare? Passare alla lotta armata? Erano uomini liberi, pacifici, studiosi, naturalisti amanti della filosofia che avevano imparato per tempo di quante belle cose traboccassero i libri giusti e quanti immani stronzate si vendessero da una bocca all’altra nei turbolenti consessi dove i capi di partiti e movimenti fingevano di desiderare la società perfetta e in realtà lottavano per pascere i propri organi e la propria vanità. Appena perdevano fiducia nella vittoria finale, da non potenti contestavano i potenti, ma proprio quando inveivano di più, senza farlo capire a quelli meno intelligenti dei potenti, si pavoneggiavano in modo che i potenti vedessero com’erano bravi e considerassero la possibilità di servirsi di loro. Non valeva per tutti, ma per la maggior parte. Purtroppo una sola cosa, per quanto sia orribile a dirsi, valeva più o meno per tutti: la buona fede e la sincerità, vale a dire la mancata consapevolezza delle loro autentiche ragioni.
D. Il volto appiccicato alla maschera, la dannazione faustiana di qualsiasi dirigente, il condizionamento inesorabile del darwinismo sociale.
M. Ciò che ridicolizza il movimentismo senza progetto e induce a guardare con sospetto i mistici della partecipazione come spinta emotiva a priori. Costoro reclutano il clone da platea, l’uomo antimassa della prossima massa, badando bene che abbia tutte le carte in regola per svolgere i suoi ordinati compitini da suddito: la moralità santificante dentro e demonizzante fuori, la festante brama di unirsi al coro, se di voci bianche o di rutti dopo una bevuta, poco importa, il rispetto verso le scemenze più colossali purché superino il quorum necessario per il certificato assiologico e soprattutto la capacità di onorare e, se si è veramente bravi, adorare il piatto in cui si mangia.
D. Che linea di condotta adottarono allora i Padri?
M. Quella della chiarificazione razionale in modo che l’uditorio dei non indifferenti potesse essere diviso da subito tra gli illusi o i furbetti (spesso le sindromi si abbinano) che in un modo o nell’altro porteranno sempre l’acqua al mulino delle oligarchie e i pochi, all’inizio, in grado di raggiungere la consapevolezza culturale e veramente intenzionati ad avviare una costruzione innovativa e liberatoria pur sapendo che le probabilità a favore sono scarse e forse inesistenti. Il primo passo per indurre questi ultimi a una impresa tanto disperata comporta naturalmente la capacità di convincerli che questa costruzione è l’unico incerto rimedio contro una sicura catastrofe.
D. E qui si passa dal piano della comunicazione a quello delle argomentazioni di dettaglio.
M. Sì, ma non immediatamente: attraverso una fase intermedia che instaura un altro presupposto fondamentale. Parafrasando il messaggio dei Padri, potremmo esprimerlo così: noi procediamo ad affermazioni gravi, importanti, cruciali, la cui verità, se accettata, comporta conseguenze specifiche, impone assunzioni di ruolo e di responsabilità, prese di posizioni compromettenti. Orbene, tu, protagonista della scena sociale che ascolti (ammesso e non concesso che tu voglia ascoltare e non ti cospargi le orecchie di cera) delle due l’una: o confuti le nostre argomentazioni con argomenti razionali di uguale efficacia o altrimenti, se le rifiuti per partito preso, implichi delle due l’una: o noi siamo pazzi o malvagi o tu sei pazzo e malvagio. C’è però una terza possibilità generale che purtroppo conviene ai più scafati subdoli bastardi, anche se a noi Padri tutto sommato esteticamente non dispiace. Questa: che l’uomo sia incapace di procedere verso affermazioni veramente importanti e significative, che ogni conoscenza e ogni azione dell’uomo si svolga in regime di assoluta relatività e resti confinata a minime regioni di spazio e di tempo, a situazioni insuperabili di contingenza e limitatezza, a giochi di razionalità asfittica e parziale che lo rendono di fatto lo zimbello di causalità e casualità più estese quando, per qualsiasi motivo, fanno sentire la loro influenza: il presupposto fondamentale della legge universale della forza in tutte le sue, a volte elaborate e sottili, coniugazioni darwiniane e della legge e della forza.
D. Nel qual caso le confessioni rivali dovrebbero smettere almeno di raccontarci frottole.
M. Così dovrebbe avvenire nel migliore dei mondi possibili, in realtà proprio da tale relatività, vera o presunta, hanno tratto, traggono e trarranno sempre fiato per le loro strombettatine e trombonatone (non dimenticare mai la Legge della Forza). Questo non è però del tutto negativo. Io penso che i Padri non avrebbero potuto ricevere uno stimolo adeguato per avviare la loro grande, incommensurabile opera se non dalla constatazione della inconsistenza e pochezza di tutti i grandi principi venerati come sacri dal conformismo diffuso.
D. Però almeno si dovrebbe ridimensionare, nel segno di una salutare prudenza, l’autostima immensa e grottesca che il grosso dell’umanità cova in se stessa.
M. Per questo dovrebbe bastare molto di meno che la filosofia migliore in assoluto. Considera un cacciatore-raccoglitore di una società primitiva come non ne esistono più: spende solo tre ore al giorno in mansioni adrenaliniche per procurarsi i mezzi di che vivere, per il resto del tempo gioca e si diletta, si esercita, si dedica ad analoghi dei nostri sport, osserva con curiosità l’ambiente circostante, per lui molti animali sono sacri, altri li onora comunque dopo averli cacciati, ogni luogo e ogni organismo rimangono potenziali ricetti di spiriti superiori. Adesso confrontaci l’uomo medio civilizzato: lavora otto ore al giorno in mansioni grigie e debilitanti, vive tra mura e marchingegni di cui non conosce l’origine e i principi, si distrae con spettacoli, hobby, conversazioni di una ripetitività e una banalità addirittura mostruose e incredibili, per coltivare i pensieri più elevati si riunisce in branco davanti a ridicole pantomime in costume dentro scenari barocchi o rococò, è convinto di possedere un valore enormemente più alto rispetto a qualsiasi altro animale per il giudizio di un dio di cui sa meno di niente e ancor meno capisce. Per far spazio al secondo genere di uomo, maniaci dalla smodata ambizione iperattiva (gli uomini d’azione, gli esemplari umani, per certi versi, non tutti, tra i più stupidi che si possano concepire), a cui in fondo sarebbe convenuto riuscire a coltivare in privato le proprie manie invece di rimuoverle e trasfigurarle, hanno sterminato il primo genere di uomini. Triplo urrà per l’umanità perché è una brava ragazza.
D. Questo relativismo giustifica anche, se vogliamo, molte sfumature scherzose dei sacri testi, non so però se ‘scherzose’ sia un termine adatto…
M. Certo: questa possibilità di relativismo, che potrà essere convalidato o smentito soltanto dalla storia futura e forse mai definitivamente, avvalora non solo certi toni caricaturali e grotteschi, ma tutta l’impostazione della Bibbia Kolibiana.
D. Si può passare ora a una fase più di dettaglio riguardo alle affermazioni di tale Bibbia?
M. Indubbiamente, e ciò ci conduce alla più generale e fondamentale esemplificazione del metodo, quella che concerne proprio quel catastrofismo di cui abbiamo già parlato.
D. Come procedono le affermazioni che lo riguardano?
M. Il ragionamento fondamentale, che possiamo considerare inoppugnabile, concerne l’intervento del caos deterministico nelle diverse partizioni sia dei fenomeni storico-sociali che di quelli climatico-ambientali: se l’evoluzione dei relativi sistemi ai vari livelli d’integrazione dei sistemi parziali non avviene mai in modo lineare, ma per periodi di stabilità temporanea inframmezzati da riadattamenti radicali della trama organizzativa che rimangono indefinibili a priori (deterministicamente imprevedibili), l’homo oeconomicus (reale o fittizio che sia), l’agente che massimizza l’utile sotto vincoli dati (da non confondere con il predone darwiniano, se si ammette e non concede una diversità di fondo) deve decidere in che misura tali riadattamenti siano tollerabili, ovvero non assumano caratteri catastrofici eccessivi. Nel caso che rischino di produrre invece effetti inammissibili, è tenuto, in quanto agente razionale, a valutarne la portata e la vicinanza onde effettuare un calcolo costi-benefici corretto da opportuni tassi di sconto.
D. Ciò però si può solo fare in via approssimativa e ampiamente aleatoria.
M. Però è obbligatorio soprattutto quando massima aleatorietà significa massimo pericolo e inoltre massima globalizzazione uguale massimo del massimo, in quanto la globalizzazione comporta la sovrapposizione sempre più spinta dei due tipi di dinamiche caotiche, quello della civiltà umana e quello della natura planetaria: una caoticità al quadrato.
D. Immagino che questa sia solo una premessa del discorso, però già qui è utile verificare se esistano obiezioni valide.
M. Niente di scientifico, soltanto la fiducia delle Parrocchie Riunite nella protezione divina, una delle tante riprove che la mano invisibile di Adam Smith altro non era e non sarà mai che la mano di Dio. ‘In God we trust’, c’è scritto su certificati e targhe americani ed è forse la frase economica più indicativa che compaia in luoghi pubblici. Se ci si ingegna a ridurre a sostanza forte, priva di dubbi amletici, le concezioni degli economisti di regime, sopravvive soltanto un nucleo esortativo con il quale, su orchestrazione del leader maximus, scimmiottano i programmi propagandistici delle dittature di ogni colore, quei proclami sulla fiducia obbligatoria in quanto motore trainante di tutto, quel super ottimismo stacanovistico che, quando manca, decreta l’inadeguatezza e l’inettitudine del suddito nel cogliere le opportunità che vengono generosamente irradiate dall’alto. Si tratta di un indice rivelatore fondamentale al fine di una distinzione non puramente accademica tra liberalismo e liberismo o autoritarismo.
D. La fiducia come colonna portante della libertà quando invece, se ci si pensa bene, la vera libertà consiste proprio nel poter fare a meno di una confidenza a occhi chiusi.
M. Del resto, a proposito di occhi, nessuno si sarebbe mai messo a discutere seriamente di economia di libero mercato senza prima averli chiusi tutti e quattro, davanti e di dietro, per non vedere i convitati di pietra e i fantasmi dell’opera che potevano turbare i sonni dell’illuminismo legislativo, intendo i soprassalti di panico o per deliri vari dei fantomatici agenti paritari, la cui precaria esistenza o irrilevanza poteva però assolvere da certe facilonerie, ma poi anche le velocità relative di aggiustamento dei vari macchinismi e il conseguente innesco di fluttuazioni per autocatalisi e retroazioni e tutte le sequenze non lineari delle catene, in modi che neppure l’olimpo dei ricchi, che sostituisce Dio in attesa della Parusia, riuscirà mai a prevedere.
D. Per cui?
M. Ovviamente, i modi e tempi delle transizioni di fase, data la complessità dei processi che interagiscono in ogni istante e in ogni luogo del pianeta (l’illimitata sensibilità alle condizioni iniziali, l’influenza doppia del caso sulle fluttuazioni preliminari e sulle diramazioni successive, le stabilità locali raggiunte attraverso gli eccessi dell’energia destabilizzante di contorno) non possono essere approssimati se non attraverso stime soggettive di probabilità ottenute sulla base di informazioni razionalmente combinate. In fondo, se mi posso concedere un piccola divagazione sugli abiti mentali della gente, l’arretramento di audience della scienza rispetto al confessionalismo consegue da alleanze al vertice tra gli astrattismi della scienza tecnologica, la ‘scienza del fare’, e la copertura di quella benevolenza divina necessaria a far funzionare strutture che, rispetto alla realtà vera, appaiono poco più che costruzioni con i mattoncini del Lego. E’ importante sottolineare, a costo di ripetersi e diventare noiosi, che l’incertezza regna sovrana come principio ontologico e riguarda l’inizio come la direzione evolutiva dei fenomeni, i tempi impiegati dai singoli stadi come il decorso completo delle trasformazioni.
D. Quindi?
M. Quindi l’homo oeconomicus, se non è solo un bandito darwiniano, deve valutare se è il caso di fare intervenire un principio fondamentale di precauzione oppure no, il che segna già una linea discriminante fondamentale al fine di decidere se la politica economica agisce nell’ambito di più generali interessi umani o si riduce a compiti di copertura delle bande aliene incaricate di spremere il pianeta e ridurlo a un torsolo annerito.
D. Ma in base a quali elementi si possono prendere le relative decisioni?
M. Prima di tutto occorre stabilire se è il caso di occuparsi seriamente di certe questioni oppure no: se ritieni sia meglio occuparsi di cose più pratiche, perché ai fatti capitali ci pensa Dio oppure chissenefrega, solo l’idea di una catastrofe ti fa prendere il valium, ti sei già schierato con gli alieni e aspetti sereno e rilassato il verdetto divino. Pensa che ridere se il giorno del Giudizio ti trovi davanti Dio circondato dall’intera dozzina di Padri Kolibiani!
D. Buffo, sì, ma se si crede in Dio, si può credere, sperare o temere qualsiasi cosa: l’assurdo non esiste più.
M. Esatto, quindi non occupiamoci di Dio, ma dell’uomo economico in versione padre di famiglia o fuorilegge. Quali strumenti possiede per decidere? I Padri gliene hanno suggerito alcuni. Cerco ora di tradurre la loro posizione secondo schemi chiari, essenziali, che non possano generare equivoci. Il modo più semplice, anche se metterà in crisi quelli che alla prima formula subiscono stress ancora peggiori di quelli provocati dalla parola ‘catastrofe’, consiste nel partire dalla seguente equazione p = k(t) x t, che considera la probabilità (soggettiva, ma razionale!) di catastrofe come funzione crescente del tempo trascorso da un tempo iniziale, regolata da un parametro a sua volta dipendente dal tempo. Non solo la plausibilità, ma perfino l’ineluttabilità dell’assunto mi sembra evidente.
D. Sembra ovvio anche a me: ciò che è fondamentale quanto ovvio è che la probabilità sia una funzione crescente del tempo.
M. Si tratta adesso di utilizzare questa semplice formula per dirimere il problema fondamentale, se cioè l’uomo economico, l’uomo razionale che massimizza i fini disponendo di un uso alternativo di mezzi limitati e secondo condizioni e leggi che quelle sono e nulla può farci, dovrebbe tirare in causa oppure no il principio di precauzione.
D. Scusa se interrompo il discorso, ma vorrei chiarire meglio in che cosa consiste questo principio di precauzione.
M. Consiste nella decisione di cambiare i comportamenti in atto quando, a prescindere dalla loro utilità e dai loro scopi o in modo pesato rispetto a quelli, prefigurano una percentuale di rischio troppo elevata che avvengano eventi negativi intollerabili. Evidentemente questa percentuale deve essere commisurata alla gravità del rischio. Se risalire un pendio ti frutta una pepita d’oro insieme a una percentuale del 60% di sbucciarti un ginocchio, non esiti un istante; se la percentuale è del 30%, ma concerne la rottura di una gamba, magari qualche dubbio ti viene; se la percentuale scende al 15%, ma riguarda la possibilità di restarci secco, beh, non so quanti si metterebbero a scalare il pendio (molti disperati di sicuro).
D. L’attuazione del principio dipende quindi dalle percentuali, d’altronde si può sospettare che non si possano determinare se non molto alla lontana e con procedure discutibili: come può tornare utile allora tutto il ragionamento?
M. Il ragionamento torna utile se si ottengono risultati generali e, entro certi limiti, inoppugnabili, che inducano a prendere in considerazione la messa in campo di ristrutturazioni profonde degli assetti sociali, politici ed economici anche se rappresentano una impresa ardua, complicata, dagli esiti incerti e, per alcuni (molti in una fase di passaggio) sgradevoli. Un traguardo più modesto, su cui ripiegare qualora l’asserita solidità dei ragionamenti, a un’analisi attenta, risulti meno ferrea, ma comunque preoccupante, consisterebbe nello impegnarsi a una stesura preliminare e completa del progetto di attuazione, rimandandone la realizzazione effettiva.
D. Possiamo entrare nel vivo delle argomentazioni?
M. Abbiamo detto: p = k(t) x t, t è il tempo trascorso dall’ora zero. Come secondo passo, cerchiamo di determinare un punto del futuro in cui certamente, se il complesso generale delle cose continuasse a muoversi secondo le attuali tendenze, sarebbero già intervenute catastrofi tali da distruggere la civiltà umana almeno nelle forme attuali (sconquassi inimmaginabili e miliardi di morti violente). Il tempo che ci separa da quel punto è il tempo T. Orbene, possiamo affermare con assoluta certezza (in modo inoppugnabile) che in qualsiasi momento dopo il tempo zero ci si troverà in una o l’altra delle due seguenti situazioni: a) la probabilità (soggettiva, ma razionale!) di catastrofe sarà maggiore di t / T ; b) ci si trova in attesa di una fase (tanto più vicina e accelerata quanto T è prossimo al tempo iniziale e ritardato rispetto al punto effettivo della catastrofe reale) di accelerazione esponenziale dei fenomeni (fase che, del resto, potrebbe già essere cominciata).
D. Dipende se la retta p= k x t passante per (T,1), con cui abbiamo approssimato la probabilità, si trova al di sotto della curva di probabilità che si approssima alla linea orizzontale p = 1 già raggiunta (da quanto tempo non si sa) al tempo T, oppure la funzione di probabilità della variabile tempo si trova al di sotto della retta, nel qual caso, deve presentare prima o poi un aumento di ripidezza che le faccia raggiungere 1 prima del tempo T o al massimo in T.
M. Esatto. Si presume che la retta passi per il punto (0,0), cioè che la probabilità sia nulla al tempo zero, ipotesi già molto ottimistica. Inoltre, c’è un rilievo epistemologico importantissimo che è bene ribadire e se annoiamo pazienza. La probabilità tende a 1 perché è una probabilità soggettiva, bayesiana, che dipende dalla nostra capacità relativa di far parlare (razionalmente) gli indizi e i riscontri empirici. Questi definiscono completamente l’ignoto quando l’ignoto, che appartiene a un contesto deterministico di difficilissima interpretazione, si rivela e cessa di essere ignoto.
D. C’è qualcosa però che non mi convince. Se l’evoluzione è imprevedibile, la probabilità soggettiva dovrebbe muoversi a caso per poi precipitare a 1 al momento della transizione.
M. No, se si è individuato il punto di attrazione o almeno le caratteristiche generali di pericolosità dei fenomeni. Nella teoria matematica delle catastrofi, per esempio, che possiamo assumere alla larga e in via orientativa anche se si tratta di un’astrazione valida in condizioni più restrittive di quelle reali, l’area di discontinuità o di collasso è annunciata dalla variazione degli indici topologici di contorno. Il tempo T e le cause che vi congiurano forniscono proprio una idea di quello che avviene e come e quando, prefigurando, nei pressi della linea orizzontale p=1, un andamento della curva di probabilità accelerato e regolato dal tempo T.
D. Mi sembra d’intuire il senso dell’argomentazione. Tornando ad a) o a b)?
M. Morale della favola (nera) ci troviamo comunque nei guai, a meno che il tempo T sia remotissimo. Se il tempo T si potesse, per esempio, fissare in due secoli da oggi e valesse il caso a), la probabilità di una catastrofe capitale passati venti anni sarebbe superiore a 20 / 200 = 10%, il che significa che avrebbe già raggiunto (tra venti anni, se la probabilità attuale si considera nulla) un valore a due cifre e sarebbe relativa non a sbucciarsi il ginocchio o a rompersi una gamba, ma a perdere tutto compresa la vita.
D. Intendi, se ho afferrato bene, la probabilità che dovremmo riscontrare se possedessimo e sapessimo utilizzare al meglio tutti gli indizi opportuni.
M. Non esattamente: ‘tutti gli indizi’ non esistono se non esiste prevedibilità. E’ meglio dire: una concomitanza d’indizi alcuni dei quali potrebbero essere ingannevoli.
D. Ci troviamo nel caso a) o nel caso b)?
M. E’ più probabile il caso b), ma, a sentire gli ottimisti, ci troviamo nel caso a). Attenzione, comunque: il caso b) sarà il peggiore di tutti quando avverrà l’attraversamento della retta interpolatrice e soprattutto quando la curva di probabilità attuale si troverà al di sopra di essa. Possiamo ancora sperare di non trovarci in quella situazione, ma prima o poi, se non si modificherà niente di sostanziale ci arriveremo.
D. Non ho capito bene: gli ottimisti?
M. Certo: sono loro che prevedono o auspicano una evoluzione graduale dei fenomeni e se così avvenisse la retta p = k x t con k = 1 / T si troverebbe sotto la curva della probabilità reale (più o meno convessa verso il basso) e quindi approssimerebbe per difetto la probabilità reale con un margine di errore dipendente da quanto più T si trova spostato in avanti rispetto al tempo della catastrofe reale.
D. La curva non potrebbe essere di tipo particolare, per esempio presentare dei flessi?
M. Dipende dall’evoluzione reale dei fenomeni, da oscillazioni e instabilità, ma concettualmente inficerebbe poco o niente la sostanza del ragionamento, significherebbe soltanto che la percezione soggettiva dei fenomeni sarebbe messa in scacco dalla natura, il che non dovrebbe certo indurre a rimanere più rilassati e fatalisti, almeno non allo stato attuale. L’incertezza può prolungare l’agonia della speranza, ma non può renderla valida ed efficace in alcun modo. Se la curva giace sotto la retta, la retta fornisce un’approssimazione per eccesso della probabilità, ma quando le criticità cominceranno ad accentuarsi e i sintomi si faranno palesi (configurando una prima comparsa degli stimoli necessari ad assumere drastici rimedi) sarà troppo tardi per qualsiasi decisione ponderata e produttiva. Una caratteristica fondamentale del caos deterministico che viene stupidamente sottovalutata dagli ottimisti è infatti questa: il caos deterministico si può (a volte) prevenire, ma non si può (mai) curare (al massimo modificare alla cieca).
D. Diventa comunque cruciale identificare un tempo T che sia inequivocabile per tutti.
M. Certo, e qui apparentemente i kolibiani si trovano nei guai, ma in realtà in guai ancora maggiori si trovano gli ottimisti, perché è ovvio che possano intervenire svolte e progressi tali da modificare le tendenze attuali, ma dato che in più di due secoli dalla rivoluzione industriale certe tendenze di fondo non sono mai cambiate, diventa un’operazione di alta acrobazia spostare il tempo T più in là di 2 o 3 secoli, soprattutto se si vuole mantenere la caratteristica più importante dei due secoli passati, ovvero il miglioramento della qualità di vita misurata con il metro del reddito pro capite (una quantità piuttosto che una qualità). Ricordiamoci sempre che il tempo T è solo una stima per eccesso (ritardata) di quando avverrà effettivamente la catastrofe.
D. Come si arriva a questa prima conclusione (i due o tre secoli, intendo)?
M. In modo semplice e inconfutabile appena si ammetta che l’incremento della richiesta energetica da parte dell’economia globale rimanga fissato ai valori attuali e non intervengano depressioni drastiche.
D. E se invece avvenissero?
M. Interverrebbero in concomitanza rischi enormi sul fronte economico, politico e sociale (guerre mondiali, migrazioni bellicose di popoli, carestie terrificanti eccetera).
D. Passando a un computo più dettagliato?
M. Si parte da alcune premesse scientifiche, quindi verificabili o per il sì o per il no, ma non per il nì: a) l’energia di cui abbisogna attualmente l’umanità, inclusa l’energia non commerciale e l’equivalente necessario a produrre la biomassa agricola e zootecnica, si calcola da circa un decimillesimo a un millesimo dell’energia di corpo nero emessa dalla Terra (circa 250 watt per metro quadrato) che, per la Stefan-Boltzmann, è quella da considerare al fine di determinare la temperatura media di superficie inclusa l’atmosfera; b) se si considera che la forma più innocua attraverso cui la Terra potrebbe liberarsi di tale energia sarebbe quella di radiazione, quando l’energia economica assumerà valori di un decimo rispetto all’energia solare riemessa, la situazione ambientale si sarà modificata in senso irreparabilmente ostile verso qualsiasi forma vivente attuale anche perché la rapidità di tale variazione sarebbe mostruosamente incompatibile con i ritmi naturali; c) non solo la velocità dei cambiamenti sarebbe eccessiva, ma, da un certo punto in poi, molto prima del tempo T, superate determinate soglie di espansione, non potrebbe essere frenata senza sconvolgimenti enormi dal punto di vista sociale. Ovviamente la Terra si ribellerebbe o ribollerebbe molto prima di essere sottoposta a certe torture.
D. All’attuale ritmo di crescita della richiesta energetica, quindi, in 2 o 3 secoli si raggiungerebbe il decimo dell’energia di radiazione della Terra?
M. Forse di più, certamente valori comparabili e comunque intollerabili. Per una valutazione efficace si deve considerare come l’energia solare che l’umanità cattura attraverso i processi biologici di cui si appropria ammonti a circa cento volte le calorie alimentari effettivamente ingerite e, rappresentando un quantitativo circa dieci volte maggiore dell’energia commerciale propriamente detta, rappresenta, per la devastazione della spugna verde che compie unitamente all’energia che non passa attraverso i mercati ufficiali, un pericolo perlomeno paragonabile a quello rappresentato dall’energia industriale e residenziale. Si accomodi pure chi possiede valutazioni difformi e più dettagliate, sono curioso di ascoltarlo, dato che il semplice fatto di affrontare il problema rappresenterebbe la violazione di una regola non scritta del silenzio. Si può cogliere un segnale molto significativo, quando avversari pronti a farti le pulci per un minimo banalissimo errore, ignorano imprecisioni molto più grandi quando una rettifica li indirizzerebbe su un percorso sgradito: non è vero, Bernardinus Bernardinis? Tu sai a chi mi sto rivolgendo.
D. La sensazione generale è che intorno ad argomenti siffatti si giochi una partita cruciale il cui risultato è la tenuta o meno dei miti e degli alibi con cui si tende a giustificare un incredibile tasso di ineccepibile o addirittura santa criminalità nei confronti delle generazioni future.
M. Non dobbiamo poi dimenticare che il gradiente delle temperature dal suolo al culmine dell’atmosfera, in presenza di una produzione costante di calore, dipende dai gas climalteranti e che anche il vapore acqueo e l’umidità relativa dell’aria, che dipendono da un livello di saturazione che aumenta con la temperatura nella misura di circa il 6% ogni grado, si possono considerare tali. Questo aumento di densità del vapore necessario alla condensazione spiega altresì la crescente violenza erosiva delle precipitazioni. In due o tre secoli, inoltre, la massa umana, in assenza di traumi capitali, crescerebbe fino a raddoppiare e oltre, dilatando di conseguenza l’apporto energetico non commerciale e le distruzioni dovute a pure necessità brutali di sopravvivenza. La primaria sostanza inquinante del pianeta, nonostante continue infusioni di santità francescana, si chiama infatti umanità e chi non si rassegna a questa semplice anche se terrificante nozione affronterà sempre i problemi osservandoli con lenti distorte e probabilmente opterà per scelte e decisioni perfettamente antitetiche rispetto a quanto sarebbe utile, contribuendo ad aggravare la situazione ogni volta che riceve un applauso.
D. L’apporto calorifico però dipende dal rendimento in proporzione inversa e il progresso tecnologico può migliorare enormemente la situazione in tal senso.
M. Per questo ci siamo tenuti larghi e imprecisi invitando gli ‘esperti’ a proporre i loro aggiustamenti oracolari. Bisogna però considerare che se l’energia diventasse più efficiente, economica e a buon mercato, in presenza di un incremento demografico che tende a zero, ma solo lentamente, e in presenza di progresso economico continuo, la richiesta energetica salirebbe di conseguenza. Se l’energia invece diventasse più efficiente, ma più cara, pregiudicando il progresso economico, le turbolenze sociali diventerebbero fortissime accentuando l’altra fonte di motivi per intraprendere quanto prima una ristrutturazione organizzativa radicale.
D. E se l’economia si bloccasse in stato stazionario?
M. Questo tipo di economia non può, è come una trottola che gira: se si ferma, cade su un fianco. Qualunque opzione impostata sullo stato stazionario deve scegliere tra due alternative: un regime autoritario e poliziesco imposto dall’alto o un modello di società accuratamente programmata. Naturalmente, in presenza della inevitabile ‘caduta tendenziale del saggio di profitto’, si tenterà di tenere in piedi la trottola dell’economia tradizionale cercando di farle prendere una spinta ora di qua e ora di là.
D. Tuttavia, da molti ambienti del progressismo ambientalista, se così si può chiamare, sono stati prospettati modelli di convivenza, principi di architettura abitativa, precetti di comportamento razionale tali da configurare un’ottima qualità della vita abbinata a una riduzione percentualmente notevole, anche di due cifre, del consumo energetico complessivo.
M. Sì, ma gli ambienti che tu citi hanno dimenticato di specificare come generalizzare quegli usi e costumi in modo da renderli sufficientemente diffusi e capillari. Se il reddito pro capite indispensabile a questo scopo risulta molto più alto di quello medio mondiale, si tratta di esercizi teorici che s’infrangono contro le analisi che reputano l’attuale incremento del PIL del tutto insufficiente a promuovere un progresso reale, a meno che non mutino radicalmente i principi di base che presiedono alla creazione e alla distribuzione della ricchezza. Quei prospetti si muovono sostanzialmente nell’ottica di un umanesimo spiritualista che rifiuta di considerare come imprescindibile e cruciale l’organizzazione economica generale, ritraendosi davanti alle scelte di coerenza più compromettenti e spinose, quelle che impongono di prendere in considerazione modelli rivoluzionari di pertinenza molto più estesa.
D. Ieri, oggi, domani e per sempre: o distruzione del pianeta e dell’umanità o rivoluzione.
M. Sì, ma in base alla logica scientifica elementare, non per un idealismo ecumenico: quello lo lasciamo a coloro che arredano i paradisi ultraterreni con i cadaveri degli spiriti vitali estirpati al pianeta. Ci sono poi altre considerazioni importantissime da fare: l’induzione calorifica dipende dai rendimenti a parità di beni prodotti (nel senso che con una energia più efficiente si producono gli stessi beni con un apporto minore), ma una volta fissato un volume eccessivo di energia totale impiegata, quella eserciterà effetti disastrosi a prescindere dal rendimento, dato che una larghissima quota della produzione, che non dipende dall’utilizzo energetico, ma dalle scelte produttive, si risolverà in calore entro un tempo medio prefissato.
D. Puoi fornirmi qualche esempio chiarificatore?
M. Certo! Prendiamo una macchina impastatrice che, per farla semplice, da acqua e farina, produce una pagnotta. Questa in pochi giorni, sia che venga mangiata o finisca in discarica, tornerà a disperdersi nelle molecole fondamentali. Quando questo sarà avvenuto, tutta l’energia spesa per produrre la pagnotta (più gli ‘interessi’) si sarà trasformata in calore. In genere, in ogni ciclo di attività che ricostituisce la situazione iniziale, tutta l’energia efficace che vi partecipa si trasforma in calore portando con sé una quantità aggiuntiva misurata dall’inverso del rendimento. In una società perfetta che perfettamente ricicla e perfettamente produce, quando i materiali di un ciclo produttivo, riciclati dalla distruzione dei prodotti al termine del loro utilizzo, saranno pronti e allineati per un altro ciclo produttivo, tutta l’energia impiegata per produrli e riciclarli si sarà trasformata in calore a prescindere che il rendimento sia dell’1% o del 99%, solo il calore aggiuntivo varia a seconda del rendimento. Se consideriamo una economia del riciclo totale come la più perfetta in assoluto, si vede che possiamo tranquillamente ammettere che l’energia impiegata nella produzione reale si trasformi completamente in calore.
D. Dunque, quando l’estimatore del progresso compra un bene prodotto con una efficienza doppia rispetto al passato e questo bene durerà un terzo del suo analogo precedente, potrebbe risparmiarsi l’applauso.
M. Sì, soprattutto quando il bene, per farsi perdonare la sua scarsa longevità, si presenta arricchito di virtù e le virtù del bene che servono davvero all’estimatore del progresso rappresentano solo la decima parte o giù di lì di quelle con cui lo stesso bene si pavoneggia.
D. I ‘pochi, pochissimi secoli’ a cui alludevano i Padri non sono mai stati specificati con inequivocabile precisione. Le loro stime coincidevano con la tua (2 o 3 secoli)?
M. Non è la mia: come ho già detto, si tratta di una stima massimale. Io personalmente propendo per un valore intorno a 1 (un secolo) e dopo cercherò di spiegare perché. Comunque non è vero che i Padri non abbiano fornito indicazioni pregnanti al riguardo: il presupposto fondamentale da cui si muovevano s’incentrava su una valutazione critica del PIL aggiuntivo necessario per garantire un effettivo miglioramento qualitativo della vita media, la cui valutazione non può prescindere da considerazioni di sicurezza e stabilità (sempre più critiche in presenza di una crescita demografica parallela a un consumo e un deterioramento generali di riserve e risorse) che a loro volta non possono prescindere da un incremento graduale e ordinato del progresso. Deducevano così un valore d’incremento che, in pochi, pochissimi secoli, se mantenuto costante negli anni, avrebbe distrutto il pianeta.
D. Senza quell’incremento costante, però, il pianeta potrebbe salvarsi.
M. Ma solo al prezzo di uno scadimento tale della vita individuale da farci tornare indietro di secoli. Vale la pena rinunciare a tutte le libertà conquistate, in realtà più in senso culturale che pratico, dalla tradizione democratica occidentale, per conservare un solo tipo di libertà, quella economica, che già arride a una percentuale minoritaria della popolazione, la quale percentuale tenderà sempre più a ridursi anno dopo anno se non verranno mantenuti indici di progresso tali però da produrre danni irrimediabili?
D. Si sono levate parecchie critiche riguardo a questo progressivo annichilamento o della salute ambientale o dello stile occidentale di vita o di entrambi.
M. Sì, ma nessuna veramente significativa. Anzitutto dobbiamo cercare di farci una idea di quale sia il PIL effettivo globale partendo da quel 3% e rotti che figurava nelle statistiche ufficiali. Probabilmente una stima efficace è data dal corrispondente incremento della richiesta energetica, che è circa la metà: è infatti difficile immaginarsi una quota di PIL che non richieda energia a parte quella, fasulla e da abolire, dovuta a rendite finanziarie, illusioni statistiche e burocratiche, travisamenti e distorsioni di sistema e, ultimo ma non ultimo, al puro gioco dei tassi d’interesse e degli atti di stregoneria monetaria (moltiplicatore della base monetaria, M1, M2, M3…). L’obiezione meno campata per aria è che l’intensità media per prodotto, cioè la quantità di energia che viene mediamente impiegata per la fabbricazione del bene unitario, tende a diminuire, ma si tratta di un’obiezione molto fragile, perché parallelamente aumenta la proporzione di energia impiegata per produrre l’energia stessa e anno dopo anno, aumentando il volume di merci, aumentano le scorte finali e gli sprechi inevitabili, quindi il consumo energetico per la loro produzione. Inoltre, non solo la materia prima energetica risulta anno dopo anno più scarsa e difficile da estrarre o attivare, ma ogni altra materia prima subisce analoga sorte e lo stesso discorso vale per l’agricoltura. Si può anche confidare che, similmente a quanto accade per ogm, selezioni genetiche, qualità delle sementi, tecniche d’irrigazione, fertilizzanti, antiparassitari eccetera, le tecniche di estrazione diventino sempre più efficienti, ma, in un caso e nell’altro, si tratta di processi che tendono a un limite, mentre le difficoltà di produzione ed estrazione aumenteranno inesorabilmente a causa di un impoverimento delle riserve concomitante a un deterioramento del manto forestale, dei terreni, delle falde acquifere e tutto ciò peserà sempre di più anno dopo anno.
D. La tecnologia, comunque, fa ‘passi da gigante’.
M. Siamo sicuri? Non conta, comunque, quanto misurino attualmente quei passi, piuttosto se l’estensione stia aumentando o meno e se e quando cominceranno a restringersi. Quando si parla di progresso tecnologico, nell’immaginario collettivo si parte dall’idealizzazione della fabbrica automatizzata più efficiente, sottacendo che invece bisognerebbe considerare l’intera attività umana senza escludere nessuna componente. Attualmente tutto sembra ancora trovarsi in una fase di sinergia espansiva, anche se in frenata, ma nessuno conosce il numero e il tipo di debolezze presenti e neppure dove potrebbero trovarsi i nodi critici il cui cedimento potrebbe compromettere ampie zone di sviluppo.
D. In che misura i Padri giudicavano fosse necessario riparametrare i valori di PIL in modo tale che le magnifiche sorti e progressive dell’economia di mercato risplendessero in tutto il loro, per ora solo usurpato e millantato, splendore?
M. Lo splendore non è stato solo usurpato e millantato, almeno fino al 1973, anno della crisi petrolifera, che può anche segnare la fine dell’epoca d’oro di quello indecoroso sfruttamento coloniale che ha permesso all’occidente di perseguire obbiettivi di progresso, non solo materiali, ma anche civili, culturali, scientifici. Tornando ai valori del PIL, essi giudicavano necessario, ceteris paribus, tre volte un incremento annuo di PIL reale e quindi di domanda energetica (4,5%), il che fissa in circa due secoli un apporto calorifico sicuramente paragonabile all’apporto solare, quindi a molto meno di due secoli l’epoca della catastrofe globale, non molto lontano da quel 15% tra una quindicina di anni che mi è utile per raccordarmi all’ultimo caso nell’esempio del pendio e della pepita,
D. Per molti, questi calcoli sono troppo pessimisti anche perché non tengono conto non tanto del progresso tecnologico, ma del tipo di progresso: per esempio il telelavoro ridurrebbe notevolmente il consumo energetico per gli spostamenti.
M. La base di una economia rimane la produzione e la distribuzione delle merci unitamente agli aspetti monetari, tutto il resto è dettaglio collaterale. Inoltre, come al solito, si confonde il consumo energetico totale con il rendimento medio complessivo delle fonti o, peggio ancora, con la loro rinnovabilità e pulizia. E’ chiaro che una volta che il calore totale prodotto per ogni metro quadrato superasse determinati limiti di tollerabilità, non conta un fico secco quanto renda o sia pulita o rinnovabile l’energia relativa, dato che sarebbe comunque troppa. I mezzi telematici per risparmiare la mobilità verranno tradotti prima o poi in profitti e reinvestiti in beni che sostengano ulteriormente i profitti. Da lì, con la proprietà privata dei mezzi di produzione, non si scappa.
D. Un’altra obbiezione, a mio avviso più pertinente, riguarda però l’ipotesi di un incremento fisso e costante anno per anno: in passato ci sono stati anni di crisi e andamenti ciclici eppure la tendenza verso un generale progresso è indiscutibile.
M. Per niente! In passato ci sono state due guerre mondiali e innumerevoli altre con decine di migliaia di morti, lager, carestie, deportazioni, sconcezze micidiali a non finire eccetera eccetera. Prova a immaginare che caratteristiche assumerebbero quei tipi di disastri al giorno d’oggi, visto che basta una guerra civile in una nazione di secondo piano per mettere in ginocchio l’Europa e far barcollare il mondo intero. Eppure, in un certo senso, non se ne sarebbe potuto fare a meno. L’altra sera ho rivisto una vecchia puntata di Newsroom, la serie ambientata in una redazione giornalistica televisiva. Il personaggio di Jeff Daniels, elencando fatalisticamente i casi di cronaca in cui un minimo incidente ha cambiato il corso della Storia, cita il mancato omicidio di Ted Roosevelt a causa di una sedia traballante, la gamba più corta della quale avrebbe salvato gli States dalla depressione permettendo il new deal che il vicepresidente Tal Dei Tali osteggiava. Si tratta di una palla colossale. Negli anni precedenti all’entrata in guerra la disoccupazione negli States era ancora al 18% e, finito un ciclo favorevole, si stava preannunciando una involuzione negativa. Gli States sono stati salvati da Hitler e dallo stato maggiore giapponese che ha deciso l’attacco di Pearl Harbor: i giapponesi consentirono il rilancio dell’iniziativa attraverso l’economia di guerra, Hitler creò le condizioni per il piano Marshall e la richiesta di prodotti americani nella fase di ricostruzione dei disastrati mercati europei.
D. Ciò non toglie che avanzando a singhiozzo e con capovolgimenti di fronte le condizioni generali potrebbero progredire consentendo alla natura di riprendersi.
M. Con una dose colossale di irresponsabile ottimismo si potrebbe anche pensarla così. In realtà è finito il tempo per la validità di quelle licenze: tutto è diventato molto più fragile e confuso sul lato positivo e molto più potente e distruttivo sul lato negativo (compresi i mezzi a disposizione di un terrorismo che si alimenta nelle sacche di emarginazione che crescono senza sosta, perlomeno in valore assoluto). La diplomazia internazionale si è indubbiamente rafforzata, soprattutto grazie alla ‘solidarietà tra le classi ricche’, ma i pericoli di una rottura degli olismi socio-economici lo hanno fatto molto di più. Le sacche di povertà che aumentano e le minacce che ne scaturiscono obbligheranno le democrazie puramente formali a trasformare molti formalismi in metodi polizieschi. Non c’è niente di scritto nel passato, niente di cui potersi fidare per l’avvenire, in una economia mondiale in cui tutto è strettamente annodato e ogni fluttuazione dipende da molte più incognite che in passato con conseguenti maggiori rischi di superare soglie di non ritorno. L’economia mondiale non ha altra possibilità oltre a quella di migliorare effettivamente la vita delle maggioranze impedendo la degenerazione delle minoranze: se non lo fa, e non lo sta più facendo, esplode.
D. Però così si torna sul generico.
M. Niente affatto, quel che è detto è detto e si può evitare di discuterlo solo con la tecnica dello struzzo (in realtà non è vero che lo struzzo nasconde la testa e lascia fuori il sedere, soltanto la politica lo fa). Sto semplicemente rimarcando l’elevamento al quadrato dell’imprevedibilità deterministica per l’intreccio inestricabile tra vicenda umana e fenomeni naturali.
D. Il comunismo liberale kolibiano rimane quindi il solo rimedio realistico possibile.
M. Certo, ma sembra troppo bello, una utopia da sogno, se guardiamo all’unica alternativa seria che sembra delinearsi: la nobiltà del censo che gestisce la stagnazione globale attraverso un assistenzialismo clericale che invita le folle a crescere, moltiplicarsi e scorrazzare come se vivessero d’aria e non di energia. Pazzesco! A parte i danni ambientali forse anche peggiori di quelli di una economia che si mettesse di nuovo a tirare, figurati che bel paesaggio ‘spirituale’ ci aspetta: in basso lo spietato genocidio delle intelligenze e, ai piani superiori, la riduzione della cultura a mero supporto tecnico-operativo dell’edonismo elegante.
D. Dicevi prima di una tua previsione in merito al fatidico tempo T…
M. L’ho già specificata: un secolo e forse meno, inteso come tempo massimo calcolato per eccesso che rimane al presente stadio della civiltà. Come lo ricavo? Prima di tutto bisogna considerare che il decimo di cui si è detto, diventa circa un cinquantesimo se si tenta una stima realistica di un rendimento che va riferito a tutta l’attività umana intesa come un enorme macchinario dall’estensione planetaria (stima che ritengo adeguata anche considerando punte di efficienza molto più elevate propiziate dal progresso tecnologico). Si deve infatti ragionare sull’altro aspetto della grande inerzia climatica o capacità termica del pianeta Terra, espressa, con buona approssimazione, dalla sua natura di corpo nero (che assorbe radiazioni a qualsiasi lunghezza d’onda): la grande suscettibilità entropica. Se infatti la temperatura della Terra registra gli apporti energetici in ragione della radice quarta del coefficiente incrementativo, una corrispondente, opposta dilatazione avviene per le componenti relative alle complessità statistiche e ai turbolenti disordini generati, come si desume, sia dalla formula analitica dell’entropia, sia dalla proporzionalità diretta tra capacità termica e gradi di libertà di un qualsiasi sistema. Dato che ormai circa il 50% dell’intera biosfera, da intendersi come complessione termodinamica relativamente isolata, connessa al cosmo quasi esclusivamente da flussi di radiazione, è ridotto a puro contesto territoriale dell’attività umana, non è difficile trarne conseguenze inoppugnabili sulla tendenza entropica esplosiva che incombe anche e soprattutto con riguardo agli aspetti politici e socio-economici e sui pochi decenni che ci separano da soglie molto pericolose.
D. E’ indubbio che, se non la si ritiene un consesso di puri spiriti, una moltitudine di angeli decaduti, l’umanità, con tutti i suoi annessi e connessi, per motivati obiettivi di previsione scientifica, si può concepire come un complicato macchinario termico sottoposto a specifici e inviolabili principi generali.
M. Se l’umanità, in accordo con le concezioni religiose giudaico-cristiane, consistesse di singole anime immortali, parteciperemmo tutti a una specie di reality dove, in una specie di gigantesco baraccone da fiera, sono messi in palio biglietti di classe diversa per l’accesso al mondo ultraterreno. Comunque, caricature a parte e a prescindere da torti e ragioni, considerando le differenze di valutazione tra visuale spiritualista e visuale deterministica, non si può sfuggire a un giudizio drastico, quanto inoppugnabile: a seconda della visione metafisica di ciascuno, la santità può trasformarsi in criminalità e viceversa, il massimo bene in massimo male e viceversa, il caritatevole soccorso in scherzo maligno e viceversa. Ciò che è auspicabile in un sistema potrebbe essere esiziale nell’altro e viceversa. Un concetto autentico ed effettivo di democrazia non può resistere a una traduzione dei principi religiosi e umanitari in veri e propri caposaldi di realtà anti-scientifica.
D. Il che solleciterebbe tutti ad adottare il relativismo etico liberale come criterio preziosissimo e inviolabile, assegnando ipso facto all’area del dogmatismo dispotico chi non vi si rassegna.
M. Purtroppo non è così semplice: l’oggettività naturale, in quanto fondata sulla creazione debitamente rara e transeunte di strutture stabili e articolate in un oceano vorticoso di alta entropia (l’ineluttabilità dell’ordine come insorgenza automatica marginale), rimane elusiva, inafferrabile, proteiforme, mentre la psiche umana abbisogna di certezze. La religione esaudisce il bisogno di sicurezza come un pusher quello di stupefacenti.
D. Però la religione può condizionare la realtà extra-umana soltanto attraverso il volere di Dio e se l’unico concetto non insensato di Dio coincide con quello di universo o multiverso…
M. Quello che la religione ha buttato fuori dalla finestra rientra dalla porta e allora riprendiamo il discorso dopo una divagazione tutto sommato superflua. Per il determinismo ‘panteista’, dunque, l’energia immessa in un corpo nero, nel cui amalgama la vicenda umana si integra e si fonde, solo in minima parte si configura come energia libera, anche se questa minima parte tenderà a organizzarsi in modo complesso per ragioni statistiche legate alle enormi variabilità e instabilità locali in presenza di un’attivazione energetica continua. Ovviamente il tendenzioso ottimismo tecnocratico, sempre più vicino alla fede religiosa che all’obiettività scientifica, non tiene conto di ciò quando prescrive l’adorazione dei nuclei d’intellettuale possanza di cui alcuni esemplari della specie si rivelano, nonostante tutto, capaci. Con buona pace di tutti i santi francescani del mondo, se la natura umana consiste in sofisticazioni biologiche a cui non attengono principi ontologici soprannaturali, le specifiche termodinamiche del tipo che abbiamo appena evidenziato rivestono un’importanza enormemente maggiore rispetto a considerazioni che tirano in ballo l’ingegnosità dinamica e la volontà etica o morale delle più diverse comunità di persone, se non altro perché, se l’uomo è soltanto un animale complicato dentro un contesto planetario e cosmico guidato da leggi deterministiche, considerazioni etiche e morali contano meno di niente e il meno si riferisce alle illusioni e agli inganni che diffondono.
D. Tutte considerazioni che trovano pieno riscontro nella termodinamica dei processi irreversibili.
M. E’ sufficiente considerare la sostanza fondamentale di cui la vita necessita per svilupparsi: l’acqua. Le proprietà morfologiche, strutturali, elettromagnetiche e quantistiche delle sue molecole sono assolutamente indispensabili per sostenere e coadiuvare ogni struttura biologica, eppure la caratteristica dell’acqua, rispetto a qualsiasi altro liquido, consiste in una maggiore entropia (che vuol dire anche più versatilità, mobilità, turbolenza) dovuta agli innumerevoli tipi di disposizioni (gradi di libertà necessari a caratterizzare gli stati fisici corrispondenti) che le singole molecole possono assumere l’una nei confronti dell’altra. Non è certo un caso che molti composti del carbonio e, per altri rispetti, quelli del silicio, presentino, mutatis mutandis, caratteristiche analoghe. La termodinamica dei processi irreversibili rivela che ogni struttura ordinata di un sistema aperto si determina in funzione della minima produzione di entropia da parte dello stesso sistema, ma perché questo avvenga occorrono transizioni di fase rese possibili soltanto, per così dire, da debordanti serbatoi di disordine circostante e di energia sregolata che innesca le fluttuazioni. Questo è un destino a cui nessun organismo biologico e neanche la società umana nel suo complesso possono sfuggire. Ogni progresso economico comporta apporti aggiuntivi di energia e quindi isole di cristallinità in un mare di letame che cresce in modo proporzionalmente molto maggiore (per esempio, gli appartamenti dall’elegante minimalismo stile neo-Bauhaus nel centro di Lagos, circondati da sconfinate baraccopoli). Senza stato stazionario e un progetto razionale complessivo che coinvolga l’umanità in un insieme integrato, destinando l’entropia in eccesso ad aree ben determinate e vigilate, prima o poi non ci sarà nessun posto dove ripararsi dagli uragani del caos.
D. Coloro quindi che auspicano una società aperta estesa a tutto il mondo e fondata su principi liberistici di lussuriosa spontaneità e anarchia incontrollata, se avessero mano libera, darebbero in pasto l’umanità ai Gog e Magog dell’Entropia.
M. Io non sarei così restrittivo: in realtà tutti i non kolibiani stanno percorrendo quella strada scellerata.
D. E se la natura umana si fondasse su una sostanza ontologica sovrannaturale?
M. Non farmi ripetere le stesse cose: staremmo partecipando a una forma di show a tempo pieno per intrattenere e dilettare imperscrutabili Autorità Cosmiche che poi deciderebbero a prescindere la sorte di ognuno, metafora che non può dispiacere più di tanto a coloro che, per i privilegi politici e sociali di cui dispongono, si ritengono i referenti terreni di queste fantomatiche potenze assolute e guardano gli zotici affannarsi e duellare per il sollucchero delle loro foie aristocratiche. Le religioni del libro esprimono mitologicamente gli assetti delle aristocrazie guerriere e il cristianesimo non fa che delinearne un successivo adattamento a società più complesse in corrispondenza dell’acquisto d’influenza e pericolosità delle masse amorfe debitamente manipolate. Quando certi dogmi teologici cominciano a vacillare o mal si adattano a un certo anarchismo di base, le masse cominciano a disciogliersi in individui ed ecco il cattolicesimo. In tutti questi passaggi, l’impianto di base rimane il medesimo e concerne in primo luogo gli interessi delle oligarchie.
D. Dio, comunque la si voglia mettere, rimane un Potente rappresentato da potenti.
M. Ovviamente la potenza prima e assoluta spingerebbe i burattini umani a credere nell’esistenza di leggi scientifiche, mentre si rivelerebbero veramente efficaci soltanto sortilegi e atti di magia.
D. Abbiamo dimenticato qualcosa?
M. Rimarrebbe da analizzare punto per punto l’elenco fornito dai Padri in merito all’illusorietà di molta della crescita del PIL soprattutto in questi ultimi anni. E’ ovvio che, se l’incremento reale del PIL si situasse vicino ai valori corrispondenti della richiesta energetica, verrebbe quasi integralmente assorbito dalla crescita demografica. Se a questo punto consideriamo le sperequazioni e distorsioni esistenti (quote dovute a criminalità, spese militari, mere riparazioni di vari disastri, rendite finanziarie e monopolistiche...), diventa automatico assegnare valori negativi ad amplissime fasce di reddito medio-basso. Inoltre, occorre attentamente considerare due aspetti: la quota necessaria a reintegrare un capitale sempre più esteso e quindi più instabile, con una distribuzione che, per governare i rischi, non può che diventare sempre più concentrata, oligopolistica e oligopsonica, e la rendita puramente finanziaria del capitale astratto dei patrimoni mobili, dei titoli e delle partecipazioni nominali, che si regge sul fantasma della moltiplicazione monetaria, cioè sui rapporti tra le varie categorie di ricchezza di carta e la base monetaria.
D. A volte ho come la sensazione che più il sistema diventi efficiente, più diventi irreale.
M. Irreale rischia di diventare proprio quella efficienza, la danza satanica delle merci e del plusvalore, il corrispettivo socio-economico della maledizione entropica del corpo nero: tra un po’ ci toccherà riabilitare Marx e riconoscergli molta più parte di verità di quanto l’evoluzione del dopoguerra sembrava autorizzare a riconoscergli. I risparmi si riciclano immediatamente in investimenti a parte incantamenti monetari con cui combatte il Mefistofele/Donchisciotte della BCE e il sistema produttivo cresce mostruosamente su se stesso al punto che deve sprecare un sacco di risorse soltanto per non perdere la coerenza strutturale. Eppure ha smesso di produrre benessere uniforme e democraticamente attivo. Forse, se ne analizzassimo a fondo la costituzione, scopriremmo che il tasso del 4,5% effettivo ipotizzato come minimo per un progresso della qualità media, almeno algebricamente (visto che con questo sistema non si può ottenere altro), una volta opportunamente esclusi i vertici della piramide e supposto che le emergenze ambientali non esistano, dovrebbe essere più alto e non di poco.
D. Che cosa te lo fa sospettare?
M. Mi ha colpito il recente annuncio della piena occupazione effettuato dalle autorità monetarie americane in presenza di un tasso di disoccupazione non lontano da quello d’incremento del PIL (intorno al 4%, la cosiddetta disoccupazione naturale, un concetto peraltro tutto da ridere, ma adesso non ne possiamo parlare). Mi sembra che la cosiddetta legge di Okun, che permette una valutazione del livello di PIL che si dovrebbe attuare per raggiungere la piena occupazione, fosse considerata una volta una buona approssimazione alla situazione reale. Applicandola, si scopre che, in Europa, ci vorrebbe mediamente un PIL del 10% circa più alto per centrare l’obbiettivo. Se si valuta che le garanzie e la tutela del lavoro al centro dell’impero non sono certo da paese di Bengodi e sono comunque di molto inferiori a quelle europee, con rischi enormi di esclusione e povertà nelle fasce medie e basse, e che perlopiù all’interno di tutte le fasce di reddito dipendente (trascurando le ricchezze possedute) si vive per lavorare più che non si lavori per vivere, il quadro che ne esce dirama luci rosse intermittenti e assordanti stridi di sirene. Intanto tutte le grandi Corporation cominciano a registrare segnali di stanchezza nella riproduzione degli utili e a breve potrebbe innescarsi una fase recessiva prevedibile in base a elementari considerazioni statistiche relative all’avvicendarsi storico dei cicli economici.
D. Pensi ci siano margini per una ripresa della conflittualità industriale e della contrattazione sindacale?
M. In questa situazione i sindacati possono solo aggiungere ingiustizia a ingiustizia, sperequazione a sperequazione. Se la forza dell’economia statunitense indica quale deve essere, in presenza di ‘piena’ occupazione, la forza contrattuale della domanda rispetto all’offerta di lavoro per reggere le pressioni e gli attriti della concorrenza, c’è da farsi venire i brividi pensando a quale può diventare tale forza in presenza di un esercito industriale di riserva. Molto probabilmente ogni protezione sociale del lavoro è destinata a essere spazzata via soltanto per consentire alle piccole e medie aziende (cioè al parco buoi delle grandi aziende, effettore del lavoro sporco) di sopravvivere nell’incertezza e nella precarietà condivisa da tutti e a ogni livello sotto gli olimpi della tecnostruttura internazionale e della ricchezza già acquisita.
D. Quindi, per l’uomo qualunque, progresso tecnico ed energie innovative contano meno di niente, se non si cambia il modello di sviluppo.
M. Come abbiamo già rilevato, la qualità media della vita con i modelli vigenti si può conservare soltanto raggiungendo indici incrementali che metterebbero presto tutto il pianeta a ferro e fuoco: ciò perché, senza ombra di dubbio, gli attriti, le complicazioni, le vischiosità, gli squilibri, le disomogeneità, le imprecisioni, i nodi incancreniti di sistema assorbono tutte le risorse aggiuntive che lo sviluppo del sistema produce. Il sistema è alla frutta e non può essere riformato se non spezzando e parcellizzando le uniformità a un capo e conglobando a un altro le singolarità. Non dimentichiamo che, non solo per Marx, ma anche per tutti i vari equilibristi delle varie teorie dell’equilibrio automatico, il saggio generale di profitto tende a prosciugarsi e, secondo gli equilibristi, può riprendere fiato soltanto attraverso una innovazione delle tecnologie e degli schemi organizzativi che tra un po’ sarà consentita solo alle aziende molto grandi. Più in basso, non solo gli egoismi, ma elementari e brutali esigenze concorrenziali, sono già arrivati al punto di forzare la retribuzione del lavoro al di sotto del livello di sopravvivenza. Poiché, quando l’acqua si abbassa anche di poco, emergono le difformità del fondo, e poiché com’è fatto il fondo non lo sa veramente nessuno, non si può prevedere quando queste difformità acquisiranno un peso sufficiente a squilibrare tutto il sistema. Rispetto ai tempi di Marx, un elemento specifico di differenza riguarda lo strato dirigenziale: nella misura in cui esso si sovrappone alla classe dei proprietari di capitale, tenderà a prolungare quanto più possibile sia l’agonia degli utili che gli emolumenti individuali, configurando una condizione di adverse selection nei confronti delle banche: per le stesse banche, lesinare i prestiti all’ambiente economico di pertinenza territoriale per indirizzarli verso scenari esterni ritenuti più sicuri rientrerà quindi sempre di più in una prassi di normali cautele professionali, a prescindere da garanzie che, in caso di fallimento fraudolento, non possono considerarsi effettive.
Sulla sociologia dell’attuale ‘mercato’, su un uso appropriato delle ‘leggi’ economiche e sull’uso non appropriato, ma redditizio, che ne fanno i finanzieri.
DISCEPOLO. Arbitrarie, pregiudiziali, dilettantesche, presuntuose, semplicistiche, malevoli, sprovvedute eccetera: queste alcune delle etichettature alle critiche spietate che i Padri Kolibiani rivolsero agli economisti e più in generale alla scienza economica. Come risponde la più recente dottrina?
MAESTRO. Le critiche non erano indirizzate, come è abbastanza ovvio, alla economia e agli economisti ‘in quanto tali’, né tanto meno, come è facile verificare, alle cosiddette scienze umane: miravano ai più efferati luoghi comuni della politica economica e soprattutto all’economicismo che la ispirava, cioè all’impero del fatto compiuto della concorrenza darwiniana su tutte le altre vedute, sottintendendo un rapporto ancillare rispetto alle forze dominanti, una docile sottomissione ex ante allo status quo.
D. Al di là dell’ispirazione di fondo, quali elementi specifici orientavano questo atteggiamento di ripulsa e contestazione?
M. Volendo procedere da una maggiore generalità a una minore, da una visione allargata a una più di dettaglio, comincerei dalla faciloneria epistemologica mediante la quale l’economista militante, ingaggiato dagli stati maggiori governativi, incede con gli scarponi chiodati nel bel mezzo di ogni dialettica democratica.
D. Eppure i tecnici, gli uomini del fare, gli esperti di gestione aziendale e di pratica amministrativa lamentano la scarsa attenzione che il dibattito pubblico, condizionato da puntigli astratti e vuoti ideologismi, riserva alle questioni veramente concrete e importanti, quelle che non si risolvono con scongiuri e atti scaramantici, ma con le giuste conoscenze e capacità.
M. Appunto: le giuste conoscenze e capacità, quelle che non si possono possedere obliterando o peggio fraintendendo premesse che costituiscono limiti e vincoli pregiudiziali a qualsiasi svolgimento sensato del discorso. Tuttavia una precisazione è doverosa: la critica kolibiana, anche quando si accentra sugli stessi obbiettivi polemici, non deve essere confusa con visioni spiritualiste di critica del tecnicismo in nome di ‘ideali’ (in realtà ideologie) fondati su presupposti metafisici che, quanto più invitano alla scioltezza gioiosa e alla disponibilità a ‘sognare’, tanto più presuppongono il richiamo ferreo a un modello unitario e a una disciplina dogmatica.
D. Perché?
M. Perché senza il doppio gioco tra tolleranza persuasiva e regolamentazione dottrinaria una fede di qualsiasi tipo non dispone di alcuna possibilità di affermazione concreta, per il semplice fatto che le caratteristiche del mondo ‘sognato’ non si accordano al decorso naturale dei fatti. Non c’è mai stata, non c’è tuttora e mai esisterà alcuna differenza sostanziale tra fede (istituzionale) di qualsiasi tipo e ideologia (istituzionale) di qualsiasi tipo e quanto ai contenuti, l’aspetto che vale la pena considerare riguarda le strutture sociologiche da cui movimenti, partiti, sette, comunità, consigli, congregazioni diramano i programmi di comunicazione e di azione nonché il prospetto di società che viene ‘consigliato’ o comandato a tutti. Petizioni morali e di principio, voli pindarici dell’emotività, idilli di amore universale sono solo specchietti per le allodole: nessuno che non sia pazzo si fa promotore di progetti se non ritiene che rappresentino una soluzione ottimale per gruppi più o meno ristretti e allargare la generalità di questi gruppi dipende molto meno dalla generosità che da un computo economico dell’influenza e del potere, nel migliore dei casi, oppure da una incauta megalomania da ‘sognatore’, nel peggiore: basti pensare al caleidoscopio di tradizioni e mentalità che ricopre il pianeta.
D. Migliore il calcolo venale del ‘sogno’ umanitario?
M. Certo: un cattivo intelligente è sempre meno pericoloso di un buono stupido. In genere, però, l’alternativa si pone tra franca spregiudicatezza, meglio identificabile, ed elusiva dissimulazione, più evasiva e difficile da circoscrivere.
D. Anche il modello kolibiano si propone come disciplinato e cogente modello universale…
M. Solo per quanto attiene alla sfera delle esigenze materiali (la dimensione della schiavitù inevitabile, come dicevano i Padri) con particolare riguardo a specifiche proprietà, come lo stato stazionario, senza mai dimenticare che la libertà dal bisogno è intesa come propedeutica a che ogni gruppo possibile e immaginabile, entro limiti ragionevolmente laschi, si organizzi la vita a suo modo e non come vogliono gli altri o il gruppo supremo degli oligarchi.
D. Fino a che punto libertà economica e libertà… diciamo psicologica possono considerarsi slegate?
M. In nessun modo se persiste il mito di un progresso che poi alla fine risulta esclusivamente di tipo tecnologico, cioè di un tipo che potrebbe essere promosso molto più proficuamente in altro modo, liberando la ricerca e lo sviluppo dai diritti di proprietà delle major e dagli avvocati specializzati in brevetti, restituendolo alla creatività del singolo e della collettività. Tra l’altro, senza stato stazionario (inteso come normalità e possibilità garantite, non come obbligo feticistico assoluto e restrittivo) non esiste possibilità alcuna di risolvere i problemi ambientali nel medio e lungo termine. Non esiste, punto e basta, tanto è vero che, andando a leggere tra le righe, nessuna persona intelligente crede davvero a uno sviluppo uniforme e illimitato, tutti danno per scontato che in mezzo avvengano patatrac e ripartenze ex novo. Si tratta comunque, da una parte o dall’altra e nei limiti in cui meritano attenzione, di affermazioni scientifiche passibili di confutazioni, non di ‘sogni’ escatologici o peggio.
D. Senza competizione e ‘progresso’ non sparisce anche la vitalità e l’energia personale?
M. Può darsi, ma significherebbe che l’umanità è definitivamente bacata, nel qual caso si faccia avanti il peggiore. Proviamo a guardare da vicino che cosa avviene nelle imprese sufficientemente piccole da potersi effettivamente considerare imprese di rischio: non c’è limite alla depravazione morale e al logoramento fisico che comportano i tentativi di resistere a ogni costo quando si verifichino condizioni di concorrenza spietata, quelle che si stanno sempre più caratterizzando come regola e non come eccezione. Allargando il raggio d’ispezione, una metafora di questa lotta per la sopravvivenza è offerta dai reportage scandalistici di cronisti d’assalto che sono andati a frugare nella spazzatura di personaggi potenti e famosi, con particolare riguardo alle confezioni di farmaci e psicofarmaci. Oggi anche uno stomaco di ferro serve a poco se, come in quel film di Carpenter di cui non ricordo il titolo, si dispone della capacità di trapassare l’epidermide dei volti e vedere lo zombi o il visitor che si nasconde dietro.
D. Il kolibianesimo (sto facendo l’avvocato del diavolo) non promuove però iniziative di carità e assistenza benefica…
M. Esatto: non possiede una industria della carità e dell’assistenza benefica che, come rende allo stato del Vaticano (il cui patrimonio è immenso e ridimensionerebbe il debito pubblico), potrebbe rendere allo stato italiano ed essere quindi nazionalizzata, se lo stesso stato fosse abile e degno di rispetto. Per quello che concerne più in generale il settore del ‘non profit’, ci troviamo davanti all’invenzione più recente di imprenditori molto realisti e quindi disillusi sulle potenzialità di un profitto di cui due secoli di teoria non hanno ancora ben determinato la natura e il destino. Queste potenzialità risultano ormai praticamente nulle da un certo livello in giù una volta garantita la giusta remunerazione del rischio e del lavoro (dirigenziale e non), fatto già quasi miracoloso di per sé: pure qui a un ipotetico stato non esecrabile come tutti i suoi condottieri converrebbe nazionalizzare il settore e risparmiarsi agevolazioni fiscali, incentivi, sovvenzioni eccetera, sempre nell’ipotesi, beninteso, che i sindacati non ricomincino a levare la cresta, nel qual caso bisognerebbe nazionalizzare anche loro. Il ‘non profit’ (in senso tecnico e a parte esempi virtuosi che esisteranno di sicuro) codifica lo stato stazionario del profitto tradotto in retribuzione dirigenziale e, parallelamente, il lavoro precario tradotto in opera di bene che gratifica chi la compie al punto che non si capisce perché non dovrebbe essere lui a pagare il datore di lavoro invece di quello che accade per eccesso di generosità.
D. Nazionalizzare per molti è una parola sporca che implica inefficienze, privilegi, pigrizie.
M. Nazionalizzare per un kolibiano significa nient’altro che integrare un certo ambito nella dimensione complessiva del modello nazionale. Potrebbe anche voler dire: liberalizzare sotto particolari strutture di controllo democratico nel segno di una trasparenza effettiva e funzionale.
D. Hai detto poco…
M. No, ho detto tanto, non poco: bisogna imparare a dire tanto e non poco, ma senza ‘sognare’.
D. Tuttavia, nel complesso, non pecchiamo di eccessiva fiducia nelle capacità razionali e di eccessiva sfiducia verso le libere iniziative dei cittadini?
M. Anche l’economia di mercato si è potuta intendere come libera iniziativa e guarda com’è finita. Se si chiude gli occhi sui meccanismi della causalità effettiva per continuare a ‘sognare’ beati, si può inventarsi di tutto, ma a guadagnarci non saranno tutti, ma i più uguali degli altri. La formula oggi suona particolarmente veritiera: ad avvantaggiarsi non sono infatti, come ai primordi dell’industrialismo, le personalità più volitive e dispotiche, bensì quelle meglio sistemate nella melassa della società decadente. Per adattarsi al medio clima assembleare dei vari contesti decisionali si richiedono doti di sopportazione e di affinità che per forza di cose inducono una selezione di un certo tipo dei profili presenti e quindi di quelli vincenti. Il processo, poi, si auto-alimenta.
D. La sostituzione dell’imprenditore con il dirigente o la sovrapposizione delle due figure è fenomeno ben noto agli studiosi di organizzazione aziendale, ma forse il tuo discorso alludeva a ben altro.
M. Questo è certo, ma il tuo riferimento è comunque pertinente: l’imprenditore non poteva conservare alla lunga un potere reale anche se apparentemente sembrava favorito dalla natura stessa della concorrenza, che infatti si palesa essere una invenzione teorica, almeno per quanto riguarda la formulazione classica. L’ingenuità capitale (appunto!) del marxismo ortodosso sta proprio in questa esagerazione del ruolo dell’imprenditore (confuso con il capitalista) che in realtà nelle società moderne è subalterno a politici, dirigenti, banchieri, professionisti, possessori di patrimoni, indi alle associazioni e comunità di mutua assistenza: sette, chiese, corporazioni, gilde professionali, gruppi di pressione, comunità etniche e chi più ne ha più ne metta, ciascuno con i propri bravi rappresentanti e dirigenti, di sicuro meglio pagati (tutto sommato e tutto compreso) del medio e piccolo imprenditore. L’imprenditore di rischio non può sopravvivere fuori da quel marasma, anche perché, fuori dal marasma, è solo e in balia dei capricci globali (casinisti di tutto il mondo unitevi alla baldoria!). Adesso dimmi tu che razza di economia di mercato è quella in cui l’imprenditore di rischio si rivela l’ultima ruota del carro insieme a disoccupati, precari, occupati di seconda fascia, quella dei lavori più sgradevoli e/o pericolosi, quella che l’automazione di fabbrica e il progresso tecnologico dilatano sempre di più.
D. I lavori che nessuno vorrebbe fare e a cui gli immigrati si acconciano.
M. I lavori che giustamente nessuno vorrebbe fare per il motivo sacrosanto che la relativa sgradevolezza non è adeguatamente remunerata, quelli che gli immigrati di prima generazione accettano perché migliorativi di una situazione al limite, mentre quelli di seconda generazione giustamente considerano umilianti e avvilenti per il motivo sacrosanto che la relativa sgradevolezza non è adeguatamente remunerata. Ecco un vero atto di giustizia ridistributiva: recuperare fondi per remunerare quella sgradevolezza in qualsiasi paese venga eseguita. Qualcuno afferma che la reazione degli immigrati di seconda generazione anticipa quella dei figli, nipoti o pronipoti dello sboom se e quando non potranno più usufruire di internet, cellulari e altri circenses gaudiosi che, democraticamente, dilettano il bamba qualunque come i premier e i papi.
D. Una economia di mercato che non remunera il lavoro come si deve è quella che mio nonno chiamava una bufala. Se poi ricopre d’oro certi funzionari di carità associati allo sfruttamento coloniale delle multinazionali in funzione di estintore diplomatico, rasenta qualcosa di simile a forme di produzione del Medio Evo prossimo venturo, quel feudalesimo tecnologizzato che la sinistra ‘vera’ non dà affatto mostra di disprezzare, tutt’altro. D’altra parte io so di dirigenti poco garantiti che sospirano davanti alla bella vita di tanti piccoli imprenditori.
M. Ogni descrizione economica è statistica e ammette innumerevoli eccezioni. Sicuramente nella piccola impresa esiste una selezione fortissima e i tipi ‘poco delicati’ e resistenti dispongono di certe doti brutali di fitness di cui bisognerebbe valutare, oltre a quel costo personale, psicofisico, di cui abbiamo già parlato, anche il costo sociale del deperimento antropo-sociologico e di devianze e malversazioni per comportamenti criminali sulla cui non trascurabile incidenza finora abbiamo sorvolato. Del resto, tornando al merito di certe lamentele, anche se consideriamo i più alti livelli dirigenziali (la crema, l’élite), sono in pochi a non rivendicare altissimi oneri di lavoro.
D. Si tratta di rivendicazioni fondate?
M. A volte mentono, ma spesso e volentieri no, però si deve considerare le caratteristiche specifiche di quell’attività, densa di ritualità e confronti dialettici: i colloqui, le sedute, i pranzi di lavoro, i contatti telefonici, la partecipazione a eventi, meeting, convegni, manifestazioni, feste di rappresentanza, dove tra altre cose s’instaura la rete di contatti, affinità, connivenze che configurano gli strati dirigenziali come comparto sociale con obbiettivi e interessi parzialmente autonomi rispetto a funzioni, mandati e incarichi specifici. Esattamente come avviene nelle sedi decisionali di natura eminentemente politica, queste frequentazioni richiedono una predisposizione tale da configurare un godimento, almeno parziale, del tutto assimilabile per qualità e intensità a quello prodotto dagli hobby del tempo libero e la cui capacità di attivazione diventa elemento decisivo ai fini del successo personale e della gestione di carriera. Anche qui agisce quindi una ben precisa selezione psicologica e attitudinale. La domanda da svariati miliardi a questo punto è: queste diverse attitudini, convergenti verso tendenze tipologiche settoriali, rappresentano anche un vantaggio e un investimento per la società nel suo complesso?
D. Siamo tornati al discorso delle attitudini. In precedenza, quasi all’inizio, parlavamo di giuste conoscenze e capacità dello specialista economico ingaggiato nella gestione politica e amministrativa della cosa pubblica. Dopo l’excursus critico di sociologia generale, vorrei riprendere da lì e domandarti: come si può giudicare ed eventualmente correggere i più consueti approcci economici alla politica?
M. Nel caso della politica economica, si può cominciare da ciò che viene coinvolto o sconvolto dalle seguenti domande (oggi come vari decenni fa, a testimonianza dell’assoluta illusorietà del progresso etico, intellettuale e civile in mezzo alla valanga tecnologica): esistono e quali sono le dinamiche e i principi economici assodati e stabiliti una volta per tutte? Se la politica si riduce di fatto all’economia, la politica si riduce a quale economia? Quando una determinata sfera d’interessi prevale su qualsiasi altra, allora i vari filoni e interpretazioni dell’economia si riducono a una sola corrente autorizzata? Se la maggioranza degli elettori non dispone di basi minimali di conoscenza economica, su che cosa esprime il voto in sostanza, considerando che il politico, in base proprio ai più accreditati modelli economicisti delle scelte collettive e di funzionamento pratico della democrazia, non cerca di spiegare e vendere teorie economiche, bensì quel campionario di suggestioni che la maggior parte dell’elettorato si presume voglia comprare? Dato che il cardine, il fondamento, il sine qua non, la pietra angolare, la chiave di volta dell’economia consistono nelle possibilità e capacità di un calcolo intelligente, di un egoismo profittevole azionabile da ogni singola entità (individuo o struttura), come si conciliano lo strapotere dell’economia insieme a quello della religione e la loro rispettiva ‘razionalità’, in apparenza agli antipodi l’una dell’altra, con una nozione adeguata di etica civile? Economia positiva ed economia normativa si sovrappongono o di fatto si tratta di discipline diverse? La politica economica può limitarsi a ricercare una allocazione efficiente delle risorse o si deve occupare anche di quella distribuzione iniziale delle medesime risorse da cui gli equilibri stabili e i criteri di ottimalità dipendono senza che valga il viceversa?
D. Capitale, profitti, salari, investimenti, prezzi, consumi… Non sono concetti sufficientemente chiari?
M. Da una prospettiva naturalista, può anche darsi, ma non provare mai a chiedere all’uomo medio qualunque di definirti oggetti ordinari e abituali della sua esperienza quotidiana se non vuoi dubitare per sempre del significato di termini come realtà, prova, causa, valore, testimonianza, concordanza eccetera.
D. Però gli economisti, se rapportati al loro campo di studio, non sono uomini medi qualunque.
M. No, né l’economia è scienza della natura, anzi, in effetti lo è, ma di una natura che cambia mentre la si studia e perché la si studia. Alla fine, se si tiene conto che il fine di gran lunga più importante che la disciplina si propone non è la contemplazione, ma l’intervento previsionale e plasmante, l’economia risulta molto più affine alla fisica sperimentale di biologia, geologia eccetera, non per niente i modelli teoretici vi giocano spesso un ruolo essenziale insieme a metodologie matematiche.
D. Che cosa dunque, sul lato epistemologico (se il termine è adeguato), non funziona?
M. I concetti di base di una scienza non sono mai perspicui in sé e per sé (si pensi ai principi primi indefinibili della fisica classica ovvero il tempo, lo spazio, il punto materiale senza dimensione, la massa (conseguenza di una forza, quella gravitazionale, definita tramite la nozione primitiva di massa: ouroboros!), tutte cose su cui il grande Newton hypotheses non fingeva. I concetti di base si chiariscono attraverso i loro collegamenti (l’accelerazione, la forza, l’energia potenziale e cinetica…) e soprattutto in seguito ai loro usi applicativi. Quanto alle scienze in genere (comprese quelle umane e naturali) gli stessi margini di ambiguità si ritrovano nei riferimenti empirici elementari quando sono isolati artificialmente dai quadri d’insieme, soprattutto allorché ai vari input o output si sottendono scatole nere non risolvibili nella loro interezza, come specificamente avviene in sociologia, psicologia, etologia e, appunto, economia. Perfino di concetti molto popolari e diffusi, per esempio quello di inconscio o di imprinting, non si conosce ancora la consistenza effettiva.
D. Che cosa lascia a desiderare, se mi concedi l’espressione, nei concetti primi dell’economia?
M. Proprio quei collegamenti in base ai quali si dovrebbe definire la loro comprensibilità. Se essi non risultano inconfutabilmente univoci e pienamente condivisi da tutti gli studiosi, se il loro uso fornisce risultati dall’interpretazione incerta e spesso contraddittoria, se le ricette applicative che suggeriscono variano in modo radicale da una scuola all’altra, le relative nozioni contendono la palma della nebulosità ad altre, più conosciute e popolari, che prendono il nome di ‘Dio’, ‘anima’, ‘moralità’, ‘santità’, ‘bene supremo’ eccetera.
D. Puoi fornirmi qualche esempio specifico?
M. Te ne fornisco uno che vale per tutti, dato che funge da misura generale del valore e quindi, restando indefinito, pregiudica la precisione di tutto il sistema: la moneta. Rimane talmente nel vago che si parla addirittura di modelli di economia monetaria come prospetti di natura difforme e spesso inconciliabile con quelli non monetari, così denominati perché prescindono da una unità di misura limitandosi a studiare i rapporti reciproci tra le quantità.
Ovviamente, un modello che stima soltanto valori relativi o raggiunge la massima estensione esaustiva e quindi descrive tutto quello che conta descrivere (nel qual caso una qualsiasi delle entità di sistema può fungere da misura di tutte le altre una volta stabilito il suo valore unitario convenzionale) o costituisce uno strumento orientativo che rimanda a determinazioni parametriche esterne. Sempre più ovviamente, un sistema definibile attraverso la fissazione convenzionale di uno o più valori dimostra una consistenza e una coerenza effettive solo se tali valori possono essere effettivamente fissati in modo da non ostacolare l’espletamento di tutte le dinamiche oggettive: se ciò non è possibile, la determinazione oggettiva delle dinamiche risulta una pura illusione.
D. Questo, se ho capito bene, impedisce di passare da concetti qualitativi o formali alle corrispondenti definizioni quantitative e sostanziali…
M. Sostanziali per scienze come la fisica o l’economia in cui costruire numeri attraverso procedure controllabili, assegnare numeri mediante processi specifici condivisi a eventi oggettivi, procedere agli opportuni incroci e controlli non rappresentano solo bizzarri optional estetici, spesso controproducenti, come per la politica.
D. In che senso specifico la moneta difetta, se intesa come criterio di misura?
M. Che, come tale, almeno in un’accezione scientifica, non esiste.
D. Un bel paradosso! Me lo spieghi?
M. Qualsiasi misurazione richiede la definizione precisa della quantità unitaria intesa come possibilità illimitata (almeno con approssimazioni sufficienti agli scopi concreti) di utilizzare la replica di un campione unico e inconfondibile: un oggetto (quasi) inalterabile custodito in qualche caveau o eventi naturali che si ripetono continuamente invariati.
D. Come il dollaro!
M. Il dollaro, vuoi dire, quando esisteva la possibilità teorica da parte di qualsiasi nazione del mondo di richiedere alla FED la convertibilità in oro delle riserve detenute in moneta statunitense (lo so, lo so che stavi scherzando!). Naturalmente, anche in regime di convertibilità, non c’era mezzo migliore per ottenere le attenzioni della CIA e dei sommergibili nucleari che mostrare di crederci davvero. L’oro, da parte sua, sarebbe un ottimo materiale per costruire campioni, ma lo sai in che cosa consisteva il suo valore economico?
D. In dollari?
M. Che è come misurare lo spazio o il tempo con la massa e la massa con lo spazio o il tempo, cosa che effettivamente ha fatto Einstein quando le ipotesi le ha finte, però ha dovuto anche rivoluzionare l’universo. Tra gli economisti un Einstein non c’è mai stato, non tanto perché difettino di intelligenze adeguate, ma perché in genere sono ottimamente adattati all’universo così com’é. Conviene però ricordare che la NASA, per le sue passerelle dimostrative, ha potuto servirsi impunemente del manuale di Newton, il che, oltre a dirla lunga su come certi relativismi epistemologici, sempre molto di moda, andrebbero presi con le molle, suggerisce anche come molti economisti, applicandosi ad ambienti ristretti e specifici, possano svolgere più che egregiamente il proprio mestiere.
D. Non si potrebbe guardare all’economia, la butto lì per quello che serve, come a un analogo di disciplina relativistica o magari quantistica, ovvero un modello complessivo da applicare nella sua totalità (non so se mi sono spiegato bene)?
M. Se intendi un modello specifico su cui una comunità di esperti possa concordare almeno in linea di massima, la risposta è no. Se intendi una serie di modelli altamente opinabili e arbitrari, sì, ma allora il grado di scientificità dell’economia è pari a quello della politica. In genere non viene sufficientemente sottolineato, anche da parte dei più fini epistemologi, che, in fisica quantistica e in relatività (nonostante una ‘incompatibilità microscopica’ che si situa comunque molto sopra la scala di Planck), esistono quantità indiscutibili che non dipendono dall’osservatore (potremmo chiamarli i numeri di Eddington, il primo scienziato o il più famoso che cercò di trarne conseguenze ontologiche); essi conseguono univocamente da relazioni fisse tra enti, il cui valore è stato matematicamente dedotto ed empiricamente verificato, ogni qual volta le unità di misura con cui sono espressi si cancellano algebricamente senza che ne rimanga alcuna. La variazione anche per frazioni minime di questi numeri stravolgerebbe l’aspetto dell’unico universo che conosciamo, come del resto avverrebbe se il rapporto tra area e diametro del cerchio o la base dei logaritmi naturali fossero diversi da quello che sono. In economia non avviene nulla del genere, leggi di quella natura non esistono, le relazioni che più vi si avvicinano (come l’equazione di Fisher o degli scambi) rappresentano schemi logici indicativi e approssimativi.
D. Nessun appiglio definitivo, dunque, nessun conforto di oggettività impersonale.
M. Si è visto che la moneta non può misurare alcunché essendo un referente di sistema che può misurare quanto essere misurato, a meno di un coefficiente fisso per tutti, ma variabile a piacere e comunque non riconducibile a una quantità immobile. Quando la moneta, in quanto bene che favorisce gli scambi come un’alesatrice favorisce un’alesatura, grazie alla sua posizione di bene imprescindibile e onnipresente misura effettivamente qualcosa, misura (in modo approssimativo) le variabilità locali di quel coefficiente che dovrebbe essere uguale per tutti e quindi modifica i rapporti quantitativi tra gli elementi in gioco variandone il peso reciproco: ecco perché, finiti i tempi del consociativismo o neocorporativismo, il potere monetario, che è poi l’unico potere che conti effettivamente qualcosa in termini di politica macroeconomica, si trova saldamente nelle mani di grandi gruppi di potere privato (le banche, le società d’investimento, i centri finanziari internazionali) ed ecco perché un’autentica possibilità d’intervento strutturale negli assetti produttivi da parte di governi anche bene intenzionati (ce n’è stato qualcuno finora?) rimarrà una chimera.
D. Da qui l’insistenza dei Padri sulla necessità assoluta di nazionalizzare l’intermediazione bancaria.
M. Finché la struttura economica non sarà rivista radicalmente e corretta partendo dal principio della nazionalizzazione totale degli istituti che manovrano la liquidità, un qualsiasi disegno di riforma sostanziale resterà inefficace e il mondo continuerà indisturbato ad avvicinarsi alla catastrofe che non può essere evitata in altro modo. Ciò non significa, ovviamente, che tale nazionalizzazione (da attuarsi senza indennizzi o al massimo con indennizzi in natura e ad personam dato che comunque il grosso del sistema è destinato a fare acqua ora qui e ora là e a essere tenuto in piedi dagli aiuti pubblici) risolverebbe tutto (se il sistema va in perdita e non si cambia il sistema, lo stato assorbe delle passività come sta già facendo), significa che senza non si risolverà mai niente (in senso migliorativo) e quindi occorre promuoverla o almeno avvicinarla come primo passo teorico-progettuale per costruire un modello di cui ogni passo successivo potrà favorire il successo od ostacolarlo in un’ottica imprescindibile di stazionarietà.
D. Vedi qualche possibilità, nel breve, di avanzamento nella direzione giusta?
M. Attualmente, le riforme coraggiose e originali in realtà non esistono, sono millantate come tali, ma dettate per filo e per segno dai potentati internazionali nel rispetto di un modello a evoluzione unica e obbligata che ormai resterebbe tale anche se, per assurdo, i potentati volessero cambiarlo. Un dio mattacchione che adesso ci fa penare, ma poi ci farà divertire come matti per tutta l’eternità, si divertirebbe moltissimo a constatare le reazioni combinate di élite e popoli bue quando la catastrofe si annuncerà senza possibilità di equivoci.
D. La sostanza del ragionamento mi sembra ineccepibile, tranne in un punto: è vero che, in termini di politica economica, tutti i governi annaspano, però le banche centrali, che detengono ancora opzioni parziali d’intervento concreto, non sono enti privati.
M. Ah, no? Hanno la struttura e i bilanci di società per azioni e le partecipazioni azionarie sono detenute insieme da banche private e da governi che possiedono poteri di controllo e di veto, però i soldi a ditte e investitori non li distribuiscono i governi, ma le banche private e chi, a nome dei governi, esercita effettivamente veti e controlli? Consigli assembleari a loro volta sottoposti a veti e controlli pubblici a loro volta visionati dall’assidua solerzia del cittadino vigile e accorto? No! Caio, Tizio o Sempronio n. 2 su mandato di Caio, Tizio o Sempronio n.1.
D. Che potrebbero essere persone abilissime e onestissime.
M. Certo! E anche persone inabilissime e disonestissime! E chi lo stabilisce se una vera e propria possibilità di accertamento democratico non esiste esattamente come per la caterva di istituti di carità che crescono come funghi, di sicuro perché il bene nel mondo abbonda talmente che non si sa più dove metterlo? Forse qualche parlamentare, preoccupato sopra ogni altra cosa di qualche ossicino (una reliquia espiatoria?) che ha nascosto nell’armadio, di qualche peccatuccio veniale che tuttavia può macchiare una reputazione splendente e fare addirittura perdere qualche voto e la nomina a sottosegretario, non si è ancora accorto che, in democrazia, l’onere della prova è rovesciato: dove sono in gioco decisioni che riguardano il destino e il benessere di tutti, la trasparenza resta un obbligo primario in assenza del quale subodorare il marcio non è solo legittimo, è doveroso, almeno per quelle categorie, come i pubblicisti, che, per non ridursi a una umiliante cortigianeria da reggimoccolo, dovrebbero farsi un punto d’onore del procedere sempre e comunque agli approfondimenti opportuni.
D. Però mettere in discussione pregiudizialmente la buona fede di chi assume compiti di responsabilità potrebbe ingenerare effetti destabilizzanti, elevare la conflittualità, fare esplodere i costi dell’informazione e della contrattazione fino a limiti intollerabili: qualcuno addirittura sostiene che nelle società moderne un certo rischio di deriva delinquenziale è inevitabile e cercare di abbassarlo sotto certi livelli comporta conseguenze ancora peggiori.
M. E ovviamente si tratta di tesi facilitate dal fatto che convengono agli ambienti più onesti e frugali, privi delle dotazioni necessarie a incentivarle! Andiamo, su, siamo seri: se si comincia a ragionare così, dove si fissano limiti di decenza che non si possano furbescamente superare? E poi: chissenefrega della buona fede! Al diavolo la buona fede, al diavolo la moralità delle persone, avete mai sentito qualcuno, teatro shakespeariano a parte, vantarsi della propria malafede, accusarsi apertamente di cattiveria e malizia? E infatti sembra che, per quanto la percentuale di gente con precedenti penali rasenti la doppia cifra, solo uno su cento dei reati commessi vengano effettivamente sanzionati.
D. La presunzione d’innocenza rimane comunque un principio giuridico imprescindibile di una società liberale.
M. Sì, ma non c’entra un fico secco con le linee ideali che si dovrebbero conferire agli organi del potere decisionale. Il personalismo cattolico, da cui ogni italiano è intriso fino al midollo, insiste a spostare il problema in un ambito psicologico e precauzionale (garantista!) la cui pertinenza e rilevanza tendono invece a dileguarsi per certe meccanicità che si stanno uniformando dovunque nel mondo. E’ curioso come tale impostazione, sempre così attenta a evitare sottolineature razziali o discriminazioni culturali, poi di fatto tenda continuamente a rimetterle in gioco in base a una propria logica implicita e allora il sottinteso di fondo suona così: chi ha fatto carriera merita un sovraccarico di fiducia, che equivale poi a una richiesta di sospensione del senso critico tramite la rivendicazione di un privilegio. Si evidenzia così la coda di paglia dell’umanitarismo dogmatico e paternalisticamente autoritario quando necessita di una funzionalità organica e interclassista dall’alto di esigenze inesorabilmente monolitiche e classiste. Il capitalismo di mercato, per non trasformarsi in dispotismo vero e proprio, esige tutt’altro tipo di approcci intellettuali, tutt’altri livelli di trasparenza, soprattutto ora che vi si stanno esacerbando aspetti di oligopolio imperiale.
D. Stiamo arrivando al problema dei rapporti di forza in regime di complessità difficilmente interpretabili.
M. Sì, bravo, è così. La domanda cruciale è: come mai, mentre il garantismo in senso di tutela dall’azione giudiziaria si afferma sempre di più, è sempre più proclamato a gran voce come baluardo di libertà, le garanzie di trasparenza che costituiscono il presupposto fondamentale dell’esistenza stessa del tessuto democratico e che richiedono tanta più assistenza quanto più la situazione si fa oscura e intricata, vengono tutelate sempre di meno? Una massa elettorale che rimane all’oscuro di fatti essenziali e non può disporre di elementari strumenti interpretativi circa le mosse reali che si stanno compiendo sul fronte economico internazionale e interno funge in blocco da prestanome coatto della legittimità governativa e non apporta nessun contributo dialettico sostanziale rispetto a un regime autocratico.
D. Siamo dunque arrivati al punto che non esiste più differenza tra dispotismo e democrazia?
M. Certamente stiamo arrivando al punto in cui la forza economica della tecnocrazia manovra i governi strafregandosene degli interessi maggioritari dei cittadini.
D. C’è differenza da come mi sono espresso io?
M. Più o meno la differenza che esiste tra imprigionare con la forza un ribelle consapevole dei propri diritti e raggirare un poveretto affetto da deficit mentale che ha ereditato il patrimonio dei genitori.
D. Secondo te, chi è più canaglia, l’aguzzino o il profittatore?
M. Considera l’analogia come un apologo teatrale strumentale e provvisorio. Quando carnefice e vittima simboleggiano elementi sociologici di uno scenario storico pervaso da campi di forza in movimento, non rappresentano maschere tragiche o da commedia dell’arte: contrassegnano semplicemente la posizione nella catena alimentare. Il paragone non è per niente azzardato ed eccessivo, se si ammette che, una volta apportati correttivi ai valori minimali di sopravvivenza per tenere conto della struttura economica di base, la distribuzione della ricchezza tra fasce di reddito riproduce abbastanza bene la distribuzione delle quantità sui gradini della scala d’interdipendenza biologica tra specie.
D. Sì, l’ho sentito dire, anche se esistono molti dubbi e incertezze al riguardo. Scusami, maestro, il discorso è interessante e (come dire?) ricco di pathos, ma io, se non ti dispiace, vorrei tornare a risvolti più tecnici. Possiamo riannodare i fili delle questioni fin qui sollevate? Cito sinteticamente e a memoria: la natura regolativa, a cavallo tra positività e normatività e con scientificità solo parziale e locale, delle teorie economiche, la inapplicabilità dei loro principi a criteri di governo effettivamente democratici se non tramite chiarificazioni basilari che rimangono altamente ipotetiche e vengono perlopiù eluse, il dominio prevaricatore, esercitato dai più uguali degli altri, dell’economicità di fatto. Riconsiderando il ruolo delle banche centrali come unici organismi pubblici o meno ancora in possesso di strumenti di condizionamento reale, come possiamo vedere all’opera gli elementi di cui si è appena detto?
M. Non possiamo, stando fuori da certe stanze. Ascoltiamo per prima cosa quello che ci raccontano i signori Draghi & C. Innanzitutto si schermiscono e ostentano umiltà: le banche centrali, ci raccontano, possono occuparsi soltanto della stabilità dei prezzi, mentre gli interventi veramente incisivi rimangono appannaggio dei governi attraverso riforme sulla cui natura non viene specificato alcunché, ma di cui, dal modo in cui se ne parla, si può dedurre una caratteristica generale non di poco conto: qualsiasi governo o nazione le attui esse risultano già scritte in partenza, rientrano in un genere unico e predeterminato. Adesso però non mi interessano le riforme, ma quella modestia preventiva, quel limitare le proprie funzioni a compiti di scarso rilievo, quasi una sinecura.
D. Forse la stabilità dei prezzi comporta impegni più gravosi di quello che appare.
M. E’ esattamente quello che un generico pubblico mediamente informato è portato a pensare, anche perché altrimenti non comprenderebbe il prestigio e la nomea di certi personaggi. Il punto della questione però è diverso e si riallaccia al discorso sulla natura della scienza economica, precisamente attraverso la seguente domanda: se la moneta non misura niente, però condiziona tutto, come facciamo a essere sicuri che l’unica politica economica veramente efficace, la sola veramente incisiva e comunque prodromica, propedeutica, pregiudizievole nei confronti di tutte le altre politiche non si annidi proprio nel modo di procedere delle banche centrali e quindi che, a dispetto di tante esibizioni di riduttiva umiltà, le mitiche quanto sottintese, preordinate e obbligatorie riforme non si debbano per forza piegare a tali politiche di manovra della liquidità e dei tassi d’interesse, quindi dei processi assolutamente fondamentali che presiedono alle dinamiche d’investimento?
D. Quindi le politiche dei governi, le decisioni dei parlamenti eletti da un corpo elettorale esautorato e ridotto a prestanome, sarebbero condizionate e imposte proprio da quelle manovre che vengono presentate come meramente tecniche e neutrali. Come facciamo a scoprirlo?
M. Se la teoria economica ha tanti manici, ma nessuno veramente indipendente, almeno finché si rimane legati a una certa oggettività complessiva, e nessuno veramente certo ed esclusivo, dato che quella oggettività, ammesso che resista immutata per tempi e spazi sufficientemente estesi, non è ipotecabile da nessuna dottrina economica particolare (in modo incontrovertibile, intendo), allora il centro (o l’area) istituzionale che manovra con decisione e idee molto chiare un manico qualunque mentre i governi cincischiano con tanti manici senza sapere veramente che cosa stanno facendo, dirige in effetti la politica economica, soprattutto quando il manico di cui si serve si chiama moneta, ovvero, come abbiamo visto, il principio più fluido, pervadente e generale, proprio perché il più fantasmatico, di tutta la scienza economica.
D. Mi sembra di aver capito lo schema generale del discorso, resta comunque fondamentale a questo punto cercare d’intuire gli intendimenti fondamentali dei banchieri centrali. Insomma, dove vogliono andare a parare ammesso che siano d’accordo tra di loro e non cincischino esattamente come fanno i governi?
M. Bella domanda e bel dubbio! Che cincischino non si può escludere dato che non c’è omogeneità d’interessi tra le varie aree geografiche del mondo e neppure all’interno del consiglio della BCE. Che però cincischino meno dei governi è altrettanto indubbio dato che comunque vi prevale, oltre che una competenza enormemente maggiore anche perché più specializzata, un interesse settoriale dominante, ovvero quello della finanza internazionale, l’unico settore del ‘mercato’ dove la logica concorrenziale comanda a tutti gli operatori di andare d’accordo per avvantaggiarsi su tutti gli altri settori e sugli operatori del medesimo settore che non fanno parte del circolo di quelli troppo grossi per fallire senza generare contraccolpi pericolosi deleteri per tutti.
D. Specificando meglio?
M. La finanza è il luogo elettivo del criterio basilare di controllo del rischio, quello che quando salta per le più diverse ragioni ma soprattutto perché qualcuno ha barato cercando da free rider di avvantaggiarsi in un gioco ripetitivo (vedi Von Neumann, Nash et al.), provoca sfracelli di dimensione planetaria: sto parlando della profezia che si autoavvera ovvero, in un linguaggio meno fantasioso, della gestione della merce più preziosa di cui dispongono le oligarchie finanziarie, l’asimmetria informativa (paragonabile all’accesso quasi esclusivo a Ricerca & Sviluppo detenuto dalle multinazionali industriali). Quanto questo principio regolatore rivesta un’importanza capitale non sarà mai sufficientemente sottolineato: dissolve in pratica ogni superstite illusione sulla mitica esistenza dei meccanismi impersonali di mercato e preserva l’attuale struttura economica mondiale da tempestose e incontrollabili fluttuazioni.
D. Come?
M. Consideriamo un esempio estensibile a ogni altro ambito di contrattazione: il mercato dei cambi e in particolare una matrice n x n le cui righe e colonne corrispondono alle diverse valute che hanno corso legale nel mondo. La quantità di una casella all’incrocio di una riga i con una colonna j rappresenta il rapporto di valore tra la valuta i e la valuta j e varia in ogni istante di qualsiasi ora di qualsiasi giorno in base al prevalere degli acquisti o delle vendite. Supponiamo che a regolare gli n-1 valori indipendenti di questa matrice presieda unicamente la legge della domanda e dell’offerta di singoli operatori nessuno dei quali, preso singolarmente, possa minimamente influenzare l’andamento di un mercato che presenta quindi un regime di concorrenza perfetta. Intanto il turbolento mondo scorre aggiornando il listino degli eventi storici. Non trovi strano che la matrice si comporta come si comporta, ovvero con un alto grado di stabilità?
D. Vuoi dire che le oscillazioni caotiche sono state bandite in via preliminare, ma, insieme a quelle, per forza di cose, anche l’economia di mercato almeno secondo un’accezione tradizionale e non oligopolistica o addirittura monopolistica?
M. Il termine giusto è ‘oligopolio collusivo’, anche se la collusione non è per niente necessaria al fine di stabilire accordi di fatto, sotterranei e non formalizzati, diretti a ottenere un vantaggio monopolistico ai danni dei consumatori. Infatti, dato che gli equilibri di oligopolio rimandano a ben precise formulazioni della teoria dei giochi (equilibri di Bertrand, Cournot, Stackelberg e chissà quante altre diavolerie), i centri interessati possono organizzare la ricezione e trasmissione di opportuni segnali scambiati in un regime di simmetria informativa che si instaura necessariamente ai danni di quelle imprese che pagano i costi di una informazione imperfetta o comunque deficitaria verso i concorrenti, scomparendo presto dal mercato o venendo fagocitate. Le legislazioni antitrust non possono di sicuro tenere il passo delle sofisticazioni organizzative. Dicevi?
D. Le oscillazioni caotiche sono bandite in via preliminare dal controllo oligopolistico?
M. Sì, ma non sto facendo alcuna rivelazione sconvolgente, sto solo sottolineando oscenamente un fatto, quello dell’esistenza dei cosiddetti market maker, scientemente predisposta e generalmente conosciuta, scontata come i desideri sessuali particolari dei maschi e delle femmine, sui quali in pubblico si deve tacere, se non si vuole essere considerati impertinenti, sboccati o addirittura perversi. Uno dei film più apparentemente spregiudicati e in realtà più codini che siano mai stati prodotti (accanto, ovviamente, al renzianissimo ‘Le invasioni barbariche’) è il mediasettianissimo ‘Una poltrona per due’, un film che cerca di convincerci che esistono dati sensibili, i famosi market mover, che, prima vengono gelosamente custoditi in modo che non alterino l’assoluta parità di condizioni tra gli operatori del mercato (evidentemente da una sola persona, dato che per mantenere un segreto, come per fondare una società di persone (s.n.c.), bisogna essere dispari e tre sono troppi), poi, al momento giusto, quando suona l’ora solenne, sono rivelati da uno speaker ufficiale davanti a tutti gli uditori interessati del mondo. In realtà, da secoli più che da decenni, ogni dato sensibile è esaminato, sezionato e condiviso come il pane dell’Ultima Cena nelle cerimonie eucaristiche in cui gli gnomi dei piani altissimi si consultano circa le decisioni da prendere in seguito a eventuali fatti importanti che il cosiddetto mercato viene a conoscere giorni, settimane o addirittura mesi più tardi.
D. E le banche centrali che cosa hanno a che fare in tutto questo?
M. Ovviamente sono i principali impresari della farsa, ma non è questo il punto che mi interessa esaminare (dato che mostrerei muscoli di ferro per abbattere una porta di carta velina), ce ne sono di molto più importanti che si ricollegano al discorso sui cosiddetti interventi stabilizzatrici di politica monetaria. Come si esplicano in effetti tali interventi? Uno degli strumenti comporta la modifica della base monetaria (banconote e monete più riserve obbligatorie e facoltative delle banche commerciali ovvero la moneta volgarmente detta e i depositi di conto corrente non dei privati, ma della banche, ovvero la liquidità stampata dallo stato e dalle banche centrali e la liquidità a disposizione delle banche o data in garanzia).
D. Questo consente alle banche centrali di regolare il rubinetto della liquidità.
M. La liquidità di primo ordine, diciamo, e già qui si possono compiere osservazioni interessanti. Prima di tutto, si deve notare come le regolazioni possano avvenire a due livelli: quello della stampa di banconote (le monete metalliche rimangono alla zecca di stato), che fino a qualche decina di anni fa rientrava tra le prerogative assolute degli stati sovrani e ora rientra quasi universalmente nella potestà delle banche centrali, e quello della modifica delle riserve bancarie. Questo secondo livello è particolarmente interessante, perché, con l’unificazione monetaria dell’area europea, si è spostato quasi esclusivamente da una gestione delle riserve obbligatorie (ridimensionate, in Italia, di ben 10 volte, dal 25% al 2,5% del totale depositi) alla manipolazione delle riserve facoltative, come dire: io mamma banca numero 1, da buona chioccia, non ti induco a tutelarti e a moderarti, ti invito a farlo lusingando o meno i tuoi interessi. Ricordiamoci sempre di questa bontà quando nonna papera raccomanda le riforme del lavoro.
D. Probabilmente si prevedeva, così facendo, di fornire una spinta all’iniziativa economica.
M. Sicuro, le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni. Infatti oggi le banche che prestano di più sono quelle che hanno messo a disposizione del potere politico e dei loro raccomandati quel 22,5% di ex riserva obbligatoria tornata nelle libere disponibilità degli anfitrioni, vale a dire le banche che falliscono, mentre quelle che prosperano sanno come giocare con i depositi overnight e le operazioni di mercato aperto oltre che come mandare all’estero, in modo più o meno legale, i tesoretti che rischiano di rimanerci se le turbolenze in Cina, in Brasile, negli Emirati eccetera vanno fuori controllo e rischiano di rimanerci, per tutt’altre ragioni, se vanno fuori controllo le turbolenze domestiche.
D. Effettivamente, alla luce di quanto è accaduto e sta accadendo, i magnanimi e venerati fautori dell’europeismo meriterebbero qualche revisione critica.
M. Come? Così presto! Non abbiamo percorso nemmeno la metà del Museo degli Orrori! Infatti siamo solo al primo stadio e ho perfino mancato di dire come l'ispirazione segreta di tanta genialità derivi, in ultima analisi, da un signore che soltanto una trentina di anni fa era vituperato peggio di Trump e Salvini, vale a dire quel Milton Friedman senza il quale, forse, Reagan e la Thatcher non avrebbero potuto esistere come tali, cioè come premier invece che come attore modesto e casalinga autoritaria. In quelle stanze dei bottoni che Berlusconi non riusciva a trovare e Renzi, invece, pare di sì, sembra poi che paradossi analoghi si sprechino, per esempio quando si raccomanda a ogni vero democratico di aborrire Hitler (e come si potrebbe fare altrimenti) e glorificare Roosevelt, ma poi, almeno finché ci si trova al governo, di agire come Hitler prima della guerra (esclusi pomposità vaticane e volgari barbarismi antidemocratici assolutamente superflui) e fare il contrario di Roosevelt, il perché lo ritrovate sui libri di storia economica, io mi sono compromesso anche troppo. Tutto ciò è già abbastanza mostruoso, al punto che le poche persone ‘normali’ lo riterranno una forzatura polemica di chiaro stampo reazionario e invece, metaforicamente, rispecchia una pura e semplice verità (‘metaforicamente’ perché in realtà i governanti seguono una scia senza sapere veramente da dove arrivi e dove porti).
D. In effetti da quale parte spiri il vento della politica economica si sa, anche se tu, maestro, lasciatelo dire, hai usato uno Stabilo Boss dai colori parecchio sgargianti.
M. E’ con tali coloriture stilistiche che i più fini esegeti raccomandano di assecondare il volere dei Padri. Lo scopo è lampante: evitare l’appiattimento su un sapere specialistico per evidenziare anche, accanto ai dati di fatto, il lato grottesco della realtà, quello che gli alti comandi non possono ammettere perché comprometterebbe quella solennità della Storia che è indispensabile complemento di una consacrazione metafisica dell’esistente, contrabbandato come necessità dello spirito quando consegue dall’accidentalità degli interessi. Cominciamo a guardare alla storia con la dose di disincantato realismo che serve e forse l’opzione dell’utopia progettuale apparirà molto meno strampalata
D. Io lo comprendo, maestro, e ti ringrazio anche per il vituperio che sfidi assumendo pose tanto audaci e contribuendo a un corpo di dottrina che molti utilizzeranno per loro erudizione senza neanche un grazie.
M. Ma poi oggettivamente, come si potrebbe meglio evidenziare la stupidità di un potere politico, inteso come complessione di eventi impersonali, che, dopo averle usate a sproposito in anni passati, ha abbandonato proprio quelle dottrine genericamente riferibili, per aspetti vari e difformi, ai nomi di Marx e di Keynes, e ciò proprio nel momento in cui, come cercherò di argomentare, l’evoluzione o l’involuzione degli eventi ne consiglierebbero riesumazioni e attualizzazioni almeno per quanto concerne lo spirito generale?
D. Puoi fornirmi qualche delucidazione più stringente al riguardo?
M. Prendiamo Marx: le sue sottovalutazioni, banalizzazioni, volgarizzazioni della funzione imprenditoriale gridano vendetta al cielo anche se bisognerebbe riferirsi alle specifiche condizioni sociali in cui nacquero, prima di giudicare. Proprio in base a tali condizioni, al contrario, la teoria del valore lavoro risulta arbitraria, dato che a quei tempi, da quel che ne so, gli imprenditori usavano molto meno mettersi al sicuro assumendo se stessi come dirigenti e pagando a se stessi lauti emolumenti che oltretutto conferiscono la qualifica di creditore primario verso la propria azienda quando questa salta per aria come si deve.
D. La teoria del valore lavoro è poi logicamente incoerente con i meccanismi reali di formazione dei prezzi e con qualsiasi teoria dell’equilibrio generale.
M. Di questo mi preoccuperei molto di meno, dato che una illogicità rispetto ad altre illogicità o logicità parziali e fantasmagoriche diventa a sua volta una illogicità relativa. Piuttosto non teneva conto di fattori temporali legati ai tassi d’interesse, ma anche questo non si sa fino a che punto sia un difetto o una specie paradossale di merito. A ogni buon conto, per quanto mi riguarda, l’aspetto sostanziale della teoria marxiana che può interessare ancora oggi verte sul saggio di profitto: eccedenza / (capitale + lavoro), cioè il rapporto del surplus incorporato nel prezzo rispetto alla somma delle componenti di costo del capitale e del lavoro impiegati. Riscritta attraverso una semplice trasformazione aritmetica, essa implica, come è anche facile intuire, che il saggio del profitto diminuisce quanto più il valore del capitale eccede quello del lavoro e aumenta quanto più il surplus eccede il costo del lavoro. Poiché il processo economico comporta un incremento del denominatore (ciò che al giorno d’oggi non solo è ancora valido, ma tende ad esasperarsi per il progresso tecnico vertiginoso, la concorrenza acuita dall’ampiezza degli scenari di riferimento, la distinzione tra manager portatori di interessi in parte autonomi insieme a specifiche informazioni professionali e proprietari di capitale meno informati) salta agli occhi che il saggio di profitto si salvaguarda attraverso l’eccedenza del surplus sul costo del lavoro, rapporto che può essere incrementato soltanto attraverso due meccanismi: la concentrazione oligopolistica e la compressione delle capacità contrattuali dei salariati. Semplice, lapalissiano e assolutamente mimetico verso la realtà vera di oggi. Peccato che nel frattempo di Marx, dopo averne sproloquiato a vanvera per anni, oggi si parli veramente poco soprattutto a sinistra.
D. Forse perché, almeno per l’aspetto che hai evidenziato, il suo ragionamento appare quasi un truismo.
M. Giusta osservazione, esattamente quello che avviene con Darwin. I problemi rispetto a truismi o tautologie sorgono quando si considera che non si tratta veramente di truismi o tautologie, ma di descrizioni quasi ineluttabili di complessi di eventi su grande scala, riguardo ai quali si ha interesse a dimenticarsi il senso profondo della loro verità, riportando il clima culturale a temperie sociali in cui non appariva così banale e anzi suscitava scandalo e veniva osteggiato. Oggi tale avversione viene giocata in modo molto più furbo e ambiguo, non ci si scomoda a contestare la verità delle relative formulazioni, ma la si neutralizza considerandola una ovvietà non meritevole di soverchia attenzione, con il sottinteso che qualsiasi giudizio morale o funzionale in merito suona vuoto e non pertinente.
D. Cosa fatta capo ha, ciò che è reale e razionale e ciò che è razionale e reale, il sistema ha sempre ragione.
M. Più o meno. E torniamo alle banche centrali il cui operato ci darà modo poi di parlare di Keynes. Con un salto triplo non carpiato ma in avanti balziamo in sequenza sulle più autentiche meraviglie dello scibile finanziario, quelle che si chiamano M1, M2 e M3. Di che cosa si tratta? Niente di molto appariscente in verità, semplicemente tre raggruppamenti progressivi della base monetaria con titoli d’investimento ordinati secondo la facilità decrescente di essere trasformati in liquidità, anche qui però una terminologia aridamente funzionale nasconde non poche insidie e sottintesi allarmanti. Per avvertirne il sospiro, occorre considerare che le banche centrali, tramite loro fonti di rilevamento esclusive e algoritmi specifici con cui nutrono i giganteschi oracoli elettronici, operano continuamente al fine di mantenere questi strani hermes dagli schinieri dorati entro determinati valori di cui non è facile per un profano stabilire i criteri di riferimento, ma non è difficile per nessuno ipotizzare che abbiano senz’altro effetti sui portafogli d’investimento di tutte le grandi istituzioni mondiali che si dedicano a trafficare con la ricchezza di carta o di silicio. Ora io ti domando, affinché tu mi risponda sinceramente con un sì o con un no: è credibile ritenere tutte queste operazioni insignificanti, inconsistenti e inespressive ai fini della crescita della ricchezza e concentrazione finanziaria e industriale così come si è venuta delineando soprattutto dalla caduta del muro di Berlino in poi?
D. No.
M. Ti ho suggerito io la risposta o ci sei arrivato da solo?
D. Ci sono arrivato da solo già parecchi anni fa.
M. Bene, adesso Keynes. E’ possibile che si metta Keynes in cantina proprio quando l’accento da lui posto sull’importanza concreta delle dinamiche relative a investimenti e liquidità assume nella macroeconomia reale un rilievo assoluto alla luce di trasformazioni che pongono questi temi non solo al centro di una gestione della domanda di breve periodo, ma nel nucleo stesso delle trasformazioni epocali e della macroeconomia strutturale?
D. No.
M. Basta con le domande retoriche. Il fatto da rimarcare è che una sinistra riformista che si è sempre basata su schemi keynesiani molto più che marxiani, quando oggi prende il potere, si converte senza battere ciglio (oppure senza accorgersene) al monetarismo e ciò accade proprio quando l’economia reale basata su crescita, profitto, occupazione, proclamata dalla destra pratica e sbrigativa, dagli uomini di azione con le palle d’acciaio (surclassati dagli epigoni di sinistra che sanno come intimidire senza inutili dispendi esibizionisti accarezzando nel contempo il lato tenero della gente) diventa niente di più che una mitologia propagandistica spacciata dalla multinazionarietà organizzata.
D. Come intervengono le banche centrali in tutto questo?
M. Le banche centrali operano in un’ottica monetarista per il semplice fatto che esistono e detengono specifici poteri.
D. Preoccuparsi ‘soltanto’ della stabilità dei prezzi.
M. Esatto, una missione prettamente monetarista operata con tutte le deviazioni, le degenerazioni, le corruzioni, i peggioramenti consentiti dalla moderna ingegneria finanziaria, quella che produce ordigni per disinnescare i quali riceve sovvenzioni pubbliche che in realtà corrispondono a pagamenti di ricatti e riscatti.
D. Le sinistre quindi si convertono automaticamente al monetarismo, quindi diventano destra economica, quando s’inchinano a quell’internazionalismo di cui le banche centrali rappresentano la forza di coesione autentica ed effettiva.
M. Indubbiamente e tutto questo era chiaramente scritto negli accordi di fondazione della BCE, che davano indicazioni precise di politica economica all’unico organo comunitario in grado di attuarne una, rimanendo tutto il resto appeso all’anarchia ideologico-partitica e agli egoismi etnico-nazionali di una logorrea parlamentare irriducibile a interessi comuni.
D. Come hanno fatto i numi tutelari dell’europeismo, tutti democratici e progressisti, a non rendersene conto in anticipo?
M. E chi ha detto che non se ne sono resi conto? In realtà si sono buttati sulla zattera di salvataggio dell’Europa perché erano incapaci di governare senza una disciplina imposta dall’esterno. Se fosse colpa loro o delle costumanze di un popolo male assortito, poco importa, a questo punto, a me interessa rimarcare, anche per sottolineare il lato grottesco degli avvenimenti storici, che mentre la BCE veniva costituita secondo i canoni di una economia di destra, gli europeisti più convinti esecravano le politiche di quei governi che si ispiravano ai medesimi criteri monetaristi.
D. Quasi idilliaci rispetto a quelli attuali.
M. Il monetarismo originale di Friedman consisteva in poco più che un atto rinnovato di fede nella mano invisibile di Smith e quindi nella mano di Dio, componente essenziale del più genuino individualismo ‘yankey’ risalente al puritanesimo della prima ondata migratoria, qualcosa di quasi commovente se si guarda agli sviluppi più recenti. L’affermazione della neutralità della moneta rivendicava la preminenza di una concreta volontà costruttiva rispetto alle sterili capziosità della decadente plutocrazia inglese e della anzianissima Europa. Non c’è da stupirsi che il cow boy unto dal signore se ne innamorasse a prima vista e la sua spigolosa epigona, dopo i disastri della sterlina e dell’inflazione per lo shock di offerta da materie prime, fosse costretta a inseguire. Il monetarismo attuale è invece la riedizione dello stesso pervertimento finanziario che i monetaristi imputavano ai Keynesiani, operato sulla base di quella concezione mitologica di una magica omeostasi dei mercati reali che non può essere abbandonata perché conviene troppo a chi quei mercati tenta di addomesticarli.
D. Quindi, che cosa sta accadendo?
M. Le cose più banali e prevedibili: che nelle nazioni deboli la cui valuta è stata unificata con quella delle nazioni forti si crea disoccupazione come risultato di una svalutazione che non può sfogarsi nei cambi (critiche di Keynes a Churchill), che il finanziamento del debito pubblico attraverso l’emissione di titoli i cui interessi vengono tenuti artificialmente bassi non favorisce solo la stabilità dei prezzi, ma il dirompente vantaggio delle concentrazioni finanziarie internazionali sulla microeconomia interna. Accade che, senza il fine tuning di una politica governativa indipendente, senza meccanismi compensativi di aggiustamento dei flussi di capitali (che agiscono soltanto nel senso di un’espropriazione dei beni comuni e di un micidiale attacco alle esternalità e ai diritti di proprietà condivisi), senza neutrali e onesti programmi di spesa e di sostegno, l’economia reale soccombe al divorzio tra finanza e consumi, tra finanza e piccola e media impresa, tra finanza e occupazione. Accade che destra e sinistra, riunite al centro, giurano insieme sui meccanismi di auto-risanamento di un Mercato che non è mai esistito e men che meno adesso che i vari tassi d’interesse e i cambi flessibili non riequilibrano alcunché, dato che sono tutti pilotati, e che il teorema dei costi comparati è inefficace per l’artificiosità di accordi internazionali condotti sulla pelle dei popoli. Accade che i flussi di capitale scorrazzano come cavalieri dell’apocalisse, ingoiando il buono e defecando il cattivo, non appena si trovano liberati da qualsiasi meccanismo di regolazione impersonale che non sia accomodato secondo le convenienze della gigantesca infrastruttura che manipola liquidità e investimenti circondando le sovranità nazionali di un filtro unico e asfissiante. Accade che di questa gigantesca infrastruttura nessuno sembra vedere l’assoluta superfluità sostanziale. Accade che, mentre tutto è irrazionale tranne il dominio degli interessi più forti, la modestissima BCE si balocca con le pallonate dei teorici delle aspettatìve razionali, i quali, prima arrivano al grottesco di prescrivere alle autorità comunicazioni false per contrastare l’inflazione inerziale, poi, siccome la gente non ha aspettative sceme, ma, appunto, razionali, raccomandano di essere onesti e prescrivono l’inflazione che tutti insieme, armati di buona volontà, dovremo realizzare (inflation targeting!!!!!). Accade che la BCE si attiene diligentemente al copione così da apparire una brava scolaretta ingenua al posto del Mefistofele che è, poi, quando incaricati e maestranze si rivelano inadeguati al compito, se ne lava le mani incolpando le riforme che non sono state fatte. Quali riforme? Ovviamente quelle, uniche e immodificabili, imposte dal gotha di cui la BCE fa parte.
Sull’equivalenza sistemica dei buoni e dei cattivi.
DISCEPOLO. Se ogni società è inevitabilmente darwiniana, come potranno mai i buoni averla vinta sui cattivi?
MAESTRO. In ogni società ineluttabilmente darwiniana ‘buoni’ e ‘cattivi’ coesistono stabilmente nella misura in cui entrambi le categorie, in proporzione opportuna, si avvantaggiano di una situazione complessiva rispetto a cui si pongono in rapporto d’integrazione funzionale.
D. Dunque le distinzioni morali sono inutili?
M. Si deve anzitutto comprendere la natura profonda dell’uomo morale.
D. Scusami maestro, mi preme molto approfondire l’argomento e chiarire una volta per tutte l’essenza di una moralità che presumo sia da intendersi in senso storico o comunque contingente. Tuttavia, se mi permetti, vorrei approfittare della tua locuzione per domandarti in via preliminare: esiste dunque una natura profonda dell’essere umano distinta da una natura superficiale?
M. Per ‘profondo’ s’intende ciò che si cela sotto gli strati psicologici e comportamentali che un soggetto ritiene agibili in modo proficuo e non problematico in seguito a dinamiche di verifica e apprendimento socialmente effettive. Rimane nascosto ciò che si ritiene, a torto o a ragione, controproducente e pericoloso.
D. Quanto è importante in questi meccanismi la distinzione tra ’conscio’ e ‘inconscio’?
M. Si tratta di una distinzione di grande rilievo storico-culturale (anche per la sottigliezza di molte analisi di tipo freudiano) che ormai, rilievi clinici a parte, può considerarsi superata e da intendersi come esemplificazione particolare e metaforica di un determinismo sistemico (simultaneità e non località di un enigmatico ‘tutto’) in cui la psiche e la coscienza umana si connotano come nuclei di una vicenda biologica che rappresenta il passaggio a una causalità di seconda specie, quella che agisce attraverso l’interazione e intermediazione di insiemi di entità assimilabili, almeno per analogia, a moduli software. Il discorso è in qualche misura metaforico, del resto dubito si possa precisare meglio in altro modo. Tale causalità, in base al principio di completezza della natura (per cui niente può avvenire per caso a meno che tutto non possa avvenire per caso), regola i dinamismi di automi naturali implementati sullo hardware dei campi quantistici e spaziotemporali.
D. Si può sinteticamente esplicare il significato di quel termine, ‘darwiniano’, accusato da molti di eccessiva vaghezza e schematismo?
M. Il kolibianesimo fa un uso sincronico del termine scientifico applicato a un contesto biologico comprensivo della storia sociale umana, negando le relative pretese di autonomia dall’ontologia naturale, che è unica, e le illogicità pragmatiche (‘darwinianamente’ spiegabili, appunto) di una tradizione umanistica fintamente laica o espressamente religiosa. Il darwinismo appare un’ovvietà non appena si traduce ‘Dio’ con ‘universo’ o ‘multiverso’.
D. Qualcuno, in merito, ha parlato più o meno sprezzantemente di panteismo.
M. Il parallelismo non ci preoccupa, rimanda a una concezione trasparente e onesta del sentimento religioso: vi si ironizza perché, come ogni forma di trasparenza e onestà, viene considerata una specie di ingenuità.
D. Insomma, come dire… poco darwiniana.
M. In un certo senso… Del resto, continuando il discorso sul darwinismo come ovvietà, esso si ritrova implicitamente schematizzato in tutte le scienze sociali: per esempio, in sociologia, nelle dinamiche di gruppo e nei giochi degli interessi vitali metamorfosati in simpatia e antipatia, avvicinamento e distanza, partecipazione ed esclusione; in psicologia, nei meccanismi di sublimazioni e proiezioni sotto il controllo di un ‘ideale dell’io’ condizionato dalle variabili ambientali e parentali; in economia, nel concetto di utilità razionale, negli assunti di base del cosiddetto individualismo metodologico, in analisi tipo Cyert-March, negli equilibri di oligopolio e monopolio, nella teoria dei giochi, in comportamenti esiziali per l’economia del benessere (adverse selection, moral hazard, lemon principle, free rider…). Un elenco esaustivo non la finirebbe più. Nelle scienze umane il darwinismo è definito eufemisticamente ‘dialettica’ e il caos fisico-matematico incertezza, informazione incompleta, fallimento del mercato o dello stato.
D. Da più parti certe generalizzazioni vengono considerate indebite e artificiose…
M. Si deve distinguere tra generalizzazioni confusionarie che non riconoscono la legittimità delle specificazioni disciplinari e quelle che rivendicano l’iscrizione dei fenomeni in categorie più vaste e comprensive. Per le prime è giusto parlare di grossolanità, ma le seconde vengono spesso ignorate o avversate per il desiderio di procedere a una separazione ideologica e pregiudiziale degli ambiti umani da quelli biologici e naturali.
D. Non sarebbe lecito però obbiettare che proprio la varietà e particolarità delle manifestazioni da te citate depongono a favore della eccezionalità e irriducibilità di molte caratteristiche umane?
M. Certo, ma si deve ignorare il contributo fondamentale delle scienze, non esclusa la matematica, alla filosofia etica e quindi insistere a confondere un concetto chiaro ed evidente di complessità virtualmente illimitata (che, fino a certi limiti strutturali e topologici, cresce su se stessa) con nebulosi paralogismi e maldestre ipostasi di grandiosità e profondità metafisica.
D. Puoi scendere più nel dettaglio e fornire qualche riferimento oggettivo a questo genere di fraintendimento?
M. Una esemplificazione lampante discende dall’anatomia comparata e da come la struttura del sistema nervoso centrale di homo sapiens palesa una propria specificità rispetto agli analoghi complessi delle specie ‘inferiori’: la sola differenza sostanziale concerne l’anomalo, straordinario sviluppo della corteccia cerebrale, le pliche di sostanza grigia che ricoprono parti con struttura ed estensione molto più conforme ai modelli delle specie filogeneticamente affini. Naturalmente risulta anche enormemente potenziata la rete dei collegamenti agli emisferi cerebrali.
D. L’immissione, quindi, nei circuiti emozionali, di modulazioni riverberanti dai centri associativi del neopallio.
M. Modulazioni afferenti ed efferenti: il dialogo tra livelli gerarchici e partizioni funzionali è continuo e intricato. Comunque, ove si consideri che i nuclei più antichi, come gli studi di neurofisiologia confermano, presiedono anche nell’uomo alla gestione delle motivazioni tramite coloriture istintive ed emozionali che rappresentano modi immediati e reattivi di categorizzare gli stimoli esterni, ciò alla fine significa che la peculiarità umana s’impernia su una sofisticatissima elaborazione dell’informazione sensoriale a fini discriminativi e sulla concomitante e integrata razionalizzazione di sentimenti e impulsi per il resto perfettamente omologabili a quelli degli altri primati.
D. Gli aspetti innovativi dell’attività umana deriverebbero allora dalla regolazione delle spinte emozionali primitive e non da loro ineffabili epifanie per le proprietà di una sostanza primordiale, dal confezionamento in forme espressive e costruttive adeguate (arte, linguaggio, simbolismo…) e non da un principio metafisico esogeno e autofondante.
M. Sì, dal che è facile dedurre che l’elemento caratterizzante delle società umane è o dovrebbe consistere nel disciplinato soddisfacimento dei bisogni basilari, nella loro iscrizione auspicabilmente flessibile e creativa in un ordine discendente da finezze analitiche utilizzabili in un programma concreto che contempli anche un doveroso rispetto degli scenari naturali (se non si vuole equiparare l’umanità alla sciagurata invenzione di un’arma di distruzione di massa). Nella visione di un ipotetico demiurgo cosmico, l’uomo apparirebbe strutturato per conoscere e amministrare il mondo. Costui rimarrebbe disgustato nel constatare come invece vi imprimiamo il marchio scellerato di nevrosi e patologie del ‘cervello di mezzo’ che schiavizzano le facoltà encefaliche superiori.
D. Non sarebbe tuttavia sostenibile con le stesse argomentazioni la tesi speculare che, tramite i collegamenti di cui si è detto, le emozioni verrebbero in un certo senso nobilitate dall’azione dei lobi integrativi fino a dilatarsi a forme di autentica spiritualità?
M. Occorrerebbe forzare fino al travisamento totale le acquisizioni mediche e di neurologia sperimentale. Inoltre, se così fosse, il comportamento umano si manifesterebbe in forme completamente diverse da quelle registrate nei documenti storici, nei resoconti antropologici, nei dati empirici di cui si riceve nuove conferme ogni giorno. Gli ambiti familiari, dove si dispiega l’emotività più spontanea e sincera, offrirebbero esempi copiosi di paradisi in miniatura, privi di quel groviglio di problematiche che psicologi e assistenti sociali conoscono molto bene.
D. Non si può escludere però che l’umanità si trovi ancora in uno stato immaturo e stia rapidamente imparando.
M. Ovvio, ma questa maturazione, anche a voler tralasciare l’evidenza di come non tenga il passo del progresso materiale e tecnologico, non può avvenire insistendo su visioni false e tendenziose che consentono all’uomo di attribuirsi doti abusive di sacralità. In realtà l’umanità mostra il suo volto apollineo soltanto in ambiti specialistici, scientifici e tecnologici come anche artistici, letterari, musicali, dove le competenze coltivate attraverso l’applicazione e la disciplina raggiungono vette di abilità e virtuosismo. La differenza tra uomo primitivo e uomo civilizzato verte proprio sull’adempimento o meno di quelle potenzialità. Nella vita normale, l’istintività non tenuta a freno sviluppa invece quella che, con educato eufemismo, potremmo definire una giungla di colorite stravaganze, senz’altro godibile dal punto di vista dello scetticismo estetizzante, ma poco utile ai fini di qualsiasi idealismo politico e umanitario.
D. L’essenza ideale dell’ispirazione kolibiana, che saremmo portati a considerare naturalmente insita nell’uomo, viene costantemente tradita. Che cosa vi si oppone nella realtà sociale?
M. Difficoltà pratiche a parte (che, sul lato pubblico della questione, si fanno sentire soltanto in assenza di una esplicita volontà), spunta il famoso e proverbiale bluff metafisico, l’istinto e la vocazione animali smerciati come nocciolo autentico della morale: la società adora se stessa nel senso già individuato da Durkheim, non mediante una deviazione narcisistica, ma nel tentativo di consolidarsi soffocando la sensazione intuitiva della convenzionalità delle regole del gioco sotto l’esaltazione pregiudiziale di vincoli e leggi che, per essere efficaci, richiedono una fedeltà indiscriminata. La società tende quindi a confondere i giochi e obliterare le origini, affidando la definizione del valore a concetti completamente estranei al principio del discernimento obbiettivo.
D. Questo influenza ovviamente le modalità proprie di esprimersi della politica e dell’esercizio democratico…
M. I momenti che l’uomo sociale giudica i più alti sono quelli in cui la giurisdizione e regolamentazione delle parti raziocinanti del cervello non intervengono o vengono espressamente inibite (come in piazza Venezia ai tempi del fascismo o in piazza S.Pietro oggi o a un concerto rock o a una convention democratica o repubblicana negli Stati Uniti e in innumerevoli altre occasioni). L’uomo conformista e gregario in sostanza vede l’incedere di una spiritualità superiore proprio quando le spontanee manifestazioni umane non si elevano molto al di sopra di un livello scimmiesco.
D. Eppure le società, pur con mille difetti, conservano nel tempo molti gradi di organicità ed efficienza: com’è possibile?
M. Non dimentichiamo che il discorso che abbiamo sviluppato riguarda i cosiddetti valori supremi, quelli che alcuni reputano il cemento degli istituti civili. In realtà, la loro forza operativa è pari più o meno a zero. I principi d’ordine che regolano una società sono di tutt’altra natura e attingono a dosi di prudenza pragmatica che risalgono molto più a un contrattualismo di tipo hobbesiano che alle soleggiate civitas dei dei Campanella. Prova ne è che quando entrano in gioco i bisogni materiali come per miracolo la tanto bistrattata razionalità torna prepotentemente in scena al punto che la scienza economica vi ripone un affidamento quasi idolatrico e non solo in sede accademica: le linee di condotta di tutte le banche centrali del mondo (le uniche istituzioni ancora in grado di portare avanti una parvenza di politica economica non velleitaria) sono impostate secondo un concetto di ‘aspettativa razionale’ che di fatto concede agli ‘agenti del mercato’ l’onore e l’onere di una quasi onniscienza (pur con tutte le dovute concessioni a incertezze e fluttuazioni stocastiche e alle imperfezioni di una informazione che però, essendo costosa, alla fine diventa un bene voluttuario per pochi).
D. Quindi, tra i pessimi effetti che possiamo attribuire alla finanza internazionale, non rientra il favoreggiamento dell’irrazionalità?
M. Anche qui si nasconde un grosso equivoco o piuttosto un trucco. Le banche centrali fingono trasparenza e rispetto verso una comunità di gente sveglia che non si lascia facilmente ingannare, ma tutte le concezioni che attribuiscono il comportamento economico alla ponderazione e al buon senso di un sano e intelligente egoismo, almeno come risultato statistico netto di un numero enorme di scelte, si basano su ipotesi per cui ‘arbitrarie’ appare una definizione benevola: prima di tutto, che quelle scelte siano in numero enorme e non subordinate a un numero molto inferiore di scelte egemoni e prioritarie (per cui non vale la provvidenziale protezione della legge dei grandi numeri); secondo, che le egemonie e le priorità non siano tali da imbrogliare le carte e far credere alla gente sveglia di obbedire al proprio senno quando sta obbedendo al comando di altri compresi mandanti e/o mandatari delle stesse banche centrali.
D. In che modo dobbiamo quindi giudicare i valori etici che le élite di comando considerano fondamentali?
M. Se usciamo dal solco pratico e di vincolo procedurale fissato dalla giurisprudenza (ogni valore sociale diventa effettivo soltanto quando si fissa in dispositivi legali a cui sia concesso un espletamento concreto e fattivo, altrimenti è flatus voci, vaso di coccio tra i vasi di ferro darwiniani), esistono varie definizioni polemiche: alibi, foglie di fico, depistaggi, condizionamenti, perfino ricatti. Stiamo parlando di una dimensione sociale, ovviamente, non privata e individuale.
D. L’ambito giuridico rimane dunque l’unica sfera civile a cui appellarsi per salvaguardare almeno un aspetto formale di libertà civile?
M. Purtroppo no: nella situazione attuale le complessità sono tali e tante che i costi transattivi debordano oltre ogni limite di decenza decretando la derisoria falsità del motto ‘la legge è uguale per tutti’. La maggior parte delle leggi finiscono per servire gli interessi di chi possiede le disponibilità per mettere in pista avvocati in grado di rintracciare gli aspetti maneggevoli di testi congegnati spesso, tramite le manine rapide e furtive dei lobbisti dell’ultimo minuto, allo scopo di favorire proprio quelle forze che in apparenza si intende limitare.
D. Non si rischia di fornire un quadro troppo tetro e ‘disfattista’ delle istituzioni democratiche?
M. La democrazia si uccide per colpa della faciloneria e dell’ignoranza, non attraverso l’intransigenza critica. La democrazia non può sopravvivere in modo concreto e sostanziale quando i costi di transazione e quelli d’informazione, superando certi valori di soglia, diventano appannaggio di pochi privilegiati che li usano anche per crearsi barriere protettive e armi offensive (quel perverso concetto di ‘diffamazione’, per esempio, che dovrebbe costituire infamia e motivo automatico di ‘impeachment’ per chi se ne serve strumentalmente).
D. Si precisa meglio così il concetto di morale darwiniana usata come alibi eccetera…
M. Alibi, depistaggio, cortina fumogena, mutanda di ferro con fallocarpo rafforzato o vagina dentata. La moralità in una economia di mercato rappresenta una iperbole pretestuosa e presuntuosa di una più corretta nozione di ‘rispetto delle regole’ e il rispetto delle regole diventa un freno illusorio quando tra i competitori del mercato esiste chi le regole può aggirarle o addirittura dettarle e chi manco per sogno, il che oggi, sul fronte del privilegio, riguarda soprattutto i potenti della terra, ma ieri poteva tranquillamente riferirsi anche alle grosse organizzazioni sindacali e domani, chissà, alle masse irreggimentate e infervorate dall’assolutismo teocratico.
D. Tesi che gli sprovveduti considerano comunque pericolose e accusano perfino di disumanità e razzismo.
M. Soprattutto quando sono affetti dalla maggiore efferatezza possibile ovvero la stupidità orgogliosa di se stessa. Non sarà mai ribadito con forza sufficiente la nostra tesi, in verità quasi un teorema provato, che il singolo essere umano (ovvero, la sua particolare costituzione genetica) coinvolto in un numero illimitato di esistenze successive (dove si troverebbe inserito, a varie età, nei più disparati ambienti e contesti) espliciterebbe una gamma di prestazioni morali distribuite su tutta la scala che spazia dalla turpitudine estrema alla più radiosa delle nobiltà. Per un kolibiano si tratta di un presupposto capitale.
D. Possiamo estendere questo tipo di ragionamento dalla sfera morale a quella intellettuale e attitudinale?
M. Certo, pur con qualche avvertenza e cautela relative a una maggiore differenziazione delle caratteristiche in base alle quali un singolo uomo viene considerato abile o intelligente in molti modi diversi e in parte contrastanti. Inoltre, qualsiasi consesso sociale produce giudizi che tendono a rarefare e omologare i profili di accettabilità e rispettabilità, sviluppa invece nel tempo effetti proliferativi riguardo alle specializzazioni operative.
D. Questo possibilismo assoluto non contraddice però i portati della medicina e della fisiologia là dove ci istruiscono su una varietà illimitata di combinazioni ed equilibri diversi nella composizione e nell’azione di mediatori, ormoni, enzimi, modulatori dell’attività genica, antigeni, tutto lo sterminato zoo, insomma, della biochimica umana?
M. Può sembrare una contraddizione se consideriamo le varie tipologie disporsi in una continuità che esaurisce tutti i casi possibili, diventa invece una ulteriore prova a sostegno se consideriamo i vari prospetti fisiologici dare vita a corrispondenti modelli psicologici e comportamentali diversificati secondo zone che coprono, sì, tutto il ventaglio delle fenomenologie esistenziali, ma lasciando ampi intervalli vuoti tra una zona e l’altra. Per costruirci una immagine evocativa di come gli schemi esistenziali attribuibili ai diversi prospetti fisiologici si dispiegano secondo le varie possibilità potremmo pensare alle differenze tra le righe spettrali delle radiazioni provenienti da lontane galassie.
D. Dunque la critica kolibiana, rimanendo incongruo o al massimo episodico e irrilevante a fini teoretici e fondativi il giudizio sulle singole persone, deve per forza applicarsi a cose come teorie, ideologie, organismi, istituzioni, progetti, mai a casi individuali e contingenti, i quali, soprattutto dal punto di vista morale, disfunzione organiche a parte (si escludono come non pertinenti al discorso i difetti funzionali dell’architettura genetica) rimangono assiologicamente intercambiabili.
M. Esatto. Tutto ciò mette completamente fuori gioco questioni attinenti a discriminazioni psicologiche e razziste, dopodiché si può cominciare a discutere in modo serio e accurato.
D. Possiamo quindi affrontare temi veramente cruciali sgombrando il campo dalle tendenziose falsità travestite da ispirazioni ideali e avvalendoci finalmente di quegli argomenti logico-razionali che rappresentano l’unico tipo di strumenti comunicativi accettabili in un’ottica costruttiva e funzionale.
M. I soli che possono risolvere le antinomie fondamentali della presenza umana nel mondo, la sua commistione irrisolta tra coscienza cosmica (lo sguardo che il cosmo rivolge a se stesso) e natura animale. L’uomo, quando non si controlla e, sulla spinta di cariche sentimentali in regime d’incitamenti reciproci, sbotta in una effervescenza proiettiva a cui attribuisce significati ideologico-morali, si trova in contraddizione con quello che indicano i connotati della propria struttura anatomica. Non potrebbe accadere niente di simile se la natura umana, per ragioni ambientali o consustanziali, non si trovasse costantemente a rischio di una contraddizione profonda tra la enorme potenza oggettiva del cervello razionale e la persuasione irresistibile dell’apparato neurale emotivo e istintivo.
D. Una conferma in più di quello ‘sbaglio’ della Natura di cui parlavano i Padri?
M. Sbaglio o non sbaglio, virgolette o non virgolette, appare quasi scontato concludere che, in assenza d’interventi formativi, da attuarsi in età sensibile, capaci d’insegnare un controllo effettivo della propria complessa costituzione e una capacità di riflessione elaborata, l’uomo vive le proprie sensazioni interiori in modo molto più ostico e arduo rispetto a qualsiasi altro animale in libertà. Naturalmente, non si devono castigare le pulsioni fondamentali e dimenticare le esigenze pratiche se si vuole puntare a una figura umana adeguatamente munita.
D. Da qui prende piede anche l’insistenza dei Padri sull’inscindibilità dello spirito (più spettatore che attore, dato che l’inconscio agisce più del conscio) dalla propria esistenza come svolgimento biografico… o sbaglio?
M. Il riferimento è pertinente, il giudizio di valore può riguardare il percorso di una vita comprensivo di fortune e sfortune, mai l’entità psicofisica che la percorre. Per questo quelle concezioni che riducono la vita dell’uomo a condizioni di omologazione, subordinazione, ripetitiva e stereotipata meccanicità si piegano cinicamente alla legge dell’esistente usurpando indebitamente pretese morali.
D. Si può sostenere che la vita di qualsiasi uomo ricada più sotto la responsabilità dei fattori storico-sociali, che del soggetto che la vive?
M. Si può e si deve, purché non ne venga coinvolto l’impianto della giurisprudenza, a cui attengono principi di coerenza funzionale e non di etica sostanziale.
D. Come si deve giudicare il cattolicesimo in questa prospettiva?
M. Il cattolicesimo è insieme la peggiore e la migliore religione del mondo, fermo restando che la parola ‘religione’ comporta per il kolibiano molti aspetti negativi e pochi positivi. E’ la peggiore perché dilata tutti gli equivoci, le banalità e le semplificazioni del personalismo, la migliore perché, così facendo, s’incentra, più che sulle durezze dogmatiche, su quel fantasma, quella tabula rasa a cui si riduce la nozione di anima, entità talmente volatile che la religione cattolica, se presa alla lettera, si rivela una non religione, una pura tecnica oratoria complementare (anche a volte, in senso lenitivo o limitativo) ai governi vigenti.
D. Ecco: i governi vigenti. Come si devono giudicare i rappresentanti del potere sempre alla luce delle illimitate e indeterminate potenzialità umane.
M. Tenendo presente che, come il singolo soggetto può essere orientato dalle circostanze verso il peggio o verso il meglio, il potere, qualsiasi potere può evolversi in direzioni diametralmente opposte a seconda del mitigarsi o incrudelirsi di eventi e situazioni.
D. Sono ancora possibili dunque concatenamenti regressivi che portino al dispotismo sanguinario?
M. Basta constatare come in stati vicini, con cui si mantengono ottimi rapporti e intense relazioni commerciali, da anni le persone spariscono senza che democratici governi ‘amici’ obbiettino alcunché (anzi, se è in gioco la repressione di potenziali nemici si plaude in segreto), prima di essere direttamente coinvolti.
D. L’uomo quindi solo condizionatamente può considerarsi superiore al generico animale?
M. Giudicare la specie umana superiore o inferiore a qualsiasi altra specie è una dimostrazione di analfabetismo scientifico totale e di pletorica spocchia umanistica. Innanzitutto ci si dovrebbe astenere da qualsiasi giudizio per un semplice principio di correttezza e onestà: l’uomo ha interesse a esprimere un giudizio siffatto, ma se fosse un cavallo penso proprio che il punto di vista e quindi l’insieme delle valutazioni cambierebbe radicalmente.
D. Ma un cavallo non può esprimere giudizi.
M. L’unica cosa certa è che non è in grado di esprimere giudizi verbali, ma se si vuole comunque porre la questione nei termini della maggiore complessità, profondità, articolazione, eccezionalità, variegata e potente specificità delle caratteristiche umane rispetto a tutte le altre specie, allora il giudizio non può prescindere dagli effetti generati delle relative conseguenze: se, in capo a ‘pochi, pochissimi’ secoli (0,5? 1? 2? 3?) il genere umano, mostrandosi assolutamente incapace di autocorreggersi nonostante il pressing ad agire rappresentato da semplicissime istanze razionali chiaramente visibili non da oggi, ma da ieri, avrà distrutto il pianeta insieme al proprio futuro, beh, allora la specie umana non solo non si rivelerà superiore a qualsiasi altra (scarafaggi e locuste compresi), risulterà nettamente inferiore e senz’altro papi Dione, se esistesse, non mancherebbe di farglielo notare
D. Molti trovano scandaloso questo modo di pensare.
M. Sì, ed è assolutamente scandaloso che questo debba ancora accadere nel terzo millennio. E’ assolutamente pazzesco che, oltre che a temere l’incomprensione per incapacità e mancato allenamento degli analfabeti culturali, le persone pensanti oggi devono anche preoccuparsi della reazione veemente e indignata di quei settori dell’opinione pubblica che per decenni hanno assunto un approccio intellettuale alle problematiche oggettive esclusivamente impostato su quella che potremmo chiamare intelligenza pragmatico-sociale.
D. Una nozione che mi piacerebbe approfondire.
M. Si basa sull’assolutizzazione del contesto inter-umano come unico ambiente reale meritevole di attenzione da parte della dialettica tra individui preoccupati prima di tutto di cose come il gradimento reciproco, la comunicazione affettiva, la coesione tattica in un’azione di gruppo finalizzata a vantaggi partigiani. Per costoro, legati all’antropocentrismo anche per impulsi di amor proprio e malintesa dignità personale, non esisterà mai la possibilità progettuale di un raziocinio etico che collochi l’umanità nei quadri di massima pertinenza rilevabili solo attraverso una presa di consapevolezza scientifica e la ricerca di un’obiettività spregiudicata, indifferente al collocamento socio-ideologico imposto da un personalismo idealizzato. Se tale possibilità progettuale non esiste, bisognerebbe però vergognarsi più che gloriarsi di essere uomo o almeno non indugiare affatto su tale ordine di questioni e occuparsi solo, con franchezza e onestà, di individualismi e particolarismi.
D. Come del resto accade per la maggior parte degli uomini.
M. Come purtroppo accade soprattutto a quelli che hanno le fauci gocciolanti di ideali e valori.
D. E’ lecito procedere a discriminazioni di appartenenza politica?
M. Direi proprio di no, si tratta di connotazioni antropologiche trasversali: il kolibianesimo rimane una specie di losca bestemmia, sia che la valutazione provenga da schieramenti i quali, tinti di religiosità e perbenismo, coltivano i miti dell’ordine e della laboriosità, sia che proceda invece dal fronte genericamente di sinistra di una immanenza mitologica che assegna a un uomo sospeso tra la terra e il cielo le sorti più magnifiche e progressive.
Per i primi il potere, buono o cattivo (ma più buono di tanto non può essere) ha sempre interesse a premiare i buoni (gli uomini di ‘buona’ volontà), per i secondi i buoni prima o poi prenderanno il potere e metteranno in riga i cattivi (sindrome meno pericolosa tranne quando sviluppa la convinzione che i buoni possono andare al potere solo facendo i cattivi): a pochi viene in mente che il potere è prassi fisiologica in una civiltà sana e funzionale, ma, anche con le migliori intenzioni (sto facendo teoria ‘positiva’), cade in nevrosi da stress e sviluppa quadri clinici pericolosi allorché la situazione si complica senza possibilità o capacità di rimedio (in genere perché le maggioranze rimangono legate a schemi che ci si intestardisce a conservare benché ormai inefficaci e dannosi).
D. Mi sembra il momento giusto per ritornare alle caratteristiche tipiche dell’uomo morale.
M. L’uomo morale, opposto all’uomo progettuale, l’uomo che si avvolge voluttuosamente nel bene come in un fatto di ontologia spirituale invece di escogitarne la messa a punto funzionale, si riconosce per come misconosce la conseguenza ineluttabile della complessa animalità umana: la solitudine del singolo individuo, la sua incomunicabilità, per usare un vecchio e nobile termine ormai decaduto. Non è un caso che qualche anno fa la morte di quello che, accanto a Fellini, è forse il regista più interessante dell’epoca d’oro del cinema italiano, è stata passata sotto silenzio quasi completo, almeno se paragonata ad altre sguaiate celebrazioni: la lingua sociale non batte mai dove il dente duole.
D. Significa che morale è sinonimo di sociale in senso autoreferenziale?
M. Le due caratteristiche vanno sicuramente a braccetto. L’uomo morale vuole superare la solitudine, incita a non costruire muri, ma ponti, però non possiede né gli strumenti empirico-razionali né quelli tecnico-costruttivi per stabilire modelli di coesione e interscambio realmente efficaci, almeno finché la persona umana ambisce a conservare le sottigliezze e sfaccettature della libertà emotiva e non si riduce a stereotipi più stucchevoli di qualsiasi animale (anche scarafaggio o locusta). Senza la capacità di dolorose autoanalisi e il dovuto rispetto della realtà (che, per un kolibiano, è ‘divina’ per definizione) alla fine l’uomo morale non può prescindere in alcun modo da modalità di omologazione dogmatica, riesce a comunicare e connettersi solo attraverso l’imposizione tutto sommato vanagloriosa ed egoistica della propria natura supposta pregiudizialmente come imprescindibile ed esemplare.
D. Conviene quindi rinunciare definitivamente a una distinzione tra buoni e cattivi?
M. A parte l’aspetto tecnico-giuridico (che, ribadiamolo pure, come tanti altri livelli funzionali non devono essere coinvolti in questo tipo di discorsi preliminari, ma esaminati e giudicati soltanto in sede di elaborazione progettuale), si tratta di una distinzione valida in un’ottica emotiva e privatistica, da un punto di vista sistemico risulta non solo inutile, ma perfino dannosa, dato che rischia di frapporsi a una valutazione chiara in merito all’efficacia e all’efficienza delle regole intese come vincoli di forza che devono condizionare il comportamento dei singoli in modo inderogabile pur lasciando loro la dose ‘giusta’ d’indipendenza e libertà. Un giudizio sociale, utile e coerente, di bontà o cattiveria riguarda esclusivamente le regole e il modo con cui sono applicate.
D. Ma se buoni e cattivi, sistemicamente, si equivalgono, con quale criterio potremo mai giudicare, operativamente e strutturalmente, la qualità di una scelta e di conseguenza decidere e agire?
M. Il singolo individuo effettua le sue scelte, egoiste o altruiste, sulla base di una visione inconscia o istintiva del mondo pervasa da contenuti emozionali, di una visione intellettuale e cosciente elaborata in modo più o meno autonomo, rozzo e approssimativo, di generici progetti di vita anch’essi per buona parte rozzi, approssimativi e sottoposti a molteplici condizionamenti e incognite, ambientali e sociali. In ordine all’interesse complessivo, definizioni come ‘buono’ o ‘cattivo’ non si possono applicare all’unità personale, né alle singole scelte, bensì alle visioni e ai progetti, mentre i giudizi di ‘giusto’ o ‘sbagliato’ possono valutare soltanto la congruenza tra decisioni e obbiettivi.
D. Con quale criterio possiamo allora giudicare la qualità di una visione o di un progetto?
M. Non si può prescindere dal contesto in cui la visione e il progetto si inseriscono. Se il contesto consiste di una società nel suo complesso, di cui s’intende preservare o migliorare l’integrità e l’armonia dell’insieme, visione e progetti vi si devono rapportare in modo produttivo, organico e coerente.
D. E come si può valutare la corrispondenza o meno con tali modalità e le modalità medesime?
M. Non esistono metri di giudizio non razionali, dato che l’aggettivo ‘razionale’ si applica appunto a un atteggiamento che intende stabilire un confronto logico o causale, o almeno classificatorio, tra una serie di fenomeni e un’altra, per esempio tra determinati scopi e obbiettivi e i mezzi e le procedure che cercano di attuarli, oppure tra gli interessi diversi dei diversi gruppi sociali. Ovviamente la chiave di volta fondamentale, il massimo momento decisionale, da cui derivano tutti gli altri, s’incentra sulla valutazione intorno alla solidità strutturale di ciò che attualmente esiste e sui livelli di radicalità e urgenza delle revisioni da apportare.
D. Non è troppo vago?
M. No, è semplice e inconfutabile o perlomeno lo diventa se si riescono a esplicitare nel modo opportuno le relative tematiche, riferendole a una prassi concreta di azione costruttiva. Vago è ciò che simula complessità e profondità mischiando insieme alla rinfusa una congerie di elementi di cui non si è proceduto a verificare preliminarmente la compatibilità reciproca e poi lascia il mondo in balia di automatismi e rapporti di forza. Vago è ciò che esalta gli aspetti morali dell’esistenza misconoscendo e tacitando la base di interessi su cui si formano e gli obbiettivi pratici che perseguono, consapevolmente o meno. Vago è ciò che non parte dal presupposto elementare che le enormi potenzialità di mediazione simbolica e costruzione ideale proprie degli esseri umani non possono prescindere dalle caratteristiche biologiche fondamentali del cervello umano e dalle indicazioni che forniscono circa un modo obbligatorio e responsabile di superamento dell’animalità.
D. E l’amore?
M. L’amore, inteso come sentimento di affetto, può agire come fattore motivante e strutturante soltanto in ambiti d’interazione molto ristretta e tra persone che si conoscono a fondo.
D. In che modo far del male o del bene a singole persone fa differenza dal punto di vista della filosofia kolibiana?
M. Produrre bene è sempre bene, produrre male è sempre male e ciò vale in dimensioni individualistiche come collettive. Atteggiamenti spontanei e istintivi di bontà saranno sempre degni di essere apprezzati e incoraggiati, ma non attraverso meccanismi di ordine istituzionale. L’etica istituzionale deve essere tenuta ben distinta dalla morale privata, altrimenti finisce per adattarla ai propri comodi, farsene un alibi, usarla come prova a discarica e strumento di ricatto del suddito. L’etica istituzionale non deve lodare e predicare il bene, deve progettarlo, costruirlo e poi imporlo con l’approvazione e nell’interesse i più generali possibili e attraverso meccanismi opportuni. Individuo e uomo sociale devono essere posti su piani differenti (anche se ovviamente collegati), altrimenti l’uno sopprime l’altro o viceversa e il risultato, nella maggior parte dei casi, è un’ambigua, ondivaga figura di uomo morale ovvero di agente darwiniano subdolo o represso.
LE VEEMENTI E PROFETICHE INVETTIVE DI ASTRAGALO SCOLOVERNE (IN ARTE BRUCE COLIGNO) NEL DISCORSO PRONUNCIATO IN OCCASIONE DELLA SUA NOMINA A PATRIARCA ALFA ARBITRALE E CAPO ELUCUBRATORE MASSIMO, APPARSO SUCCESSIVAMENTE SOTTO IL TITOLO ‘IL TRONO E LA BAMBINA’
Testo emendato dalle più feroci crudezze a cura di Renato Pezzotta (pseudonimo di Krizio Gabbalameno, diplomatico e consulente d’immagine oltre che titolare dei diritti sui marchi e i copyright del Movimento)
Fratelli colleghi, signori compagni, consentiteci di cominciare con una facile, risaputa e perfino abusata figura retorica, quella di chi insiste imperterrito a dipingere un muro mentre esso s’incrina e si sgretola sotto l’imperversare di una furia nemica: potrebbe anche rappresentare un atto di stoica e insieme beffarda rassegnazione, un omaggio sarcastico a un potere spietato e soverchiante, un eccentrico dono di bellezza riposto come estrema testimonianza di sé in mani che sanno solo uccidere e distruggere.
E in fondo, fedelissimi amici, sarebbe improprio suggellare con una tale, forse irrispettosa, metafora il paradossale tentativo dei Padri? Un mirabile Progetto risolutivo disegnato su una tela che, ormai irrimediabilmente logora e sgualcita, si dissolve nel vento, la quintessenza di ogni formula magica scritta sulla trama sconnessa e sfibrata di una umanità inghiottita dall’immane voragine dello sconcertante bluff metafisico in cui di fatto finisce per risolversi non appena, senza intenzioni e strumenti adeguati, pretende di proiettarsi al di fuori delle origini e dei fondamenti animali.
Oh, ai nostri avversari lo concediamo senza alcuna remora o timore, nessuno di noi kolibiani ha mai fatto confusione tra un trionfo astratto e platonico e un fallimento pratico e sociale, nessuno si è mai illuso che quando il Dio Natura dirimerà torti e ragioni sarà giunto per noi il momento delle riabilitazioni: ci siamo definitivamente sottratti ai vieti e stanchi giochi dei Valori e della Morale, al mercato nero delle vacche spirituali, a tutte quelle borse del merito e dell’onore gestite da garanti che sono bookmaker camaleontici e settari vestiti di quegli abiti solenni che si addicono ad altari, parlamenti, tribunali come, altrettanto bene, alle feste di carnevale.
Soltanto esseri affetti da quella marcescenza intellettuale che secerne i grassi cosmetici indispensabili al lucore opalescente di un’immagine iscrivibile nel bilancio dei grandi, medi e piccoli poteri, dei poteri che, poco o tanto, contano economicamente un qualcosa, si sforzano ancora di credere che, senza una pianificazione integrale che ridisegni ab ovo i lineamenti della presenza antropologica nel mondo, le logiche del presente tipo di apparati politico-religiosi e socio-economici restino conciliabili con la verità profonda dei movimenti naturali in cui ogni umana inerenza è annessa e fusa senza eccezione alcuna. Questa inconciliabilità, questa sonnolenza e cecità di una ragione asservita alle lobby travestite da istituzioni, scaduto il tempo assegnato alla presente civiltà (l’ultima?), genera i mostri che, seguendo lo stile prediletto dalle genuine catastrofi, senza volontà e consapevolezza, alla chetichella, a volte perfino motteggiando e fischiettando (al punto che quando si mascherano con un teschio e brandiscono falci affilate c’è di che rassicurarsi, almeno finché non si avvicinano troppo), emergono qui e là un po’ dovunque come quisquilie di comune mestiere.
A voi, cari sodali di una immensa quanto negletta avventura, raccomando: non fatevi mai e poi mai ingannare dai canti di sirena delle borghesie morenti, dal bon ton salottiero dei fanatici consacrati alla democrazia della chiacchiera, i cultori del dialogo e della comunicazione finalizzati a se stessi o alla resa inconsapevole, alla capitolazione subliminale degli zombi perbene; aborrite gli invasati adoratori della più deleteria e politicamente malintenzionata socialità autoreferenziale, nemica giurata del tipo di gratificazioni individuali in grado virtualmente di contrastare le ragioni dell’autoaffermazione, del prestigio, dello spreco materiale ed energetico che o devastano il mondo con l’asservimento livellante o dapprima lo lacerano con gli abissi che separano le aristocrazie dalle masse e poi lo devastano anche peggio.
Gli esagitati vandali si riconoscono facilmente: training e maquillage estenuanti in cerca di una blandizia liquida e invasiva, un carisma ridotto a perfida carineria, mai la pausa e il silenzio del mistero, nessuna manifestazione di sottile inquietudine o turbamento irrisolto (solo i puntigli dell’onore contraffatto, gli ipocriti melodrammi della moralità offesa quando servono), nessun guizzo di nervi che non sia pregiudiziale e programmatico, tassativamente abolito ogni sincero scompiglio per i dubbi che assalgono davanti a sfide difficili e problemi intricati intorno ai quali non ci si fa sconti e non ci si concede illusioni, vietati i tentativi di forzare i ruoli e le divisioni assegnati, i movimenti verso una intesa non affaristica e compromissoria, le volontà di ricostruire dalle fondamenta una effettiva casa comune: da integralisti forsennati, pervicacemente credono nel mero gioco degli interessi, strizzati nel privato fino all’ultima goccia, ma in pubblico adorati come feticci del bene, vette di abnegazione, doveri e vincoli di lealtà di cui caricare un’anima peraltro intonsa e specchiata. Fingono di credere ancora, costoro, nelle pantomime danzate che, mentre in una mitica età dell’oro del liberalismo classico (la cui possibilità è definitivamente tramontata), intendevano esprimere la fluidità di diritti e doveri armonicamente composti, oggi trasudano soltanto e per intero una grondante menzogna farisea da galateo cortigiano.
Studiateli mentre sono all’opera, fratelli compagni, e, seduta stante, inorridite! Osservate il metodico impegno da invasati con cui s’incartapecoriscono nella loro imperturbabilità da vincitori sicuri di ragioni tanto tetragone proprio perché non ragioni, bensì privilegi di appartenenza e attestati di lignaggio sociologico, non lasciatevi scappare neanche uno di quei vezzi da manuale di psicologia per aspiranti manager perseguiti con la furia di adepti esaltati che non trasgrediscono mai, costi quello che costi, il decalogo dell’autocontrollo. Giudicateli, ma non odiateli, piuttosto compatiteli: dovete intuire lo sforzo che si cela dietro una moralità artefatta e fasulla, la fatica dei campioni della post-democrazia decrepito-industrialista nel tenere in piedi un castelletto di idealità cadaveriche o addirittura fossili quasi conservassero in pieno lo spirito vitale, come se testimoniassero indici reali di magnanimità, cortesia, correttezza, bontà e non mere convenzioni di comodo, tattiche di sopravvivenza e controllo.
Decenni di psicodrammi e thrilling ambientati in microcomunità, di fantascienza sociologica in genere, ce l’hanno rappresentato chiaro; la violenza repressa non alberga nei quartieri dormitorio e negli slums, semplicemente perché lì si scarica periodicamente e quasi quotidianamente, coinvolge invece i ceti abbienti dove rimane un tabù inviolabile e si connette con il male inguaribile della civiltà di freudiana memoria, con le censure e i divieti interiori che governano i meccanismi di contorte liceità e vuote convenzioni, delle speciose e menzognere apparenze, delle esclusioni inutili e sciocche per il traviamento dei concetti economici.
E infatti la metafora dell’affresco e del muro in rovina con la quale abbiamo esordito intendeva alludere a qualcosa di ben diverso dai riferimenti che ci hanno preso la mano all’inizio di questa concione: non a un atto di stravagante e disincantato eroismo, non al canto del cigno della cultura occidentale davanti a un’ondata di secrezioni corporali smerciate alla stregua di sovrana arte politica nel segno di Italo Gesù Machiavellicus, bensì all’esatto contrario, l’infame chiacchiericcio della pornografia dei sentimenti in un contesto di Grandi Sistemi disastrosamente frananti.
Ci riferiamo alla scellerata temperie in cui, nell’ambito dell’agone politico, ci s’infervora per questioni di diritto legate alla vita intima, familiare, affettiva delle persone (più variegata, nel suo complesso, di un fondale corallino in cui siano sprofondate le mercanzie di un immenso bazar di confine (immaginate la curiosità dei sontuosi pesci variopinti davanti ai tenui luccichi di antichi monili o ceramiche, ma non fatevi troppo affascinare perché potrebbe trattarsi della pubblicità di un televisore)) e intanto, nella totale indifferenza degli stessi polemisti, si avvertono già inequivocabili gli scricchiolii sinistri provenienti da travi e colonne portanti di un falansterio dalla inscindibile estensione planetaria.
Senza sminuire o denigrare l’importanza di normative che possono incidere pesantemente su particolari aspetti della vita privata (che potrebbero incidere se lo sfascio non fosse ormai imminente), lasciateci maledirne i deliberati intenti di copertura e distrazione, nonché stigmatizzare l’atteggiamento tendenziosamente subdolo di coloro che non ne discutono in qualità di nodi problematici attinenti a opzioni di scelta di cui valutare tecnicamente i pro e i contro, i vantaggi e gli svantaggi di tutti gli aventi causa, come per ogni altra legge dello stato, bensì ne fanno questioni di etica suprema attribuendovi tipi d’implicazioni pseudo-sacrali che, chissà come mai, scompaiono invece del tutto quando la discussione riguarda meccanismi ben più condizionanti e cruciali ai fini degli equilibri terrestri e del destino stesso della specie umana.
Noi sappiamo che i temi strategici basilari sono affrontati con la dovuta cura e perizia, rigorosamente elitarie e partigiane, dagli aventi diritto e nelle sedi esclusive decretate dall’ordine gerarchico delle priorità, sappiamo a quali strati compete il linguaggio della ragione pianificatrice, le previsioni e macchinazioni in grande, i verdetti sulle scelte planetarie ed epocali e a quali altri, invece, l’orgoglio e il puntiglio scioccamente democratici della chiacchiera infinita, le esibizioni dell’intenzionalità più generosa, le velleitarie profferte di sollecitudine e carità, gli obblighi pregiudiziali di una inerte rettitudine, l’esercizio politico delle sensibilità tenere e sottili: a chi spettano gli interessi puri e spietati, che non scendono dall’olimpo e non si mischiano con il volgo, e a chi quelli dissimulati e contorti, destinati a vagare in un gelo ostile protetti dai manicotti di piume dell’ipocrisia.
Sentite nelle piazze e su Internet discutere i temi kolibiani? Nell’’uomo comune dovrebbe ormai albergare in pianta stabile, con un’alta incidenza statistica, se non proprio l’esatta cognizione di causa, perlomeno il sospetto che il cosiddetto progresso si è ormai ridotto a una marcia forzata, a passo dell’oca, verso un baratro imminente, di conseguenza la gente dovrebbe appassionarsi al tema delle soluzioni possibili ed esigere che tenga banco in tutti gli scenari sensibili alla pubblica opinione. Perché non avviene? Perché dilaga una stupidità darwiniana, una stupidità che serve per vincere e primeggiare. I luoghi dove si decidono le sfide professionali e quindi il destino economico dei singoli rimangono gli scenari sociali, i diversi tipi di aggregazione comunitaria: quanto più questi diventano complessi, tanto più, per sentirsi bene, comodi e rilassati al loro interno (se il godimento della dialettica sociale come evento fenomenico a sé stante non è reale, intimamente vissuto, la fatica della finzione costa troppo dispendio energetico e svantaggio competitivo) occorre smussare molteplici facoltà di acume e di critica, per cui i processi di complicazione automatica procedono di pari passo con la stereotipizzazione delle psicologie, ovvero degli atteggiamenti, delle motivazioni, degli scopi, all’insegna della facile commerciabilità e della fruizione veloce.
Alla fine i leader non presiederanno più alla Settimana della Moda o al Festival dei Vini di Lusso per un dovere imposto dal rapporto import/export, ma con prorompente slancio vitale e cogliendo più che volentieri un’occasione golosa per rilanciare il tema della ‘fiducia’. Quindi mi tocca già correggere la vena di ottimismo palesata nel precedente paragrafo: i ‘grandi’ si occupano di sicuro in segreto delle tematiche effettivamente grandi, ma la cura e la perizia, perfino nel difendere i loro stessi interessi, rimangono tutte da dimostrare. E se i ‘grandi’ si rivelano piccoli, non vale la pena illudersi: i piccoli diventano di conseguenza più piccoli ancora.
Ed ecco quindi che, al confronto, quasi dovremmo consolarci per il solito farneticare mitologico sull’istituto della famiglia come cellula divinamente sancita che fonda una volta per tutte la complessione altrettanto metafisicamente determinata di un sistema unico e assoluto di produzione e distribuzione dei beni, per le solite panzane dementi o infantili di chi chiude gli occhi stizzito e stringe convulsamente i lividi pugni intorno alle tempie (così, mentre urbanamente discettano con un manico di scopa infilato da dietro, si rivela il loro spirito e la loro mente allo spirito e alla mente dei saggi) insistendo a negare nevroticamente l’unico vero Dio dell’Universo, il mutamento incessante, inesorabile, afinalistico e insensato: non quello solfeggiato dai faziosi pifferai strapagati dall’Anonima Imbonitori, che intende solo farci cadere ciechi e legati nel fossato profondo di qualche bunker-castello del militarismo tecnologico, non quello raccomandato dai preti economisti (ricordate come li descrisse il Profeta: finti scienziati più ottimisti dei baciapile anche perché si accontentano di molto meno riguardo al destino di tutti, ma soprattutto degli altri), quelle serafiche piattole di arbitri venduti che predicano ‘la fiducia’ insieme alla riduzione a macchine da lavoro di ogni membro del popolo lavoratore (tutti coloro che non hanno sangue blu) per cui il messaggio delle Parrocchie Riunite alle forze vive della gioventù suona alla fine così: buttati con fiducia a capofitto in un’occupazione, se ti sorride la miracolosa fortuna di trovarne una qualunque, fiducioso che se anche una decina di anni prima di arrivare a una pensione ridotta e procrastinata sempre più ti daranno un calcio in culo irreparabile perché troppo vecchio e inefficiente o per qualche ristrutturazione interna in forma di minuetto cerimoniale delle proprietà finanziarie, se anche dovesse accadere questa minuzia eventuale, troverai ad accoglierti le braccia spalancate di Madre Chiesa Cattolica Apostolica che, in cambio della tua, ti concederà ampia carità, cioè comprerà i tuoi servizi o la tua pura inerte presenza nei lazzaretti, negli ospizi, nei recinti di sussistenza e contenzione ripieni di esemplari umani ridondanti, inutili (soprattutto a se stessi) e dannosi (a sé e a tutto il resto, anche se mai come lo strato dei capetti intermedi), ma santi, santi, santi, perché sottolineano lo stato di miseria terrena, additando nel contempo il premio e il risarcimento della gloria ultraterrena, nonché il potere mirifico di chi, democraticamente ormai, nello spirito dei tempi, la rappresenta e può magari ghignare divertito ricordando un'altra ipotesi di destino escatologico, la versione relativistico-kolibiana dell’eterno ritorno nicciano, la ripetizione infinita di tutto, quindi del successo dei buoni pastori come della inquinante e proliferante miseria del gregge che fanno pascolare.
Ragione per cui, brevemente e giusto per cogliere l’occasione, si rivolga ora un riverente e commosso pensiero alla Teresa santissima e al carico esorbitante di dolore che potrebbe avere caparbiamente trascinato nel tempo per un infinito numero divino di sacre ripetizioni: intermezzo o divagazione forse non così inutile se può servire a sottolineare come esistano weltanschauung (tra le quali, eh sì, quella kolibiana) per cui il bene supremo può facilmente tramutarsi nel male supremo e viceversa. Sia che siano ignorate o non ignorate e però criminalizzate (secondo l’uso comune) o ascoltate con il risultato di rivolgersi ad approcci completamente diversi da quelli adottati finora per affrontare il futuro, solo istanze sgradevoli e pericolose richiamano (sissignori, è così!) l’unico concetto vero di rivoluzione in senso propositivo e non catartico-mitologico, rivoluzione che è poi l’uovo di Colombo che i pazzoidi dei piani alti o bassi non hanno mai voluto vedere e che così si esprime: individua, realisticamente e non moralisticamente, i beni primari di cui l’individuo necessita (l’individuo, non le masse, dato che nel regno animale esistono soltanto individui (corredi genetici) più o meno organizzati) e trasforma lo stato in una macchina collettiva per realizzarli, per soddisfare cioè quelle esigenze minimali che, opportunamente assolte nella loro interezza, evitano il gioco sordido delle compensazioni, delle sublimazioni, dei risarcimenti nevrotici a cui attinge a piene mani la fenomenologia della violenza, della sopraffazione e del potere. Subordina poi ogni altra concessione economica alla sostenibilità ambientale. Se si devia subito da queste premesse elementari o si chiude gli occhi sull’unico metodo per realizzarle (quello progettuale, esatto, bravi bambini!) ci si troverà sempre in un mondo infestato da automi di sopravvivenza e gradassi o finti eroi il cui abbaglio è l’unica macchia che gli intelletti ciechi riescono a distinguere dall’uniforme grigiore.
Una giustizia somministrata come cura da cavallo a mandrie indifferenziate di sonnambuli che si spargono per il mondo più dannose e voraci di sciami di cavallette è vera giustizia o soltanto il delirio di grandezza degli autarchi? Se si affoga la bellezza della libertà e creatività (intese anche come arbitrio, stravaganza, irriducibilità, disturbo, trasgressione) nell’ordine intrusivo e condizionante della uniformità e unanimità dogmatiche, di leggi tagliate su misura per determinate categorie psicologiche e non per altre (come è sempre e comunque inevitabile nell’attuale sistema di razzismo economico), ci si trova inevitabilmente davanti al bivio tra barbarie e autoritarismo.
Non esiste alternativa al nominare arbitro delle contese tra fisionomie antropologiche diverse e inconciliabili la razionalità scientifica intesa come metodo supremo d’indagine del mondo naturale e quindi delle leggi oggettive di un universo su cui l’uomo non ha facoltà di scelta e discussione: Dio, se per assurdo esistesse (se siete arguti e curiosi, potete andarvi a leggere la definizione su dizionari ed enciclopedie e divertirvi a scovare tutte quelle assurdità logiche che Dio, in quanto tale, si può permettere di bypassare; infatti (suggerimento!) hanno ragione i fini semiologi quando beffeggiano la pretesa di certi scienziati di risolvere il mistero dell’universo, dato che uno scienziato non può nemmeno concepire qualcosa di definibile come il mistero dell’universo: un mistero è qualcosa di risolvibile attraverso una spiegazione, ma il mistero dell’universo in quanto tale equivale al mistero dell’esistenza in quanto tale, che quindi, se risolto, rinvierebbe a qualcosa di esistente che, in quanto tale, sarebbe a sua volta un mistero della medesima grandezza, più complicato e quindi meno perspicuo; qualsiasi mistero fondamentale rimane dunque appannaggio delle mentalità religiose, che infatti possono spiegarlo tramite Dio, che infatti, in quanto tale, ovvero ‘diversamente esistente’, non ricade in quelle difficoltà che invece incontra ogni modesto scienziato. Cambiando lievemente prospettiva si potrebbe però anche dire, e qualche malignaccio lo fa (io me ne guardo bene), che la scienza si occupa di veri misteri assoluti (quelli non risolvibili), massimamente affascinanti, la cui essenza costituisce l’oggetto di comprensione e non spiegazione (vedi Dilthey, Jaspers eccetera) che guida la religiosità autentica, mentre le religioni istituzionali considerano soltanto misteri fasulli, misteri che non si possono comprendere né spiegare, ma solo fraintendere, misteri risolvibili mediante colpi di scena degni di maghi da fiera e fattucchiere ambulanti)… che cosa stavamo dicendo prima di questa lunga parentesi? Ah, sì: Dio, se per assurdo esistesse (se siete arguti e curiosi… Altolà! Ah, ah, ah, mi stavo avvitando… approverebbe di sicuro: altrimenti che cosa se le sarebbe inventate a fare (le leggi)? Almeno quelle sono leggi grazie alle quali si può addirittura far funzionare gli iphone e i cellulari con Twitter e le app, gli elettrodomestici, il volante riscaldato e la telecamera posteriore: quanto ai cosiddetti principi morali, invece, ogni essere umano può cucinarseli a suo modo e se esistono ricette standardizzate da gustare insieme si devono più che altro a sovrapposizioni d’interessi di varia natura, ma soprattutto economica.
Ne volete un esempio concreto e attualissimo? La solidarietà e l’accoglienza nei confronti delle masse in fuga da varie calamità. Il solo modo funzionale di attuarle esigerebbe l’allestimento tramite organizzazioni specifiche (a coordinamento internazionale) di campi profughi con capienza e distribuzione adeguata, dislocati in aree di proprietà demaniale o ecclesiastica, attrezzati come centri di residenza provvisoria, in attesa che la situazione originaria si risolva, finanziati nel frattempo da sovvenzioni internazionali, prelievo dai redditi alti o tasse particolari impostate secondo una progressività adeguata. Ovviamente dovrebbero essere attivate tutte le necessarie operazioni di schedatura e controllo. Modalità di accoglienza così intese danneggerebbero però i ricchi e l’economia ecclesiastica. D’altra parte con il 40% di disoccupazione giovanile (che equivale a un buon 80% circa di male occupati, sotto occupati e precari e a un’altra enorme fetta (più del 50%) di soggetti condannati a vita alla instabilità aleatoria e alla semi-indigenza anche escludendo ulteriori scombussolamenti) è un po’ difficile programmare in modo organico un inserimento ordinato in un complesso economico preesistente. Quindi si opta per una immissione attraverso le falle di raffazzonate stazioni colabrodo, coadiuvata da un volontarismo sporadico dagli scopi variegati e spesso ambigui, una dispersione anarchica che implicitamente prevede un utilizzo dei migranti alla stregua di manodopera svalutata che abbassa il costo del lavoro, rimpingua la manovalanza criminale ed esalta il potere di chi dispone del monopolio di carità o specula sui flussi elettorali del futuro. In questo modo si danneggia un grande numero di sudditi qualunque, si deprime e si proietta al di fuori di qualsiasi possibilità di recupero la condizione dei ceti più bassi, contribuendo anche a svalutare la piccola proprietà. Occorrono perciò rimedi intelligenti, scelte ponderate e responsabili. Vediamo: ricchi e clericali sostengono i privilegi e condizionano le carriere dei decisori politici (già appartenenti, in genere, a ceti elevati), inoltre, con le loro feste, mostre, fondazioni, interventi vari e varie iniziative, sostengono la gente di spettacolo e gli artisti in genere (i quali, se ormai dipendesse solo dal popolo populista, farebbero la fame), sempre umanissimi e generosissimi (a parole), d’altra parte i mediocri e semi indigenti stanno diventando una maggioranza che si rivela sempre di più determinante al fine del risultato elettorale. Un bel dilemma: che si fa? Per il momento si fa un certo tipo di casino, poi se ne inventeranno di nuovi. Nel frattempo nessuno si domanda che cosa ci stanno a fare la maggior parte delle istituzioni sovranazionali, compresi l’ONU e la banca mondiale, se in numerosi decenni e con gli enormi fondi gestiti non sono stati in grado di predisporre politiche d’intervento efficaci in caso di emergenze, tra cui i flussi profughi rientrano tra le più comuni e scontate (quando, tra non molto, le migrazioni per motivi ambientali cominceranno a intensificarsi insieme a nuove guerre a esse collegate che cosa potrà mai accadere sotto un tale ombrello protettivo offerto dai governanti mondiali?). Viene quasi il sospetto che ONU e compagnia bella consistano soprattutto in una gestione di cassa per la formazione e il sostegno delle classi dirigenti planetarie: benestanti di tutto il mondo, unitevi!
Altre possibilità, rispetto all’oscillare tra un casino e l’altro, non esistono, se ci si ostina a non voler prendere atto di verità lapalissiane concernenti le difficoltà irreparabili di modelli istituzionali ed economici ormai arrivati al limite di resistenza, ben oltre quel livello di dissesto per cui rimangono ancora concepibili occasionali interventi localizzati e ancora non s’impone una revisione drastica e profonda delle logiche strutturali d’impianto complessivo.
Oggi, comunque sia, la stolida acquiescenza, in buona fede o meno, al gioco diabolico del buonismo foglia di fico, inventato dai possessori dei brevetti di sacralità anche laica, viene curiosamente ratificata sotto la strana locuzione ‘avere una coscienza’. Sissignori: oggi può vantarsi di disporre di una coscienza soltanto chi acquista e pratica, meglio se per istinto e con fluidità irriflessiva, una cultura arcaica risalente a epoche antecedenti alla nascita della scienza moderna, il che non esclude affatto dalla cuccagna scienziati anche di grido, è sufficiente che costoro si astengano dai peccati di orgoglio e vanità e quindi limitino le proprie competenze a un ambito meramente tecnico e settoriale, badando bene che non sconfinino in cose ormai giustamente squalificate e vilipese dai carrieristi di complemento come una cultura interpretativa della realtà quotidiana e una visione del mondo non pre-masticata e pre-digerita, altrimenti rischiano bacchettate sulle mani dagli impettiti stranamore del pensiero debole e della semiologia schiacciasassi, gli apripista con velluto rosso del confessionalismo conclamato o in incognito.
Si arriva così al miracolo che possiamo considerare la massima dimostrazione della verità di ogni credo confessionale e della potenza degli spiriti santi: la scomparsa dalla dialettica delle dominanze concrete, effettive, come sotto i raggi disintegratori inventati da un’antica fantascienza popolare, di innumerevoli nozioni considerate certe e inconfutabili in ordinari corsi universitari, non solo scientifici, ma di storia, economia, sociologia eccetera, e la loro sostituzione con costrutti di pura fantasia che distorcono, falsificano, adulterano e contaminano la sostanza delle questioni in barba alle più elementari e scontate analisi critiche, i cui propugnatori superstiti aggiungono miracolo a miracolo rimanendo compiti e prudentemente svagati, facendo elegantemente spallucce davanti allo scempio di chi, con la benedizione indulgente e distaccata di capini, capetti, capponi caporali e capoccioni oni oni irride e calpesta le conquiste e i capisaldi di secoli di libera indagine in libero pensiero.
Ormai un farabutto o un imbecille qualsiasi ha diritto di pontificare dall’alto della sua posizione di anima eterna benedetta dal cono di luce di Dio (quindi edotta e sapiente per dono primigenio e originale) o di affiliato a uno o l’altro dei gruppi di pressione autorizzati (che riceve promozioni, abilitazioni e titoli di saggezza attraverso il mero esercizio di una fedeltà), ignorando non questo o quel meccanismo specifico, come sarebbe del tutto normale, bensì l’esistenza stessa di meccanismi neutrali, sistematici, oggettivi, indipendenti da qualsiasi desiderio, opzione, intenzione, facoltà, insiti nel comportamento umano come si manifesta ai suoi pseudo-attori, in realtà spettatori primari; ormai è considerato inammissibile quello che soltanto una generazione prima le persone pensanti erano abituate a considerare come fatto acquisito, ovvero che qualsiasi interazione umana è ben lungi da una perspicuità soddisfacente e non si esaurisce e ancor meno si rispecchia in quello che i protagonisti sono consapevoli di agire, affermare e alla fine essere.
Ormai si è liberi d’ignorare, non solo l’intricata trama dei fili da marionetta che nei testi storici e letterari si presenta come destino dei simboli e in quelli psichiatrici come meccanica dei sintomi, ma perfino i portati più elementari delle comuni esperienze condotte senza fette di salame sugli occhi, la banalissima ineluttabilità dei meccanismi di selezione darwiniana presenti in tutti i contesti d’interazione tra organismi viventi oltre una certa soglia di complessità, per cui ciò che s’impone sopra qualcos’altro lo fa in virtù di macchinismi che ne sanciscono in un modo o nell’altro la forza maggiore, il che vale anche (non può non valere) per le più nobili idealità: se queste dominano in assenza di ricadute pratiche ed effettive, significa (non può non significare) che sono funzionali a ben altri intendimenti che a quelli dichiarati.
Ecco perché ‘avere una coscienza’ oggi è una qualità rara: perché implica doti sopraffine di finzione e camuffamento, a volte involontarie, ma sempre sottili al punto che nessun animale ‘inferiore’ potrà mai possederle, a conferma di quanto sia elevata la posizione dello spirito umano.
Quanto ad assolversi per una certa qual forzatura della verità, è facile, basta tirare in ballo una verità superiore, quella che ogni nobile mente può costruirsi decretando lo statuto automatico e pregiudiziale della propria preminenza ontologica, equiparandosi a un piccolo dio che non si trova coinvolto in eventi fondamentali, ma solo accidentali o accessori, perché gli eventi fondamentali, prima di tutto se stesso, li costruisce da sé mediante atti divini di autocreazione (cattiva digestione, turbe organiche e magari un milligrammo di un certo composto permettendo), tramite i quali può evocare, insediare e dimostrare i tipi di divinità che più gli interessano: se ben difficilmente un manager per istinto naturale può sottrarsi al fascino di una tale strategia esistenziale, immaginate se potrebbe farlo un politico di vocazione, un amministratore di cosa pubblica, qualsiasi demagogo di destra o di sinistra, ai quali, tra l’altro, il messaggio kolibiano deve suonare stranamente ambiguo: da un lato, dando per scontata la continuità dell’esistente, conferma l’ineluttabilità extra morale di certi atteggiamenti e quindi rassicura, dall’altro, guardando invece al futuro come regno di ogni possibilità, comincia a scoprire i fianchi dello schieramento protetti dalle giustificazioni truffaldine e ipocrite, a causa, certo, di resipiscenze ancora minoritarie, che potrebbero però crescere a dismisura, in tempi rapidi e in modo imprevedibile, come accade per ogni autentico fenomeno rivoluzionario, lasciando come al solito interdetti e basiti tutti i più raffinati commentatori e analisti che tastano quotidianamente il polso della società.
Tra anni, decenni o (pochi, pochissimi secoli)? Boh!
Nessuno s’illude che teste fini, assolutamente ignare e impotenti davanti a sommovimenti radicali della trama ontologica a qualsiasi livello, non dispongano comunque di ampi mezzi per protrarre con accanimento terapeutico l’agonia di un modello moribondo di società. Inoltre, può darsi che l’abbraccio a Cuba (dove langue il più clamoroso esperimento fallito della Storia, la più grande occasione persa, la dimostrazione euclidea del moralismo teocratico, idiota e autoritario, che pervadeva il socialismo sovversivo e i suoi eroi trascinatori di un popolo mollusco come la Teresa del suo carrozzone di larve dolenti), lo strofinio tra il sultano religioso di Mosca e quello di Roma (capi di due confessioni divise da bizantinismi di pura lana caprina, quindi per meri motivi di potere etnico, geografico, territoriale) preluda a un cambio di strategia capitalista del tipo, ascoltate bene: “Esiste una seria minaccia di rivoluzione? Certo, il momento è critico e noi abbiamo le polveri bagnate. Quasi, quasi, seguendo nostre collaudate capacità di rigenerazione nella fissità, di figure simmetriche che rimangono immutate dopo la rotazione, basta calibrare l’angolo, rispolveriamo l’usato sicuro di quel comunismo che ha storicamente dimostrato di essere facilmente gestibile dall’alto, quindi da una cupola di magnati demiurgici e teocrati paternalisti altrettanto bene o male (bene per chi comanda) che da un ceto di burocrati ideologizzati, dai Rasputin del KGB come dai funzionari giulivamente snob del cooperativismo dirigista e pedagogico o i moderati d’assalto del Milan football club. Che cosa cambia, in fondo, passando dagli uni agli altri e viceversa, se prescindiamo dal maggiore o minore impulso insufflato a un progresso materiale e tecnologico, che del resto ha già svolto la sua opera emolliente e civilizzatrice e sta ormai mostrando il fiatone? Slogan e linguaggi si adeguano con facilità: basta che i nostri mad men sostituiscano i singoli termini (‘competere’ con ‘marciare insieme’, ‘innovare’ con ‘credere’…), dopo di che l’enfatizzare e il locupletare è il medesimo. ”
Comunque sia, con i giochi di prestigio, cioè, della dissimulazione di più fondamentali avidità sotto le lucenti e vaporose e fichissime foglie salvapudore di una spiritualità ambiziosa e inquisitoria, della prosopopea mistificante di sedicenti maestri di civiltà che riescono a fare carriera solo rompendo le scatole al medio cittadino ‘qualunque’ (danneggiato anche se consenziente per circonvenzione e plagio), senza produrre mai niente di funzionale, di armonico, di veramente rigoglioso e prospero, in mezzo dunque a tale sciupio di risorse mentali immolate ai sofisticati egoismi che si circondano di killer morali, la rovina avanza a passo di danza irridendo il cicaleccio seborroico degli umani con la bellezza di una essenziale e inesorabile consequenzialità.
Ah, come ci disgusta profondamente sentire persone, peraltro del tutto noncuranti riguardo al saccheggio del pianeta da parte del genere umano, elevarsi a custodi di una presunta naturalità sancita dal solito ipotetico ‘Dio’ (fideiussore e garante delle buone virtù alto-borghesi tanto più in quanto si protende caritatevole verso le masse informi, inani, sottomesse, private del sale e del lievito della libertà individuale), il quale, con la mano sinistra sporca di olio e di terra, in un’ora, avrebbe creato tutte le galassie e tutti gli animali ‘inferiori’, quindi, in cinque giorni e ventitré ore, prima del meritato riposo domenicale, con la mano destra inguantata di stoffe preziose e inanellata di gemme, si sarebbe dedicato a quella origine del mondo detta anche UTERO DELLA DONNA.
Non discuto che l’utero di competenza sia importantissimo per ogni uomo maschio o femmina, mi meraviglio che ogni donna, compatibilmente con i diritti di terzi e la preservazione di una certa regolarità comportamentale legata alle normali circostanze della vita (da valutare secondo gli ordinari strumenti del diritto e dell’igiene civile) non possa farne quello che vuole senza incorrere nelle censure comminate dalla casta che detiene monopolisticamente i diritti di consacrazione etica suprema.
Mi stupisco che a regolare il sistema delle adozioni presiedano evocazioni fumose di leggi eterne e vincoli metafisici piuttosto che criteri scientifici di valutazione del gradimento effettivo dei minori coinvolti, tenuto anche conto che gli studi storici e antropologici rivelano un’estrema variabilità, convenzionalità e artificiosità di usi e costumi legati a situazioni climatiche ed economico-territoriali di cui le credenze ideologiche e gli schemi culturali costituiscono, se non fantasiose rielaborazioni a posteriori, coesistenze simboliche implicate dinamicamente nelle forme di adattamento sociale.
Ma quale autorità ha conferito a quei falsari il diritto di stamparsi in casa licenze a emettere giudizi privilegiati, nonché l’uso esclusivo di marchi divini e sempiterni, se escludiamo una risicata e prosaica prevalenza numerica di cui nessun purista religioso serio vorrebbe approfittare? Dov’è scritto che, in uno stato laico per Costituzione, giurare credulità e obbedienza a una struttura barocca che professa dogmi strampalati e si presenta come interprete di un’entità di cui non esiste neppure un concetto univoco e coerente (con il sottinteso increscioso che della chiarezza dei concetti necessitano soltanto i laici aridi e limitati, mentre il fedele dispone di sovrumane doti d’intuito e sensibilità), concede la facoltà d’interferire da un pulpito sopraelevato nelle scelte esistenziali degli altri?
Interferire per precauzioni etiche (non morali!!!!!) basate su argomenti razionali rientra nell’esercizio di ogni democrazia, ma è anche giusto che giudizi etici contrastanti si sottopongano vicendevolmente al calcolo della tara degli interessi, degli equivoci, delle predisposizioni congiunturali: perché questa salutare forma di grooming critico, di reciproca disinfestazione interpretativa deve rispettosamente fermarsi e arretrare davanti alle pretese di chi aderisce a una fede per una propria scelta insindacabile, ma anche arbitraria (se fosse nato in una tradizione storica e culturale diversa professerebbe, molto probabilmente, una fede diversa). Egli ha senz’altro il diritto di ritenere che tale scelta rappresenti un adempimento forte e fondamentale del proprio stile di vita, ma non ha nessun diritto di pretendere tale riconoscimento da parte di chi a tale fede è estraneo ed effettua scelte diverse: sarebbe come pretendere un attestato di superiorità che implicitamente attribuisce alla laicità difetti di discernimento, limiti caratteriali, lacune emotive, superficialità d’intenti, come osò fare una volta un pluridecorato campione del socialismo nostrano.
Ovviamente vale il viceversa, ma solo finché il laico e il religioso cuociono ciascuno nel proprio brodo, il che di fatto avviene in periodi di normale amministrazione, dove l’interazione avviene nel contesto anodino e irriflessivo delle incombenze quotidiane, sociali, amministrative, nell’ambito di una comune base storica, etnica e biologica: se si tenta un dialogo su argomenti d’importanza strategica e capitale il laico ha tutto il diritto di pretendere che si giochi nel proprio campo e cioè si parli esclusivamente il linguaggio della ragione e ciò a prescindere che il laico possa essere più idiota di un religioso e usare i concetti in modo più confuso e velleitario: un conto è il principio, un altro la sua attuazione, ovviamente. Le capacità razionali appartengono a tutti gli uomini a prescindere dall’origine e dalla provenienza; in forma di adattamento consapevole all’ambiente costituiscono la base universale di ogni tecnica di sopravvivenza; ogni connotazione fideista è invece relativa e arbitraria, individualmente modulata in modo spesso ambiguo e indecifrabile, con caratteri generalizzabili solo in quanto, a loro volta, assumono caratteri strumentali di ausilio psicologico e di coesione sociale, quindi di adattamento mediato, indiretto, allegorico, culturale nel senso antropologico del termine. Su quale altra base che non sia quella di una disamina scientifica dei problemi (in senso lato) i due fronti potrebbero sperare d’incontrarsi e d’intendersi?
Ah, già! Su quello dei comuni, fondamentali, connaturati, istintivi valori e sentimenti umani: come ho fatto a non pensarci? Ditelo a quelli di Wall Street e dell’ISIS che ancora non l’hanno capito, comunicatelo a tutti i popoli e le fazioni che attualmente si trovano in stato belligerante, su, svelti, che cosa state aspettando, quante persone devono ancora morire per la vostra pigrizia di burocrati prima che la verità trionfi?
Se tali valori e sentimenti esistessero, dovrebbero essere tradotti in disposizioni pratiche, normative, comportamentali, moduli d’interazione specifica tra i singoli soggetti, rendendo di fatto la politica una sinecura puramente amministrativa, le differenze ideologiche nell’arte di governare superflue e ridondanti e infine i decorsi storici e sociali monotoni e prevedibili. Insomma: se tali valori esistessero non dovremmo essere tutti cattolici o socialisti, ma tutti kolibiani. Potremmo applicarli, rinunciando al babau di Dio, divertirci perfino a fare le pernacchie a papi Dione, di sicuro si divertirebbe più che a sentire le solite tetre litanie, o almeno ce lo dobbiamo augurare dato che un dio permaloso che si preoccupa del rispetto delle sue creature, che le vuole prone, ammucchiate, belanti o squittenti, non può essere un dio di alto lignaggio, anzi: deve trattarsi proprio di un dio di infima tacca, come purtroppo dovremmo sospettare accettando l’affermazione che Dio ha creato l’uomo (dopo qualche tentativo poco riuscito con orango, gorilla, scimpanzé) a sua immagine e somiglianza.
Se esistessero valori universali e cogenti inerenti allo spirito umano il progresso tecnologico nei secoli non si baserebbe sostanzialmente, come invece è accaduto e continua ad accadere, sui ritrovati dell’industria bellica e delle emergenze conflittuali ivi comprese le competizioni feroci tra aziende per la paranoica ambizione dei boss; avrebbe incrementato, insieme al PIL, il FIL e la bellezza e vivibilità delle aree comuni in ogni parte del mondo; non avrebbe determinato un tasso globale di estinzione delle specie viventi milioni di volte superiore a quello naturale in assenza di eventi catastrofici (la catastrofe attuale si chiama quindi, senza dubbio alcuno, Umanità); non provocherebbe sbilanciamenti abissali nella distribuzione delle ricchezze dimostrando, molto al di là di inutili considerazioni moralistiche, che cosa effettivamente rappresenti l’unico motore efficiente del progresso economico (non di questo o quello: del progresso economico in genere, inesorabilmente darwiniano, almeno in assenza di quel rovesciamento di paradigmi che nessuno a destra o sinistra è mai stato in grado di attuare); non determinerebbe la crescita continua del già immenso sciocchezzaio o stupidario imputabile al decadimento di un livello medio di provvista culturale la cui bassezza non è certo un caso, ma si trova legata a filo doppio (darwinianamente!), a necessità di resistenza e salvaguardia socialmente determinate; non irriderebbe spiritualisti e anime belle paragonando l’assenza di effettività dei loro vuoti dilettantismi con l’incidenza sociologica praticamente assoluta dei tecnicismi produttivi e distributivi, dei macchinismi d’impianto funzionale, tanto che le istanze morali e sentimentali rappresentano ormai soltanto aste e fili di comando per manovrare l’elettore servo sciocco e bamboccio, strumenti dei burattinai della politica e di una religione che, in assenza totale di corrispettivi ontologici, si risolve interamente in una forma ambigua di politica borderline, giocata su penose sottomissioni della plebe alle invenzioni sceniche degli apparati di propaganda.
Non sarò certo io a negare che, in quanto a primato simpatia, marketing escatologico, formula convenienza, paghi uno e compri tre, il Dio cattolico si ponga un bel tratto al di sopra di tutti gli altri (al punto da mandare in bestia certi settori di fedi rivali fino a un misto di invidia e disprezzo che forse non è estraneo nella genesi di certi estremismi), ma si dà anche il caso che la sua estrema permissività e inclinazione al perdono convenga troppo a chi è in grado di commettere peccati socialmente rilevanti (ci importa poco di altri tipi) e che scarsa tassatività o carenza di rigore normativo vengono volentieri sacrificati dalle classi detentrici dei diritti di rappresentanza in cambio di un’aprioristica potestà inviolabile da accettare sic et simpliciter a scatola chiusa come un Mistero tanto assoluto e definitivo, quanto sicuramente benevolo.
Di esso i profani nulla sono e saranno mai in grado di sapere e capire, tranne che è appunto misericordioso, ma solo per chi se lo merita.
Ci si deve fidare del potere misericordioso. La misericordia è il contrassegno del potere migliore che possiamo sperare, ma la misericordia implica vari gradi di trasgressioni da perdonare: ci possiamo fidare di un dio che si preoccupa delle trasgressioni e che però ci impedisce di capire in che cosa esse effettivamente consistano, dato che DNA e fattori ambientali alla fine decidono tutto (almeno finché scienze e medicina non ci raccontano solo delle purissime balle)? Certo, basta essere ottimisti e fiduciosi, di quell’ottimismo e di quella fiducia che costituiscono cambiali in bianco per i poteri gerarchici precostituiti.
E poi ci si lamenta dello scarso spirito civico e di partecipazione responsabile alla cosa pubblica dei latini!
Supponiamo invece che una metafisica base comune rappresenti un sogno chimerico, che l’Uomo (con la maiuscola), come conseguenza dei caratteri tipici di una ‘strategia neurale’ caratterizzata dalla fluidità metamorfica delle potenzialità manipolatorie, non esista, ma esistano soltanto popolazioni e individui umani ‘gettati’ in situazioni congiunturali (storiche, etniche, geografiche…) assai specifiche e tali dunque da essere difficilmente confrontabili gli uni con gli altri perché troppo legati alle peculiarità del contesto: che cosa può meritare l’appellativo di universalmente giusto e morale al di fuori di una ricerca tecnica e razionale di assetti che massimizzino (almeno algebricamente) la qualità media delle singole vite e presiedano a un confronto ordinato e produttivo di aree e settori diversi?
Quindi, cari signori, sia che valori e sentimenti ecumenici esistano, sia che non esistano, si dovrebbe essere sempre kolibiani e non cattolici (mussulmani ed ebrei, come del resto taoisti, buddisti eccetera, senza essere migliori o peggiori, esulano da questo tipo di discorso, dato che sono avulsi da qualsiasi forma di pan-proselitismo pacifico e vellutatamente fagocitatorio e quanto a protestanti, calvinisti e così via seguono una sorta di neo-confucianesimo troppo compenetrato di etica civile per essere considerato un’autentica religione).
In fondo il cattolicesimo non è che il kolibianesimo degli ignoranti, e non è forse un caso se il kolibianesimo è nato nel paese cattolico per antonomasia: ciò, fissatevelo bene in testa, non è detto per gli ignoranti (dato che qualsiasi forma di persuasione non può mai essere così radicale da cadere al di fuori del raggio di apprensione delle mentalità da persuadere, le quali, se il messaggio è troppo ostico, davanti a un corpo estraneo, anziché diventare più duttili e possibilisti tendono a irrigidirsi sempre più): è detto a beneficio e istruzione di quei cattolici o pseudo-laici smaliziati che magari intuiscono bene quanto sopra, ma, da atei camuffati per ragioni di opportunità politica, spirito patriottico e/o retaggi nostalgici, insistono ad ammantarsi negli orpelli esteriori e formalistici del cattolicesimo. A costoro in verità, in verità io dico di continuare pure a recitare sotto i costumi di scena che più affascinano il pubblico in sala, ma che si ricordino sempre: o il kolibianesimo o il caos.
Se rientrasse tra i miei interessi compromettere l’audience di colleghi esperti in arti demagogiche quanto digiuni di competenze profetiche (quindi cultori di branche non concorrenziali) manderei volentieri una strizzatina d’occhio a certi caporioni in abito talare, a essere sincero la sto mandando al mio pari in grado proprio ora, da questo medesimo paragrafo, ma solo perché convinto che nessuno di quelli che si prostrano davanti alla bigiotteria del potere teocratico abbia le capacità mentali di leggere e comprendere la Bibbia Kolibiana, mentre presso gli osservatori in grado di accedervi l’apparente irriverenza qui sciorinata apparirà al massimo come un rituale e virtuosistico sfondamento di una porta aperta.
Questo irrompere di potenza in un vano indifeso da parte di noi liberali centristi kolibiani diverte un sacco gli astuti marpioni di quelle ‘sinistre’ che stanno cercando la quadra tra un realismo sociologico governato da leggi oggettive e l’arte di una politica sempre inevitabilmente consustanziata di fantasmagorie e illusionismi. Del resto, anche ai tempi d’oro del marxismo scientifico, non è affatto sottinteso che i suoi adepti (incluso lo stesso Marx, probabilmente) avessero compreso appieno o anche solo vagamente intuito quali rapporti effettivi potessero mai introdursi tra il mondo fisico dei fenomeni naturali e quello storico e sociale delle vicende umane.
Ovviamente o il primo ingloba il secondo o viceversa, ma soltanto la seconda soluzione può avallare scelte di tipo religioso, anche se alcune fedi, come il calvinismo e certe dottrine orientali, di fatto rasentano un panteismo indifferenziato, kolibiano ante litteram. Ogni sinistra non socialdemocratica ha comunque guardato con malcelata simpatia all’ingegnosa declinazione cattolica del problema: un realismo di tipo psicologico circa le effettive, fisiologiche, costituzionali attitudini e aspirazioni umane, da una parte, dall’altra le tecniche di dominio più idonee a condizionarle evitando attriti e contraccolpi pericolosi, riassunte in una manualistica prescrittiva fondata su una ricostruzione leggendaria del mondo che, tralasciando asperità e shock immaginifici propri di altre tradizioni, accentua gli aspetti da favola edificante.
In fondo si tratta di una narrazione pseudo-filosofica non molto dissimile da quella che orientava e orienta tuttora i seguaci di particolari socialismi utopici, salvo che il proverbiale e sintomatico trasformismo dei santi vertici, sempre attenti, come la vecchia FIAT, agli spostamenti a destra o a sinistra dei governi e delle pedestri ‘zeitgeist’ maggioritarie, offre molti suggerimenti su come adeguare certi millenari schemi sempreverdi alla moderna fantasy tecnocratica imbastita dalle oligarchie finanziarie sovranazionali.
Se non occorresse convincere anche il pianeta e gli automatismi di ascendenza fisico-matematica insiti nell’evoluzione dei sistemi cosmici dai più piccoli ai massimi e totali, direi che certe strategie confessionali meriterebbero un applauso a denti stretti, invece finiranno probabilmente in un bolso autoritarismo dogmatico che all’assalto ripetuto delle tempeste perfette originate nelle più diverse parti del globo saprà opporre soltanto la costruzione di lager ospedalizzati e isole di civiltà fortificate, a meno, ripetiamo, che la spiritualità umana, in quanto gemmazione di quella divina, non comandi effettivamente gli eventi naturali.
Sarebbe la solita tiritera se certi richiami non s’imponessero urgenti, a costo di diventare ripetitivi e ‘scassapalle’, in base a semplici constatazioni come quelle sottintese dalla domanda: è mai possibile che nessuno (prima di noi kolibiani) si sia accorto che, se si volesse davvero, come sottinteso dai futurologi ottimisti, calibrare il progresso economico in modo da migliorare effettivamente e non per finta e in modo grossolano e volgare la qualità media della vita terrestre (umana), assecondando le tendenze attuali (polarizzazioni dei redditi e incremento demografico che può al massimo rallentare, non fermarsi), ‘in pochi, pochissimi secoli’, anche ipotizzando un rendimento delle fonti energetiche del 90%, chiaramente assurdo e al di là di tutte le più ottimistiche previsioni tecnologiche, il calore generato equivarrebbe a quello prodotto dal sole sulla superficie del pianeta? Chi può pensare seriamente che la vita sulla Terra possa mantenersi in presenza di due soli al posto di uno? E se qualcuno se ne è accorto come mai non ha evidenziato la cosa sottolineando quindi: o la nostra criminalità psicopatologica da deliberato e metodico genocidio nei confronti dei posteri oppure la truffa inerente alla natura stessa del progresso misurato dagli indici econometrici, la turlupinante illusorietà dell’emancipazione di tutti tramite le forze propulsive dell’economia darwiniana?
E ancora: possibile che nessuno sospetti che, supponendo che esistano in merito piani consapevoli almeno in linea di massima e a maglie larghe (in modo oscuro e intuitivo (inconscio !?!) piani ne esistono di sicuro), la soluzione individuata dalle oligarchie, non disposte, probabilmente, ad accettare e modellare un rovesciamento profondo, radicale, sistematico degli assetti vigenti, si limiterà a diffondere società autoritarie contrassegnate da una crescita economica progressivamente ridotta a zero, fatto sufficiente, in sé e per sé (in mancanza di una revisione progettuale di tutte le grandi categorie politiche e sociali) a invalidare pretese che ancora si finge di considerare vive e vegete di democrazia liberale e comunque catastrofico perché si oppone al calo naturale delle nascite e alla maggiore sensibilità ecologica propiziati da condizioni più agiate?
Quindi, nello strizzare l’occhio ai monarchi di un ennesimo neo-barbarismo ammantato nei fumi suadenti, nei delicati barbagli, nei miraggi crepuscolari di una neo-decadenza che cela l’inceppamento di furiosi ingranaggi, non adombriamo una vile richiesta di tregua o, peggio ancora, una laida offerta di spartizione dei beni sottratti alle ebeti masse, lo facciamo bensì sotto l’egida di una critica spietata che può contare un solo tipo di mentore o sponsor. Esso si chiama Verità, il cui bagliore non possiamo fissare a occhi nudi ma celebrare in quella inconfutabile elusività espressa in particolare nelle sue (di lei, la Verità) seguenti apparizioni, elencate un po’ a caso e alla spicciolata.
Ci si può inventare destini metafisici o escatologici o palingenetici di pura fantasia, si può ballare sfrenati oltre i confini del ritegno e dell’onestà intellettuali, lasciando libero sfogo ai bagordi dell’illusione, ma niente di tutto questo troverà mai una conferma che non sia fissata pregiudizialmente, a priori, da volontà arbitrarie e impositive, senza alcun avallo da parte della desta e non allucinata ragione, che prima di tutto organizza i fatti in modo che si possano esprimere con linguaggi non esoterici, poi li dispone in quadri logici, sistematici e significativi, poi ricerca o accoglie altri fatti e modifica i quadri già predisposti per poterli contenere e così via, senza fine.
Non è vero che la ragione filosofica si trovi impotente davanti alle grandi questioni dell’etica e della metafisica, è in grado di pronunciarsi su scenari ipotetici che sconfinano nell’infinito e nell’eterno, ma queste costruzioni sono profondamente diverse da analoghe presunzioni dogmatiche di carattere religioso e spesso condurrebbero, se prese sul serio (il che paradossalmente non riesce facile proprio perché si ammette una impossibilità di dimostrare invenzioni intelligenti a fronte di asserzioni tassative di verità assoluta riservate a mitologismi balzani accettati supinamente), a concepire in modo molto diverso la consistenza morale dei comportamenti generali.
Gli scenari metafisici non avulsi da una base scientifica (su cui gli scienziati di professione non si pronunciano più di tanto in quanto nozioni indimostrabili e politicamente ‘minate’) risultano coerenti con cognizioni anche intuitive e di buon senso, nonché filosoficamente e logicamente pregnanti, che riguardano la ridefinizione di nozioni sfuggenti come quelle di libero arbitrio, identità personale, autocoscienza e comportamento responsabile, tutti concetti fissati in effetti dal pensiero classico, soprattutto di ascendenza spiritualista, in modo acritico e tautologico, dichiarandone un tipo di esistenza che in sostanza coincide con quella di un principio, la non meglio identificata ‘anima’, non ulteriormente predicabile e analizzabile, un ente che si crea da se stesso e poi si corrobora, conferma e consacra con espedienti come quelli espressi dalla domanda ‘come potrei crearmi se non esistessi?’, il che dovrebbe instillare dubbi invece che certezze, ma non avviene perché il furbissimo fantasma dell’anima, che condivide con il regno animale un fortissimo istinto di sopravvivenza, si arroga il diritto di procedere attraverso imperscrutabili processi completamente avulsi dal contesto fisico delle leggi naturali, attivando dinamiche dalla causalità oscura e indefinita che fanno passare da uno stato all’altro qualcosa che nessuno capisce come possa agire restando immutato, generare effetti senza ritorno di effetto sul generante: da tale incomprensione trae una paradossale, inattaccabile certezza apodittica, in qualche modo perfino blasfema, se pensiamo che nel frattempo la fisica fondamentale, attraverso il concetto di non località delle leggi e l’interdipendenza di qualsiasi fenomeno, delinea concezioni del cosmo o del multiverso simili a quel sogno o incubo metafisico in cui consiste l’idea di Dio.
Il revival confessionale sviluppa senz’altro particolari risonanze sentimentali e motivazionali ma, partendo dalle premesse di un dualismo irrisolto tra un non meglio specificato spirito e una male intesa materia, comincia a diventare esiziale quando le cognizioni fondamentali che vi vengono sottese non permettono di percepire e affrontare in modo adeguato l’avvento di fenomeni che per la prima volta segnano una brusca frattura tra il mondo storico-sociale e quello dell’oggettività naturale.
Questa specifica emergente inconciliabilità deriva dagli equivoci di fondo attraverso i quali il punto di vista religioso o comunque spiritualista fraintende una cultura che predilige un tipo di approccio al mondo mutuato dalle scienze, in accordo con tutte quelle filosofie non metafisiche che puntano a una visione realistica della condizione umana non disdegnando affatto di ricevere spunti dal fronte umanistico, artistico, letterario e psicologico.
Fondamentale resta l’incomprensione di un cosiddetto ‘riduzionismo’ che viene inteso come fisicalismo ovvero riconduzione di ogni fondamento biologico a leggi scientifiche elementari: interpretazione grossolana e semplicistica, adottata da chi trascura e sottace che in ogni visione del mondo meritevole del nome deve o dovrebbe presiedere una panoramica di tutti i grandiosi scenari costruiti, attraverso un lungo e tormentato raffinamento dei soli metodi di constatazione, verifica e accertamento di cui l’uomo dispone, da parte delle scienze della natura, incluse l’astronomia e le discipline fisico-matematiche in genere; per quanto riguarda queste ultime, se proprio di riduzionismo si deve parlare, allora forse è il caso di concentrarsi prima di tutto sui confini invalicabili a cui logica matematica, informatica teorica e linguistica restringono le facoltà razionali, discorsive, di ragionamento e computazione concesse all’essere umano: se, per esempio, qualsiasi procedura di calcolo può essere formalizzata in una macchina universale di Turing, quel semplice marchingegno teorico dà una misura del livello ontologico, per così dire, attribuibile ai relativi processi e fornisce una prima idea immediata di come favoleggiando a colpi di massimi sistemi alla fine non si fa altro che capitalizzare le potenzialità combinatorie praticamente infinite che coinvolgono gli enti e i processi elementari.
Discorsi perfettamente analoghi riguardano concetti più sfuggenti come le prospettive finalistiche con cui il destino umano si dovrebbe riscattare dall’assurdità e dal non senso; agli sprovveduti può sembrare che il punto di vista scientifico, dopo aver ridotto il ragionamento a un sistema assiomatico, il calcolo a una macchina di Turing e le capacità linguistiche a una grammatica generativa, abbia fatto harakiri dandosi la zappa sui piedi e tenendo in mano scornato i cocci della razionalità implosa su se stessa, ma ciò avviene perché in genere gli scienziati sono educati, non invadono il campo umanistico su consiglio e raccomandazione gentile ma ferma dei poteri civili e, sempre sotto un giusto sprone alla morigeratezza e alla bontà e nel rispetto di una segnaletica disseminata sui percorsi di carriera, ci tengono a occuparsi di problemi pratici in modo propositivo e ottimista.
Supponiamo però che la stessa critica inflessibile che il raziocinio rivolge masochisticamente a se stesso sia applicata alle luminose e ineffabili plaghe dell’infatuazione religiosa: che cosa rimarrebbe di concezioni come quelle di un Dio che tutto vede e giudica, di un’anima bella o ignobile a prescindere dalle basi biologiche e sociali, dell’individualità della colpa in una catena inestricabile di condizionamenti reciproci, del bene e della carità millantati in assenza di una misura quantitativa dei rispettivi diritti e doveri, di criteri non darwiniani per commisurare impegni e ricompense, di un sottrarsi dell’industria dell’elemosina e della consolazione morale a ogni analisi economica seria di una congruenza tra costi e profitti, eccetera eccetera? Niente di serio di sicuro o forse un nucleo originario di stregoneria e sciamanesimo del quale, come mostrano le scienze umane, il passaggio da un’organizzazione tribale a forme di comunità progressivamente più complesse trasforma gli elementi culturali e psicologici in un parallelismo con quelli economici e materiali.
Tutto ciò che passa sotto il vaglio della critica intelligente si riduce in termini semplici, chiari, minimali e nondimeno misteriosi e affascinanti, perché mai esauribili in se stessi e dinamicamente aperti a un sistema infinito di relazioni, tutto quello che viene dilatato dal sentimentalismo adorante esplode in una pirotecnica effimera che non scalfisce il buio della volta e dura quanto la festa comandata.
Perfino l’eternità e l’infinito affrontati in una visione razionale e neo-umanistica appaiono più interessanti delle barzellette favolistiche o favole barzellettistiche raccontateci dalle grandi confessioni, che non si capisce neppure come possano apparire consolatorie e gratificanti per chi ha un minimo di sale in zucca, dato che comunque ci si sottopone all’arbitrio di una figura enigmatica e incomprensibile di cui solo gli sciocchi riescono a nutrire qualsiasi certezza (quasi nessuno in punto di morte). In particolare la fisica di base e la cosmologia abilitano concezioni che riconfigurano i misteri ontologici in modo che ogni cosa o rientra nell’assoluta fugacità della variabilità infinita, per cui tutto quello che esiste non è che una fluttuazione irrisoria del nulla, da cui riceve l’esenzione da ogni necessità giustificativa, o si trova annesso a un blocco parmenideo consolidato per sempre, in cui lo scorrere del tempo è fenomeno psichico corrispondente al movimento in una dimensione relativistica presente per intero e conclusa in sé e per sé, percorsa in circolo dalle cosiddette coscienze (il dio programmatore prospettato da certa fantascienza scientifica o scienza fantastica che dir si voglia non fa che spostare il problema da noi a lui, come il tradizionale Dio dei monoteisti, che però, o si accetta come pura opzione incomprensibile, tautologica e autoreferenziale (per esempio, qualcosa che deve esistere perché si desidera che esista in modo che lo stesso desiderio sia soddisfatto) o coincide con un generico concetto di totalità cosmica (ci si può ricamare per altri millenni, ma alla fine non se ne esce).
Il premio dopo la vita rimane quindi un inganno e l’unico modo morale di concepirlo esige di considerarlo un inganno che dà benessere e sollievo, il che però può valere come sostegno generico nel tran tran quotidiano, tale placebo dissolvendosi in presenza di autentica sofferenza, la cui eliminazione rimane quindi il vero fine di ogni azione realmente morale.
La sofferenza che l’umanità provoca a se stessa per comportamenti assurdi e cretini può essere eliminata, a rigore, soltanto da una superiore consapevolezza dell’umanità stessa, ma visto, in base alle evidenze storiche e sociologiche, che non conviene illudersi sul livello culturale raggiungibile dall’individuo medio, si può nutrire ormai soltanto la speranza (aihnoi, alquanto azzardata) di un raffinamento delle élite tale da renderle capaci di promuovere presso i popoli ciò che i popoli non saranno mai in grado di guadagnarsi da soli, fermo restando che la dialettica tra l’alto e il basso è molto complicata e le resipiscenze dovranno muoversi dinamicamente tra gli strati e i loro rappresentanti gerarchici.
Il linguaggio tendenzioso dell’invenzione accattivante, lo stravolgimento illusionistico o comunque metaforico, l’addomesticamento attraverso le bugie che la sprovveduta ignoranza richiede a gran voce, tutto è destinato forse a rimanere parte integrante della politica, mentre la franchezza kolibiana resterà probabilmente confinata a settori minoritari (forse, non si sa mai, non è mai detta l’ultima parola). In conclusione, se ci si deve rassegnare al minor male possibile, quello di despoti intelligenti e bene intenzionati che, attraverso narrazioni di pedagogia allegorica, adatte a quel bambinone che ciascuno desidera diventare appena si trova libero dal giogo del lavoro, sappiano indirizzare l’incoscienza comune verso assetti organizzativi di tipo kolibiano, saremo costretti a chiudere gli occhi davanti a tante carnevalate, ma si tratta di una disponibilità molto pericolosa, dato che in quei balli in maschera sarà difficile riconoscere i moltissimi interessi che remeranno contro: solo una chiara coscienza della catastrofe imminente li potrà debellare, ragione per cui gli ottimisti rappresenteranno la vil razza dannata del prossimo futuro.
Se questo non mostra un grande senso di responsabilità da parte di anarchici utopisti quali ci hanno accusato di essere… Vedremo quanta responsabilità sapranno rivelare le classi dirigenti, così squisitamente cortigiane nell’agghindare le scoperte del proprio spregiudicato realismo (utile soprattutto alle scalate sociali) con una chincaglieria talmente oppressiva e pesante da limitare le mosse di ogni spirito critico ai suoi immediati dintorni pragmatici e funzionali.
Quanto agli interessi di cui testé parlavamo e tornando alla fondamentale impostazione darwiniana della spinta economica generale, che contraddistingue la connotazione profonda delle interazioni civili e non è certo emendabile da forme di emergenza assistenziale verniciate con le tinte esotiche di arcaici spiritualismi, quasi tutti, favorevoli o no, vedono purtroppo nella sua denuncia un rigurgito di utopia moralistica, generoso, ma quasi patetico, e invece il fenomeno comporta un micidiale aggravamento degli elementi dispersivi ed entropici, la mancata abolizione dei quali impedirà di sicuro anche la sola possibilità concettuale di una soluzione realistica.
In una società darwiniana il dispendio di energie ideative e progettuali devolute alla competizione e al conflitto risulta enormemente superiore a quello impiegato in soluzioni tecniche e strutturali: se in fasi pregresse poteva risultare accettabile e fungere addirittura da elemento dinamico propulsivo senza il quale non si sarebbero innescati certi circoli virtuosi innovativi, in questa fase tardiva dell’industrialismo distogliere risorse dal marasma delle competizioni per incanalarle in comuni attività costruttive rientra tra le più elementari e inderogabili strategie se si vuole evitare il disastro.
Il feticcio della competitività tende a diventare autoreferenziale analogamente a quanto avviene per il valore di scambio dei beni sovrapposto al valore d’uso e per la dialettica parlamentare tra i partiti sovrapposta al valore esclusivamente amministrativo e strutturante che dovrebbe informare le scelte dirigenziali: il risultato è una economia e una politica giocate quasi interamente su geometrie astratte che emergono e si configurano in piena autonomia rispetto alla base concreta dei problemi originari, generando proliferazioni sistemiche fondate su proprie leggi insensibili e spesso dannose e perfino ostili nei confronti delle istanze primarie.
Ciò comporta il confronto e l’accavallarsi incomposto di due opposti fronti d’azione, quello, impersonale e non coscientemente controllabile, dei nodi evolutivi all’interno delle complessioni sistemiche aggiuntive, e l’altro, velleitario e pretenzioso, delle reazioni di soggetti in posizione di responsabilità i quali, passo dopo passo, coinvolti in una ridda causale scarsamente leggibile e condizionabile, non trovano di meglio che polarizzare e modificare in senso autoritario i vari poteri, un po’ nell’illusione di acquisire maggiore governabilità e un po’ per approfittare del caos e degli sbandamenti attribuendosi vantaggi di ceto e di casta.
Il darwinismo è lo scheletro nell’armadio di ogni filosofia dilettantesca e incompiuta, di ogni visione del mondo presuntuosa quanto sterile, è la chiave di volta della presenza umana sulla terra, il nodo irrisolto di tutte le questioni civili: non, come congetturano gli sprovveduti, in qualità di squallido e prono omaggio alle leggi della natura (no, tutt’altro, come dimostreremo tra poco, quello è il carattere specifico di tutte le religioni del libro e i proselitismi di massa), di espediente scientista a giustificazione, in qualche modo morale, dei verdetti di predominanza (perché ce la saremmo presi con le idolatrie della competizione e del libero mercato, per nostalgia delle disfide belluine di un’aristocrazia guerriera? Certo, i più dabbene dei nostri detrattori arrivano al punto di crederlo). Nossignori, il darwinismo è un cardine teorico di primaria importanza perché riassume in una formula stringata e inconfutabile, al di là di infiniti dettagli tecnici e messe a punto dottrinali, il succo e il nocciolo delle strategie naturali, dopo di che, seguendone la logica fino in fondo, conduce a una conclusione inesorabile: nell’ultimo milione di anni la natura ha sbagliato e il suo errore fondamentale si chiama Uomo.
Provocazioni, boutade, gusto del paradosso iconoclasta? Pura e semplice induzione in base a constatazioni di fatto: la riprova più certa ci viene offerta proprio dalle culture umanistiche dominanti alleate alla tecnocrazia politica ‘di servizio’, dal loro totale, assoluto prescindere dai contesti astronomici, planetari e biologici, sincronici e diacronici, unito a quella iper-valutazione assurda della potenza umana che si rivela nella implicita e neppure più problematizzata assunzione di una sua piena autonomia ontologica, presupposto basilare irrinunciabile di tutte le religioni vere e proprie (quelle orientali a parte). Parliamo di pensiero speculativo e di abiti mentali, ci sembra ovvio che non rientrino nel discorso tutte le più scontate necessità e incombenze pratiche e una cultura scientifica relegata alle prigioni dorate e alle lussuose riserve dove si ritemprano la tecnologia ‘utile e produttiva’ e i soggetti in cerca di uno svago intelligente e formativo.
L’importanza fondamentale del darwinismo affonda nei principi sistemici, nelle metodologie strategiche, per così dire, adottate dalla Natura e quindi dal cosmo come strumenti operativi di una euristica generale, causa e conseguenza insieme di quello che potremmo chiamare il sommo principio di complessità, dopo di che, dato a Cesare quel che è di Cesare, le stesse valutazioni, applicate a quello stravolgimento del mondo terrestre indotto dall’insorgenza della specie homo sapiens, conduce ogni mente aperta e spregiudicata alla convinzione che per la prima volta in circa settecento milioni di anni madre Natura ha fatto un passo falso, almeno finché riteniamo che la conservazione e la durata della biosfera sia lo scopo fondamentale delle strategie sistemiche implementate nella biosfera stessa, rappresentando con l’analogia finalistica racchiusa dai termini ‘sbaglio’ e ‘scopo’ (da considerare puro espediente retorico ed espressivo) l’efficienza e la congruità dei più generali meccanismi di conservazione.
Se si considera dunque l’umanità, in quanto schema biologico specificato da apparati neurali in grado di accedere al fenomeno della coscienza intesa, nel complesso disparato delle sue fenomenologie, come un occhio che l’universo apre su se stesso, l’umanità ha il diritto-dovere di effettuare simili constatazioni e cercare i dovuti rimedi.
Se, darwinianamente, da animale in causa, da ignaro appartenente a una specie che sviluppa le proprie attitudini con noncurante vitalismo, si considera invece l’umanità la stirpe prediletta di un non meglio identificato padrone di tutto l’esistente che a essa avrebbe deliberatamente sottoposto il pianeta (e magari, chissà, come pretende certa fantascienza, tutto il sistema solare e poi la galassia e poi l’universo intero), allora la Natura, riassunta e schematizzata in un monismo astratto, non solo non ha sbagliato, ma merita di essere venerata e obbedita: quella autentica e trascendente natura che il trionfo stesso dell’uomo assistito da uno spirito irriducibile alla pura materia riconosce in Dio e non in quel proliferare caotico di assurde e strane forme organiche che abitano le poche foreste ancora intatte e i fondali oceanici.
Le religioni del libro riconoscono e avvalorano dunque, istintivamente e prima di ogni altra successiva elaborazione, i diritti di predominio planetario e, siccome tale predominio è darwiniano, coscientemente o meno lo assumono come principio base nel governo delle comunità in forma di organizzazione ierofanica rigidamente gerarchica e pregiudiziale, da salvaguardare ed eventualmente scalare secondo criteri specifici, tutt’altro dalle forme disordinate e stravaganti assunte negli eoni passati (imitate più o meno maldestramente dall’economia liberale di mercato), prima che giungesse ad adempimento il lungo lavorio preliminare al sorgere della specie eletta.
L’economia di mercato annoverava un altro difetto tipico del darwinismo antico, rappresentava una competizione di individui la cui illusorietà si traduceva in esiti decretati attraverso il modello organizzativo delle specie: il darwinismo sancito da Dio, il darwinismo dell’umanità trionfante è invece una competizione tra specie governata dalle regole certe e inviolabili del potere metafisico.
Siccome però ogni uomo (per ora!) rimane agganciato a una fisiologia in tutto e per tutto animale, che necessita di cure e sostegni di tipo bio-economico, le forme più elementari e primitive di darwinismo che, come parte di un più generale principio fondante intoccabile non possono essere avversate senza incorrere nella sconfessione del Dio della Natura, meritano di essere coltivate e rafforzate sotto la guida, la supervisione e il comando del più nobile darwinismo teologico. Tutte quelle concezioni naturalistiche, che vedono nell’uomo caratteristiche emergenti assai anomale e pericolose in ordine a una necessaria e inderogabile armonizzazione con dinamiche che si ritrovano indebolite o stravolte da una produzione interna di eventi che quelle stesse concezioni testimoniano, tutti quei revisionismi e criticismi del mondo naturale verso se medesimo abilitati dalle possibilità del cervello umano, il darwinismo ecclesiastico li condanna come inopportuni e blasfemi: un programma che pone al centro l’abolizione del darwinismo proprio in quanto incompatibile con una potenza di specie che ha superato di gran lunga tutti quei limiti oltre i quali ogni metodo classico di competizione può ancora considerarsi sensato, ogni seria e veemente rivendicazione dell’artificiosità utopica come unico rimedio realistico alla ‘innaturalezza’ o ‘snaturalezza’ umane, sono condannate come, appunto, non naturali e contrarie alle strategie imposte da Dio.
Si spiega anche così come mai, nonostante che tra adepti, maestranze, dirigenze, incaricati e personale operativo delle più diverse organizzazioni clericali si dispieghi un amplissimo, multiforme florilegio di varia omosessualità, un vivaio probabilmente più vasto di quello di ogni altra categoria, l’omofobia rimane regola aurea in tutti i decaloghi ecclesiastici parimenti al matrimonio inteso come sacro contratto rigidamente eterosessuale.
Si capisce che, in una temperie favorevole a certe tendenze normalmente diffuse anche in compagini tribali, primati non homo e mammiferi in genere, fino a una incidenza canonica che raggiunge e a volte supera il 20% (in società arcaiche o evolute, primati eccetera) (percentuali inarrivabili da parte di certe caratteristiche dei Padri Kolibiani per le quali un 5% deve ritenersi una stima ottimistica), l’omofobia non assume il rifiuto odioso e virulento di certi ambienti affetti da estremismi razzisti o rabbiose intolleranze manieriste o viscerali, ma appare perlopiù come la mesta obbedienza a un contegnoso e quasi stoico obbligo di nobiltà e rispetto formale. La base di tale obbedienza rimane pur sempre il darwinismo teologico, lo stesso che rifulge al suo massimo potenziale in quadri e occasioni molto più gloriosi di quelli in cui agisce un impegno civile imposto da necessità di controllo della vita comune ai fini di una diffusione ordinaria e capillare della regolamentazione prescritta da quel Dio che esprime il dominio dell’uomo su una natura vinta e soggiogata.
Una di queste congiunture favorevoli si manifesta nei bagni di folla dei condottieri di fede durante feste e cerimonie solenni o propagandistici viaggi di missione apostolica, ricorrenze in cui le gerarchie si palesano con netta ed essenziale perspicuità: il rappresentante divino splende insieme alla fila dei depositari di cariche civili (sempre defilati e in subordine per quanto amministrativamente importanti), mentre ogni individuo nella folla dei fedeli conta soltanto come unità di massa, cellula di una quantità che si connota soltanto in senso cumulativo, per il valore di vastità, e i cui movimenti sono strettamente condizionati dalle necessità del rituale.
Quando il Sommo Pontefice assiso sul trono vezzeggerà la bambina intrufolatasi tra le gambe degli addetti al servizio d’ordine (qualcuno dei quali, per la sua incuria, sarà eventualmente punito o degradato nel grigio prosieguo della quotidianità ‘lontana dai riflettori’ che si spalanca a festa finita) (a meno che tutto non fosse combinato attraverso un’attenta scenografia preliminare e l’addestramento della tenera prole, nel qual caso davanti al fortunato ideatore dello sketch si spalancherebbe non la fredda umiliazione, ma un plauso degno di chi inventa cose come la coca cola con il nume proprio (pardon: il nome) o il fiocchetto), quando, dicevamo, la bambina salirà sulle ginocchia auguste e dunque sul trono, tutti o quasi gli spettatori del telegiornale si focalizzeranno sulla bambina e nessuno o quasi sul trono. Quando, in futuro, si evocherà una figura ideale del potere e dunque del trono, la freschezza e il sorriso spontanei della bambina vi balzeranno sopra allegramente.
D’altra parte, ciascun rappresentante di quelle ‘folle immense’, accuratamente predisposte da opportuni interessi egemonici, incarna il coefficiente darwiniano proprio di ogni rappresentante della specie umana in quanto tale, simboleggia cioè la caparbietà, ostinazione, tenacia con cui, nonostante le soverchianti difficoltà di situazioni spesso più spaventose e disagevoli di quelle vissute mediamente da qualsiasi altro animale (nelle plaghe della natura superstite, non negli innumerevoli lager in cui l’uomo alleva gli schiavi che mangia), resiste nell’affermare il suo orgoglio di forza coscientemente superiore ai ciechi e sordi movimenti da automa degli ingranaggi puramente naturali.
Mentre ebrei e mussulmani esprimono le valenze squisitamente darwiniane di ogni spirito religioso nel sostegno che il proprio Dio offre nel conflitto con i diversi, i gentili, gli infedeli, i popoli avversi e stranieri, impartendo disposizioni utili alla coesione e funzionalità interne, il mirabile assolutismo cattolico, così ambiguamente dialettico e complementare rispetto a ogni altro potere, si esplica nell’attribuirsi sollecitudini rivolte a ogni essere umano purché ridotto ai minimi termini naturalistici di individuo animale appartenente a una specie vincente, a quei poveri di spirito che saranno i primi perché sono stati destinati da Dio a divorarsi il pianeta, a quei sudditi, docili e acquiescenti verso le gerarchie sempiterne quanto scaltri e tirannici nell’accampare diritti elementari di esistenza (che ciascuno poi adatta a fisarmonica, modula in accordo con un’ambizione giudicata sana e vitale nei limiti di una ‘giusta’ accortezza), a quei succubi obbedienti che, essendo tanto immensamente superiori a ogni altro animale, devono solo aspettare fiduciosi che vengano riconosciute le conseguenze di tale metafisica superiorità e intanto possono servirsene senza remore fintanto che devolvono una parte dei risultati al trionfo della Chiesa, che rappresenta il corpo santo di tutti quelli che non sono malvagi.
Il rapporto tra uomo e animale concepito dal cattolicesimo ricorda per molti versi il confronto tra bianchi e negri o ariani ed ebrei in quelle società (Germania nazista, sud degli Stati Uniti, Sudafrica) dove, in seguito a dinamiche storiche e sociologiche che qui non importa indagare, elementi patologici e di frustrazione sociale mascheravano quelle caratteristiche prettamente classiste e indirizzate allo sfruttamento economico che costituiscono l’anima autentica di ogni fenomenologia razzista (come quella degli arabi che, durante la fase schiavista del colonialismo e della rivoluzione industriale, controllavano i centri di raccolta africani a cui attingevano i velieri degli importatori di braccia da lavoro): basta sostituire la patologia con il fraintendimento idealista e il razzismo con il darwinismo.
Le valenze di fitness individuale e il conferimento di vantaggi nella competizione tra gruppi rivali che ebraismo e islamismo conferiscono ai diversi seguaci appaiono adatte a epoche di forti divisioni nazionalistiche o a compagini sociali poco omogenee, divise in settori caratterizzati da una scarsa comunicazione reciproca e interdipendenze rigide e sorvegliate. Il cristianesimo in genere e in particolare il cattolicesimo, in accordo con il proprio consolidamento nel tardo impero romano e la lunga maturazione nel medioevo europeo, risentono invece dell’esigenza di una maggiore organicità all’interno di una strutturazione gerarchica e una stratificazione dei ceti con caratteri multietnici e sovranazionali.
Non è difficile comprendere così perché il cattolicesimo, dopo un periodo novecentesco di crisi per le pretese totalizzanti e quindi teologiche di grandi ideologie estreme e un fugace offuscamento nei periodi effimeri di vera effervescenza liberale, stia rialzando la cresta nella fase attuale di unificazione economica del mondo sotto la regia di classi dirigenti legate alla finanza e alla industria internazionale: esattamente come le grandi corti aristocratiche delle età precedenti la rivoluzione industriale e come i capitalisti dell’espansionismo coloniale, gli strati sociali legati alle multinazionali e alle banche richiedono dalle autorità religiose un trait d’union e un forte ausilio sovvenzionale e comunicativo ogni volta che la promessa di ricadute e ridistribuzioni delle ricchezze o di un miglioramento effettivo della qualità della vita vengono meno e le crisi ricorrenti prosciugano i fragili vantaggi generalmente acquisiti: cioè molto spesso, se non quasi sempre. Ciò comporta ovviamente una condivisione di potere, il che spiega l’intrusione degli istituti ecclesiastici in quasi tutti i gangli vitali dell’economia, la loro posizione privilegiata in funzione di formatori e consulenti del lavoro (che comporta una enorme influenza legata al collocamento dei nuovi assunti e ai debiti di riconoscenza che questi contraggono nel corso delle loro carriere), i lauti stipendi pagati ai funzionari responsabili e permanenti delle organizzazioni ‘no profit’ almeno se parametrati ai guadagni medi delle piccole aziende, la considerazione e la deferenza di cui godono i prelati di grado medio e alto.
Alla fine, in seguito a meccanismi come questi e molti altri ancora (l’industria dei servizi di carità, l’apporto delle beneficenze e delle donazioni…), si può senz’altro affermare che il potere di cui hanno sempre goduto in occidente le istituzioni cristiane e soprattutto cattoliche aventi caratura nazionale vada molto al di là di un gradimento democratico che oscilla intorno al 50% e in forma davvero integralista ammonta a meno di un terzo della popolazione (ah, incredibile potenza della simpatia e del pregiudizio benevolo per le istituzioni gattamorta nelle pigre e melliflue società d’occidente!), riteniamo pertanto sia azzardato parlare di stati occidentali laici, senza contare che non hanno tutti torti alcuni ambienti islamici o variamente ribelli e sovversivi quando parlano di colonialismo delle missioni.
L’aspetto sociale e politico delle ingerenze religiose ci ha preso un’altra volta la mano, ma tutto sommato esula dagli intendimenti specifici di questo discorso, il cui obbiettivo polemico concerne quella specie di naturalismo antropocentrico anti ecologico, anti-scientifico e caco-ambientale che, come abbiamo visto, implica l’accettazione e anzi la consacrazione di tutte le potenze darwiniane a disposizione di un genere umano elevato a stirpe padrona del pianeta e del cosmo: un atteggiamento culturale e una filosofia di fondo che cozzano contro la necessità, per noi kolibiani assolutamente primaria e non più procrastinabile, di una revisione critica radicale del concetto di umanità all’insegna del progetto razionale di uno scientismo utopico e di un’etica quella sì effettivamente e non metafisicamente naturalistica.
Ovviamente c’è molta differenza tra vellicare, lusingare e alla fine perfino glorificare l’umanità nel suo complesso, da una parte, e preoccuparsi della qualità della vita degli individui attualmente viventi e di quelli futuri, dall’altra: c’è differenza e anche opposizione. Per i clericali, una volta ottenute sussistenze ai minimi termini, conta soltanto l’anima che ogni persona detiene in usufrutto condizionale e su cui i teocrati prelevano cespiti come se si trattasse di un loro investimento; per i kolibiani, esclusi i lussi, valgono le comuni necessità dei corpi e la possibilità degli psichismi che vi abitano di gestire aree di vita privata risarcendosi in libertà dei vincoli produttivi e materiali indispensabili: vediamo quali concezioni risulteranno più consone a una buona gestione del pianeta. Osserviamo però fin d’ora che esistono pulsioni di base, contraddistinte da proprie leggi biologiche minimali, come la sete, la fame, la sessualità, il bisogno di stimoli adeguati, che riguardano indifferentemente italiani, arabi, cinesi, gli abitanti di Bora Bora e della Tasmania, e altre culturalmente e socialmente indotte e condizionate, come la religiosità, la morale, lo spirito gregario.
Può darsi che le illusioni e i plagi clericali possano ottenere da masse eccessive e insostenibili quello che i kolibiani non otterranno mai: la disponibilità a privarsi di ogni qualità esistenziale, fisiologica o psicologica, sostituendola con deliri di santità e fanatismo, ma quanto ci vorrà prima che quelli degenerino in regimi polizieschi o anarchia intollerabile? I condottieri di fede sinceramente convinti delle proprie credenze non sortiranno mai alcun effetto positivo dalle proprie esortazioni, di questo ogni kolibiano rimane fermamente convinto: fortunatamente, perlomeno in occidente, la religiosità che piove dall’alto, che predica e sentenzia dai posti di comando, ci risulta molto più scettica e possibilista di come si dichiara e non possiamo nemmeno escludere che, in intimità con se stesso, sul piano puramente dottrinale e non politico, qualche grosso papavero delle più canoniche confessioni rivali sia molto tentato di sottoscrivere le nostre argomentazioni.
A questo punto si troverebbe davanti a una sola alternativa fondamentale: o fortificarsi egoisticamente di quell’ambiguità esercitando i propri interessi di parte grazie ai vantaggi che offre una visione più distaccata e a tutto tondo oppure, nel caso di una genuina vocazione riformatrice, utilizzare le opportunità persuasive offerte dalla metafora e dal doppio o triplo binario linguistico per disegnare nella pratica modelli sociali la cui configurazione mitologica si volatilizza nel momento della realizzazione concreta.
Non sappiamo con che tassi di ripartizione intellettuali, soprattutto economisti e politologi, sottoscrivano questa nostra impostazione dei problemi e comunque, anche prescindendovi, di fatto si schierino tra gli idealisti convinti (pur con tutti gli addomesticamenti di una furba ‘modernità’) oppure tra i sofisti imbroglioni oppure tra i favolisti correttamente motivati. Per il momento ci sembra di sapere che quasi nessuno, a parte l’avanguardia kolibiana, ritiene necessario professare, anche solo in via teorica e a prescindere dalle effettive possibilità concesse, una utopia razionale con solide basi neo-rivoluzionarie.
Si direbbe che l’esplosività oggettiva della situazione vista nella prospettiva di un groviglio globale a cui concorrono le accelerazioni e le complicazioni progressive dei fenomeni rientri tra le parabole apocalittiche che placano gli eccessi libidici dei provocatori per partito preso, nulla più.
Davvero facile per i retori di regime stigmatizzare la categoria dello straordinario e del rovesciamento radicale di regole e istituti come pretenzioso boato messo automaticamente in sordina dalla seria laboriosità di chi bada al sodo, dal pragmatismo volitivo di chi si attiene alle qualità del presente senza tentare dilettantesche forzature, dal rifiuto di un’ingerenza intollerabile, sterile e inascoltata per la semplice impossibilità delle maggioranze di farsi mancare la terra sotto i piedi.
Solo il tran tran e l’ordinario è accettabile per le greggi che oggi brucano tranquille e solo domani saranno mandate al macello: i loro pastori constatano e si adeguano più che volentieri.
Ciò che non è normale non può appartenere alla Storia proprio perché la Storia deve avere la capacità di sorprendere con i propri sconquassi, esige d’incanalare carneficine, carestie e crisi micidiali nelle sequenze canoniche dove la felicità e il successo devono risplendere come oasi magiche e isole del sogno.
E davvero soltanto la normalità domina il corso della vicenda umana: la normalità del disagio tollerabile, della noia quasi impalpabile, dei rapporti irrisolti, della modesta frustrazione, dell’incompiutezza inevitabile come quella degli orrori bellici e delle catastrofi improvvise che moltissimi uomini hanno incontrato riuscendo a passare oltre indenni in proporzioni addirittura maggiori del 50%.
Per ora.
Perché fallì il kolibianesimo?
Si trattava soltanto, come sostennero i critici main stream e altri cavalieri dell’apocalisse, di ‘delirio da riorientamento’?
Io ritengo che, quando l’evidenza inconfutabile non sortisce effetto alcuno, vada completamente rivisto il rapporto tra normalità e patologia.
Chi è pazzo e chi non lo è, può deciderlo la natura degli eventi, non un conteggio statistico o la lotteria delle illusioni. (L.K. Anank)
Quando i Padri, riuniti in sessione plenaria, negarono la loro benedizione al movimento che avevano ispirato, accusandolo di ‘politicismo’, presso molti avversari e detrattori affiorarono insospettabili consensi a un programma osteggiato soltanto per amor proprio e piccata ripicca contro critiche velenose quanto sacrosante.
Non ci si sarebbe trovati mai più così vicini alla realizzazione del Progetto. (Henry Lack. L’ultimo secolo dell’era industriale)
PRENDENDO SPUNTO DAL MILIARDESIMO MESSAGGIO PERVENUTO ALLA SEZIONE DI PORTALE CURATA DALLA REDAZIONE KOLIBIANA ADDETTA AI RAPPORTI CON GLI INTERNAUTI LIBERI PENSATORI, PROVVEDIAMO A PUBBLICARE UNA RASSEGNA DEGLI SCAMBI DI OPINIONE GIUDICATI PIU’ INTERESSANTI DAL GRUPPO DEI KOLIBIAN BROTHERS, RICHIAMATI ALLA CONSEGNA ATTRAVERSO IL CERIMONIALE INVITO DI PRAMMATICA OFFICIATO PER L’OCCASIONE DAI MAESTRI THAILANDESI.
Prologo e avvertenze (di Bela Kepassa)
Abbiamo lasciato invariato il titolo della presentazione originale, ma omesso qualsiasi riferimento all’identità degli intervenuti, che in grandissima percentuale possiamo considerare ormai defunti.
Al fine di prolungarne una fantomatica memoria ideale, nomi di cui si è perso ogni riferimento o traccia non possono certo fungere meglio del riverente pensiero che a tutti dedichiamo commossi a prescindere dalle idee proposte o contestate e soprattutto dai torti e dalle ragioni.
Tutti li onoriamo perché tutti hanno ritenuto che fosse utile apportare una briciola di apparente e fuggevole verità e a essa dedicare qualche minuto di un intervallo di riflessione sempre avaro e risicato in mezzo a molteplici altre incombenze.
Ora che molti anni sono trascorsi e il destino ha compiuto il suo corso a dispetto di tanti solleciti avvertimenti e premurosi richiami, le accensioni polemiche non ci appaiono più attriti fastidiosi e urticanti, ma fiammelle di vitalità ed emozione sperdute in una oscurità insieme caotica e indifferenziata.
Rissosi azzeccagarbugli in mezzo a formichine ansanti e devote, amletici e contorti gargarismi nel coro di voci bianche inneggianti allo status quo, la ritrosia dello scontento nel coreografico deflusso collettivo: che cosa è figura e che cosa sfondo, negativo o positivo, ora che il Grande Botto ha mostrato che la tenacia stessa dell’oltranzismo produttivo, fosse anche devoluta a un ipotetico bene, era IL MALE?
Purtroppo, l’ipotetico bene calamitoso scorre fluido e veloce lungo le pareti tappezzate di grasso, mentre il presunto male salvifico trova dovunque anticorpi con consegne distorte e regole d’ingaggio contraffatte mentre i di lui combattenti non possono riconoscersi tra loro per l’assenza di contrassegni elementari.
E’ legge negata, cassata, vilipesa, ma è legge: appena individui qualunque abbandonano la superficie della spontaneità irriflessiva o della scettica rinuncia per riconoscersi a vicenda significati più intensi e sinceri, non possono che mentire oppure turbarsi, graffiarsi, collidere e alla fine irrimediabilmente deludersi, per questo il mondo umano non potrà mai sottrarsi alla dittatura di quegli automatismi naturali (adornati di ritualizzazioni gerarchiche) da cui sporge tuttora malconcio come uno strano e aggrovigliato bubbone.
L’intuizione oscura da alcuni nominata ‘Grazia’ è appunto l’esenzione rarissima e sempre imprevedibile dalla dura lex: armonia per consenso empatico e fluidità naturale, localizzata e irrelata, incongrua e sporadica, un sortilegio che, concupito senza diritti e profanato, trasforma in Goldlomb o Goldon o Godbluff o come pincopalla si chiamava quel tale della saga dell’agnello (il tipo tutto incartapecorito ma anche viscido che sssibilava ‘tessorro’) o addirittura (orroooreeeee!!!!) riduce a macchietta da film di Natale della Vacanzieri Riuniti spa.
Al di fuori del dono indefinibile, i volontari asceti dell’utopia, stornati dalle cateratte indefesse che scorrono e mugghiano senza poter conoscere davvero le destinazioni e gli scopi, possono solo incontrarsi nei circuiti di rifrazioni infinite del caleidoscopio immaginario dove si compie il loro destino virtuale.
Questo pullulare indefesso di strane gemme microbiche (ricordate? L’epidemia cristallina!) non fu sufficiente nel rimbombo uniforme di energie scriteriate degli innumerevoli alter ego della Morte, i complici chiassosi ed entusiasti della sua azione silenziosa e laboriosa.
Eppure lo ribadiamo: gloria ai pazzoidi infervorati che hanno partecipato a questo sforzo dai risultati modesti e relativi come quelli di ogni altra intrapresa, e gloria all’intero pensiero umano nonostante l’obbligo che a questo punto ci tocca di ritenerlo fallimentare e perfino assurdo.
Pulvis et umbra sumus. Da e di che cosa dovremmo parlarvi, se non dalla o della penombra di una caligine polverosa?
Ormai tutto è compiuto, la fine dei tempi è arrivata.
I Padri, i Saggi, i Poeti Profeti hanno espresso il verdetto e negato il loro consenso.
E’ troppo tardi per ripensamenti, abiure, riavvii, per discernere o conciliare i poli opposti del mimetismo zoologico, concrete finzioni e fantasmatiche verità dell’immane guazzabuglio, sgorbiature e simboli ideali, l’osceno e il mistico, lo scherzo e l’anatema.
Gli Uomini dell’Altissimo Monte hanno detto NO!
Dall’esame della corrispondenza che vi sottomettiamo, emergono soprattutto, a mio avviso, due elementi di grande interesse storico e culturale: l’uno concerne l’evidenza della drammatica involuzione che il movimento ufficiale kolibiano subì, di certo non a caso, proprio in coincidenza con il periodo di massimo successo, quello in cui, tra l’altro e paradossalmente, si palesò con incontrovertibile urgenza la necessità delle radicali riforme sbandierate. Nuova luce viene così gettata sui motivi di un ritardo e una defezione che, come tutti ben sappiamo, ebbero conseguenze letali.
Il rilievo oggettivamente inconfutabile si colora di enigmatica drammaticità allorché dal decorso dibattimentale non possiamo fare a meno di rilevare la fondamentale tenuta delle tesi centrali e di tutta l’ispirazione di fondo di una corrente di opinione dalla quale sarebbe stato lecito attendersi esiti ben più incisivi di quelli effettivamente registrati. In altre parole: il kolibianesimo ne esce bene, ma i kolibiani perdono su tutta la linea, una ennesima riprova che non sono sufficienti teorie adeguate e visioni chiare e realistiche per raddrizzare una natura antropologica distorta e lacunosa.
Questa cronica insufficienza della presenza umana si connette al secondo punto che ci sembra emergere con recisa evidenza: la prevaricazione inevitabile della politica, intesa come l’ombra, massimamente invasiva e condizionante, dei maggiori interessi costituiti, rispetto ai portati dell’analisi razionale e della lettura scientifica del mondo. Di questo nefasto e debilitante dominio della categoria esistenziale da Francesco Arbustini definita la ‘normalità sociopatica’, svuotata di ogni valenza di democrazia che non si riduca alle pantomime del suddito che recita sotto autocensura le ‘libere opinioni soggettive’ (tutti ricordiamo il parallelismo istituito da Omaké Godura tra la decadenza estetizzante che contraddistinse le fasi di disfacimento degli imperi passati e gli esibizionismi caratteriali di Facebook), trovereste qui di seguito diverse testimonianze in forma di soperchieria continua e irrefrenabile dell’umore e dell’orgoglio settario rispetto alla peculiarità delle questioni, se non fosse che abbiamo selezionato gli interventi con particolare riguardo alla pregnanza teorica e problematica dei contenuti.
Al di là di queste doverose osservazioni, il reale interesse della lettura consiste nella possibilità di rivisitare dal vivo, in presa diretta, un riassunto abbastanza significativo e stringato, anche se, per il tipo di contesto, altalenante e frammentato, delle principali tesi kolibiane.
Ve le sintetizziamo anticipatamente a titolo di chiavi orientative che potrebbero rendervi più agevole e illuminante la lettura, enumerando le premesse critiche e distruttive davanti ai rimedi proposti. Per chiarezza usiamo i verbi al presente e per forzosa semplicità sottintendiamo riferimenti che alla gioventù post-apocalittica potrebbero apparire strani e inusuali.
L’economia di mercato, intesa come possibilità statistica riguardante la gestione di un rischio proporzionalmente remunerativo assunto ex novo da persone di adeguate volontà e capacità non preliminarmente iscritte ad alcuna classe sociale, è morta, ridotta dalla globalizzazione a un puro gioco di azzardi, rendite di posizione, clientelismi (o nepotismi), malversazioni, devianze, gare di appalti manomesse o truccate, orchestrazione e sfruttamento di procedure concorsuali o fallimentari, il tutto, lecito oppure no, sottoposto a funzionari e burocrati controllati dall’alta borghesia (si suppone qui che una ‘vera e sana’ economia di mercato sia esistita in passato, fatto tutt’altro che sicuro, e si sottolinea l’avverbio ‘statisticamente’, che indica una probabilità negativa delle scelte prevalenti, a prescindere dai colpi di testa irrazionali e dai successi minoritari).
Quella che ci si ostina a chiamare ‘economia di mercato’ consiste in realtà in una organica connessione sistemica, facilitata dallo sviluppo tecnologico delle comunicazioni ed elaborazioni elettroniche, dei trasporti e della tecnologia in genere, di oligarchie industriali, finanziarie e politiche.
Questi poteri, sia per consapevole scelta che per l’ineluttabilità dei meccanismi, controllano e dirigono la scena planetaria all’insegna di due concomitanti eventi epocali: l’equiparazione verso la media centrale del tenore di vita delle masse planetarie e un anomalo collegamento statico tra bassa inflazione e costo del denaro intorno allo zero (che riguarda soprattutto le economie sviluppate).
Entrambi i fenomeni favoriscono le grandi concentrazioni: il primo, comprimendo il valore della merce lavoro, agevola in apparenza qualsiasi impresa (il cosiddetto indotto può quindi servire meglio e a costi inferiori esponendosi a una concorrenza selvaggia), ma il secondo, rendendo ostici per le banche i prestiti in proporzione inversa alla dimensione finanziaria e strutturale, sfoltisce la concorrenza dal basso, già fortemente destabilizzata dall'assoluta indecifrabilità analitica che avvolge gli orientamenti dei vari consumi e i regimi di concorrenza quando alla competizione partecipa il mondo intero con tutta la sua imprevedibile, impredicabile, disordinata creatività. Inoltre il costo zero del denaro rende precario (statisticamente!) il piccolo risparmio, favorendo capitali già consolidati che si gonfiano (statisticamente!) per le sollecite cure di sofisticati specialisti che effettuano le puntate (utilizzando anche la mole cumulativa del piccolo risparmio a bassissimo rendimento) a un tavolo da gioco esteso quanto il pianeta, con il risultato (statistico!) di massimizzare i profitti finanziari, a danno di imprese locali che non possono offrire rendimenti neppure lontanamente paragonabili, e di minimizzare rischi già attenuati da possibilità di coordinamento e condizionamento inaccessibili da parte dei piccoli operatori. Ovviamente, la ragione o il pretesto per mantenere basso il costo del denaro in queste partite evidentemente truccate verte sulla propulsione che s’intenderebbe imprimere alla crescita conseguendo nel frattempo effetti inflattivi (a danno dell’indigenza crescente che si arrangerà in qualche modo), ma questi ultimi non si innescano appunto per la selezione eccessiva degli operatori all’attacco e la dilatazione irrefrenabile delle compagini in difesa.
Il risultato finale di cause combinate a mutuo rinforzo massifica e spiana il ceto medio (tradizionale pilastro della democrazia formato occidente) mentre dilata la forbice tra lo stile di vita qualunque e le grandi ricchezze, che così acquistano influenza sempre maggiore mettendo a libro paga l’intero ceto intellettuale e politico (i nuovi cortigiani). All’insegna di questa élite culturale e professionale si stravolgono e addirittura invertono di significato termini tradizionali come conservatorismo e progressismo, destra e sinistra. Poiché la categoria degli indicatori economici sopravanza ogni altra nel giudizio generale sui dinamismi in atto, progressismo diventa sinonimo di crescita e conservatorismo di regole e garanzie frenanti: la destra, con parziale scarsità di consapevolezza e acume, comincia a riconoscersi in una difesa di condizioni soggette a una concorrenza effettiva, tali dunque da subire un arretramento costante e non di rado drammatico (ricevendo così un paradossale appellativo di ‘populista’ che ipocritamente maschera o rovescia il significato concreto di termini come ‘competizione’ e ‘rischio’), la sinistra tende a giudicare con favore crescente quelle grandi concentrazioni che forniscono la possibilità di una metamorfosi privatistica e aggressiva alle bolse, ottuse, pachidermiche burocrazie statali dell’antico socialismo e che si possono altresì considerare rimedi pratici ed effettivi al sopruso diffuso dei piccoli egoismi, all’indigenza e alla miseria intese in senso ottocentesco, cioè come fame e oppressione crudele e piratesca, espletando pure la funzione di potenziale ricetto e riqualificazione professionale per i componenti della tradizionale roccaforte rappresentata dal lavoro intellettuale stipendiato. In un certo senso, se non stona una lieve digressione, si comprende dai precedenti rilievi la plausibilità e liceità dei kolibiani nel rivendicare una posizione perfettamente neo-centrista, a volte definita polemicamente, in aperta opposizione all’ipocrisia da falsari dei sedicenti ‘moderati’, estremismo di centro. La formula sottintende una ironica accettazione di assurdità semantiche refrattarie ad adeguamenti concettuali indispensabili per fronteggiare gli sviluppi in atto. Infatti, se non si commisurano presunte doti di equilibrio e prudenza alla radicalità e urgenza delle scelte che la situazione oggettiva richiede, non si dimostra moderazione e buon senso, tutt’altro: si sprofonda nel fanatismo dell’insensatezza e del vuoto categoriale.
Gradualmente i ceti benestanti che resistono come percentuale minoritaria si uniformano agli stili di vita di una piccola nobiltà di sangue (contraddistinta da usi e costumi infiltrati da affettazioni e stramberie sempre più simili a cerimoniali di corte e sempre più lontani da indoli e vocazioni associabili a un concetto credibile di libertà individuale) e quelli che riescono a parteciparvi attraverso attività produttive di livello ridotto possono sopravvivere solo trasformandosi in macchine da lavoro super-specializzate, prive, quindi, per esigenze attitudinali inderogabili, di qualsiasi spessore culturale e originalità di aspirazioni e visioni.
Il liberalismo degenera nel liberismo, ovvero in un comunismo o fascismo (la differenza si dilegua) ‘moderati’ e tecnocratici, dove il lavoratore di qualsiasi livello vede progressivamente restringersi i propri margini di proposta, ma è nondimeno vezzeggiato dall’abile umanitarismo confessionale attraverso cui la nomenklatura aristocratica si qualifica come massimamente democratica.
La Nomenklatura non è fascista, comunista o comunque violentemente autoritaria (paternalisticamente sì!) soltanto per pura convenienza, dato che l’oppressione si manifesta con i caratteri, in qualche misura auto-lenitivi, della flessibilità e instabilità somministrate a masse in espansione sempre più avulse dal mito del benessere e della sicurezza, le quali, in base alle capacità tecniche raggiunte dalla civiltà, potrebbero essere salvaguardate, in cambio di disponibilità e servizi standardizzati, da forme funzionali e intelligenti di assistenzialismo metodico e uniforme, che non vengono predisposte (anche e paradossalmente) per il loro stesso bene (vigendo il mega-sistema attuale), perché si ridurrebbe così dinamismo e competitività, in particolare quella internazionale, e gli indicatori economici nazionali ne risentirebbero danneggiando soprattutto le posizioni inferiori. Inoltre, ammettendo stili di vita minimali, fondati su una ‘vera’ libertà del corpo e della mente che accetta di pagare il costo della sobrietà ed essenzialità materialistiche, si salverebbe magari il pianeta, ma si rimetterebbe in gioco la possibilità di una ‘vera’ critica intellettuale propedeutica all’invenzione di modelli sociali alternativi, frutto sempre di azioni individualistiche coordinate, mai e poi mai dei puri movimenti di un popolo costipato e confuso. Nota bene: che la nomenklatura, avvalendosi di una certa qual plausibilità teorica, per quanto stiracchiata, possa agire contro gli interessi popolari per salvaguardare il popolo medesimo, dimostra la costituzionale insufficienza e aleatorietà nella situazione presente dei metodi e concetti della tradizionale democrazia di rappresentanza.
Purtroppo, in tale assetto, quasi tutto l’incremento del Pil ritorna a vantaggio delle classi abbienti, mentre per registrarne gli effetti anche ai bassi livelli (a parte il raggiungimento, mai a costo zero in quanto a stress e fatica, di un livello basico di sopravvivenza che, indispensabile per il mantenimento del calmiere, si tende a garantire anche perché fame ed epidemie stonano, avversano gli alibi etici, contraddicono palesemente i proclami di facciata) si dovrebbero vedere cifre che precipiterebbero nel baratro una situazione ambientale e climatica già abbondantemente compromessa, almeno il doppio degli standard attuali (3 e rotti percento), il che, ipotizzando in modo abbastanza ragionevole e forse perfino ottimista una coincidenza tra coefficienti dell’incremento economico e quelli dei danni procurati (da una parte e dall’altra migliorie e peggioramenti tendono, secondo i casi, a un rinforzo progressivo o a un limite invalicabile), comporta un raddoppio dei calamitosi effetti termodinamici in una dozzina di anni, 300 volte circa (dai 30 attuali!) in un secolo (valori indicativi). Per farsi una idea di massima intorno a come e quanto elementari effetti a cascata, nella fattispecie quello dei tassi composti, siano bellamente ignorati sia dalla gente comune che da insigni pubblicisti, basta osservare che, a ritmi come quelli presentati dall’economia cinese nel primo decennio del XXI secolo, apporti calorifici e disgreganti aumenterebbero più di 2000 volte (duemila!) in un secolo (raddoppio in meno di 10 anni) e ancora di più sostituendo completamente gli idrocarburi tramite energie solari ed eoliche o processi non nucleari come le batterie a idrogeno. Tali fonti innovative, nella globalità a 360 gradi dei vari cicli integrati dal concepimento alla tomba, non potendo usufruire di un apporto di sintesi e concentrazione dalla durata eonica fornito generosamente da madre natura, presentano allo stato attuale rendimenti inferiori, annullando una buona parte e magari la totalità più gli interessi dei vantaggi ottenuti con la diminuzione dei gas serra. Queste considerazioni sono tra l’altro più che sufficienti a beffeggiare (il termine è fin troppo moderato) qualsiasi umanitarismo fondato sull’esaltazione della vita umana in quanto tale e lo sprone alle nascite, a prescindere dai contenuti di appetibilità sperimentati in prima persona dai singoli titolari ridotti a dei prestanome: le magnifiche sorti e progressive degli attuali viventi, infatti, senza drastiche correzioni di rotta per le quali i professoroni di etica non sanno neanche da che parte cominciare, implicano l’azzeramento sicuro di un numero stratosferico di vite future.
Quanto la situazione ambientale sia già compromessa è dissimulato semplicemente perché rovinerebbe la festa, oltre che a quelli che una volta si chiamavano 'i padroni del vapore’, alla vasta area dell’edonismo cortigiano, che ancora può contare su figli dell’opulenza non ancora sfiorati dalla crisi di rigetto o ancora troppo ‘spensierati’ per rendersene conto. La realtà va ancora più di traverso alle fasce agiate dei paesi cosiddetti emergenti che stanno attaccate alle poppe della democratica opulenza capitalista e ne succhiano il nettare avvalendosi di privilegi e autoritarismi saldamente affondati in una millenaria tradizione. Grazie a questo calibratissimo mix di nuove e vecchie usanze, tali classi, coordinandosi a livello mondiale, ‘assistono e consigliano’ le commissioni dell’ONU e con cerimoniosa gentilezza mafiosa le invitano ad assecondare i deliranti vaticini dei loro scagnozzi.
I gaudenti (perlopiù simulatori terrorizzati all’idea di essere considerati dei perdenti asociali, nonché artefici o vittime di una sottocultura per cui l’inconcludente ipocrisia umanitaria è sempre il bene mentre il realismo critico il male, l’ottimismo il bene mentre il pessimismo il male, il sentimentalismo è buono e lo scetticismo cattivo, di solito commedianti accomodanti molto loquaci se si tratta d’impartire rigide prescrizioni normative su come essere sereni e contenti, muti però davanti ai requisiti organizzativi in grado di fondare un’autentica libertà e autodeterminazione di un singolo debitamente emancipato dalle costrizioni materiali) espongono, non solo l’avvenire dell’umanità, perfino la prosecuzione di qualsiasi forma di vita sulla terra a rischi incalcolabili, ma di sicuro preoccupanti molto oltre elementari livelli di precauzione e vigilanza, del resto non potrebbero fare diversamente dato che un arresto senza alternative di psicotici e micidiali automatismi di sviluppo comporterebbe un disagio di massa intollerabile, foriero di sconquassi e rivolte violente.
L’unica alternativa credibile esigerebbe la coniugazione di ideali utopici nel segno di una radicale riprogettazione sistemica, ma una schiacciante prevalenza di intellettuali, scienziati e tecnologi preferisce dare manforte all’acquiescenza dogmatica (esemplificata da paradossali e grotteschi revival confessionali), senza scusanti di sorta oppure adottando la scusa dell’impredicabilità del caos deterministico, usato come spunto di agnosticismo invece che di allarme. Tutti costoro, per non compromettere carriere o scampoli di carriera, si avvincono con nevrotica passionalità a distorsioni cognitive che accentuano ogni segnale ottimista e positivo e svalutano gli indizi negativi, potendosi avvalere per questo di un bolso empirismo consuetudinario imperniato su concetti pigri e corrivi di normalità e continuità nonostante tutto.
Del resto intellettuali, scienziati e tecnologi raggiungono posti di riguardo e addirittura d’influenza o pitturandosi la faccia con le insegne di questo o quel clan partitico, istituzionale, plutocratico, egemonico oppure addivenendo a livelli di specializzazione così sofisticata e parossistica da smarrire il concetto stesso di una sintesi d’insieme. E’ ormai appurato il rapporto diretto tra la crescita in sottigliezza e complicazione delle specificità disciplinari e l’avvento sempre più esteso e influente sulla scena pubblica di veri e propri imbecilli completamente sprovveduti quanto a concetti di base e capacità di connetterli, i quali imbecilli, a ben vedere, vengono definiti tali e cioè imbecilli soltanto per un eccesso di malevolenza polemica, trattandosi in effetti di specialisti molto addestrati in scherma psicologica, virtuosistici esempi di expertising in partigianeria, adulazione, circonvenzione, plagio, doppiezza, arrampicata galoppina e quindi anche in ‘comunicazione’ (di comandi subliminari e comportamenti eterodiretti da assumere senza spirito critico). Non imbecillità dunque, ma formidabile armatura esistenziale che consente di pascersi da maschio o da femmina alfa a, alfa b o alfa c, da alfino amaranto o da alfetto pervinca, e che, anche in presenza di riscontri certi e contrari alle proprie elementari convinzioni, consente sempre di addebitarli a deficienze, malvagità, complotti avversi. Non servirebbe a niente neppure dimostrare assiomaticamente con supporti di evidenze empiriche che la salvezza dipende da accordi quasi plenari coordinati da una obbiettiva razionalità scientifica, se domina chi ritiene che non esiste una verità più probabile di un’altra al di fuori di quello che testimonia l’autostima sorretta dal successo, se prospera soltanto chi si affida a una fenomenologia religiosa nutrita da endorfine, spontanee o artificiali, e corroborata da assidui bagni e massaggi termali nello sterco del diavolo.
In questo quadro di decadimento culturale che moltiplica la forza dell’arbitrio aleatorio e quindi del privilegio, diventa indispensabile enucleare specificità e differenze della neo aristocrazia tecnocratica rispetto ai tradizionali sistemi oligarchici succedutisi nei secoli passati. Ci limitiamo a due aspetti salienti: prima di tutto, la sua distruttività enormemente maggiore, legata, oltre che alla ovvia potenza dei mezzi a disposizione, alla necessità di collegarsi a un vasto circolo di collaboratori ‘non nobili’ (e molto spesso ignobili) animati da quello che in altra sede ho definito un ‘dinamismo brigantesco e arrivista’; in secondo luogo, la labilità di una giustificazione morale e metafisica che non può contare davvero su una religiosità ridotta a un ruolo di ausilio psicodinamico e d’incitamento simbolico, continuando a vigere di fatto l’involucro giuridico della democrazia formale, solida strutturalmente e sul piano degli alibi e dei costumi, nonostante lo svuotamento effettivo di contenuti.
Tutto ciò ha conseguenze importanti, in quanto implica la necessità di lusingare le varie corporazioni e clientele e in genere l’impossibilità di rinunciare a politiche elettoralistiche e demagogiche. Il risultato finale delinea l’estrema fragilità del pacifismo e dell’internazionalismo governato dal consiglio di amministrazione mondiale dei ricchi e dei potenti, che non può esimersi dal saccheggio del pianeta, né astenersi quindi dalle bellicosità nazionalistiche che sorgono dai conflitti d’interesse ineluttabili e oggettivi che agitano le diverse popolazioni e aree geografiche.
Mentre nelle antiche oligarchie aristocratiche, un monarca autorevole, assennato, scrupoloso e sinceramente preoccupato del benessere dei sottomessi poteva migliorarne le condizioni di vita molto meglio di quanto fosse realizzabile da qualsiasi iper-democratico ribellismo, negli attuali ‘morbidi’ dispotismi tecnocratici una figura del genere avvia soltanto movimenti peggiorativi, perché produce attriti nazionalistici senza poter rimediare a un impianto di relazioni sensibile in modo inconsulto e indecifrabile a modifiche puntuali che non tengano conto, cosa di fatto impossibile, degli oscuri e intricatissimi collegamenti complessivi.
Non hanno tutti i torti quelli che sostengono che l’allarmismo ambientale è esagerato: il sistema dell’economia planetaria, a ben guardare, si presenta molto più instabile (anche se un paragone al riguardo rimane sempre campato per aria, data l’indecidibilità delle tempistiche nei processi caotici) e forse s’incaricherà prima della vilipesa Natura di una distruzione globale provocata dalle leggi sociologiche che abbinano sempre un disastroso crollo economico a venti di guerra, in questo caso la terza guerra mondiale.
A fronte di tale spietata critica negativa della società contemporanea, di volta in volta ritenuta da avversari, variamente colorati e motivati, eccessiva, semplicistica, estremista, astratta, pregiudizialmente malevola eccetera (vedi Massimo Bidone, Socrates Tafano, Johnny ‘Bingo’ Sfottone et al.), si cerca di connotare in senso realistico il principio basilare di una società progettuale, sottolineando per esempio che l’artificiosità della presenza umana è un dato di fatto inequivocabile, quanto deliberatamente misconosciuto e rimosso. Moltissimi supposti automatismi, come tutta la mitologia relativa al ‘libero’ mercato, al ‘libero’ pensiero, al ‘libero’ interscambio di merci, di valori, di opinioni, vengono costantemente monitorati, infiltrati, condizionati in base alle tecnologie esistenti e alla classe di persuasori che possiede le competenze per disporle al servizio, conscio o inconscio, di un concetto unico e dominante di organizzazione sociale, quello che, volenti o nolenti, permette il cristallizzarsi definitivo di poteri neo-aristocratici e tecno-teocratici i quali, mentre, come pazzi, trivellano, trapanano e fanno esplodere, ritengono la distruzione del mondo da parte dell’umanità semplicemente impossibile e il bene una manna che piove sempre e comunque dall’alto: punto e basta.
Tutto ciò, nonostante la mole sconfinata di balordaggini commesse, non è molto distante da quello che è effettivamente avvenuto nell’era moderna (anche perché nei computi e nei sunti della storia ufficiale non rientrano mai morti, drammi e infelicità di sconfitti e iellati, solo le luminose tappe del progresso civile evidenziato da automobili ed elettrodomestici), ma si dà il caso che un secolo o poco più di testimonianza è assolutamente irrilevante per un giudizio sul futuro anche immediato, dato che l'accelerazione esponenziale della civiltà riduce conseguentemente i tempi di riferimento, per cui, al fine di valutare una complessa evoluzione sistemica, quello che era un anno trent’anni fa adesso potrebbe valere un mese o poco più (non sapremo mai esattamente il coefficiente di correlazione, al di là della certezza che sta mutando sempre più velocemente).
Proprio su temi simili e in collegamento con le problematiche di un contesto che solo una visione miope può limitare all’esclusivismo antropocentrico del vecchio umanesimo, diventa fondamentale comprendere la particolare gnoseologia kolibiana e identificarne meglio la collocazione tra l’attributo di filosofia astratta e metafisica comminato da alcuni oppositori e una più o meno ortodossa epistemologia scientifica.
Che qualcuno degli epigoni, per stemperarne le durezze e propiziare un più vasto accoglimento popolare, abbia rimesso in discussione il determinismo assoluto dei padri, può anche risultare credibile, ma non toglie che tale determinismo non rappresenta una forzatura arbitraria della visione originale, bensì una premessa organica e coerente, una chiave di lettura indispensabile perfino per le istanze più politiche, ma solo se connesso ‘indissolubilmente’ a una condizione d’imprevedibilità che regna sovrana sopra certi valori spaziotemporali e per determinate soglie di complessità.
Il binomio determinismo / imprevedibilità deriva da ovvie e irrefutabili applicazioni di branche come termodinamica, teorie dell’informazione, del caos, della complessità eccetera alle scienze della natura e da queste, per il tramite di ulteriori principi indiscutibili, ai più diversi contesti di sociologia umana. Certe estensioni al dominio del ‘reale effettivo’ di un’euristica generale collegata alle scienze, mentre apportano contributi di natura certa e assiomatica, non prevaricano o egemonizzano alcunché e anzi rispettano e confermano in pieno motivi empirici già consolidati. La divaricazione rispetto all’unica alternativa plausibile (in senso comportamentale), quella del dogmatismo religioso, risulta netta e inguaribile, ma è imposta da esigenze strategiche cruciali che sono l’esatto contrario delle fissazioni ideologiche.
Si prescinde da un utilizzo solamente pratico e strumentale del sapere scientifico, con validità ristretta ad ambienti asettici e controllati, ma lo spostamento e allargamento di contesto non provocano di sicuro la compromissione di risultati, metodi e criteri intesi come portati di conoscenza tout court che si fortificano proprio in rapporto proporzionale alle dimensioni e criticità dei riferimenti, implicando però, e questo infastidisce molto, una critica radicale di certo ‘prudentismo’ dualistico che rifiuta di tirare le conclusioni più ovvie e immediate da certe definitive acquisizioni d’indagine, relegando di fatto il discorso scientifico al di fuori dell’ordine storico e sociale della vicenda umana, a cui di conseguenza accede soltanto (servizi tecnologici a parte) come suggestione di massima presto ridotta a nient’altro che una moda culturale.
Invece, solo ambiti concettuali che fondono nozioni come sistema, complessità, caos deterministico eccetera possiedono la forza d’introdurre a una visione dei fenomeni planetari, siano essi geologici, biologici o climatici, integrata con quello che specificamente attiene alle sorti dell’umanità: rinunciare a tali concetti significa estraniarsi da qualsiasi autentica, non solo ‘spiegazione’, ma anche e soprattutto ‘comprensione’ delle dinamiche generali (quindi anche storiche) passate, presenti e future soltanto per rispettare patti di spartizione e di non belligeranza con l’umanesimo clericale secondo la calda e vigilante ‘raccomandazione’ degli organi di controllo istituzionale e dell’ortodossia accademica.
In questa luce va vista anche l’insistenza, che ha irritato molti e disgustato gli spiritualisti, su interpretazioni di tipo darwiniano dilatate oltre i confini canonici: si può anche giudicare schematici, rozzi, arbitrari, i relativi argomenti, ma si deve prima tacitarne lo schema esplicativo molto generale autorizzato da certi meccanismi ineluttabili di fondo che intervengono in qualsiasi contesto biologico dove insorge un tipo o l’altro di competizione. Un uomo che pensa di esserne esente sta mettendo in atto una delle tante tecniche psicologiche di mistificazione: hanno senz’altro un valore pragmatico e una funzione sociale, illuminano di senso metaforico e valore affettivo le relazioni interpersonali, addolciscono tensioni e dissonanze cognitive, però ciò non implica che si possa adottarle per analizzare o predire i fatti concreti, i dati di cronaca e storia, gli eventi epocali.
Progettare in grande è già enormemente difficile: se non si tenta un disegno scientifico del mondo sottratto alle nicchie settoriali, diventa impossibile, il che è gravissimo, dato che un progetto adeguato si delinea ormai come l’unico rimedio all’autodistruzione. La complessità del mondo, infatti, sta diventando troppo acuta e incontrollabile per qualsiasi tipo di cultura umana che non si prefigga obbiettivi di drastica semplificazione. In realtà la semplificazione è in corso, ma non si chiama progetto, si chiama polarizzazione autoritaria, dominio dogmatico, assoggettamento confessionale, considerando i quali afferriamo anche l’aggancio in apparenza strano tra una sorta di utopia classica con aspetti comunistici e un recupero del liberalismo. La ricetta autoritaria non può funzionare per il semplice motivo che rappresenta soltanto un espediente per non modificare un modello di crescita destinato a diventare, in sé e per sé, la fonte di ogni rovina.
Altri due ostacoli formidabili si frappongono però davanti alla realizzazione di un nuovo modello di organizzazione sociale: il primo riguarda la diffusione di una mentalità propedeutica all’instaurarsi dei relativi gruppi di lavoro (momento che, data la preponderanza in esso delle componenti cognitive e razionali su quelle passionali, istintuali e affettive, non può avvenire senza l’avallo di specifiche élite professionali), l’altro l’immunizzazione delle procedure effettive di allestimento e implementazione dall’influsso prevaricante della transazione politica, intesa come virulento contagio degli interessi precostituiti, certamente e forse soprattutto, ma anche come nucleo cronico e inestirpabile delle attitudini umane, ovvero caratteristica che, da fattore evoluzionisticamente favorevole, si sta trasformando, se subito passivamente senza i necessari e profondi aggiustamenti, in puro e semplice handicap.
Qui giocano altri fattori di non secondaria importanza, legati perlopiù a riflessi di psicologia sociale o addirittura a meccanismi per cui verrebbe voglia di rispolverare nozioni di tipo psicanalitico, sto alludendo alla famosa ‘sindrome del vincente’, esemplificata dall’aforisma ‘l’umanità sa come perdere, ma è assolutamente inadeguata alla vittoria’ e alla domanda ‘come ci si può salvare dalla presunzione, dal narcisismo, dalla prevaricazione, dalla spocchia, dall’incontinenza caratteriale e nondimeno usufruire dell’autorità propositiva e produttiva di un capo naturale?’ (formulazioni di Bettino Mozzarella). Una società non gerarchica non funziona (è perfino una contraddizione in termini), una società gerarchica è inevitabilmente darwiniana: l’idea di progetto può candidarsi a risolvere l’aporia? Basta il dettaglio delle prescrizioni? Che margini bisogna concedere perché i dettagli non configurino una camicia di forza? Che tipo di prescrizioni riesce a prescrivere una creatività adeguata e il giusto mix di interdipendenza e comando da parte di comandanti non egocentrici? Esiste la possibilità di effettive autonomie funzionali senza conflitti distruttivi o tutto, nella società umana, si riduce sempre e comunque ad arbitri mascherati e ritualizzati? Con la parte enorme di egocentrismo presente in ogni spirito di sacrificio, dedizione al dovere, idealismo riformista e umanitario, missione messianica, come la mettiamo?
D’altra parte, se la democrazia liberale è defunta e l’oligarchismo tecnocratico instabile ed esplosivo, che altro rimane se si abbandona la via utopico-progettuale? Un neo barbarismo dispotico? Il medioevo prossimo venturo? Ci stiamo forse dimenticando della fratellanza universale senza governi nazionali?
Le suddette tematiche emergono chiaramente o si prospettano in filigrana e controluce dalle ‘scaramucce’ di cui forniamo nel prosieguo significative testimonianze, ma, accanto alla pertinenza e a una generale buona apprensione dei problemi di fondo, siamo costretti a denunciare una sorta di falsa tonalità, di intorbidimento atmosferico, di logorio nella sincerità dell’impostazione da parte dei redattori incaricati, tutti in un modo o nell’altro sulla via di smarrire il paradossale pathos dialettico, infarcito di sapienti incrinature e spiazzanti disarmonie, che tanto disorientò e interdisse i commentatori quando furono costretti a fare i conti con il logos dei Padri, così sarcasticamente profetico e ambiguamente fustigatore. E’ scattato il contrappasso inevitabile per cui purezza d’ispirazione e dirittura d’intenti, da una parte, successo popolare e azione politica dall’altra, non si possono coniugare in alcun modo.
Poiché mi sono dilungata anche troppo ed è venuto il momento di tirare le conclusioni, mi sento dunque di poter affermare, a sigillo di questo breve excursus, che la natura e il tono degli scambi che qui di seguito vi riportiamo autorizza o comunque non smentisce affatto una mia ipotesi pregressa circa il fallimento sostanziale del movimento kolibiano: non avrebbe dovuto costituirsi in partito, bensì consolidarsi e diffondersi (similmente a quanto si proponeva un cattolicesimo meglio espresso dal termine ‘vaticanismo’) come corrente di pensiero trasversale mirante a contaminare ogni ideologia fino a diventare la parte sostanziale e dominante di ciascuna.
Purtroppo non è avvenuto e le conseguenze le conosciamo bene.
Non volendo tuttavia terminare su una nota di desolazione e di rimpianto (per rattristarsi non servo certo io, basta che ognuno guardi fuori dalla propria finestra, se ne possiede ancora una), vi invito a godervi la corrispondenza per quello che vale: una sequenza di botta e risposta che, sottraendosi alla occasionalità impulsiva, al ridanciano cazzeggio, al finto impegno carrierista, all’indulgente sentimentalismo autobiografico propri di una chiacchiera elettronica che allora stava subissando di vuotaggini il pianeta (la ‘possente e meravigliosa stupidità della democrazia teologica’ secondo la famosa formula di Omar Sommazzi), rinnova i fasti degli antichi epistolari di dotti e luminari che facevano scricchiolare il pennino sotto la lampada a olio e attendevano mesi prima di ricevere una meditata e stimolante risposta.
L’intensa, grave, sincera presunzione che emana da quelle superfici scabre incise con eleganti e pensosi grafismi rimane, in fondo, l’unica autentica illusione di spiritualità mai raggiunta dalla vicenda umana, ogni altra svolazza adesso come una zanzara nel chiarore di uno schermo acceso nel buio, un fastidioso insetto indotto da fatidici istinti a cercare la pelle dell’eroe attraverso i pixel turbolenti dei videogiochi adottati dalle sale di comunanza e ricovero.
Data la pessima qualità delle tipologie sociologiche che più hanno tratto vantaggio dalle istituzioni religiose, è quasi obbligatorio supporre che gli emaciati e spauriti fantasmi, sopravvissuti al genocidio degli ultimi valori sottratti ai capricci della temporalità e della storia, si rifugino nell’assoluta gratuità e inutilità dell’arte e della filosofia. In questa luce, prestando fede alla badante (ed erede) Koro Latah, che raccolse la confidenza in privato e senza altri testimoni mentre si accingeva ad avvolgere i nobili lombi con un pannolone pulito, si comprende meglio l’aforisma emesso poco prima di morire da Anonimo I detto ‘il Sommo’: “Non trovo niente di meno eccitante che salvare l’umanità dall’annientamento. Poiché, d’altra parte, cercare di salvare l’umanità, come governare gli italiani, non è difficile, è inutile, quella di potenziale benefattore supremo è stata un'attività a cui mi sono dedicato volentieri.”
LA CORRISPONDENZA (per chiarezza, ci siamo attenuti a una rigida alternanza tra comunicazioni del pubblico e risposte degli incaricati della redazione kolibiana)
Anche questo breve messaggio, credetemi, richiede uno sforzo violento per superare la repulsione che provo nei confronti di voi kolibiani. Se prima di ieri sera, questa si conteneva entro limiti di ordinaria fisiologia civile, dopo lo spettacolo indecoroso esibito dal talk show dell’ Impeccabile Lecchino (a cui ho soggiaciuto con la rabbrividente e colpevole stupefazione indotta da un trash surreale), sta debordando in una sindrome da colica e vomito.
Tutto quel pubblico entusiasta che s’inebetiva estatico sotto la potente ventata di corbellerie dell’ultimo vate sfornato dai ministeri clandestini e dalle cancellerie ombra con cui state inondando il pianeta sembrava temere i mastini del servizio d’ordine che irreggimenta le tifoserie fasulle di cui vi adornate, ma in realtà, come purtroppo ho dovuto constatare, non chiedeva di meglio che esagitarsi in una danza di adorazione sfrenata, come le teste di segatura ammuffita che pagano una follia per assistere alla pirotecnica tonitruante di pessima, pessimissima musica ammannita tra mille stridori e altre nefandezze acustiche, quelle marionette agitate da burattinai fattucchieri che fanno sparire le carenze tecniche sotto le magie delle stroboscopie e dei laser e le incartano con il fiocco di frasi come ‘siete meravigliosi!’, che commuovono fino alle lacrime la platea d’invasati soprattutto quando il sublime artista è straniero e nonostante ciò ha impegnato frammenti della sua preziosissima degnazione pur di esprimere il mirabile concetto nella lingua del paese ospite.
Ci mancava solo che, non riuscendo a resistere, il fervore da claque messa al guinzaglio e ammaestrata si sprigionasse all’improvviso in ondosi sommovimenti da stadio, ‘ola’ mi sembra che li chiamino, quel fremito di solidarietà e consonanza che coglie le folle soltanto in occasione delle massime libidini calcistiche e viene smerciato dai cronisti più ispirati come la prova lampante e inoppugnabile che la fratellanza cosmica esiste, eccome se esiste, la vedono chiara soprattutto gli indemoniati tifosi pronti a fare sfracelli al primo rigore negato. Esiste e ci salverà di sicuro.
Ci si fosse limitati soltanto a manifestazioni così normalmente e pedissequamente degeneri! No, a un certo punto il club della Pasionarie di Via Margutta o chissà quale altro circolo, accortosi che la telecamera frugava da voyeur intorno a fianchi e seni peraltro, almeno quelli, non disdicevoli, ci hanno rapidamente infilato la loro manina vogliosa e che cosa vi hanno rimediato per la gioia di grandi e piccini incollati allo schermo? Eh, sì, i primi piani formato foto-tessera di quelli che voi scellerati chiamate i Grandi Padri Kolibiani, i Santi Fondatori: i volti sibillini e sicofantici dei calvi e barbuti leninini filosofici propedeutici a tanto scempio di deteriore umanità!
Un incubo che insiste ancora stamattina, dopo il risveglio.
Forse scrivo solo per esorcizzarlo.
Ha fatto bene a scrivere anche se il messaggio non ci sembra poi tanto breve: il contrappasso di una misteriosa provvidenza la pungolava forse con il dovere di un’abbondanza che a noi torna utile come esempio degli eccessi e delle farneticazioni dei nostri più acerrimi detrattori.
Raramente capita d’incontrare un’esibizione di astio più rivelatrice del sussiego snobistico, spocchioso e malevolo, che s’irrita fino al parossismo vendicativo in presenza del dilagante successo popolare di molte istanze kolibiane.
Si è mai chiesto se proverebbe lo stesso disgusto davanti a manifestazioni di spontaneo entusiasmo che accogliessero gli emissari di posizioni ideologiche affini alle sue?
Non vorrà farci credere che lei, sic et simpliciter e a prescindere dai motivi originari, è nemico di quell’ineluttabile automatismo antropologico che fonde in una catena di reazioni a mutuo rinforzo le astute blandizie dei vincenti e il servilismo drogato delle masse dedite ai sabba istintuali?
Ce lo confermi e certifichi in qualche maniera e vedremo se promuoverla a eminenza apocrifa di questa o quella delle correnti che consacrano la nostra ispirazione pluralistica.
Il catastrofismo di voi kolibiani, scontato spauracchio movimentista dovuto ai sobbalzi e agli assestamenti tipici delle fasi effimere di transizione, dopo un’analisi attenta si rivela per quello che è: una esagerazione grottesca.
Il ‘pericolo venusiano’, clamorosa trovata pubblicitaria per confortare l’impotenza dei più inetti e sprovveduti con i fasti paradossali di un neo-pauperismo retrogrado e rinunciatario, sconfina addirittura nell’esibizione clownesca.
Ci troviamo davanti, insomma, all’ennesimo travestimento sensazionalista di banali considerazioni geofisiche, di scontati fenomeni sublimati dal millenarismo scientista, come le concioni sulla morte inevitabile del sole, prevista, purtroppo per voi, solo tra più di 4 miliardi di anni.
Se per qualche grado in più il pianeta fosse costretto a bollire, la storia della vita sulla terra sarebbe già terminata da 500 milioni di anni o più e forse non sarebbe mai cominciata.
Quanto al sole, caro amico, in meno di un miliardo di anni diventerà così caldo da rendere molto più problematica la sopravvivenza di qualsiasi forma di vita sulla Terra. Per le prospettive umane, comunque limitate, si tratta pur sempre di intervalli esorbitanti che non autorizzano allarmi ulteriori, ma dal punto di vista di una percezione della fragilità planetaria (consapevolezza utilissima, se conduce a una maggiore lungimiranza nello sviluppo della civiltà umana) il dettaglio potrebbe anche non apparire così indifferente.
Il punto cruciale che lei trascura e di fatto neutralizza le sue critiche fino a ritorcere su di esse ogni accusa di caricaturale semplicismo riguarda però la velocità del cambiamento, chiaramente stigmatizzata fin dagli scritti originari dei Padri Fondatori.
La termodinamica e la chimica fisica insegnano che in un insieme combinato di reazioni contemporanee tra svariati elementi o molecole, partendo dalle stesse condizioni iniziali, si possono ottenere esiti molto differenti inserendo catalizzatori a maggiore o minore efficacia in uno stesso punto del sistema, il che significa che già a livello piuttosto elementare la rapidità con cui avvengono i singoli processi riveste un ruolo sostanziale ai fini di una scelta tra equilibri durevoli secondo specifiche sequenze temporali. Sul piano climatico se ne ha una esemplificazione diretta pensando al metano liberato dal permafrost in scioglimento. Il metano è un gas serra molto più deleterio dell’anidride carbonica, ma è instabile e permane nell’atmosfera solo pochi anni: se viene liberato lentamente non genera effetti catastrofici, ma se il disgelo è veloce la musica può cambiare fino ad assumere un crescendo esplosivo.
Senza la giusta valutazione di simili decorsi fenomenici, risulta del resto impossibile avvicinarsi a una cognizione credibile, a qualsiasi livello, di strutture biologiche percorse da una rete intricatissima di messaggeri che passano attraverso una serie sconfinata d’interruttori comandati da quei messaggeri il cui passaggio dipende da quegli interruttori, per cui, un po’ di straforo e come capricciosa divagazione, ci infilerei qui la seguente domanda: che scuola mai sarà quella che si rifiuta d’imporre a tutti, fin dai primissimi anni, una visione credibile di che cosa è una rete vivente sufficientemente estesa e in che tipo di criticità planetarie si trova implicata? Forse una scuola di ‘comunicazione’, la scuola dell’ottimismo e della speranza che insegna a sentirsi comodo e rilassato nelle trappole dell’esistenza.
Anche non disponendo di prove certe e riscontri puntuali, impossibili da focalizzare esaustivamente nella sterminata casistica messa in campo da complessità superiori alle forze cerebrali di ogni essere vivente, ci sembra più che ragionevole supporre che l’importanza della velocità in cui si sviluppano i fenomeni locali o parziali diventi sempre più predominante allargando i confini, la ricchezza e le relazioni del contesto in esame, dopo di che è sufficiente considerare il ritmo pazzesco che il ‘progresso’ antropologico sta imprimendo all’ambiente terrestre per ridicolizzare le sue ridicolizzazioni.
Ho assistito a un dibattito in cui il solito funambolo ‘kolibiano’, quel tipo di profeta meccanico o clonale che sta diventando di moda come ciliegina da talk show e prezzemolo da minestra riscaldata, citava i cicli di Milankovic per minimizzare gli influssi delle dinamiche solari sull’evoluzione del clima.
Ovviamente, tutti gli altri partecipanti al dibattito si sono ritratti rispettosi e intimiditi davanti alla abbacinante saggezza che irradiava da un esemplare genuino e garantito del nuovo Verbo Mediatico autorizzato, se non espressamente promosso, dai centri di manipolazione ufficiale della pubblica opinione.
Peccato che i riferimenti addotti dal ‘professorino biforcuto’, per usare la colorita terminologia coniata proprio da qualcuno di questi nuovi maestri di allegoria e retorica, ciccavano completamente il bersaglio mostrando chiaramente di ignorare la sostanza dei problemi: per le unità temporali che venivano messe in gioco dalle problematiche addotte, infatti, misurabili in ‘pochi, pochissimi’ secoli, secondo quanto esplicitamente detto e confermato, gli unici cicli cosmici di qualche interesse che coinvolgono il ‘motore solare’ e di conseguenza il clima terrestre non riguardano il pur degnissimo e autorevolissimo Milankovic, bensì quelli, a evoluzione e pertinenza molto più breve e veloce, delle macchie solari.
A tali cicli e non a quelli di Milankovic dobbiamo mettere in relazione i cambiamenti climatici che hanno rivestito importanza storica nel corso della vicenda umana e la cui tipologia dobbiamo quindi ritenere molto più attinente alla nostra storia futura rispetto a fenomeni che sprofondano oltre orizzonti temporali in cui può succedere realmente di tutto e diventa un gioco puramente teorico e accademico prenderne astratta visione.
Ebbene, è ormai praticamente assodata la coincidenza tra la cosiddetta piccola era glaciale (1645 - 1715) e il minimo di Maunder delle macchie solari così come di altri abbassamenti delle temperature e analoghi periodi di minimo: esistono inoltre modellizzazioni riconosciute pertinenti e verosimili che spiegano le sovrapposizioni.
Detto questo, indovinate un po’: è opinione degli esperti di quel settore astronomico che ci troviamo all’inizio di una fase pluridecennale di minimo dell’attività solare la quale, se i collegamenti di cui si è parlato non sono campati per aria, pure allucinazioni di scienziati pazzi, dovrebbero preludere a un generale abbassamento delle temperature.
Intanto orde di extraterrestri provenienti dal pianeta Kolib terrorizzano tutti additando la maledizione di Venere e rischiano perfino, in alcuni paesi, di diventare maggioranza assoluta.
Ma sì, in fondo il mondo è bello perché è matto.
Caro amico (che grande soddisfazione poter finalmente usare, da rappresentanti di una classe intellettuale egemone, una formula garbata e gentile equivalente a un insulto velenoso, laddove il perdente culturale, per ottenere lo stesso effetto, è obbligato a sputare fumi sulfurei rampognati per default dal pigro e bene educato conformismo) i cicli di Milankovic sono i soli citati, in alcuni casi (non il nostro!) anche provocatoriamente, per il semplice motivo che sono gli unici che possono variare la consistenza del forcing solare (ovvero dell’energia luminosa che raggiunge annualmente, in media, l’unità di superficie terrestre) di percentuali che non siano frazionarie (ovvero del 6% anziché dello 0,2, per citare dei margini abbastanza tipici).
Inoltre i rapporti causali tra le variazioni climatiche e le fasi di attività solare che cita, non rivestono ancora quella valenza di inoppugnabilità che lei vi ascrive, questo perché, nonostante alcuni interessanti studi al riguardo, i nessi rimangono tutt’altro che chiari e, per esempio, potrebbero intervenire effetti mediati da meccanismi ancora sconosciuti i quali, come ogni perturbazione inerente a dinamiche intricate, potrebbero agire in un senso nel corso di un particolare stato del pianeta e in senso opposto in uno stato diverso, quindi raffreddare il pianeta sotto un determinato livello di gas serra e contribuire al riscaldamento o comunque a una destabilizzazione catastrofica del clima sopra la medesima soglia.
Ancora una volta voi ‘tranquillisti’ mostrate di non comprendere appieno il nocciolo problematico delle questioni, che non riguarda le certezze che io e lei possiamo avere, bensì l’esatto contrario. Voi continuate a sostenere che è possibile camminare nel buio più completo su un terreno pieno di buche, perché sono pochissime, noi diciamo semplicemente che nessuno sa quante siano le buche e che sostenere che siano poche è una questione di fede, non di scienza.
Per ritornare alla materia specifica da rilievi filosofici importantissimi, ma forzatamente generici (la filosofia, come l’arte, ha contato molto nella sociologia occidentale proporzionalmente alla possibilità di utilizzo politico a fini di prevalenza concreta, dopodiché è stata abbandonata a vantaggio di altri strumenti più tecnologicamente à la page e annessa di fatto alla religione e ad altre pratiche terapeutiche d’igiene mentale, ma, secondo la visuale di un ipotetico o fantomatico bene comune, squalificarla ha rappresentato una immensa corbelleria), i medesimi effetti orbitali che determinano l’attività solare potrebbero incidere sull’attività vulcanica terrestre (per ogni ciclo di raffreddamento sono infatti storicamente identificabili eruzioni tali da rivestire un effetto climatico per niente trascurabile), oppure la difettosa schermatura dei raggi cosmici per l’indebolimento del campo magnetico solare potrebbe comportare un influsso sulla nuvolosità e le correnti atmosferiche e marine estremamente sensibile a certe variabili generali, rimanendo del tutto impregiudicato, in base alle nostre conoscenze attuali, se saremo arrostiti oppure ghiacciati, rinnovando un dubbio che anche l’ecologista più tradizionale ammette senza difficoltà.
Una delle poche cose certe, caro signore, rimane la seguente: in un clima destabilizzato, gli eventi estremi si avvalgono (con un probabilmente in corsivo e tra virgolette) di probabilità (corsivo e/o virgolette) enormemente maggiori rispetto agli esiti serendipity o riccioli d’oro.
E va bene, kolibiani dei miei stivali: siete la moda politica e sociologica del momento e quindi sembra obbligatorio occuparsi di voi.
Dirò subito che ho sempre guardato con diffidenza e scetticismo estremo sia alle vostre teorie che alle vostre iniziative, che mi sono peraltro apparse spesso e volentieri incoerenti le une verso le altre.
Sintetizzando al massimo, poiché non è certo questa la sede per dettagliate ed esaurienti discussioni filosofiche, mi lascia allibito come possiate incentrare la sostanza di una presenza, che rischia di diventare presto, ahimè, istituzionale, su quello che è un evidente ossimoro, una contraddizione in termini o addirittura un paradosso provocatorio e irridente, mi riferisco a quella che il prof. Lamborghini ha definito la ‘teologia della complessità’.
Divinizzando il contorto e il difficile, di cui nessuno si è mai sognato di negare l’evidenza, non si tarpa solo quel desiderio di spiritualità a cui voi guardate con tanto disprezzo, ma gli impulsi stessi di speranza e buona volontà alle cui sorgenti attinge qualsiasi forma non deteriore di individuo umano.
Signori belli, Dio è un principio monistico immensamente superiore al divismo pluralistico che voi sembrate agognare, è il ‘massimo comune multiplo’ (come vedete anch’io quanto a paradossalità, modestie a parte, mi difendo) di una vicenda umana e naturale che tramite Lui (uso la maiuscola per un segno di rispetto della storia e delle aspirazioni umane che a voi, con oggettiva scelleratezza, lasciatemelo dire, sembra procurare disgusto) fissa una meta posta rigorosamente al di là dello sterminato quanto inevitabile, scontato, incontestabile marasma di confusioni, distorsioni, complicazioni, intrugli e intrighi: al di là e quindi irriducibile, ideale e immateriale nel suo essere oltre, ma vivo, concreto e presente nella coscienza di ognuno proprio in virtù della sua distanza siderale di normativa etica solo apparentemente astratta, archetipo di ogni regola attiva e operante nonostante tutte le imperfezioni e i difetti di questo esagitato mondo terreno.
Senza Dio non c’è umanità, ma voi, nella vostra sottile, capziosa, allettante disumanità, questo dovete saperlo molto bene.
Caro, carissimo amico, Dio, come l’umanità, può esprimere tutto e il contrario di tutto.
Che cosa è astratto e concreto dipende poi dal contesto. Politicamente parlando, secondo noi, concreto è ciò che è progettabile e realizzabile a prescindere dai vincoli di forza maggiore, astratto ciò che a quei vincoli s’inchina dissimulando in una fumosa allegoria la pressione degli interessi dominanti.
Quando si parla di sogni, di ideali, di ‘aspirazioni profonde’ (profonde sotto o dentro che cosa? sotto la corteccia cerebrale? E a che livello? Mesencefalo o tronco? Ipotalamo o sostanza reticolare?), la sensibilità di ognuno può specializzarsi in performance raffinate e acquisire brevetti di volo pindarico esclusivo, ma una società veramente moderna ed evoluta affiderà simili acrobazie a talenti letterari, artistici e musicali, debitamente ascoltati e valorizzati, non più ai monaci e ai prelati della religione e della politica.
Voi spiritualisti o presunti tali (sempre molto più pratici e materialisti di quello che vorreste far vedere) vi regolate su principi talmente eterei che la vostra concezione della santità e del peccato alla fine si concentra sul mantenimento o la violazione di quella indelibata purezza, il che significa, in sostanza, che l’utilizzo dei principi, per non sporcarli e usurarli, va riservato a una dimensione che trascende la vita comune, la quale è oltretutto più saporita, quando è gustata nuda e cruda. I principi voi li adorate, ma non li adoperate.
Quanto alla disumanizzazione, se si esclude dal concetto qualsiasi connotato limitrofo all’azione violenta e cattiva, non si tratta, secondo noi, di qualcosa di aprioristicamente negativo: dipende dal livello minimo di stupidità e di abbrutimento assunto dalla cultura di massa in particolari contingenze e periodi. La disumanizzazione sarebbe sempre e comunque un male se l’umanità fosse sempre e comunque un bene per il pianeta e per se stessa. Astraendo e semplificando al limite del lecito (con la premessa esplicita che la formula esprime una verità logica priva di applicabilità nell’ambito dei fatti reali, ecologici prima ancora che morali) una specie che producesse oggettivamente e ineluttabilmente più male che bene (supponendo che si sappia che cosa questi vocaboli significhino, presunzione forse attribuibile a lei, non certo a questa redazione) dovrebbe essere soppressa
Noi ci limitiamo a definizioni funzionali esprimibili con un minimo di comprensibilità e precisione: buono, per noi, è quell’assetto sociale che consente a tutti i suoi membri, nessuno escluso, di coprire con relativa facilità e secondo criteri di sostenibilità ambientale i propri bisogni essenziali, concedendo il massimo di libertà coerentemente ammissibile per quanto riguarda ogni ulteriore definizione del proprio stile di vita. Altre tipologie organizzative ci appaiono molto meno buone. In ogni modo, un confronto ha senso soltanto tra progetti esaurientemente dettagliati senza nessun riguardo alle forme già esistenti.
Qualche parola, ora, sulla ‘teologia della complessità’. Si tratta di una formula elegante e idiota, come ogni cosa o idea di puro lusso: mondo e complessità non sono cose distinte, si presuppongono inscindibilmente, almeno nei limiti in cui il mondo ovvero l’universo è tale da produrre, fosse anche in un infinitesimo di spazio e per una serie di coincidenze incredibilmente rare, organismi biologici.
Noi non eleviamo a Dio la complessità, gente come lei, invece, eleva a Dio un’apprensione oscuramente intuitiva e razionalmente indefinita della totalità cosmica.
Fondendo in uno gli ultimi rilievi, osserveremo per concludere che le persone che proclamano l’esistenza di un’etica metafisicamente oggettiva tendono di solito a glorificare l’umanità nel suo stato di fatto, l’umanità così com’è, sollevando il sospetto che l’istinto religioso rimanga inscindibile da una obbediente accettazione del principio di realtà inteso come mero rispetto ossequioso delle forze vincenti.
Voi accusate religiosità e umanitarismo di capziosa ambiguità, spirito truffaldino, vuota verbosità polisemica, ma moltissime vostre argomentazioni meriterebbero lo stesso trattamento.
Chomsky, il linguista, sosteneva che con il darwinismo si può giustificare qualsiasi cosa. Ebbene: quante volte avete usato arbitrariamente concetti evoluzionisti in contesti impropri, avulsi dagli ambiti fuori dai quali non possono conservare alcuna attinenza scientifica e quindi sconfinano in una prassi allegorica, definire la quale ‘fantasiosa’ è il commento più generoso che si possa concedere?
Egregio signore, un conto è l’allegoria, un altro l’analogia. In filosofia della scienza l’uso dell’analogia richiede forse molta cautela, ma non è certamente vietato.
Nella fattispecie, si tratta di comprendere che cosa significa ‘darwiniano’ quando usato come termine descrittivo e qualificativo per evidenziare specifiche caratteristiche di sistema.
Intendiamo darne una definizione compatibile (anche se non coincidente) con la comune accezione scientifica e che automaticamente ne giustificherà l’applicazione a tutti i contesti sociali che si sono storicamente determinati e questo in opposizione alla definizione di ‘progettuale’ che compete esclusivamente a costrutti teorici delineati (finora!) soltanto sulla carta, tra cui, ovviamente, il progetto kolibiano.
Di passaggio, sottolineiamo come ‘compatibile, ma non coincidente’ è una formula generale che ben si applica a qualsiasi utilizzo filosoficamente pregnante di nozioni scientifiche intese come verità di fatto da cui, del tutto legittimamente, s’intende far derivare indicazioni e significati validi anche al di fuori del settore o disciplina di origine.
Per ‘darwiniana’, dunque, deve intendersi qualsiasi complessione sistemica composta, accanto a molti altri fattori, da singoli membri che possono potenzialmente porsi in competizione l’uno contro l’altro, dove il ‘potenzialmente’ indica che non vige alcuna necessità assoluta di farlo, ma in cui i meccanismi operanti sono tali da rendere assolutamente impossibile (statisticamente molto, ma molto improbabile) che una o l’altra unità di base, in qualsiasi momento, non sia predisposta in atteggiamento concorrenziale per accedere all’uno o all’altro tra vantaggi, agevolazioni, gratificazioni, nutrimenti, dotazioni, risorse e via di questo passo considerati come un insieme appetibile e limitato.
La ‘darwinianità’ comporta insomma, come condizione necessaria e sufficiente, la presenza del cosiddetto effetto della regina rossa (locuzione forgiata su un’avventura dell’Alice di Carroll) che permette di rispondere alla domanda ‘perché gli alberi delle foreste sono così alti?’ Perché in passato, qualsiasi fosse la condizione iniziale, è sempre comparso qualcuno che è cresciuto sopra gli altri attingendo così, a loro spese, una migliore irradiazione e quindi per gli altri non c’è stata alternativa al di fuori di questa: o partecipare alla competizione o perire (sorte individuale che, nei tempi adeguati, diventa un destino di specie). Termini finalistici come ‘scelta’ vanno ovviamente intesi nel senso di reti e circuiti causali di eventi casuali, dove la distinzione tra casualità e causalità deriva dalle prospettive accessibili alla conoscenza umana e appare invece incongrua se riferita a una totalità cosmica considerata alla scala di Planck.
Le piante, insomma, all’interno di un modello fisiologico-costituzionale ben preciso (tronco, rami e foglie, per dirla semplice), che non esaurisce ovviamente le tipologie vegetali, sono costrette a crescere fino a un limite in cui certi vincoli fisici si fanno sentire (la linfa non può salire fino alla stratosfera!), oppure a vivere isolate restando vulnerabili quanto ad apporti nutritivi (fertilità del terreno) e lotta contro le forze ostili (venti, fulmini eccetera).
Ovviamente, la presenza di arbusti nani o di esemplari isolati muniti di particolari rinforzi non contraddice il principio in questione, così come innumerevoli diversificazioni strategiche (comprese le scelte collaborative e di cooperazione) non intaccano la sostanza e applicabilità dei concetti darwiniani: qualsiasi configurazione che conferisce vantaggi a dei gruppi, comporta svantaggi per altri gruppi, a meno che l’illimitatezza delle risorse o una ridistribuzione equa e perfetta non abolisca la competizione. Di ciò, se non si ha timore di stabilire nessi senza i quali pensare si riduce a un esercizio abbastanza asfittico, si trova conferma nella psicologia sociale e in particolare in quelle dinamiche di gruppo per cui ogni vincolo di appartenenza con l’interno implica una proporzionale avversione o estraneità verso l’esterno.
In sede umana una solidarietà globale può eventualmente avvenire (se può!) soltanto attraverso la progettazione razionale e olistica: in questo senso i Padri hanno parlato di una società progettuale opposta a una società darwiniana. Una società progettuale potrebbe rimanere irraggiungibile per le energie e le caratteristiche umane, ma, se sia effettivamente possibile o meno, non può essere deciso senza tentare, con estrema determinazione, serietà e precisione, la stesura di uno o più progetti.
Che ogni contesto sociale tradizionale e attuale, in quanto agone economico, gerarchico, culturale, si prospetti come fondamentalmente darwiniano, a questo punto dovrebbe risultare evidente, tenuto conto altresì che: a) la teoria di Darwin, come sintesi di ragione potentissima in quanto in qualche modo ovvia e scontata (ma non un truismo autoreferenziale, dato che comporta conseguenze rigorosamente formulabili le quali trovano conferma in una quantità sterminata di ricerche, valutazioni empiriche, riscontri sperimentali), ha potuto consolidarsi a prescindere da meccanismi genetici che l’autore inglese ignorava; b) all’interno di sintesi successive illuminate dalla biologia molecolare, studiosi non banali come Dawkins hanno potuto plausibilmente instaurare un parallelismo tra i geni e i cosiddetti memi (concetti portanti di visioni del mondo generiche e diffuse, centri di attrazione della dialettica civile, nodi ordinatori e catalizzatori di significati culturali) e lasciamo pure perdere, per non mettere troppa carne al fuoco, l’evoluzionismo neurale di Edelman.
Il confine oltre il quale Darwin non ha più niente da dirci comprende tutte le manifestazioni vitali, umane o non umane, nessuna (nessuna!) esclusa.
Ci spiace tanto per chi, ammettendolo, si sentirebbe meno nobile di quanto è intenzionato a ritenersi e solo con uno sforzo aveva già digerito, nella sua qualità di tattica divina apprezzabile in quanto tale, una imbarazzante discendenza dai primati. A costoro vorrei assicurare, se già non se ne è accorto da solo, che all’interno di classi sociali che si fronteggiano per la preminenza e il potere, etica e morale, che ciascuna declina a suo modo, non rappresentano quasi mai principi di conciliazione, ma strumenti di difesa e di offesa di chiara ascendenza darwiniana.
Va bene, benedetti ragazzi, ammettiamolo pure, conferiamo pure al grande Darwin tutti gli onori del caso, analogamente a come negli ultimi decenni del XX secolo era giudicato inconcepibile non dedicare almeno un rispettoso riferimento a Marx e ai suoi più illustri epigoni prima di qualsiasi pantomima culturale abbastanza consapevole di sé e della propria importanza (ognuno di noi conosce quali sono stati i vezzi modaioli successivi, il bagno confessionale di ritorno come uno sputo controvento), ma io mi domando e vi domando: questa rivisitazione generalizzata è necessaria, riveste qualche significato concreto, comporta qualche particolare attinenza con i problemi economici e sociali in cui ci dibattiamo?
In parte si è risposto da solo citando la deriva devozionale: in una società che si affida per la propria coerenza funzionale a meccanismi essenzialmente darwiniani e su di questi e solo su di questi, una volta sfrondate dalle componenti pretestuose e ipocrite tutte le giustificazioni sciorinate al riguardo, deve affidarsi per innescare automatismi produttivi di dinamicità ed efficienza e perfino giustamente (dato che altri non esistono e nemmeno sono consentiti dai modelli istituzionali e politici adottati), in tale società il bene stesso, la carità, la solidarietà, le organicità e i cementi etici e affettivi, religiosizzati o meno, non possono in alcun modo esentarsi, escluse fasce marginali del tutto insignificanti, da contaminazioni tattiche e strategiche, astuzie di forza maggiore, sfruttamenti e manipolazioni diretti e gestiti da poteri irrimediabilmente, appunto, darwiniani.
Alla fine, la sociologia del bene rifulge solo perché è contrapposta a quella del male e dato che, per raggiungere un minimo di efficacia e manovrabilità, deve caricarsi ineluttabilmente di considerazioni pratiche e interessi connaturati, non può assolutamente rinunciare al risalto offerto dal confronto.
Un esempio lampante è offerto da quelle organizzazioni missionarie che agiscono in regimi incredibilmente inefficienti e corrotti, costituendovi oasi mirabili, ma molto ristrette. La vera carità consisterebbe nell’importare e finanziare all’interno dei relativi paesi modelli di civiltà elementare (in forma forzatamente socialista) al posto di strutture barbariche e ripugnanti, ma alle nazioni ‘democratiche’ conviene molto di più impiantare vetrine pubblicitarie che esaltano con squilli di tromba un presunto umanitarismo occidentale, continuando sottobanco a corrompere i governanti del posto perché favoriscano i grandi interessi coloniali. La corruzione, manifesta o strisciante, mediata spesso da istituti e organismi dall’apparenza integerrima, non va a buon fine soltanto quando è respinta da integralismi e massimalismi le cui rabbiose semplificazioni configurano le sole opzioni esclusive di controforza credibile.
Non bisogna mai dimenticare che il progetto kolibiano è concepito come modello di governo universale particolarmente favorevole alle popolazioni più povere, ma le nazioni ricche dovrebbero realisticamente inventarlo, adottarlo e diffonderlo in base a una duplice considerazione: prima di tutto, la insostenibilità ecologica, climatica e ambientale dei modelli attuali (anche e soprattutto nel caso che ottenessero un successo mondiale misurato dalla capacità di promuovere effettivamente un benessere capillare e diffuso, obbiettivo che del resto rappresenta soltanto un paravento politico e una millanteria strumentale delle forze economiche dominanti); secondo, per la impossibilità di una resistenza a medio o lungo termine contro la pressione demografica di masse disagiate che, attraverso l’inflazione della merce lavoro, distruggono perfino la possibilità teorica di un ceto medio saldamente maggioritario, non esistendo d’altra parte alcuna possibilità realistica di circoscriverle a territori in cui disordini civili e conflitti bellici appaiono sia la conseguenza che la causa di una spirale di inarrestabile degrado.
Da kolibiano convinto, ma non per questo meno criticamente vigile, mi preoccupano alquanto certe predisposizioni di fondo, rinvenibili anche nel vostro ultimo intervento, a favore di una specie di assolutismo o purismo etico, preludio al ‘tanto peggio tanto meglio’ di ogni massimalismo passato, presente o futuro.
Secondo me è necessario reprimere, anche contro i dettami della logica elementare, la tendenza a contestare le iniziative benevole di assistenza e soccorso, da qualsiasi parte provengano, a prescindere che possano fungere, come del resto è in qualche misura inevitabile, da manifestazioni propagandistiche a favore di certi assetti politico-economici.
Di questo passo si arriva a criticare tutte le forme di volontarismo concretamente impegnate nel sociale, anche quelle effettivamente laiche e democratiche, soltanto perché realizzano interventi non risolutivi ai fini di una effettiva e profonda trasformazione delle strutture sociali esistenti.
Per quanto riguarda Darwin e la biologia in genere, la vostra sottigliezza dialettica potrà anche spuntare un piccolo trionfo rivestito di sontuosa appariscenza sofistica (in fondo pochi negano che l’uomo sia un animale, anche se molti, tra cui il sottoscritto, lo ritengono un animale animato da una fiammella ‘divina’ o, se vogliamo togliere le virgolette, spirituale (lo so, lo so che voi kolibiani mettete le virgolette anche lì) e i bisogni di cui parlano gli operatori sociali soprattutto cattolici si legano alla materialità dell’esistente molto più delle teorie piuttosto astratte di un signorotto inglese di campagna che viveva praticamente di rendite fondiarie.
Quello che non funziona nel discorso kolibiano va ricercato molto più in profondità nella struttura della conoscenza e coinvolge la pertinenza e i limiti del discorso scientifico in quanto tale.
Detto semplicemente e sinteticamente, voi ne espandete la validità oltre linee di demarcazione che gli stessi addetti alle scienze (quelli veri, impegnati quotidianamente in ricerche concrete e circostanziate, non certo filosofi senza arte né parte quali erano quelli che chiamate ‘padri’ (minuscolo!)), ritengono assolutamente improprio e anzi pericoloso violare.
La scienza ufficiale e patentata si occupa di fatti esteriori rispetto alla presenza umana, di eventi che sussistono indipendentemente dall’attività cerebrale, ma pur volendo rispettare tali premesse, nelle scienze umane e perfino in fisica fondamentale (vedi paradossi quantistici eccetera) è spesso costretta a prendere in considerazione la natura dell’osservatore e non esiste più alcuna ipotesi epistemologica seria che ammetta la conoscibilità della cosa in sé, priva cioè delle aggiunte, distorsioni e ristrutturazioni che l’apparato percettivo e ideativo umano è costretto ad annettervi ineluttabilmente sulla base di proprie leggi costitutive.
Ora io vi domando: quali sono le leggi della natura, quali quelle della struttura conoscitiva umana e quali quelle dell’interazione reciproca? Come agiscono separatamente e l’una nei confronti dell’altra? Di questi tre tipi di leggi, gli enunciati della scienza quali rappresentano esattamente?
E’ evidente che finché non si risponde esaurientemente a queste domande (e voi, come chiunque altro, non mi sembrate proprio in grado di farlo), qualsiasi affermazione risulta in qualche modo arbitraria, anche quella che sostiene la priorità della natura rispetto al pensiero umano.
Egregio signore, le sue interessanti argomentazioni non ci sembrano una confutazione, ma piuttosto un sostegno del nostro punto di vista, almeno prima del travisamento finale.
Cominciamo da quello: che il pensiero umano possa comandare il reale sia plausibile quanto il viceversa o magari di più rimanda alla tradizionale posizione idealista che è molto più diffusa di quanto si ritenga comunemente, al punto che la maggioranza dei sudditi elettori la fa propria più o meno implicitamente, non tanto sulla base di un ragionamento come il suo, ma semplicemente per una deformazione cognitiva dovuta a un difetto di prospettiva: quello di essere situato all’interno di un cervello e di sperimentare ogni contenuto vitale attraverso di quello.
Sembra una banalità, rappresenta invece la spiegazione più semplice e inconfutabile della iper-valutazione perfino grottesca che ogni essere umano conferisce all’importanza della propria posizione nel mondo, capitale pilastro dell’assurda proliferazione di quell’atteggiamento religioso che rimane l’unica strategia valida per accordare al principio di realtà una cognizione tanto irrealistica, quanto psicologicamente dolorosa e distruttiva se ribaltata nell’evidenza contraria.
Nessuno, in una società contemporanea così tecnologicamente invasiva, ha oggi il coraggio di professarsi apertamente idealista, ma la disponibilità a riservare amplissime zone franche all’influenza del potere clericale, la dice lunga sui desideri nascosti del grosso dell’opinione pubblica in una ipotetica lotta per la preminenza tra realtà oggettiva e pensiero umano.
L’idealismo, almeno per il pensiero non dozzinale e sufficientemente informato, risulta indifendibile, eppure solo una esigua minoranza anche tra la popolazione scolarizzata, riguardo alla triade di possibilità da lei elencate, sceglie la soluzione più semplice e naturale, cioè che:
tutto quello che esiste (che sia separabile in un concetto o meno) si determina, si sviluppa e si estingue secondo le leggi cosmiche scoperte in tutto o in parte dalla scienza (con l’utilizzo di metodi, pianificazioni, modelli, criteri che rappresentano il non plus ultra tra le tecniche di accertamento, ma la cui applicazione non può essere generalizzata per impossibilità e limiti pratici);
gli organismi biologici vi obbediscono come ogni altro oggetto, evento o costrutto e così facendo determinano modi specifici di apertura al mondo, tipi particolari di rappresentazione del vissuto che ogni specie costruisce in base alla propria strutturazione nervosa e fisiologica: la conoscenza scientifica è solo un esempio molto sofisticato di questi tipi o modi.
Si è mai chiesto perché un mago che volesse far sparire gli spiritualisti dovrebbe pronunciare una formula come AZULERIS TRAKOMON PITINKIS PAPAVERES, mentre per far sparire i kolibiani dovrebbe dire, per esempio, MINASUTO KAROBOL ROGONIS PAPERES o comunque qualcosa di diverso dalla prima formula?
Perché non far bastare allo scopo un semplice conato d’intenzionalità volitiva?
Perché qualsiasi concezione del mondo, anche quelle arcaiche, deve presupporre una realtà esterna retta da criteri gerarchicamente superiori alla libera volontà dell’uomo, per cui il sapiente, se vuole conoscere e manipolare tale realtà, deve attenersi a determinate istruzioni d’uso fissate da regole e meccanismi costituiti in totale indipendenza rispetto alla mente che ricerca la potenza iniziatica: che differenza c’è rispetto al programma baconiano a parte l’arbitrarietà delle premesse?
La religione, rispetto alla magia, può apparire più nobile perché concentra le regole del gioco in una controparte metafisica in cui si personifica la quintessenza del bene e della giustizia e invece di formule magiche codifica norme e prescrizioni di una condotta ritenuta proficua, giusta, morale.
Perché invece di domandarsi che cos’è reale, lei non prova però a porsi altri quesiti tipo: che cos’è il bene e la giustizia, che cos’è una condotta proficua, giusta, morale?
Potrebbe forse scoprire che è impossibile rispondere a certe domande senza sapere che cos’è la realtà e che la strategia religiosa, chiamiamola così, può portare a risultati concreti soltanto nel caso che le sue premesse metafisiche corrispondano a ciò che di fatto esiste.
Quello che, con le buone o le cattive, si è invitato a uscire attraverso la porta, in quanto importuno disturbatore della libertà e nobiltà di coscienza, rientra dalla finestra o da qualsiasi altro spiraglio lasciato aperto dalla vigilanza dogmatica.
Chi crede in Dio può concordare soluzioni politiche radicali con chi non ci crede soltanto tacitando all’atto pratico e rendendo di fatto inconseguente la propria credenza.
Per fortuna, nessun grande dilemma storico e filosofico si pone quando l’ordinaria amministrazione è sufficiente a gestire forme di società consolidate, il che però non è mai garantito, men che meno nei tempi presenti.
Lo deduco dagli argomenti, apparentemente ingegnosi, ma completamente sbagliati, attraverso i quali difendete le scelte di base.
Non c’entra niente che l’uomo sia un animale o un folletto, che animali e folletti siano intessuti di materia cosmica primigenia o con materiali importati dagli ipermondi ultrauranici, non ha nessuna attinenza con una considerazione logica fondamentale che non si può assolutamente trascurare se si vuole condurre un discorso scientificamente congruo.
Eccola: la ragione umana, oltre a confrontarsi continuamente con esiti di genere ‘fuzzy’ o addirittura ‘funky’, può accedere indubitabilmente nelle sue procedure a logiche di ordine superiore al primo (quantificatori applicabili alle variabili proposizionali e a ogni operatore o formula compatibile, non solo alle variabili o costanti individuali), per cui non è valida la dicotomia fondamentale tra vero e falso, dato che ogni asserzione sufficientemente complessa comporta tavole della verità multidimensionali e intersecate, quindi valenze multiple di veridicità.
Non sono propriamente un esperto e quindi posso avere usato espressioni imprecise, ma in qualche modo penso di essermi fatto capire.
Che cosa significa tutto ciò? Per quanto riguarda la contestazione delle vostre posizioni, una conseguenza semplice e ineluttabile: il realismo scientifico di cui vi fate promotori (sovrapponendo un ideale astratto di progettualità alle dialettiche storiche, politiche e sociali universalmente adottate) si trova fondato in qualcosa di più simile alle sabbie mobili che al cemento.
Applichiamo volentieri la logica del suo ragionamento e, partendo dalle sue medesime premesse, arriviamo a una conclusione esattamente opposta, confermando quindi in pieno l’esattezza della sua analisi.
Infatti, ogni complessa argomentazione storica, politica e sociale, utilizzando una logica di ordine superiore al primo o fuzzy o comunque non classica, può essere contrassegnata da valori di verità (e soprattutto di dimostrabilità) contrastanti, quindi non serve a un accidente, se non a giustificare le realtà di fatto, gli esiti dei duelli e delle giocate e l’assegnazione o meno dei premi partita.
Evidentemente l’abilità politica può raggiungere logiche di ordine mille, ma le disfide che si mettono in scena nel teatro darwiniano si attengono umilmente a una logica di ordine uno, almeno finché consentono di separare i vincitori dai vinti.
A me sembra che la divisione del mondo tra vincitori e vinti sia un esito talmente scontato da configurare una legge più tetragona di qualsiasi altra, scientifica o meno. Per fortuna, sotto il cielo, esistono più giochi, categorie o reparti dell’esistenza di quanto voi kolibiani potete sospettare, a partire dai raggi ipsilon o gammabeta alle porte di Orione di cui parlava, mi sembra, uno di quei replicanti che alla fine non è più reale di me o di voi.
Si può quindi giocare partite diverse, perderne molte o quasi tutte, ma vincerne almeno una, dopodiché è uno scherzo da ragazzoni un po’ scemi ma forse furbi come più furbi non si può illudersi che quello era il gioco o la categoria o il reparto più importante.
C’est la vie kai the show must go on.
Così ho gracidato io, adesso gracidate voi: sono le usanze di quello stagno che siamo tutti d’accordo nel ritenere il nostro universo.
Siccome però questo, lo riconosco, non è il modo migliore di continuare lo spettacolo, è una trasgressione superba e indisponente alla convenzione del ‘come se’ (come se dovessimo prenderci sul serio, come se volessimo davvero cambiare il mondo e non solo le nostre singole fortune eccetera), mi rimetto in riga e procedo ponendovi domande che esprimono curiosità dozzinali, ma sincere.
Pensate veramente che la qualità media della vita nel mondo stia peggiorando?
Come si conciliano progettualità e determinismo assoluto?
Sapete sintetizzare qualcosa di realmente significativo (non la solita aria fritta) sul rapporto tra realtà fisica e soggettività psicologica?
La qualità media della vita, se si allarga troppo il campo dei riferimenti, risulta un concetto enigmatico, in quanto è impossibile confrontare vite che si svolgono in contesti privi di qualsiasi somiglianza. E’ meglio la vita di un pastore in regioni aride battute da bande di predoni o di un piccolo delinquente nelle immense bidonville controllate dalla criminalità organizzata? Forse faremmo meglio a parlare di adattamento e di quali profili caratteriali vengono selezionati da determinati ambienti. E’ meglio la personalità del pastore o del piccolo delinquente? Anche questa domanda però suona strana.
Proviamo ancora: l’inuit ‘medio’ sta meglio adesso rispetto a due o tre secoli fa? Può darsi, ma se adesso sta meglio forse è perché adesso è più danese che inuit. E quanto alle popolazioni autoctone della foresta amazzonica? Magari qualcuno è diventato proprietario terriero e lo diverte molto comandare ai suoi consanguinei oppure possiede una bellezza esotica e fa il modello a Rio de Janeiro. E così via.
Per rimanere a casa nostra: un giovane liceale si diverte di più partecipando alle riunioni del circolo rivoluzionario o chattando al computer o con il cellulare? Forse dipende dalla promiscuità sessuale presente nel circolo o resa possibile dai rendez vous elettronici. Di sicuro papi e presidenti vari preferiscono che si diletti al computer piuttosto che scendere in piazza (esclusa piazza S,Pietro), nelle quali piazze (inclusa S.Pietro), del resto, obbiettivamente, non è che si siano mai compiute imprese molto eroiche.
Il nocciolo della questione lo enuncerei in un piccolo elenco di dubbi e quesiti: a) dobbiamo rallegrarci perché il disagio tende a decrescere percentualmente mentre continua a salire in valore assoluto? b) Come si può valutare e testare il peggioramento tendenziale delle ‘funzioni psichiche superiori’ a fronte di una mitigazione (tendenziale) delle difficoltà organiche di base? c) Conviene domandarsi dove ‘la qualità media della vita’ (supponendo che la formula abbia un senso) si stia dirigendo nel bene o nel male o piuttosto quando stramazzerà?
Progettualità e determinismo non hanno alcuna necessità di conciliarsi, possono semplicemente coesistere. Quando lei decide di attuare mosse elementari come alzare un braccio, i relativi segnali nervosi vengono attivati prima che lei medesimo ne diventi cosciente: deciderà per questo di non alzare più un braccio in tutta la sua vita? Si prepari allora all’immobilità più totale. Certe psicosi, in fondo, rappresentano una manifestazione di realismo estremo: lo schizofrenico si rende drammaticamente consapevole di quello che la gente ‘sana’ riesce felicemente a ignorare e cioè che quella ‘cosa’ che si autonomina ‘io’ è uno spettatore, non un attore, un fantasma che solo inseguendo, in quanto scaturigine di un sofisticato meccanismo cibernetico, una logica capace di regolare in senso adattativo le funzioni di scelta si muove in direzione di un mitico ‘libero arbitrio’. Lo schizofrenico ha smarrito ogni supporto logico, ma forse gli è accaduto a causa, non di una trascuratezza, ma di un eccesso d’intransigenza, la stessa che paralizza un realismo sociologico come il suo.
Lei, se interpretiamo bene, ha ragione nel sostenere che senza l’autoinganno del ‘come se’ si compromette ogni pratica sociale, ma occorre porre molta attenzione affinché un sottile corteggiamento metaforico della realtà non si tramuti nella sfida temeraria di uno scontro frontale.
L’ultima domanda, proprio perché vuole alludere con malizia alla precedente, mi dà il destro per confermare le precedenti ovvie stranezze. Tutte le linee di pensiero della scienza psicologica o sono, in un loro specifico modo, deterministe e fisicaliste (psicanalisi freudiana, pragmatismo, comportamentismo, funzionalismo, neurofisiologia…) o semplicemente prescindono dalla base biologica per articolare un discorso sistemico di livello superiore (gestalt, cognitivismo, psicanalisi junghiana, analisi esistenziale…), senza per questo riferirsi ad alcuna entità spirituale ed extra fisica. Quando Jung, uno dei più pseudo-spiritualisti o ‘new age’ della seconda partizione, critica giustamente la pretesa di eliminare il ‘fatto’ di coscienza dall’esame scientifico, propone in realtà un argomento che è più distruttivo del concetto di anima che della tradizionale posizione positivista da lui criticata. Dice infatti che la soggettività non percepisce il mondo esterno, bensì la percezione che il proprio organismo costruisce del mondo, il che è verissimo, ma rappresenta anche la più naturale e scientificamente ortodossa cognizione di causa riguardante i fenomeni psichici, spiegabili allora come moduli noetico-ricettivi, termine che risulta auto-esplicativo quando rimanda a più ordinarie e comprensibili funzioni introcettive e propriocettive (percezioni non di suoni, gusti o colori, ma di stati viscerali e muscolari). Tutte le correnti psicologiche e neurofisiologiche (incluse quelle più eterodosse facenti capo a Binswanger e all’antipsichiatria, da antico bazzicatore dell’esistenzialismo filosofico, mi creda, posso affermarlo con una certa sicurezza), pur adottando prospettive e accentuazioni linguistiche diverse, tendono a ricomporre la scissione cartesiana tra res cogitans e res extensa attraverso un concetto di sistema autoregolantesi interposto tra ambiente-stimolo e ambiente-risposta, a prescindere che il tutto sia concepito e descritto secondo interessi clinici, sociali e filosofici variegati e spesso contrastanti.
Che l’esito di una partita mostri una logica di ordine uno è una vostra illazione arbitraria. L’espressione ‘vincitore morale’ non vi suggerisce niente? E se qualcuno vince a costo di uno sforzo che gli costerà l’invalidità o la vita stessa? Non sempre una battaglia decide una guerra. Uno può vincere in pubblico e perdere in privato. Eccetera eccetera.
Io posso anche non capire niente di logica, ma dubito che qualsiasi progetto possa intervenire in modo migliorativo nella complessa vicenda umana, se non mettendo la camicia di forza a una guerra di tutti contro tutti (buttando via il bambino della creatività insieme all'acqua sporca del caos), nel qual caso perché preferire il mitico Progetto a un testo sacro, ingegnosi artifici di condizionamenti reciproci (che quando saltano si riducono a un groviglio spaventoso e irreparabile di molle e ingranaggi) alle parole ultimative di un potere dogmatico?
Un progetto può coordinare una serie di elementi, ma qual è il loro numero effettivo. Se fosse infinito?
Tolleranza, apertura mentale, voglia di confrontarsi, laboriosità: se ci sono e vengono costantemente messi all’opera, bene, altrimenti qualsiasi gestione, progetto o non progetto, sarà solo una schifezza.
Certo, siamo assolutamente d’accordo (per vivacizzare le discussioni e appassionare il nostro pubblico, ci servirebbero contenziosi anche feroci, ma a volte sembra che la ragione kolibiana sia talmente penetrante e diffusa che anche gli oppositori più tenaci finiscono per portare acqua al nostro mulino, come se una regia segreta ne orchestrasse le voci), però proviamo a immaginare una violenta rissa fuori da una discoteca in cui giganteschi buttafuori e sgherri armati di un boss malavitoso affrontano esili giovincelli rintronati da un miscuglio di alcol e droghe che li rende indiavolati, ma non per questo più forti: servirà a molto predicare tolleranza e apertura mentale?
In fondo, ogni vero conflitto sociale è una lotta tra enormi pachidermi inesorabili e sciami di topi esasperati, tutto il resto consiste in accordi, discussioni, dibattiti, scambi di favori o dispetti, litigi in presenza di un arbitro fintamente imparziale che però non può esagerare nello sbilanciarsi, etticì etticcì, salute!, come diceva Tottò.
Lo ribadiamo per l’ennesima volta: non è l’ordinaria amministrazione ciò che interessa al vero kolibiano.
Sull’altro punto, quello degli elementi infiniti (ispirato evidentemente al desiderio più o meno conscio di rimettere in gioco argomenti ‘para-spiritualisti’ collegati al teorema di Godel e a una oggettività metafisica), ci stupiamo che lei, affezionato corrispondente, non veda come proprio una evenienza del genere renderebbe urgente e improcrastinabile il ricorso a un progetto che realizzi la selezione preventiva di un numero limitato di priorità determinanti, mancando le quali fare politica o giocare alla roulette diventerebbero opzioni equivalenti.
Scusate, forse non mi sono spiegato bene, ripeto: che cazzo state dicendooooo??????
Mangio un panino, mi siedo davanti allo schermo e d’improvviso scopro di essere rincoglionito, non riesco più a capire niente, nemmeno, pensate un po’, che cosa c’entra una logica di ordine 246 con una rissa davanti alla balera Cocorita.
Eppure, ve lo giuro, c’è ancora qualcuno in giro (sono rari, ma con un tipo del genere ci ho parlato un’ora fa) che pensa al kolibianesimo come a un progetto che, tra altre cose, metta fuori gioco l’alta finanza e tutta la sua fumisteria ecclesiastica.
Del resto, solo un imbecille come me, se avesse da parte denaro sufficiente, lo impiegherebbe per coltivare una idea sorta per caso insieme ad altre allucinazioni invece che affidarlo ai culi di piombo masterizzati che dal loro ufficietto sanno come gonfiare i rendimenti intrufolandosi nei settori più proficui dell’economia mondiale, rendendo magari improba la tenuta concorrenziale di ditte domiciliate a un tiro di schioppo.
E che cosa determina il punto dove infilare il verdone? Soprattutto la disponibilità delle maestranze a mettersi prone e farselo infilare nel didietro, il bastone-verdone.
Pensavo che il kolibianesimo volesse togliere dal culo del mondo sia il bastone che il verdone, ma ho sempre più l’impressione che in realtà voglia comodamente infilarci insieme a quelli la sua sottile e inconsistente filosofia.
Purtroppo il mondo, come si è obbligati a constatare quando è necessario intervenirvi con prontezza ed efficacia, è più complicato di quanto si vorrebbe e con concetti semplici e teorie elementari non si può certo illudersi di condizionarlo e migliorarlo, al massimo lo si può battere e scalfire.
Troviamo sacrosante e ineccepibili le sue rimostranze, ma alla fine non conducono di un solo passo in avanti rispetto alla vexata quaestio del rapporto tra teoria e prassi, la cui più ovvia sintesi e soluzione, programmaticamente chiara, ma nondimeno praticamente ardua, richiama potentemente l’idea del progetto.
Pur comprendendo la sua impazienza, non possiamo esimerci dallo stigmatizzarla come carenza di fiducia nel movimento e nei suoi più esimi rappresentanti.
Il progetto è in costruzione, le menti migliori del mondo vi si stanno assiduamente dedicando, dobbiamo solo attendere che maturi nella sua organica interezza, sia annunciato al pianeta e dischiuda i suoi effetti mirabili.
Nel frattempo la invitiamo alla coesione e alla lotta.
Siete stati troppo diplomatici con il signore del ‘che cosa c. state dicendo’.
La sua volgare visione emerge chiara ed esplicita: debellare le sottigliezze culturali e la pungente, democratica eleganza di uno spirito dialettico che sta risorgendo dalle ceneri del più brutale economicismo, con l’intento dichiarato di infettare il kolibianesimo dal di dentro, avvelenarlo e infine rimettere in auge una versione rivista e corretta dell’antico egoismo distruttivo.
Il vero spirito kolibiano consiste nella volontà d’instaurare l’egemonia di un essere umano liberato dalle pastoie della sudditanza e della dipendenza, innalzandolo all’assennato, intimo trionfo di una libertà scevra dagli assilli produttivi e innovativi. Dovremmo espellere dalla nostra comunità chiunque cerchi subdolamente un modo per rivitalizzare la schiatta malefica dei piccoli padroni schiacciati ora, come il popolo tutto, sotto la pantofola ricamata delle multinazionali.
Indubitabilmente, ma non bisogna mai dimenticare gli aspetti materiali e le condizioni di forza maggiore, ricadendo negli stessi banali quanto inesorabili errori ribaditi con ossessiva balordaggine da tutti i sistemi parlamentari del mondo.
Questi confusamente privilegiavano nelle varie componenti, senza alcuna chiara visione discriminativa, ora gli aspetti concreti, ora quelli simbolici, gli economici o i culturali, l’efficientismo produttivista o la pacificazione etica, ignorando nel frattempo come i vari termini dell’azione politica si rapportassero necessariamente gli uni agli altri, dove si escludessero e dove al contrario non potessero disgiungersi pena l’annientamento di entrambi.
E’ ovvio che alla fine svolgessero il loro gioco effettivo soltanto componenti legate agli interessi, le ondate di quelli impellenti e occasionali accanto alla cupa pressione di quelli solidi, duraturi ed egemoni, indotti dalle meschine cupidigie private come da organismi mastodontici istituzionalmente ramificati.
Non dimentichiamoci poi della varietà dei profili individuali, per cui, limitandoci a esempi di stretta pertinenza, ad alcuni il costituire e gestire una impresa economica produrrà soddisfazioni intellettuali che altri troveranno in procedure artistiche o altre condotte di vita.
Non si può neppure negare a prodotti manifatturieri la legittimità di aspirare a risultati di pregnanza culturale ed estetica.
Siete stati troppo diplomatici con il signorino delle sottigliezze e della democratica eleganza.
Mio nonno mi raccontava che ai tempi in cui era giovane una categoria di persone chiamati ‘operai’ dava luogo a manifestazioni di piazza per manifestare malcontento e conquistare diritti elementari. Ebbene, ogni volta che al loro corteo si aggiungeva quello degli studenti liceali o universitari accadevano le cose più assurde, cominciavano a serpeggiare l’anarchia e il dilettantismo, gli slogan e i canti d’incitamento si coloravano di sciocche astruserie, la compattezza scemava e dilagava l’irritazione per la stolida supponenza di fighetti malamente acculturati che nelle aule imparavano soltanto una presunzione retta da velleitarie sofisticherie. Chi poi frequentava certe conventicole di gente ‘contestataria e alternativa’, a parte rarità estetizzanti di cui poi si scopriva l’estrazione alto-borghese, da radical chic, per intendersi, ne traeva perlopiù l’impressione di una estrema ristrettezza culturale e addirittura di un istinto mercantilistico dominante anche se represso, trovandosi circondato da figli ingrati di sartine e bottegai, ambiziosi e lunatici, che avrebbero ben presto aggiustato ideologie e standard morali alle oscillazioni del proprio successo economico.
Mentre i sindacalisti che ci sostenevano concretamente nella lotta sono rimasti al palo, raccontava il nonno, un sacco di quei fanfaroni vaneggianti hanno fatto carriera nell’amministrazione pubblica e nelle strutture d’impresa, premendo con le loro morbide chiappette fiorite sulle teste dei ceti effettivamente produttivi.
Tuttavia condivido la preoccupazione del principino sul pisello quando teme che il kolibianesimo consenta la rinascita dal basso di una imprenditoria di uomini nuovi aggrinfiati come sterminati sciami di locuste alle poppe di una finanza pubblica ingenuamente soccorrevole e materna. Libera da ‘lacci e lacciuoli’ del vecchio e inefficiente assistenzialismo, questa genia di novelli vampiri saprebbe succhiarsi in men che non si dica tutti i fluidi vitali dello stato.
Niente assistenzialismo in cambio della garanzia di un minimo massimamente gratificante, sono d’accordo, ma in concomitanza e senza indugio alcuno: abolizione di qualsiasi padrone del vapore e una nuova concezione d’impresa fondata sul modello cooperativo e sulla proprietà collettiva.
Osservazioni interessanti e condivisibili, certo, ma solo se si tiene ben presente che non è possibile imporre un modello unico d’iniziativa economica senza riproporre pari pari i difetti, le disfunzioni, le pesantezze di uno statalismo che non solo ha fallito: si è trasformato in un verminoso ricetto di interessi privati. Uno schema rigido di libera imprenditoria suona poi come una contraddizione in termini, un nodo di forzature e incongruenze assolutamente da evitare.
Una corretta interpretazione del concetto di ‘razionalità del modello’, da questo punto di vista, si presenta come un Giano bifronte: massima normatività e cogenza nelle linee basilari della politica pubblica insieme a massima liberalità e tolleranza e perfino aperto sostegno fino a dove è possibile per quanto riguarda iniziative e comportamenti non lesivi dei comuni interessi fondamentali fortemente strutturati.
Dopo un eroico spremermi di meningi e laboriosa consultazione di testi poderosi e ponderosi, nonché di sapienti oracolari che la sanno più lunga della barba di Matusalemme, comincio a intravedere la sostanza del messaggio di cui siete gli arcani custodi, ma la mia inesperienza mi costringe a richiedere prudentemente una vostra tempestiva conferma.
Dunque, da quello che mi sembra di aver capito, la realtà è complessa al punto che ci vuole almeno una logica di ordine diecimila, è però possibile fin d’ora cominciare a porre dei punti assolutamente fermi, saldi, inamovibili come i seguenti.
Ha ragione chi dice che il re è nudo, però ha ragione anche chi dice che il re è vestito di tutto punto, non si deve però nemmeno trascurare il punto di vista di chi afferma che indossa solo la biancheria, non importa a questo punto se a righe o a pois, potendosi pure trascurare il dettaglio sul tipo di arnese posseduto dal nuovo monarca a cui tutti dovremmo inchinarci, se cioè sia esorbitante tanto da non avere nulla da invidiare a quello di un divo del porno oppure rattrappito e quasi introflesso come sostengono gli oppositori e i ribelli più scellerati.
Confesso una certa costituzionale insufficienza a intervenire su tali complesse questioni filosofiche, perciò vi domando semplicemente: il Modello Alfa Max o il Progetto Mega Excelsior dove sono andati a finire?
Il Modello sta arrivando.
La sua ironia non contribuisce certo alla indispensabile e urgente messa a punto, ma stia tranquillo: non ne disturba nemmeno il rigoglioso sviluppo.
Mi fa imbestialire la tendenza del partito kolibiano, di cui sono aperto sostenitore, a complicarsi la vita con scrupoli ed esitazioni procedurali che mi sembrano totalmente inutili e dannosi.
L’essenza del progetto è evidente e conclamata: abolizione della finanza privata, della criminalità organizzata, dell’evasione fiscale e dell’assistenzialismo previdenziale (escluso quello sanitario) tramite la nazionalizzazione di banche e istituti d’investimento e di credito, la moneta elettronica assoluta, la fine del proibizionismo relativo a droghe e prostituzione, la costituzione della Holding Nazione produttrice delle necessità fondamentali di una esistenza serena e gratificante.
Per la maggior parte di questi nodi cruciali basterebbe una maggioranza parlamentare che legiferasse di conseguenza alla maniera tradizionale, per altri, come l’ industria nazionale del benessere, serve effettivamente un piano d’impianto e la predisposizione di un corpo adeguatamente scelto di tecnici incaricati in grado di procedere sulle proprie gambe una volta fissati i relativi obbiettivi e controlli: problema formidabile, certo, ma del tipo già molte volte risolto dai singoli stati o da organizzazioni internazionali, come nel caso della NASA, dell’agenzia spaziale europea, del CERN e di molte altre iniziative.
Che bisogno c’era di creare commissioni su commissioni cooptando esperti di settore a molti dei quali non è stato nemmeno chiesto di comprovare una fede di appartenenza e di liberarsi degli interessi pregressi, che addirittura, per una percentuale troppo elevata, continuano a rimanere fattori condizionanti primari dato che la carriera professionale di questi consulenti dipende tuttora da strutture e organismi che il modello a cui sono stati chiamati a collaborare dovrebbe ovviamente abolire.
Di questo passo il Superprogetto che tutti aspettano o fanno finta di aspettare non rischia di diventare una tela di Penelope tessuta di giorno, in pubblico, a parole, e disfatta in segreto, di notte, nelle stanze dei bottoni che nel frattempo sono rimaste esattamente le stesse?
Sì, però le domandiamo: la maggioranza parlamentare di cui lei parla come facciamo a ottenerla? Rinunciamo a concedere indennizzi e contropartite ottenuti per transazione innescando un golpe autoritario che potrebbe suscitare reazioni esasperate e anche violente?
Lei se la sentirebbe, supponendo che avesse sufficiente potere decisionale al riguardo, di iniziare domani stesso una rivoluzione in piena regola, sfidando il malcontento e l’aperta ostilità di una intera classe dirigente?
Se quella non si convince della presenza oggettiva di certe urgenze inderogabili, non ci rimane molto di diverso da fare.
E’ più facile rimediare a un disastro quando lo si è annunciato e atteso passivamente per motivi di forza maggiore, che quando lo si è provocato adducendo a pretesto un disastro maggiore le cui probabilità e tempistiche non rientrano purtroppo tra le certezze scientifiche comprese e condivise dalla maggior parte.
Sicuramente comprendiamo le sue apprensioni, ma la invitiamo a consolarsi e munirsi di fiducia considerando l’entusiasmo e l’ottimismo che corroborano i nostri più eminenti funzionari in presenza di un crescente successo mondiale dell’ideologia kolibiana.
Ci sarà pure una ragione se i migliori di noi sono così fiduciosi!
Ah, ah, ah! I grandi kolibiani all’opera, la montagna innevata che partorisce il topolino da fogna!
Bla bla bla dopo bla bla bla, alla fine il carattere più originale della nuova travolgente visione emerge imperioso e lascia a bocca aperta tutti quelli che finalmente intendono la quintessenza dell’idea di progetto: fare la rivoluzione con il consenso della classe dirigente.
Come posso esprimere sinceramente la mia commossa ammirazione?
Mi limiterò a dire che siete geniali.
Con la semplificazione satirica o grottesca ci si può anche divertire, ma non si va da nessuna parte.
I nodi problematici e le incompatibilità insanabili non li abbiamo creati certo noi kolibiani e spesso, a bella posta non li ha creati nessuno, se mai per necessità. Qualcuno se li trova serviti su un piatto d’argento come coproliti molto quotati al mercato dei fossili e qualcun altro li visita ancora freschi e succulenti, magari immergendovi la faccia dopo essere inciampato in un ostacolo, questo sì, almeno qualche volta, sistemato ad arte.
Se il cosiddetto popolo (le masse, secondo un altro modo di esprimersi), sopravvive attualmente soltanto grazie alla tecnologia, mancando i supporti della quale, nella presente fase della storia umana, si ridurrebbe a un coacervo informe e ribollente votato all’estinzione, è inconcepibile non coinvolgere in qualsiasi movimento innovativo una parte sufficiente dei ceti che possiedono, attivano o controllano i mezzi strumentali e il know how relativo.
Persone che si trovano davanti promesse di carriere interessanti e tutte le lusinghe delle moderne comodità si prospetteranno ogni movimento rivoluzionario né più né meno che come un salto nel vuoto, ma potrebbero invece effettuare un confronto razionale tra i faticosi, critici, aleatori allettamenti prospettati da un mondo concorrenziale esposto a incognite capitali e le offerte di un modello innovativo sufficientemente realistico.
Se lei ritiene di aver trovato un modo attraverso il quale le maggioranze disagiate possano disfarsi dei ceti dirigenti e prosperare, perché non avvia la stesura di tutte le necessarie specifiche?
Non c’è dubbio che tutti i movimenti rivoluzionari classici non abbiano fatto altro che buchi nell’acqua, oppure siano riusciti soltanto a peggiorare le cose, ma è anche vero che i riformismi alla lunga si sono dimostrati niente più che rattoppi di fortuna su lacerazioni troppo evidenti e fastidiose.
Tra combattere l’avversario politico e offrirgli un abbraccio fraterno non si potrebbe trovare una via di mezzo?
Professando la sua sfiducia nel riformismo, lei sta asserendo di fatto che non esistono avversari politici: sono invenzioni di classi dirigenti che spazzano sotto il tappeto delle ideologizzazioni fasulle la sostanza dei problemi e condizionano una parte di consenso attraverso ricatti morali come quelli usati dal potere clericale quando, seduto su un trono e paludato di stoffe preziose, ricorda a impiegati e commercianti le miserie del mondo.
Qualsiasi assemblea direttiva, pubblica o privata, equivale a una collegialità corporativa in cui i vari colleghi si disputano la preminenza per il raggiungimento di benefici concreti e prospettive di carriera: in questo gioco la politica è il fine, non il mezzo.
Non esiste un idealismo politico serio che possa privarsi di una visione del mondo e una conseguente utopia e dove sono oggi visioni e utopie? Perché non chiede a un qualsiasi politico di descrivere le sue?
Esistono solo interessi più o meno elegantemente vestiti, e quanto a interessi nessuno può essere migliore o peggiore di un altro, solo più forte o più debole.
Il progetto kolibiano è lo strumento principe di una tecnica innovativa che sta cercando forza e consenso politico in un contesto dove soltanto scelte rivoluzionarie possono ancora manifestare i caratteri della razionalità.
Ecco quindi, secondo voi, cari amici kolibiani, in che cosa consiste la superiorità del Mitico Progetto Trascendente rispetto alle venefiche ciminiere del parlamentarismo canonico: nella superiore efficienza di riunioni segrete indette da cospiratori e controcospiratori (gli uni e gli altri veri o presunti, in un senso o nell’altro) rispetto a una bolgia assembleare costantemente esposta alla luce dei riflettori.
Ironie a parte, così copiose ed equanimi in questa fiera universale della polemica forbita, non vorrete davvero farci credere che meeting privati ed esclusivi dove ciascuno recita la parte del disinteressato benefattore quando in realtà applica le direttive o subisce almeno le imbeccate di ambienti eterogenei l’un contro l’altro armati, gli incontri riservati ai pensatori con la tessera e il bollino della provenienza garantita e magari quell’etichetta ecologica che tutti sanno essere perlopiù un bluff gonfiaprezzi, tutto ciò sia meglio delle aule legislative dove disciplinati soldatini tramano insieme ai lobbisti mascherati?
Non farebbe onore alla vostra intelligenza.
Ogni atteggiamento può stimolare lo sviluppo di un grande dibattito aperto al contributo di tutti, basta non eccedere determinati limiti.
A noi sembra francamente che il suo disfattismo superi qualsiasi possibilità di un recupero in senso positivo.
Non sarebbe meglio a questo punto che lei si occupasse fatalisticamente dei fatti suoi, incrociando le dita riguardo a tutto quello che è troppo voluminoso per essere contenuto in quel microcosmo?
Abbiamo sempre odiato la parola ‘qualunquismo’, usata in passato come marchio a fuoco di tutto quello che non rientrava nelle convenienze di questa o quella annessione partitica, eppure, nel suo caso, viene quasi voglia di rispolverarla.
Forse è il caso che s’informi meglio sulla natura e l’organizzazione del kolibianesimo e cominci a tenere in maggior conto le organizzazioni di base e il coordinamento spontaneo che stanno fiorendo ovunque e che, oltre ad apportare suggerimenti preziosi e idee originali, assumono implicitamente la funzione di controllo democratico rispetto a iniziative che potremmo definire ‘ufficiali’, legate cioè alle varie direzioni centrali del movimento internazionale.
Io, cari amicissimi, tengo ben presente il proliferare di coaguli kolibiani che stanno coprendo il pianeta come placche di muffa tenace e mi spaventa assai che non si riconoscano per quello che sono, un rigurgito di movimentismo velleitario e fanfarone che, celandosi dietro l’alibi di concretezza propositiva rappresentato da un non meglio identificato Progetto, ne approfitta per iniettare in una pubblica opinione istupidita l’ennesimo profluvio di chiacchiere a ruota libera e sotto vuoto spinto.
Che cosa potete vantare alla fine di più e meglio o solo di diverso rispetto alla pletora di idealismi settari, defunti quasi subito oppure allevati in batteria da uno scaltro affarismo, che in ogni epoca e luogo hanno coperto la richiesta naturale di una rappresentanza alternativa rispetto all’ortodossia statale?
Il Progetto, signore caro, soltanto il Progetto.
E dove si trova?
Arriverà e anche a breve, non si preoccupi.
E se dovesse sfornarlo prima un parlamento qualunque?
Lo riteniamo impossibile, ma se, per assurdo, dovesse accadere, lo esamineremo e se lo riterremo degno plauderemo orgogliosi per esserne stati gli ispiratori e promotori.
Certo, come no, e tutte le competenze professionali che intanto sono andate stratificandosi rinunceranno ai propri emolumenti risplendendo di soddisfazione e di gioia per essere riusciti a salvare il mondo dalla distruzione.
No, si tramuteranno in organismi di sorveglianza e controllo.
Pagati da chi, a questo punto?
Chiediamo scusa, ma dobbiamo ritenere che la sua posizione sia evidente per tutti. Ci complimentiamo con lei per la tenacia e la chiarezza con cui l’ha esposta. La preghiamo pertanto di non insistere monopolizzando il dibattito.
Non esiste pessimismo privo di un certo compiacimento sado-masochistico, certo, è indubitabile, ma è peggio dell’ottimismo istituzionalizzato? Alcuni trovano stimolanti e divertenti le critiche impietose, altri si deprimono se non ci si scambia di continuo i ‘segni della pace’.
Questione di temperamento, a me non piacciono né lo scetticismo per partito preso, né il fervore confessionale, a me piace la verità (o piacerebbe, se devo correggermi a conforto di chi la ritiene un concetto non realistico).
Per me la verità è semplicemente l’accordo che persone consapevoli e riflessive possono raggiungere su alcune formulazioni semplici e chiare.
Se una superficie è gialla e lo affermo, chi mi detesta potrà dire che è azzurra, ma la stragrande percentuale di persone chiamate a esprimersi senza condizionamenti di parte, non dirà che è bianca, rossa o nera, dirà quello che è.
Quel furbone del mio più acerrimo nemico potrebbe però affermare che il colore di un oggetto dipende dalla luce che lo illumina e inoltre, qualsiasi essa sia, non si può escludere che da alcune molecole della superficie stessa rimbalzino impulsi di luce azzurra, per quanto molto radi e soverchiati dagli altri. Quindi la cosa in giudizio è anche azzurra.
Questo strano ragionamento che cosa vuol significare? Secondo le mie intenzioni soltanto questo: che prima di mettersi a discutere (e a molta maggior ragione prima di mettersi a 'progettare’) un gruppo di persone deve prima accordarsi sugli ambiti e i limiti di pertinenza della discussione, fissati i quali si deve procedere a esplicitare i metodi e i criteri condivisi ai fini del raggiungimento di proposizioni non ambigue accettabili senza riserve da tutti.
Queste elementari e indiscutibili premesse risultano chiare e distinte alle compagini di piccoli demiurghi severamente impegnate nella ricerca della Panacea Universale, o ancora una volta, esattamente come accade in qualsiasi consiglio o assemblea, dal circolo della caccia al parlamento nazionale, ciascuno vive intensamente (dire ‘conosce’ è assolutamente improprio) le proprie aspirazioni e quelle di camarilla, di partito o, nella migliore delle ipotesi, di specifico strato sociale, ma procede a tentoni nella foschia per quanto riguarda una qualsiasi coerente visione d’insieme?
Noi kolibiani non abbiamo abbandonato un metodo generale di discussione civile e democratica inteso a condurre mediazioni e a raggiungere accordi che presenteranno sempre, inevitabilmente, in tutto o in parte, le caratteristiche del compromesso.
E’ un errore guardare al Progetto come al Modello Unico che obbligherà tutti i membri omologati di una società a comportamenti stereotipi, schemi tassativi di condotta, procedure di scelta affidate a vademecum o macchinismi dell’uno o dell’altro tipo.
Scopo del progetto è ridisegnare drasticamente i profili politici e istituzionali per ricondurre qualsiasi tipo di società entro assetti compatibili con una sopravvivenza a lungo termine e un grado medio di qualità della vita salvaguardato dall’azione disgregante della massificazione tecnocratica con tutte le sue assurde, sproporzionate sperequazioni.
Già, ma se il progetto viene fortemente influenzato dai fiduciari di nababbi economicisti e filo-clericali (i quali potranno rappresentare anche una minoranza nei vari comitati e delegazioni, ma rappresentano il convitato di pietra di quel potere reale che domina appena fuori la porta della sala) che altro otterremo se non la solita dilazione pseudo-riformista?
Da più parti, anche negli ambienti kolibiani più accreditati, si comincia ad affermare esplicitamente che quello che uscirà dai vari pensatoi non potrà costituire una versione definitiva, se mai una bozza su cui poi dovranno lavorare, ciascuno a suo modo, le varie strutture politiche nazionali.
Quindi eccoli, i maestri jedi kolibiani, il non plus ultra dello scientismo esoterico, schierarsi belli impettiti e retribuiti lungo i banchi dei vari emicicli e partecipare focosi a interminabili discussioni intorno a commi, paragrafi, codicilli.
Che cosa è cambiato alla fine, a parte i colori di alcune casacche delle squadre partecipanti al torneo?
E’ cambiato che hanno preso piede concetti fondamentali come quello di Progetto, Società unica e indivisibile nella libertà, federalismo cooperativo delle nazioni specializzate in rami dell’economia globale non più asservita alle multinazionali e alle potenze imperiali, finanza nazionale, controllo elettronico totale delle transazioni economiche, abolizione di ogni proibizionismo, limitazione del clericalismo a favore della carità istituzionalizzata, assistenzialismo di fatto e non corporativo e clientelare, effettiva libertà d’impresa effettivamente sorvegliata. Se vi sembra poco…
Se devo essere sincero uno dei miei concetti kolibiani preferiti verteva sull’abolizione dei partiti e di quello che una volta qualcuno chiamò cretinismo parlamentare e ciò a favore di un’amministrazione diffusa, non affidata a bande di bolscevichi o peronisti o sandinisti, ma a organi tecnici sorretti da competenze e consapevolezze concrete e vincolanti, debitamente coordinati e integrati entro una successione graduata di dimensioni ottimali: che senso ha parlare di progetto se si esclude ogni riferimento a tale formidabile pianificazione sociale?
Vedo con dispiacere che, stando al vostro recentissimo elenco, tale iniziativa ideale non figura più tra le priorità irrinunciabili, essendo ormai (deduco io) il kolibianesimo confluito nella grande corrente normalizzatrice ispirata alla chiacchiera indifferenziata e sovrana, quel principio totalitario di stupidità metafisica che, da diva capricciosa e insofferente, si sottomette soltanto a un tipo molto particolare e selettivo di direttore di orchestra.
Non posso allora fare a meno di domandarmi: per diffondere nobili idee che, almeno nella forma perfetta di una purezza originale, sembrano destinate a rimanere sulla carta, occorreva davvero tanto profluvio e proliferare e pullulare di pappagalli kolibiani gasati e iperattivi, le cantilene ripetute fino alla nausea, tante solenni e commosse attestazioni di onore a quegli inseminatori e untori che chiamate i padri fondatori?
Non bastava un solo padre auspicabilmente sterile e comunque un po’ più geniaccio dei suoi accoliti attuali?
E chi lo avrebbe mai preso in considerazione, se non su un piano puramente accademico e astratto?
E ovvio che ai Padri non sarebbe bastata tutta l’arguzia dell’universo a conquistarsi un centesimo del seguito popolare di cui attualmente gode la filiazione politica delle loro dottrine, senza la potenza propagandistica e comunicativa di cui si sono dimostrati capaci.
Il successo è autoreferenziale come il credito delle banche, più ne hai e più ti sorride, comincia a perderlo e la falla si allarga come la fessura di una diga.
Ai seguaci adulatori che strillano e saltellano importa poco quello che sta avvenendo sul palco e da lì ripiove sui loro sensi accalorati, sono troppo impegnati a contarsi e fondersi in un abbraccio ideale il cui coefficiente di affetto dipende tutto dalla potenza del numero. Disperdi un manipolo di questi esaltati in una platea spropositata al loro quantitativo, magari solo per un disguido nella vendita dei biglietti, e appariranno composti e meditativi come il pubblico di una biblioteca pubblica, anche se in realtà sono solo abbacchiati nonostante la delizia che li irrora.
Il pubblico kolibiano non fa eccezione, come potrebbe?, verrebbe quasi voglia di sperare che gli alacri progettisti che si stanno lambiccando gli emeriti cervelli in commissioni eclettiche, poliformi e in parte misteriose più delle specie di insetti, non rimangano immobilizzati nel labirinto dei veti incrociati, ma ne emergano trionfalmente vittoriosi e miracolosamente concordi, reggendo tutti insieme l’arca dell’alleanza di un ben definito prodotto finale: vedremmo le folle inneggiare rapite, ma già meno frementi e anzi un po’ preoccupate all’idea della fatica di sobbarcarsi un giudizio non più rimandabile dietro altre facezie o anche solo di dover subire l’impatto di immancabili conseguenze reali.
E se invece provassimo a credere in una radicale trasformazione della nostra vita sociale, tale da sconvolgere realmente le nostre pigre categorie mentali e da richiedere, non domani, non con i forse, con i se e con i ma, bensì da subito e anzi da prima, la partecipazione entusiasta e volitiva del nostro più temperato e acuminato spirito critico?
Se la piantassimo, una volta per tutte, signori cari, d’intossicare l’opinione pubblica con i fumi delle nostre geremiadi, se con uno sforzo perfino eroico, dato che si tratta di reprimere reazioni quasi consustanziali e automatiche della nostra natura profonda, troncassimo ogni tentazione di abbandonarci al piagnisteo infinito e rinnegassimo la vocazione a gufare soltanto in base al luogo comune e al vieto alibi difensivo che il potere è sempre male intenzionato e corrotto, produce sempre qualcosa di diverso o di opposto da quello che serve e che dice?
Pensateci almeno un momento!
A chi vi rivolgete?
A noi intellettuali in genere: questo è il nostro portale.
Forse volevate dire ‘la nostra fettina di portale’, dato che mi sembra che ben più luculliane pietanze si stanno libando in altre sezioni.
Lo avete creato per mettere al pascolo e tenere confinati in una riserva i pochi che ancora s’incaponiscono a pensare senza dettatura?
Tanto vittimismo non fa onore a una categoria a cui ogni kolibiano sa di dovere molto.
I kolibiani di apparato forse, gli altri non so proprio come lo potrebbero quantificare questo molto di cui parlate.
Idee nuove, nuove speranze: è poco?
Idee, speranze e nient’altro: certo che è poco. Ma il progetto è nascosto dietro l’angolo e sta per rivelarsi, speriamo solo che non sia un maniaco con l’impermeabile e sotto niente, salvo la minaccia di un bastone.
Purtroppo la gente si è fidata un’altra volta, ha rimandato i tumulti e le rivolte per coccolarsi con un’altra di quelle lusinghe che il padronato è pronto a sfornare e a concedere quando si sente messo alle corde, l’ennesima rivoluzione dall’alto che quando si mostrerà inefficace, permetterà al dittatore di turno d’interpellare i sudditi più o meno così: ecco qua, l’avete voluta, avete fatto il diavolo a quattro per averla, guardate che sciocchi siete stati, ma adesso ci penso io a darvi quello di cui avete veramente bisogno.
Credeteci: finché il progetto non viene alla luce del sole, la cosa migliore per ognuno, nessuno escluso, rimane attenderlo con fiducia rimandando ogni considerazione al dopo.
Possibile che non ci si renda conto di quale fortunata contingenza, migliore di tutte quelle mai verificatesi nella storia umana, si riveli sotto qualunque punto di vista quella in cui la capacità, la coerenza, l’intelligenza, la sincerità, la correttezza, la generosità di una classe dirigente possano essere messe alla prova e valutate in base a un documento unico e compatto che potremmo equiparare a un testo sacro dove la mitologia è scientificamente sostituita dall’effettività sistemica?
Se non afferrate i giganteschi portati di questo punto specifico non avete capito niente del kolibianesimo.
A me un testo sacro privo di mitologia mi sembra la più vertiginosamente irreale delle mitologie.
Un testo è sacro se fa inginocchiare in adorazione un popolo intero, altrimenti è un libro teorico di modelli, prescrizioni, concezioni, definizioni, propositi che accontenterà completamente alcuni, altri con riserva e altri nemmeno per sogno, dopo di che subentra la cavillosità dei distinguo, la babele degli emendamenti, le interminabili diatribe e polemiche, all’interno del solito gioco di compromessi e relativi conteggi in cui la coerenza d’insieme si frantuma sotto la pressione degli interessi già consolidati che rimangono intonsi e inalterati semplicemente perché l’unico tipo di causalità che può sconvolgerli si chiama calamità universale, rivoluzione violenta o almeno il loro annuncio certo e inconfutabile in tempi ristretti.
Non siamo per niente d’accordo: lei sta dimenticando l’immensa opera di persuasione portata avanti nei confronti delle classi dirigenti dai Padri e soprattutto da Remoto Zampetta, il tutto grazie ad arti diplomatiche sopraffine, una annosa assuefazione alle stanze dei bottoni, le loro innumerevoli e bene assortite amicizie, un tatto raffinatissimo e squisito.
Ora quel ricamo complicatissimo ed estenuante sta per dare incredibilmente i suoi frutti: è proprio di oggi la notizia che il Gotha della Finanza Internazionale aderisce senza riserve al Progetto e tra un mese comincerà a nominare commissioni esclusive incaricate di rendere noto, entro un anno, agli organismi statali preposti un piano concreto e dettagliato da realizzarsi entro l’arco di un decennio e non di più al fine di una trasformazione radicale delle attuali strutture in piena osservanza di una interpretazione autentica delle nuove istanze.
Non è meraviglioso? Provate ancora a fare i gufi lamentosi, se ci riuscite.
Interpretazione autentica? Come quella di Gesù Cristo, nazionalista e populista aspirante alla carica di rabbino capo o come cavolo si chiamava il presidente o come cavolo si chiamava del Sinodo o come cavolo si chiamava? Diventato santone di una fratellanza universale utile alla massificazione pacificatrice di cui necessitava un tardo impero che non sapeva più che farsene delle durezze stoiche della classicità.
Interpretazione autentica come quella della Qabbala o quella del Corano da parte delle molteplici correnti mussulmane?
Interpretazione autentica come quella di Marx da parte di Lenin, Trotzkij, Stalin e Mao?
Come quella di Marcuse, Lacan, Derrida, Baudrillard, Foucault eccetera da parte delle avanguardie rivoluzionarie confluite nei quadri partitici del PCI e da lì pervenute alle segreterie di stato e alle poltrone dei consigli di amministrazione delle infrastrutture pubbliche?
Signori, buongiorno. Il gruppo di colleghi che si è occupato in modo più che degno ed egregio di reggere le fila del dibattito condotto finora si sta godendo un periodo di meritatissime ferie.
Dato che al momento possiamo formulare un plauso disinteressato in qualità di parte non ancora in causa, ne approfittiamo per complimentarci con tutti gli intervenuti per l’alta qualità del dibattito in corso e la leale, spregiudicata, sottile varietà degli intelligenti ‘lottatori’ dialettici, spartanamente dediti all’indagine razionale ed esplorativa e privi di quegli sciocchi puntigli ideologici così frequenti nei siti dove sovente impazza la brama manichea di indossare i simboli di una causa da opporre all’errore e alla nequizia altrui.
Non pensiamo di operare chissà quale forzatura se attribuiamo parte del merito all’ermeneutica minimalista di quei grandi precursori che, sull’onda di una metodologia austera ed essenziale (esprimibile con massime classiche quali ‘beata solitudo sola beatitudo’ o, più democraticamente, tramite detti del tipo ‘chi fa da sé fa per tre’) approdarono gradualmente e selettivamente, a un pubblico vasto almeno quanto vivace, attento, penetrante e combattivo, composto sia da sostenitori che da avversari.
Nel rispetto di questa grande tradizione, vi diciamo subito che, al fine di assecondare e palesare la varietà pluralistica e l’assoluta libertà di opinione che circolano all’interno della compagine kolibiana pur nel totale rispetto dell’armonia e coesione necessarie a perseguire una meta comune, siamo stati selezionati in modo che i nostri punti di vista non coincidano perfettamente con quelli di quanti ci hanno preceduto.
Personalmente, riteniamo doveroso controllare e disciplinare un eccessivo scetticismo, ma nel contempo troviamo assai stimolante una critica anche tagliente, a patto che sia adeguatamente motivata.
Non abbiamo nessuna remora d’altra parte a esplicitare una doverosa diffidenza nei confronti di avversari storici del movimento.
Questo nostro medesimo intervento testimonia una vigilanza che assicuriamo essere molto diffusa in tutti i settori del kolibianesimo.
Quanto alla interpretazione autentica che lei così sottilmente stigmatizza, caro signore, siamo pronti ad ammettere che, nella fattispecie, si tratta di una formula un po’ oscura e sibillina i cui latori e divulgatori stanno per essere chiamati a chiarire.
Cari politeisti idolatri adoratori dell’assoluta chimera che chiamate progetto, se non foste così tanti, una mandria sconfinata che tutto bruca e calpesta, mi fareste quasi tenerezza.
C’e chi si balocca con Dio, chi con il football o i motori, chi con l’umanitarismo, chi con il culto di sé o dell’uomo forte, chi con le arti culinarie, chi con un fatidico e fantomatico progetto. A me sembra che in piccolo o in grande, con enfasi megalomane o noncurante frivolezza, stiamo facendo tutti la stessa cosa: ingannare il tempo in attesa che sia finito.
Eppure, vi giuro, io ci credevo, credevo nel kolibianesimo, ma non perché prima ero un idealista che ripetute disillusioni hanno reso scettico e nichilista, no: semplicemente perché vedevo in quella dottrina il grimaldello capace di far saltare la massa di ipocrisie che rende l’uomo medio così falso e inconsistente, una tecnica di gioco abile a svelare quel deleterio bluff autodistruttivo con cui l’umanità inganna se stessa.
Veramente il progetto rappresenta il nodo cruciale di una filosofia ormai degenerata in un credo ideologico semplicistico e ripetitivo?
Io l’ho sempre visto più che altro come un simbolo e una figura allegorica che, una volta mitizzata come traguardo oggettivo e trascendente insieme, sarebbe finita in quel magazzino dei cimeli dove ogni ideale, dopo gli oltraggi e le incomprensioni subiti quando era vivo e pericoloso, termina la sua carriera onorata come reperto antiquario apprezzato da collezionisti ed esteti.
No, invece il progetto è la chiave di tutto, i Padri hanno chiaramente sostenuto che la loro azione era solo una perorazione e un prologo, il momento veramente rivoluzionario consisteva nella stesura esauriente del modello accompagnata dai moduli e dalla tempistica dell’attuazione effettiva.
Il progetto rappresenta: a) sul piano filosofico, la sintesi risolutiva di quel tormentato rapporto tra teoria e prassi che non ha mai trovato risposte storiche adeguate al di fuori della sottomissione confessionale (che esalta l’aspetto motivazionale dell’agire umano, ma trascura fino alla cecità completa il come e il che cosa di una realtà da quello indipendente e di quello comprensiva); b) sul piano politico concreto, la sollecitazione e perfino l’intimazione di una chiarezza semantica e una effettività propositiva che costringono tutte le parti in causa a rinunciare a ogni ambiguità tattica, doppiezza d’intenti, ingannevole artificio, menzognera recalcitranza.
Interpretazioni, signori, sempre e solo interpretazioni: i Padri credevano nel progetto per la sua qualità di procedura effettiva o lo vedevano più che altro come una sorta di gedankenexperiment, un tipo molto speciale di provocazione per portare allo scoperto oscurità volontarie, pigrizie cerimoniali, impliciti vizi di pensiero o chissà che altro? Tutti sono pronti a giurare sull’esegesi che sembra la più indicata alla propria chiave di lettura o più funzionale a determinati obbiettivi o che semplicemente fa comodo per motivi degni o dozzinali, ma in ogni caso si tratta di esegesi e soltanto di esegesi e cioè di far parlare un testo che, come tale, si è trovato davanti a un bivio: o dire poche cose in modo localizzato e strumentale o dirne troppe e troppo impegnative.
Bastano pochi e semplici assiomi come quelli di Euclide o di Peano e poche e semplici regole d’inferenza per generare conseguenze infinite.
Esatto, proprio così, quindi o si genera una discussione infinita, senza capo né coda, oppure il nodo gordiano viene tagliato da due tipi di spade: quella di chi si arroga il potere e il diritto di farlo in base a un confronto o bilanciamento delle forze in campo o quella dell’intelligenza costruttrice che predispone tipi di società vivibili e non minate all’interno da contraddizioni insanabili.
I Padri hanno dimostrato che il modello di società occidentale (democrazia parlamentare attraverso contrapposizioni partitiche ed economia di libero mercato), adottato, pur con molte anomalie, divergenze, riserve e imperfezioni, dal mondo intero, è destinato a diventare insostenibile entro pochi anni, sia per ragioni sociali (sperequazioni insanabili, fragilità indotte da una finanza irresponsabile, spersonalizzazione massificante, gerontocrazia classista, conflitti generazionali e demografici eccetera), che ambientali (esaurimento inesorabile delle risorse strategiche, riscaldamento climatico, criminale abbattimento della biodiversità eccetera). Ciò si deduce inconfutabilmente da un’analisi globale, estesa al pianeta intero, a prescindere dagli alti e bassi di ogni singola nazione che, al momento dello sconquasso, verrà risucchiata nel baratro insieme a tutte le altre (un vero peccato per la nostra cara e vecchia Italia che, grazie alla vertiginosa propulsione indotta dalla dinastia renziana, era in procinto di diventare la prima potenza del globo!).
Quindi noi domandiamo: attraverso quali metodi e iniziative perveniamo a un modello di società alternativa?
E io vi domando: che differenza sostanziale sussiste tra un confronto all’interno di un parlamento e uno all’interno di un comitato particolare di saggi o esperti? Non alludo ovviamente alle modalità tecniche, ma al carico di sotterfugi, dissimulazioni, artifici, inganni, dilazioni, falsi movimenti, deliberati depistaggi, obbiettivi sottaciuti, ostilità celate per ragioni d’immagine e popolarità, pillole avvelenate, stravolgimenti in linguaggio bizantino e chi più ne ha più ne metta, che possono riguardare ogni singolo aspetto di un modello enormemente complesso come adesso riguarda commi e codicilli delle leggi più importanti e delicate.
Qualsiasi modello inoltre, che per assurdo si riuscisse a partorire in una forma sufficientemente compiuta, ricadrebbe sotto le attenzioni del vecchio sistema politico, che quindi vi si applicherebbe rimettendo in gioco tutte le capziosità e le contorsioni che già hanno estenuato gli organi addetti alla sua costruzione.
Per molti versi, la sua osservazione è calzante e condivisibile, ma si dà il caso che l’idea kolibiana di progetto include quello che, in un certo senso, potremmo definire il ‘progetto del progetto’, vale a dire il concepimento di tutti gli accorgimenti, le avvertenze, i coordinamenti e le mosse preliminari, le fasi d’intelligente aggressione, tutte le tattiche insomma di avvicinamento, mandate a buon fine le quali, il modello da costruire cessa di essere un nebuloso punto di riferimento ideale, un astro orientativo, per trasformarsi nell’obbiettivo tecnico di un lavoro sociale adeguatamente organizzato.
Perfetto, signori, benvenuti al club del circolo vizioso e del rimando all’infinito. Vi è bastato sbirciare in lontananza le sedie vuote e tenere in mano un invito al banchetto: vi siete messi a correre trafelati senza guardare il terreno e siete finiti dentro tutte le trappole intellettuali che contestavate ai vostri avversari.
Il progetto del progetto è un concetto di tutto rispetto, ma al vostro posto non sarei così modesto e mi metterei subito a pensare al progetto del progetto del progetto.
Adesso sono curioso di vedere come ve ne districate.
Non abbiamo nessun bisogno di districarci da alcunché, i lavori delle commissioni incaricate della pianificazione preliminare troveranno per noi le risposte.
No, scusatemi, fatemi capire bene: i vostri colleghi hanno appena finito di annunciare una miracolosa comparsa del principio di soluzione universale da qui a pochi giorni, e voi adesso ci state dicendo che quello che sta per apparire in una santa aureola, non è che l’arcangelo che annuncia il salvatore prima ancora del concepimento nel ventre immacolato?
Che cos’è, una presa per i fondelli? Esigo una risposta prima che mi scada la tessera.
Forse non ci siamo spiegati chiaramente o forse lei ha qualche difficoltà nel distinguere tra momento politico-amministrativo e momento tecnico. Cercheremo di spiegarci attraverso la metafora di un piano urbanistico o di un complesso edilizio. Architetti e ingegneri predispongono gli studi e i disegni tecnici in piena autonomia e mettendo all’opera le proprie competenze, ma ovviamente, quando la pianificazione dei dettagli strutturali e delle procedure costruttive è terminata, non si può procedere mettendo in moto le maestranze d’impresa se prima non è stata condotta una ricognizione adeguata del territorio, sia dal punto di vista fisico e geologico (tenuta, disponibilità, rischi di degrado ecc.) che da quello delle proprietà, dei diritti, degli interessi, delle interdipendenze, di tutte le istanze civili o anche penali particolari o generiche. Forse il termine ‘progetto del progetto’ da noi usato non si rivela molto azzeccato: chiediamo scusa. Intendevamo qualcosa come ‘politica di progetto’.
Ecco, appunto: politica! Volete che vi dica che cosa mi sembra questa ‘politica di progetto’? Nient’altro che la vecchia salsa con qualche minimo percento di ingredienti in più o in meno per non chiamarla salsa.
Ecco come la vedo io: c’era la vecchia classe partitico-parlamentare che non sapeva che pesci pigliare e del resto era troppo tardi per prenderli perché ormai era arrivata alla truffa, cioè no, mi correggo, alla frutta e gli invitati si preparavano ad alzarsi e ad andarsene. E poi c’eravate voi, gli emergenti, i rinnovatori, gli interpreti di una concezione nuova e rivoluzionaria del movimentismo. Lo scontro si annunciava duro, si preparavano giorni difficili, ma valeva la pena scornarsi a vicenda per dividersi soltanto macerie bruciate?
Secondo voi che cosa rispondono a questa domanda i moderni capi intelligenti, ovvero quei dirigenti che, come dicevano i Padri, prima sono dirigenti e poi, se mai, se avanza tempo, membri di quello che dirigono? Secondo me, riunitisi tra di loro in qualche convito ameno, dopo essersi annusati e riconosciuti, rispondono: signori, qui ci vuole un bell’accordo, un bel compromesso.
E di che tipo sarà questo bell’accordo o compromesso? Vediamo, mumble mumble… Ecco, probabilmente una cosa del genere ‘tu dai una cosa a me e io do una cosa a te’. E che cosa sarà mai oggetto di scambio in questo magnifico cerimoniale, in questo potlac tra gentiluomini esperti in agreement?
Ci ho pensato a lungo e ho concluso: poltrone, cari signori, poltrone, e vi spiego perché. Io al loro posto avrei fatto così: quello che è stato è stato, quello che è dato è dato, non si può scalzare gli dei dall’olimpo senza rovesciare il cielo sulla terra (anche se gli dei sono diventati obesi, lascivi, impresentabili o magari proprio per questo), gli eroi però, i tesei e i prometei, vanno premiati in qualche maniera e non certo con scampoli e resti. Quindi? Ideona! Hanno inventato il progetto? Onoriamoli inchinandoci al loro dio, invitiamolo a stare con noi nell’Olimpo, allestiamoci una lussuosa dependence del pantheon. Già, ma tesei e prometei sono così idioti da accontentarsi di onorificenze formali? Certo che no: occorre quindi edificare con le pubbliche finanze templi di culto per il nuovo idolo, il che richiede anche l’assunzione di personale specializzato, trasformiamo quindi le gerarchie militari kolibiane nelle gerarchie gestionali di una nuova religione e tutto combacia senza colpo ferire e poteri sommuovere.
Che ne dite: ci sono andato vicino?
Riconoscete almeno che la mia metafora dell’Olimpo e del pantheon non è inferiore a quella del piano urbanistico e del complesso architettonico.
Lo riconosciamo volentieri e le facciamo i nostri complimenti: lei è un buon polemista, ma è anche quello che mia nonna chiamava un malfidente, uno cioè che vede il male dappertutto, forse perché ce ne ha troppo dentro di sé e non sa dove metterlo.
Da kolibiano convinto, comprendo l’amarezza che si prova a vedere continuamente messa in dubbio per partito preso la propria buona fede, tuttavia bisogna riconoscere che l’idea del progetto, per quanto filosoficamente pregnante, fatica a conquistarsi un’analoga nobiltà pratica e operativa.
Non è forse il caso di farla scendere dal piedistallo, ritornare dai padri, sceverare uno per uno i punti della loro bozza e dichiararli chiavi di volta irrinunciabili da rendere al più presto operative tramite delibere di politica tradizionale ovvero disegni di legge, decreti e quant’altro?
Questa è una via delle vie possibili, ma il gradualismo è una strategia fragile se ci si propone un disegno irrinunciabile e prioritario quanto composito, difficile e urgente, un esito complesso e organico da perseguire attraverso una serie di tappe successive ciascuna delle quali prevede il raggiungimento di maggioranze parlamentari risicate e ballerine. Purtroppo, il movimento non sembra ancora in grado di raggiungere la maggioranza assoluta in parlamento e, se alcuni nodi si possono sciogliere grazie alla possibilità di intese trasversali, altri, giudicati da molti nostri esperti assolutamente indispensabili ai fini di una solidità e tenuta generali, si trovano davanti resistenze accanite e formidabili. La questione cruciale riguarda la non separabilità delle singole istanze se si vuole che il risultato conforti i propositi iniziali di addivenire a una soluzione stabile, equilibrata e duratura, un assetto che, almeno nelle linee generali, possa essere considerato definitivo. Se si perdono per strada i requisiti di coerenza e organicità, si smarrisce l’essenza stessa del progetto e tutto rimane di nuovo sottoposto al tumulto anarchico dei molteplici, deleteri interessi.
Signori, scusate, non vorrei sembrare polemico per il gusto di esserlo, ma mi sembra un copione già visto. Direi proprio che ci troviamo in mezzo alla solita diatriba tra massimalismo e riformismo, tra il volere tutto e subito e il realismo della mediazione infinita: una contrapposizione che solo eufemisticamente potremmo definire ‘annosa’, infatti non riguarda gli ultimi decenni (con qualche oblio o attenuazione recenti), riguarda l’intera storia umana.
Certo, ma con questa non piccola differenza rispetto al passato: che i kolibiani pensano di aver dimostrato che il massimalismo è diventato l’unica opzione seria a cui possono appellarsi i centristi liberali per salvaguardare la propria cultura e la propria concezione del mondo.
Cari signori, con calma, con grandissima calma (sto tirando un lungo respiro e contando fino a cento). Bene, proseguiamo. Voi potete dimostrare tutto quello che volete, ma se alla fine il risultato delle vostre formulazioni è una pura e semplice utopia che si differenzia da quelle di Tommaso Moro, Fourier, Huxley e chissà quanti altri soltanto perché così avete deciso voi nominandola ‘progetto’ non è che contribuite molto nel far fare alla vexata quaestio chissà quale passo in avanti.
Il diavolo è nei dettagli, si diceva una volta (sempre quella mia nonna per cui spesso la malizia è negli occhi di chi guarda): il diavolo e quindi, di contraltare, la divinità. Qui non si tratta tanto di dettagli, ma di comprendere quelle occorrenze cruciali che non sono costanti fisse di un panorama storico e sociale, ma si manifestano o, per meglio dire, accadono in coincidenza con determinate situazioni di svolta, contingenze specifiche, incroci di circostanze decisive e via di questo passo. Ogni periodo della vicenda umana concretamente situato nel tempo e nello spazio geografico è contraddistinto da fenomeni critici non generalizzabili a qualsiasi altro tipo di evento.
Che cosa è intervenuto dunque, almeno secondo la visuale kolibiana, perché i vecchi schemi consolidati della pratica politica non siano più applicabili senza revisioni profonde e occorra procedere a un ribaltamento di categorie e concetti, nella fattispecie quelli di libertà, democrazia, pragmatismo, realismo e quindi rapporto tra progetto e utopia? Semplicemente questo: l’avvicinarsi del baratro, l’accorciamento sempre più accelerato della distanza che ci separa dall’orlo oltre cui di sicuro c’è solo un salto nel vuoto.
Se le sembra troppo poco per cominciare a indossare un nuovo paio di ali, ci congratuliamo per il suo sangue freddo, ma ben difficilmente riuscirà a convincerci che quello da solo basti a risolvere le problematiche in atto. Quanto poi al tipo di ali, forse è meglio chiamare in causa esperti di aerodinamica e ingegneria del volo perlomeno per una consulenza o una guida, piuttosto che metterle al voto in un'assemblea popolare in cui ciascuno dice la sua al di là o per meglio dire al di qua delle competenze acquisite o magari affidarle addirittura a una rabbia popolare che spesso è ossequio individuale al tiranno che si tramuta in auto-immolazione alla moltitudine divenuta idolo sadico secondo le tradizionali analisi di psicologia della folla (Freud, Ortega Y Gasset, Durkheim e così via).
Continuando la metafora, qualcuno potrebbe ritenere e non a torto che anziché cercare di decollare e sostenersi nell’aria, sia meglio azionare tutti i dispositivi di frenata e di sterzo per modificare la traiettoria che ci conduce all’abisso, rimedio molto plausibile che però non può essere perseguito accanto al precedente decidendo ora in un senso e ora nell’altro, magari senza sapere a quali dei due ci si sta riferendo. La strategia da adottare va decisa in una fase preliminare, dopodiché tutti gli sforzi devono essere diretti ad attuarla secondo schemi razionali che assicurino o almeno rendano molto probabile il risultato aspettato. Se non ci si concentra sulla differenza tra funzionalità meccanica, sistematica, operativa e gradimento psicologico ed emozionale di pattuizioni e convivenze, se non la si collega poi a quella tra un interesse primario di sopravvivenza da un lato e interessi ordinari di ceti, gruppi, categorie di persone dall’altro, non si è capito niente del kolibianesimo.
Va bene, d’accordo, sottoscrivo tutto, ma poi? Avviare una miriade di commissioni tecniche di esperti di lana caprina vi sembra la metodologia più indicata?
Supponendo pure che il mitico Progetto non sia una riverniciatura di questa o quella ossessione utopica, far partorire dal Parlamento centrale una proliferazione di parlamentini specializzati, incluso quello per il coordinamento delle specializzazioni, segnerà il trasloco definitivo del Nuovo Logos salvifico nel limbo dei puri spiriti annunciati, ma mai concepiti.
Se volevate facilitare il compito ai sabotatori di qualsiasi indirizzo e ispirazione ci siete perfettamente riusciti, se non altro avete fatto iscrivere nel novero tutti i fedeli adepti che ricevono il gettone di presenza e per i quali sottrarsi al compito denunciandone l’impossibilità rimane la scelta più ostica e sfavorevole a prescindere che tale impossibilità esista o meno.
Non ci siamo, non ci siamo proprio. Le vostre tesi di fondo secondo me sono corrette, ma dovevamo portare a decisioni completamente diverse da quelle adottate, per esempio quella a cui ricorrevano gli ateniesi in tempo di crisi: nominare un dittatore singolo o una oligarchia dispotica, affidando a loro la ricerca della soluzione, con il sottinteso esplicito che, se non l’avessero trovata in tempi congrui, avrebbero assaggiato la frusta e il bastone.
Il dittatore o i dittatori dovrebbero possedere cognizioni sterminate per poter concentrare, sorvegliare e dirimere i problemi cruciali entro un ambito così ristretto; inoltre, sempre a causa dell’esiguità del novero, subirebbero pressioni e condizionamenti insostenibili, finendo per essere facile preda, in un modo o nell’altro, di nemici del progetto ancora troppo potenti.
Allora, secondo il mio modesto parere, a voi kolibiani (a noi? Non lo so, ultimamente mi sono sorti non pochi dubbi), non avete scelta: dovete stendere il progetto e utilizzare i metodi tradizionali di lotta per promuoverlo.
Il vantaggio, anche in un’accezione di correttezza democratica, di stratagemmi, propagande, pressioni giocati tra cortei tumultuosi e veemente pubblicistica, si fonda sugli strani chimismi della psicologia collettiva, dove le contorsioni dei rapporti tormentosi tra conscio e inconscio, le dissonanze cognitive, le tensioni contraddittorie, riecheggiano, con tutti gli aggiustamenti impliciti nel salto di livello, le complicazioni psichiche del singolo. E’ noto infatti che sondaggi di opinione e prove elettorali fotografano lo stato delle preferenze, ma non la dinamica nascosta, le convinzioni cristallizzate per inerzia, non i dubbi e i rovelli che cominciano a trivellare sotto la crosta dell’abitudine.
Durante i moti dal ’68 in poi, per esempio, il sindacalismo rivendicativo e arrabbiato costituiva una minoranza perfino irrisoria nella popolazione complessiva di operai, impiegati e stipendiati in genere, ma scavando in profondità nell’indole e negli atteggiamenti dei più moderati si poteva intravedere una non avversione, se non ancora una buona disposizione, verso l’estremismo, esprimibile in locuzioni del tipo: ‘sono degli esagitati e mi fanno un po’ di paura, ma in fondo, se le loro istanze prendono piede, io che cosa ho da perdere?’
Intendo dire: un sacco di gente, oggi, ritiene salutare respingere le tesi kolibiane in quanto inquietanti, insidiose, problematiche, aliene, ma quanti di costoro, sotto sotto, cominciano a nutrire il dubbio che possano corrispondere semplicemente alla verità e si stanno predisponendo ad accettare rimedi drastici imposti da forze esteriori?
Soltanto un’azione d’urto dei più diretti interessati può rivelare il volto nascosto della pubblica opinione.
Una analisi acuta e pertinente, ma che a nostro avviso svela il suo difetto nascosto proprio nell’esemplificazione attinta da un movimento rivendicativo tradizionale come quello del ’68. Tra la ricerca di un assetto rivoluzionario secondo canoni storici e la perorazione del progetto come soluzione obbligata per evitare la catastrofe prossima ventura ce ne corre: la prima rispetta in pieno l’acquiescenza verso le leggi darwiniane che l’umanità s’illude di avere superato, tanto è vero che la forza del marxismo, più che nel contenuto filosofico delle tesi principali, si è nutrita di quegli aspetti mitologici che davano per certa, in quanto iscritta in leggi oggettive e inviolabili, la vittoria del proletariato. E’ bastato che gli sviluppi (e le invenzioni) del capitalismo mostrassero l’inconsistenza di tali leggi, per fiaccare le relative volontà.
Inoltre, la messa a punto di una utopia razionale promossa a obbiettivo concreto, non si può accontentare di un avvallo viscido e rinunciatario come quello che lei attribuisce alle maggioranze ‘moderate’ o ‘silenziose’, non può nemmeno rinunciare alla concezione utopica, ma pur sempre sanamente ‘regolativa’, dell’individuo come entità spregiudicata e autonoma, distinto dall’uomo-massa che esulta o digrigna i denti per riflessi condizionati, esige al contrario il sostegno meditato e convinto di una maggioranza disposta a rischiare per scelta deliberata e coraggiosa.
Ahimè, temo che sia precisamente questa la ragione per cui, a dispetto di tante sottigliezze, i due concetti, progetto e utopia, coincidono.
Non siamo d’accordo, ma non possiamo escluderlo dogmaticamente, esattamente per la stessa ragione per cui lei non può mettere la mano sul fuoco dichiarando la tesi contraria. E allora: che cosa può dirimere la questione o perlomeno fornire indizi favorevoli o meno in un senso o nell’altro? Solo una verifica, un esperimento e una analisi condotti su eventi e fatti reali, constatati o provocati che siano.
La scommessa kolibiana è precisamente questa: coinvolgendo nella stesura del progetto tutte le categorie sociali, favorevoli o contrarie, come in una specie di grande gioco sociologico e democratico, si possono creare le condizioni per quella maggioranza trasversale che serve.
Magari si creano, poi si insemina un ventre artificiale con ibridi a cui partecipano i geni più diversi: ne viene fuori un exploit teratologico, un mostro senza una gamba, con due teste, con la pancia al posto del cuore e il pisello al posto del cervello, qualcosa che per alcuni doveva essere partorito comunque per salvare la faccia e per altri rappresenta una nuova attrazione da fiera delle meraviglie da esporre sotto la scritta: ecco che cosa accade quando si abbandona la via vecchia per la nuova.
Perché fasciarsi la testa prima di cadere?
Se fossi incaricato all’interno di una delle varie commissioni, la testa non me la fascerei di sicuro!
E comunque, signori, secondo me non c’è motivo di nutrire tante preoccupazioni: il Progetto o Grande Semplificazione, sotto la forma di un ritorno alla sobrietà di una disciplina imposta da vecchi poteri rimessi a nuovo e ancora più nuovissime tavole dei comandamenti che ribadiscono con altri toni le stesse solfe, ce lo stanno confezionando le oligarchie: una bella dittatura paternalistica e confessionale.
Non possiamo pretendere che gli avversari smettano di tessere le loro tele adottando una versione deformata di pianificazione e perfino un aborto di progetto. Al riguardo possiamo solo garantirle che la competizione non ci spaventa di sicuro. Vedremo chi vincerà.
Intanto stiamo vedendo che la musica non è cambiata: chi ha successo è ottimista, che non ce l’ha pessimista. Non dovevamo abbandonare tutti certe inclinazioni, certe malformazioni dell’indole e delle ‘macchine desideranti’, in omaggio alla Nuova Oggettività?
Qualsiasi cosa sia sorta all’orizzonte e splenda luminosa in modo da confortare i vostri cuori e aprirli rinvigoriti alla speranza, io proprio non la vedo, proprio sostituendo l’idolatria di una indefinita speranza in vista di una democratica trasparenza totale che permettesse rimedi avveduti, io e forse molti altri pensavamo di meritarci quella pace e quel sereno disincanto che è quasi un prologo di libertà, forse l’unica che sia ragionevolmente accessibile.
Ho l’impressione di non trovarmi più in sintonia con la più recente revisione del Nuovo Verbo messa ai voti e approvata con alzata di mano dai membri tesserati dei fan club con annesso circolo ricreativo e saletta riservata per psicodrammi e culti misterici.
Pensavo che kolibianesimo significasse qualcosa come igiene e profilassi della mente sociale all’insegna di una disintossicazione dalle ritualità isteriche del politicismo e partecipazionismo autoreferenziali e/o carrieristi, un allontanamento deciso dal ricatto e dalla nocività di bisogni e pulsioni condizionati dalle esigenze riproduttive dell’egoismo economico, un puro e semplice miglioramento della specie non spacciato attraverso ipnosi, mistificazioni e drogaggi, ma costruito grazie alla sobria terapia di un realismo riflessivo.
Uno dei punti del programma base che più mi attiravano (da molti considerato secondario) riguardava (ormai mi tocca usare il passato) la liberalizzazione nell’uso delle droghe con obbligo di responsabili e dirigenti di sottoporsi al controllo: mi sarebbe piaciuto potermi configurare un’idea di che cosa sarebbe rimasto di tanta sconsiderata agitazione o vitalismo paranoico se vi si sottraeva l’azione ausiliaria della chimica psicotropa.
Sottostare all’entusiasmo da sniffata dei soliti parvenu o ai deliri di onnipotenza sovraccarichi di endorfine per eccesso di produzione fisiologica si profila come la maledizione del futuro e la cuccagna della delinquenza, ma voi, invece di opporvi, chiedete a tutti di rimettersi a cantare nel coro: cari signori, me ne guardo bene e penso che i Padri (definizione che ho sempre trovato risibile) sarebbero d’accordo con me.
Un caloroso saluto a tutti quanti, siamo il gruppo incaricato di subentrare alla squadra che vi ha tenuto testa nel modo che hanno meritato tanti formidabili lottatori dialettici. Ci siamo appena scambiati il cinque, i complimenti e gli auguri e adesso tocca a noi incrociare le spade, confermando le caratteristiche di movimento a conflitto istituzionalizzato, in cui ogni membro, rispetto a tutti gli altri, ‘capi’ compresi, si confronta in un rapporto di controdipendenza, tutto al contrario di quello che avviene oggi nei principali partiti politici e in genere in tutte quelle compagini malate di settarismo che temono la creatività e l'iniziativa dei singoli.
Nonostante la libertà che ognuno di noi si concede, non perdiamo mai di vista le necessità e gli scopi dell’azione, ma proprio per questo ci applichiamo molto intorno alle problematiche suscitate da qualsiasi forma di lavoro collettivo non autoritario, cercando i requisiti ideali di una leadership produttiva, in ordine all’ottenimento di obbiettivi differenziati secondo il giusto livello di organica ricchezza e perciò sensibili alle istanze di una delicata ponderazione tra l’accuratezza delle analisi e l’urgenza delle decisioni. Conosciamo bene gli studi delle interazioni dinamiche, gli esiti contrastanti dei modelli relazionali quando privilegiano l’una o l’altra di esigenze irrinunciabili, ma non del tutto compatibili tra di loro, i rapporti tra scelta e coesione in presenza dei temi della sicurezza, della responsabilità, dell’assunzione di ruolo, nelle zone mobili e sensibili al contesto che si protendono tra creatività individuale e logiche di sistema.
Penso che dovremmo proprio partire da queste sottigliezze d’impostazione per affrontare le sfide formidabili che ci troviamo davanti: conciliare l’inconciliabile, saldare volontà e interessi che fino a ieri spingevano in direzioni opposte, ritrovare la solidarietà dell’ottimismo in contingenze che, quanto più ruggiscono turbolente e minacciose sopra ogni essere umano in quanto tale, tanto più invitano ogni persona intelligente ad abbandonare meschini particolarismi e a rimboccarsi le maniche in cerca di soluzioni coraggiose e condivise.
Nessuno di noi richiede comunque un carico di pazienza illimitata, soltanto una piccola dose aggiuntiva.
Ora ci rivolgiamo a te, disilluso e sconsolato interlocutore dell’ultima missiva: perché cedere a un nervoso scetticismo proprio ora che siamo così vicini alla meta? Questo é un inizio, non una fine.
. . . . . . . . . . . .
Aggiunte del 15 agosto 2015
CONSULENZE, SUGGERIMENTI E SPUNTI STILATI DALLA FAMOSA O FAMIGERATA DKTT (DEUTSCH KOLIBIANEN THINK TANK), DETTA ANCHE ZEITGEIST GANG, PROPEDEUTICI AL MESSAGGIO DI BENVENUTO DEL PRESIDENTE EDMUND PAGNI STEUT E ALLA RELAZIONE INTRODUTTIVA DEL SEGRETARIO THOMAS ROSIKANT GUFF IN VISTA DEL VENTISETTESIMO CONGRESSO NAZIONALE (MAI INAUGURATO PER LE BEN NOTE RAGIONI) DEI KOLIBIANI TEDESCHI (I K KOLIBIANI O KEISPARTANS O DOPPI KOHL).
NDC: Il lettore curioso, intraprendente e perciò fortunato, troverà in questa sezione, grazie alla tipica idiosincrasia tedesca nei confronti delle mezze misure, una tale serie di poco credibili enormità inframmezzate a molto corrive ovvietà da domandarsi alla fine se gli autori intendessero scherzare. Dato però che, com’è ormai universalmente acclarato, i tedeschi non scherzano mai, i più diligenti potrebbero anche scoprire (mettendosi di buzzo buono!) che enormità e ovvietà, già diversamente giudicabili in base ad aspettative, approcci, obbiettivi, tendono a coincidere perfettamente almeno secondo le sintesi che noi preferiamo (T.Samsonova).
Dall’appello dei Kolibiani Tedeschi, su invito di quelli italiani, al giovane Matteo V nel primo anniversario della sua ascesa al trono:
Sire, la preghiamo, la invochiamo, la impetriamo, la imploriamo, la supplichiamo, la scongiuriamo (ma quanti termini possiede la bella e sensibile lingua italiana per esprimere un atto di sottomissione speranzosa!): si converta al Kolibianesimo!
E’ comprensibile che fin dai primordi il Suo casato abbia subito l’influenza della gigantesca tradizione culturale tramandata dal Ducato Berlusconiano, ma a ben altre contingenze bisogna porre occhio e orecchio nei tempi presenti. Non vorrà certo che rappresentanti di quel ducato, ora alleati, ora cospiratori, ora alleati di fatto e subdoli cospiratori, non meno abili a fiutare il vento anche se meno vaticaneggianti, anticipino Vostra Grazia rinnegando il trono e guadagnandosi una chance per il futuro!
Vera nobiltà è quella di chi sa leggere la Storia e in base al suo messaggio adattare i comportamenti fino a sconfessare addirittura se stessi.
E oggi non si tratta di seguire la Meretrice di Babilonia o Grande Puttanone, oggi, non solo un consiglio, perfino una ingiunzione, arrivano da riscontri certi e lampanti, da inconfutabili fatti scientifici.
Qualcuno ha definito ‘tipicamente tedesco’ il nostro approccio a quella che, in modo subdolo e malevolo, viene spesso definita ‘utopia kolibiana’.
I falsari più inverecondi si sono spinti fino al punto di rinvenirvi i segni di una mai sopita aspirazione sadico-autoritaria di ovvia ascendenza nazista, anche se il termine rimane sottaciuto, forse perché usato dai Padri Fondatori per caratterizzare quell’iperbole ambigua del razzismo che è lo ‘specismo’ dell’umanità prevaricatrice e devastatrice, dell’Homo SE (Homo Sesta Estinzione), come recita quella ben nota, mordacissima rettifica che l’immenso Zampetta apportò ironicamente in risposta allo sdegno inviperito dei sepolcri imbiancati che osarono dardeggiare contro la sua celebre e ficcante sottolineatura originale.
Tutto questo, in fondo, soltanto perché noi tedeschi tendiamo a fare le cose sul serio e l’unica accezione seria di ‘fare sul serio’ in campo politico / economico / sociale, significa realizzare, costi quello che costi, progetti espliciti, esaurienti e dettagliati, senza zone d’ombra, reticenze o doppi fini, rimanendo tutto il resto, ordinaria e corriva amministrazione a parte, nell’ambito di esibizioni rituali ingannevoli o improprie, menzognere o fuori contesto, simili, nel secondo caso, a parate di corteggiamento o a simboli della selezione sessuale come la ruota del pavone o i palchi di corna di alcuni maschi della famiglia cervide (non per niente davanti a una riforma seria oggi si dice ‘E’ una tedesca!’, mentre ‘renziani’ vengono definiti i pateracchi che si limitano a concentrare nelle mani di ‘cretini’ vincenti i cocci prima disseminati tra ‘cretini’ di tutti i tipi (cretini per modo di dire, cretini resi tali, a prescindere da meriti e doti, dalla dilatazione di scala dei problemi e dalla loro derisoria preponderanza).
A onor del vero, con l’onestà che contraddistingue ogni kolibiano, dobbiamo ammettere che costoro (i vincenti di allora), se pure non riuscivano a ricomporre il puzzle, almeno vi si appassionavano con la naturalezza e la vitalità dei bimbi sani, inclusi rigeneranti ritorni da vanità, sentimentalismi, orgogli e altre simpatiche diavolerie e pinzillacchere del genere, a meno che non fossero dei mascalzoni, il che può accadere benissimo anche oggi, ma mai nel 100% dei casi, neppure in Italia, dove purtroppo avveniva e avviene più spesso che altrove, poche nazioni escluse.
Comunque sia, nella medesima Italia, non a caso materna scaturigine della dottrina alle cui mammelle ancora si abbeverano i giovani rampolli della nostra fratellanza germanica, si dibatte e ci si arrovella molto intorno al problema se anche al mascalzone possa attribuirsi il termine (convenzionale, neutro, inoffensivo) di cretino. Personalmente riteniamo di no, conclusione che ha il vantaggio di spiegare in parte perché, quando la concatenazione dei fatti riduce alla condizione di cretino anche il più ingegnoso degli uomini, i mascalzoni tendono a proliferare.
Abbiamo appena toccato la questione fondamentale dell’antropologia del vincente: ecco, ben al di là di sfumature e inclinazioni etniche, un groviglio problematico su cui riteniamo che bene possa applicarsi la nostra specifica, teutonica capacità di visione organica! Chi, se non un tedesco, razionalizzatore d’istinto e colpevole vittima storica di maramaldi prima e psicopatici poi, oltre che appartenente alla stirpe inanellatrice, nel secondo dopoguerra, della serie di governanti migliore al mondo (Merkel compresa, purtroppo!), è più meritevole di tanta incombenza? Senza schermirci dietro false modestie, dichiariamo qui che non ci sottrarremo al’impegno non più rinviabile di una riparametrizzazione in prospettiva olistica delle nature idonee a caratterizzare gli uomini degli strati dirigenziali, allo stato attuale manipolatori soprattutto di riferimenti e traguardi per vantaggi elitari e partigiani, in seguito, se non si va tutti a rotoli, abili funzionari e promotori della creatività comunitaria secondo un piano di emancipazione totale razionalmente fondato.
Dopo anni di perlustrazioni degli antri più limacciosi dell’animo umano intese a inventariare tutta una galleria di esemplari considerati idonei alla gestione di aree del comando, possiamo serenamente elencare una serie di stringenti avvertenze che sarà necessario rispettare prima dell’attivazione di nuove gerarchie:
mai e poi mai l’atto del comando dovrà qualificarsi come gratificante in sé e per sé, per cui sarà d’uopo riguardare con sospetto il comandante che ci si diverta troppo;
lo sforzo per la soluzione di un problema difficile dovrà emergere (sinceramente!) sia dalla fisionomia del comandante che dallo sviluppo ispezionabile e trasparente delle problematiche dal medesimo affrontate;
fatti salvi gli indennizzi di legge, in cambio di progressi tecnici adeguati sarà possibile tollerare atti sconsiderati e poco eleganti come sfoghi, arrabbiature, incontinenze aggressive, purché scaturiti spontaneamente e non per calcolo e seguiti da segni di testimonianza di una predominante lucidità. La clausola viene inserita anche a tutela di una pratica giurisprudenziale che si vuole mantenere collegata a un minimo di riferimenti sostanziali oltre che formali. Supponiamo infatti che un signore sanguigno e combattivo, chiamiamolo Beppe Colibi Sgarbusi (nome a caso), si provi a dibattere con un personaggio interpretato da James Renzorfini. B.C.S. sostiene che se togli ogni garanzia ai contratti a tempo indeterminato e concedi incentivi alle aziende perché trasformino i rapporti precari secondo la nuova normativa, anche conseguendo il 250% di conversioni nulla ti autorizzerebbe a particolari trionfalismi, almeno finché l’operazione rimane nell’ambito del puro guadagno per chi la compie, poi si vedrà. J.R. (il suo personaggio) risponde che quello che conta è l’aumento dei contratti a tempo indeterminato, con garanzie o no chissenefrega, tutto il resto è noia, e lo fa con quei modi da professorino biforcuto che sottintendono che l’avversario è sempre troppo scemo per venirne fuori da vincitore (intendendo per ‘scemo’ la moderna traduzione accademica (da intellettuale superfino, superfigo e superfingo) di ‘onesto’, ‘esplicito’, ‘diretto’). Che cos’è più lesivo di una corretta dialettica civile: l’insulto o perfino lo schiaffone che potrebbero arrivare dall’interlocutore esasperato o l’affettazione che il cavalier servente dell’aristocrazia sparge come cipria tossica responsabile di svariate patologie mentali?
più in generale, la correttezza sostanziale del comportamento dovrà valere come criterio soverchiante altri tipi di considerazioni relative a simpatia, eleganza, stile, amenità, diplomazia eccetera
una particolare diffidenza dovrà essere devoluta nello spiare e perseguire i sintomi di una andreottiana imperturbabilità sibillina e serpentina, di una renzorfiniana mellifluità inalterabile e sfottente e in genere di tutti i tratti razziali tipici del decisionista vincente, darwinista e non progettuale, da non confondere con la ricchezza estetica involontaria: che non ci si metta in testa di dare ostracismi alla prestanza e alla bellezza secondo quella tipica specialità italiana che è il razzismo al contrario (pernicioso al quadrato: è razzismo vero e moltiplica il razzismo ‘normale’)! Aborrire infatti vizi mentali attigui alle categorie nicciane del rancore e dell’ipocrisia dovrebbe rientrare tra gli esercizi spirituali di ogni buon kolibiano, autorizzando l’odio (che solo gli idioti confondono con il rancore (l’odio è franco e leale, il rancore subdolo e vile, l’odio onora il nemico, il rancore lo diffama, l’odio nutre e rivitalizza, il rancore ammorba e inacidisce)) a rosicchiare quote di spazio comunicativo a danno dell’inflazionato e improduttivo ‘amore’, ma solo (ovviamente) in forme catartiche, chiarificatrici e depurative escludenti sempre e comunque la violenza in quanto produttrice di fetidi inquinamenti dolorifici: è stupido non riconoscere l’ineluttabilità del diverso da sé in quanto fondatrice dell’organicità sociale, ma è anche stupido cercare di amarlo contro natura (la propria) attivando la secrezione ineluttabile della falsificazione mistificatoria;
prove di malversazione che raggiungano livelli di plausibilità scientifica fondata su sintomi, indizi e ragionamenti, qualora anche non raggiungessero la solidità di prova giuridica, saranno considerate sufficienti per una destituzione tempestiva da parte di organi di controllo obbligati a procedure rigide e vincolanti non appena ricevuto un dossier credibile e verificabile a prescindere dalla provenienza. Se dovessero in seguito comparire più potenti elementi a discolpa sarà obbligatorio procedere a riabilitazioni, reinserimenti, indennizzi secondo i casi e le opportunità;
gli atti di dimissione saranno considerati onorevoli e qualificanti se basati sull’oggettivo riscontro di difficoltà e impedimenti insormontabili (compresa la denuncia sincera di proprie particolari deficienze e inadempienze limitate al caso specifico), neutri se per motivi famigliari, soggettivi e simili, negativi se dettati da scarsa resistenza e difetti caratteriali;
qualsiasi decisione assunta senza sufficiente ragione di causa, magari per carenze nella consultazione di documenti e rapporti, dovrà considerarsi alla stregua di un atto di malversazione. Quando tale consultazione è ingannevolmente millantata, la menzogna sarà equiparata a spergiuro istituzionale, soprattutto se la decisione conseguente configurasse un atto implicito di critica e sconfessione dell’operato di altri organi ufficiali;
Accuse che dovessero configurarsi come diffamatorie in assenza di un ben determinato elemento di sostegno, dovranno considerarsi provate al 100% nel caso che detto sostegno dovesse scomparire per qualsiasi ragione;
Qualsiasi aperta sponsorizzazione di dirigenti pubblici da parte di gruppi d’interesse privato dovrà ritenersi implicitamente apportatrice di corruzione e si dovrà alzare tutta una serie di formidabili barriere per evitare ogni commistione tra i rispettivi percorsi di carriera. Sarà bene sottolineare subito che noi non assoceremo mai il punto appena specificato al novero di rigidezze eccessive che ogni progettazione comporta e per cui suggeriremo in seguito alcuni approcci mitigativi. Così dev’essere e basta, come per la nazionalizzazione dell’intero apparato finanziario o la moneta elettronica. L’abbattimento delle lobby, tara genetica e acuto sarcoma diffuso della democrazia statunitense, deve considerarsi tra le priorità più urgenti. D’altra parte non ci sembra che quando si è trattato di legiferare nei confronti di altri poteri dello stato, certi governanti abbiano mostrato molta flessibilità;
Si dovrà investire la massima cura affinché la filosofia di base che guida l’orientamento etico e gnoseologico di una persona non condizioni la sostanza di alcune tipologie decisionali, come quando, per esempio, i politici della seconda o terza repubblica italiana ritenevano allarmista e ‘ansiogena’ qualsiasi descrizione oggettiva ed esplicita dei pericoli gravissimi a cui correvano incontro a braccia aperte le società pre-kolibiane. Il pregiudizio ostile a questi richiami denunciava una abborracciata e inconsapevole cultura di stampo vetero-umanista, ingenuamente pseudo-religiosa: essa riteneva in modo acritico e dilettantesco che ogni evento mondano rientrasse automaticamente in un ordine dimensionale rispetto a cui scienziati e tecnologi possedessero in potenza la capacità d’intervenire, illusione derivante dalla credenza che l’umanità sia regalmente insediata su un pianeta creato appositamente per soddisfare i suoi comodi e grazie a metafisici sponsor possa permettersi d’ignorare gli inconfondibili avvertimenti in arrivo dal mondo naturale;
si dovrà reprimere ogni forma di pragmatismo dettata da un realismo becero aggrappato a banali considerazione di forza maggiore, come l’acquiescenza ai condizionamenti esterni già saldamente in essere. Se si ritiene che quelli spingano in una direzione sbagliata, si dovrà dispiegare ogni iniziativa in grado di contrastarne la pressione o almeno operare affinché l’attuazione di modelli concreti attiri l’attenzione del vasto mondo circostante su ipotesi di soluzione alternativa;
qualsiasi presunzione di superiorità etica e appropriazione indebita di autoproclamate squisitezze spirituali o attitudinali dovrà immediatamente essere iscritta nell’ambito del puro razzismo, dovendo ogni possibilità di dialogo concreto forzatamente circoscriversi ad argomenti logici e razionali di chiara derivazione scientifica. L’opzione del dialogo non dovrà ovviamente tramutarsi in un feticcio a se stante, risultando perfettamente logico e razionale abbandonarla in vista di altre dialettiche e confronti qualora la controparte non mostri di condividere questi elementari presupposti metodologici. Qualora però il dialogo venga di fatto abbandonato soltanto sulla base di assunti dogmatici quali la governabilità a ogni costo, la preminenza assoluta e coercitiva del lato economico su tutti gli altri aspetti della vita umana, l’imposizione di poteri superiori che sottraggono ogni libertà di decisione alle masse prive di strumenti reattivi efficaci, il puro interesse e narcisismo dei vertici e via di questo passo, si dovrà giudicare tale scelta un arbitrio dispotico e intollerabile, da punire nei modi più severi. La condiscendenza nel fingersi disponibile all’ascolto già sapendo in via preliminare che non ci si farà influenzare in alcuna maniera, verrà considerata un’aggravante come ogni forma di ipocrisia, cioè di una inclinazione da annoverarsi con la massima tassatività tra i mali peggiori e le pecche più sanzionabili.
Snocciolati i predetti punti, ci dichiariamo a favore del ricondizionamento e della rieducazione al posto di ogni epurazione, per quanto diplomaticamente ammorbidita, altrimenti ci troveremmo in contraddizione con una delle tesi fondamentali del kolibianesimo: l’influenza dell’ambiente su un uomo è sempre maggiore di quella dello stesso uomo sull’ambiente, per cui, nel riverbero di mutue reazioni protratte nel tempo, prima o poi, se l’uomo non abbandona prima, è l’ambiente che crea l’uomo e non l’uomo che crea l’ambiente (uomo e ambiente entrambi labili, transeunti, instabili, anche se assuefatti al disegno organico di un valido progetto, figuriamoci senza!), tesi che trionfa con beffarda e punitiva evidenza proprio quando, sulla buia ribalta dove si è fatto imperiosamente avanti, il sedicente uomo del destino è costretto di continuo a interrompere il suo show per spostarsi frettolosamente e a scatti sotto il cono ballerino di qualche riflettore manovrato da un arcano Signore delle Luci.
Riteniamo che sia sempre meglio eccedere in magnanimità che in durezza, confermando così che noi Kolibiani tedeschi non ci proponiamo di riaprire cigolanti inferriate per riammettere in scena mostri che ci si auspicava fossero defunti o almeno consegnati a profondissime e ben vigilate segrete. Quanto vi sia di coerenza e consapevolezza in tale sospetto, di solito fatto circolare ad arte come anabolizzante morale di molto gracili passioni democratiche, rifulge allorché si constata che lo spettro di cui un kolibiano sarebbe lo stregone evocatore si qualifica nel segno del vetero-comunismo in ambiti propositivi meridionali o latini e con i simboli del neo-nazismo in quelli nordici o tedeschi: posizioni assurde e incompatibili, se teniamo conto che i kolibiani di tutto il mondo stanno marciando sotto l’insegna comune di un progetto unitario in via di rapido completamento.
All’epoca in cui i Padri scrivevano, mentre in quasi tutti gli altri paesi dell’area occidentale, Germania inclusa e Grecia inclusa pure grazie al genio dei Tsipras, si tentava semplicemente di protrarre a oltranza il funzionamento di un modello socio-economico che non mostrava ancora, in genere, segni particolari di drastico logorio a parte una generale, onnipresente stanchezza e appannamento di impulsi, stimoli, motivazioni (naturale riflesso di una carente ridistribuzione dei vantaggi offerti da progressi sempre più incerti e relativi), in Italia rimanevano muti e dissimulati, grazie alla complicità di commissari e liquidatori partecipanti all’Asta aperta in segreto, gli effetti di un fallimento pluri-generazionale da ascrivere con generosa equanimità tra tutti i settori del cosiddetto arco istituzionale, tanto da far sospettare la preminenza di categorie antropologiche sopra tutte le altre.
L’operazione, comandata dai settori la cui prosperità dipendeva quasi per intero dal quadro internazionale, esigeva la prescrizione quasi per legge di un atteggiamento ottimistico che, improprio o addirittura antinomico se relazionato ai costrutti tipici di una società liberale, confacente invece allo strano miscuglio di autoritarismo paternalista e anarchismo timido e pentito che cominciava a fermentare, risultava comunque risibile fino all’assurdo tenendo conto delle probabilità altissime che una catastrofe globale fosse innescata da lì a pochi anni: altissime relativamente all’entità dei pericoli e indipendentemente dalla possibilità (inesistente) di una loro esatta computazione.
Il concetto stesso di probabilità, del resto, in condizioni di caos deterministico e dinamiche locali non lineari soggette a influssi e leggi di portata universale, presenta moltissime incognite e oscurità epistemologiche, tuttavia, privi di una onniscienza divina che non potrebbe appartenere neppure a Dio se per assurdo esistesse (il Super-coscienzione super auto-iper-coscientissimo che magari è morto suicida), non disponiamo di definizioni terminologiche più adeguate.
Certamente non doveva risultare facile frenare la baldanza di giovani e meno giovani rampanti e yuppi du che, portati in auge, per meriti o fortuna o sia l’uno che l’altra, in uno dei periodi della Storia più favorevoli, tutto sommato, agli aitanti campioni delle classi dirigenti, si erano trovati altresì miracolati, più nel contesto italiano che in ogni altro, dalla caduta pressoché improvvisa, abilmente orchestrata con l’ausilio di una normativa sovranazionale, di vincoli sociologici e strettoie operative variamente connessi a una democrazia rivendicativa di massa particolarmente mal gestita in ogni tempo e luogo.
Grazie a questo doppio salto carpiato in avanti nelle amplissime braccia della Neo Libertà Europeista, agognata con la bava alla bocca perfino da sindacalisti che, nei loro voli, non hanno mai capito bene da che parte stava il cielo e da che parte la terra, abili manager del prima hanno rimediato la figura dei perfetti coglioni mentre abili manager del dopo sono stati venerati come dei in terra.
Scendendo di qualche tacca, troviamo invece imprenditori che se avessero ideato qualche anno prima i fantasiosi marchingegni contrattuali con cui hanno disciplinato e disciplinano le proprie ‘risorse umane’, sarebbero finiti alla gogna tartassati da multe stratosferiche, invece che salvarsi e/o prosperare grazie a creative ‘uova di Colombo’.
Portenti del progresso! Prevedere e assecondare le volute della loro capricciosa spirale nel vuoto rimane in fondo l’unica fonte di ogni successo e ricchezza.
Ma ciò che maggiormente angustiava i Padri Fondatori non verteva certo sulle fluttuazioni da ubriaco di quella vecchia bagascia strabica e tracomatosa della Dea Fortuna, irrispettosa drag queen che si diverte giustamente a sputtanare la mutria perenne e l’accigliata prosopopea dei V come Valori, i loschi mercenari della Storia.
Un’altra considerazione riempiva i nobili cuori di traboccante amarezza, questa: come potevano tanti giovani e dinamici professionisti della politica, per di più di sinistra o sedicenti tali (in realtà cuori e cervelli monolaterali, cuore a destra e cervello a destra o cuore a sinistra e cervello a sinistra (secondo la celebre, fulminante metafora, è lo stesso), professionisti monocoli che si equivalgono a prescindere dal lato su cui appoggiano, l’importante è procedere come automi verso una meta, vera o finta non fa differenza), come potevano presunti riformatori fieri di esserlo (riformatori o presunti?) accontentarsi di issare un carrozzone malconcio sulle rotaie malferme da cui era deragliato, costringendolo a seguire una traiettoria già prefissata da altri e quindi a rimettere in gioco i soliti vieti dettami economicisti, le solite tiritere produttiviste, i traguardi triti e ritriti che interessano ai burocrati della competizione e dell’efficienza allupati dalle sfide che li attendono sui mercati di un mondo messo a ferro e fuoco dalla furia didascalica di un demenziale aziendalismo? Come riuscivano ad accettare d’immolarsi a un’idea di progresso che ormai si trovava a coincidere con la regressione più smaccata, con il caos dei particolarismi, con l’epilessia di una libertà che è pura anarchia delle bande stipendiate dai Don Rodrigo tecnocratici, delirio tanto più scomposto quanto più esige per spadroneggiare le catene della perfezione organizzativa; è tanto emozionante mettersi di buona lena per far marciare il convoglio verso un vicolo cieco?
Pensavano davvero che, una volta rilanciato nella bagarre mondialista qualche campione nazionale e ceduto pezzi di nazione a qualche campione internazionale o storpiato il territorio con lo scavo di keynesiane mega-buche da ricoprire con altri deprimenti obbrobri da scavare a loro volta e riempire, avrebbero contribuito a risollevare il grosso dell’economia impantanato nelle strette di una congiuntura sottomessa a un sacco di parametri fuori controllo (come l’escursione di qualche grado nell’Africa centro-settentrionale o la resistenza del permafrost e dei ghiacci polari) e a una sola legge sicura e inevitabile: quella del livellamento entropico in un mondo ‘caldo, piatto e affollato’ che non sapeva trovare la bussola di un’organizzazione federalista ecologicamente stabilizzata in un quadro di stazionarietà democratico ed efficiente?
Era semplicemente ovvio che o la bussola veniva trovata o… kaputt! Con tre miliardi di persone si era già abbondantemente oltre vincoli su scala secolare di tolleranza e il trucchetto del 10% di ricchezza spalmato equanimemente sul mondo intero anziché ristretto a un pugno di nazioni, graduando i tenori di sopravvivenza del 90% di sudditi panem et circenses, non avrebbe mai funzionato, elementari rischi di rivolta a parte, o per il costo base realistico di quella sopravvivenza o per la proporzione diretta tra nocività ambientale e scarsa prosperità.
I Padri erano ansiogeni o i riformatori erano… (omissis)?
Amici, sappiamo benissimo quello che accadde di lì a un po’!
Gente con tanto potere e così poco spessore culturale gridava vendetta al cielo. Ma davvero amavano tanto la TV dei telequiz e delle fiction edificanti anche se un po’ maliziose, la civiltà dell’imbambolamento pubblicitario, del sorriso stereotipo sulla faccia di bambinoni stacanovisti con in mano il libretto bianco di Renzi, il profluvio di idiozie sciorinate ogni giorno sulla moda e la gastronomia sopraffine mentre più di metà del mondo tendeva il mento per respirare fuori dagli stronzi che sciaguattavano a fior di labbra?
Questa mancanza di sperimentazione, di mondi alternativi voleva dire provarci, assumersi delle responsabilità? Per fare cosa, correre dietro trafelati a pachidermi che appena ti avvicinavi rilasciavano quelle belle torte marroni e che anche senza mordergli i garretti marciavano di buon passo verso un cimitero degli elefanti che era loro e solo loro?
Che cercassero un proprio cimitero, piuttosto, i grandi riformatori!
Kruscev, patetico uomo dilaniato da due amori inconciliabili per JF e Fidel, diceva: date ai tedeschi un fucile e lo punteranno verso di noi. Non aveva tutti i torti a preoccuparsi se dal fucile si passava alla bomba H.
La pianura sarmatica e quella danubiana sono così lisce e scorrevoli, inverni ghiacciati a parte, che lì i popoli avrebbero potuto mischiarsi migrando come se niente fosse, ma la verità è che tedeschi, slavi, polacchi, boemi, zingari eccetera non si sono mai sopportati a vicenda, anche se solo i tedeschi possono accampare valide ragioni per questo: non sono mai riusciti a insegnare niente agli altri popoli testardi e ignoranti.
L’unica pianura seria che possiede l’Italia è in realtà un abisso profondo quasi come la fossa delle Marianne, nel quale una catena che raggiungeva una volta altezze himalayane sprofonda sgroppando nel cumulo dei propri detriti mentre il suo muso di cane curioso va a lambire altre stravaganze, come il fronte di un’orogenesi diversa che le sta sotto il naso più attivo che mai.
Quando in Italia visiti uno dei più bei terrazzi panoramici spalancato verso le Alpi e nelle giornate limpide ti sembra di poter toccare con mano le vette innevate, potresti trovarti su un rilievo appenninico, mentre, a pochi chilometri dal Tirreno e dallo Ionio, potresti camminare su un pezzo di Alpi andatosene a zonzo per i cavoli suoi.
Sono cose che danno alla testa, è stato giusto chiudere tutto il reparto geologico del Museo di Storia Naturale di Milano per non turbare le brave persone e allietarle invece con una mostra sulle leccornie, i coccochips, i chuppachuppa e i chapachucca.
Parentesi. A noi kolibiani tedeschi la mostra è apparsa abbastanza evasiva o minimizzante su certi fatti sgradevoli, come la necessità di decuplicare in venti anni la mole di fertilizzanti e pesticidi (dipendenti dalla chimica degli idrocarburi) per triplicare una produzione agricola iper-dimensionata e soffocante, che lascia dietro di sé una moltitudine equipartita di circa tre miliardi tra obesi e sottonutriti. Non era il caso di sottolineare con forza allarmistica e drammaticità ansiogena di quanto lieviterebbero i costi delle derrate nell’ipotesi accademica che petrolio e gas naturali si esaurissero all’improvviso lasciando invariate tutte le altre condizioni? Perché è obbligatorio sempre mostrarsi gradevoli, intrattenitivi e implicitamente tranquillizzanti mentre si evidenziano i problemi? Non equivale a nasconderli? Ué, era un Museo, dopotutto, non il Nazzareno. Chiusa parentesi.
Eppure, quelli che ci hanno messo anni a comprendere la storia naturale e la conformazione profonda di questo paese unico, complicato, bizzarro, bellissimo (i non professionisti della materia sono quasi tutti stranieri e molti sono tedeschi come noi), non riusciranno mai a coinvolgervi, durante un convivio o altro, l’interesse di autoctoni che, quasi per contrappasso istintivo, in un brivido di compensazione freudiana, ci tengono prima di tutto a sbatterti in faccia la pretesa o l’illusione della propria schiettezza e semplicità, come se tu fossi una spia del più recente invasore o usurpatore incaricata di individuare soggetti ribelli e pericolosi.
E’ anche per questo che, a due passi da meraviglie che non visiteranno mai per tutta una vita, sono capaci di glorificarti per ore uno scorcio di deserto sahariano o di ricordare estatici il senso del divino che promana e intride le menti dove le tribù di un assembramento incredibile agitano le une contro le altre una qualche analogia del Dio Supremo di tutto l’universo, ciascuna diversa dalle altre e ciascuna perfettamente parificata dall’inesistenza perfino concettuale: perché la mistificazione delle cose elementari e facilmente raffigurabili nella loro inconsistenza diventa un istinto di difesa primordiale, almeno quanto il bisticcio paesano e la baraonda di piazze e mercati offrono coperture ideali e innocui pretesti allo sfogo non sanzionabile di un’aggressività repressa.
A qualcuno di noi è capitato d’incontrare in Italia turisti russi o texani o australiani: adusi com’erano a percorrere mille chilometri e più prima di vedere una pianura di arbusti tramutarsi in una gobba rocciosa come Ayers Rock, rimanevano frastornati e anche un po’ frustrati per la facilità con cui cambiavano gli scenari. Se si sono stupiti constatando che Ayers Rock e simili era considerato da molti italiani una meta o un traguardo di primaria importanza, chissà se si sono resi anche conto che il merito era di abitanti che attribuivano la giusta rilevanza ai paesaggi da cui erano circondati.
Si può ‘voler bene’ a un paese senza compenetrarsi dello spirito del suo territorio? Per noi tedeschi, che siamo un popolo compatto, anche se, date le precedenti sbandate, è meglio non insisterci troppo, è impossibile: da noi un leader che punta sulla retorica dell’amore di patria (dove magari la parola ‘amare’ viene resa più intima e famigliare dalla formula ‘voler bene’ in modo che gli ostracismi e le censure morali che si infilano di nascosto nella perorazione appaiano un riflesso automatico di sdegno insito in ogni animo buono) non oserebbe mai far proporre e approvare disegni di legge che facilitano le malversazioni ambientali da parte di qualsiasi figlio del mondo che si presenti sulla scena locale armato di una pompetta per il PIL.
La bellezza del territorio italiano, anche per l’eccessiva indifferenza di troppa parte della popolazione, si trova ormai sotto sequestro esecutivo a tutto vantaggio delle forze economiche egemoni, comprese le industrie eno-gastronomiche e del turismo intese nel loro complesso.
Il successo internazionale del ‘gusto’ e delle ‘eccellenze’ italiane, in concomitanza con la crisi cronica di livello mondiale, la svendita della nazione da parte della grande borghesia che ha controllato tutti i governi succedutisi finora, il dissesto ambientale e climatico, la carenza di materie prime e fonti energetiche, sta contribuendo in modo irreversibile a orientare le scelte generali verso sviluppi che configurano ormai un neo-colonialismo da paese sottosviluppato o ‘male emergente’: le principali risorse vengono cioè condizionate e canalizzate per attirare una domanda di capitali stranieri e ceti privilegiati interni ed esterni, secondo impostazioni che comportano per forza di cose cessioni e sprechi a tappeto di ausili e dotazioni strategiche ingenerando penuria nella prospettiva di riassetti intesi a un benessere più uniforme e generalizzato. Come esito ineluttabile, una compagine sociale quantitativamente numerosa, ma inevitabilmente minoritaria, non si periterà di conculcare i diritti e sfruttare in senso sempre più schiavistico una fetta che tenderà nel tempo a diventare maggioritaria, anche per l’instaurarsi di condizioni di totale non vivibilità che finiranno a breve per interessare la vicina Africa, se non si verificano sviluppi inopinabili (meglio però non contare troppo su un inverno vulcanico: o è troppo energico e allora ci ammazza per il freddo e non per il caldo o in due o tre anni i suoi gas avranno peggiorato le cose invece che migliorarle).
Questa congiuntura da terzo mondo evoluto in via di arretramento favorisce in tutta la nazione condizioni simili a quelle che, nei paesi compresi tra la fascia subtropicale fino all’equatore, rendono il decadimento degli istituti democratici e l’estensione a macchia d’olio di corruzione, malaffare, criminalità, sopruso, fatti del tutto fisiologici.
L’Italia è un prezioso scrigno naturale che ha un coperchio di gemme artificiali sotto cui si nasconde un verminaio.
In Occidente, non esiste posto più ovvio in cui potesse spuntare il germe salvifico del kolibianesimo, che ha prodotto foglie e radici a disposizione di tutte le nazioni del mondo anche e soprattutto per i contributi della componente germanica, la KK Volkspartei indottrinata dalla DKTT.
Si deve a noi, per esempio, in sostituzione di certe comprensibili remore ed esitazioni perfino dei Padri, ma soprattutto del distaccamento francese, il proclama forte e chiaro dell’unica soluzione possibile: considerare le sublimi eccellenze italiane soltanto delle rovinose efferatezze e il loro gusto prelibato nientemeno che la morte per avvelenamento dell’autentica arte e dell’autentico benessere.
Punto e basta.
Soltanto i tedeschi potevano pervenire a tanta spregiudicata e salutare durezza.
E grazie a voi, ex sudditi italiani, per gli strepitanti applausi di commossa liberazione.
Compiuto il passo eticamente più ostico e scabroso, dai problematici risvolti filosofici, si è rivelato poi un gioco da ragazzi procedere come elementare conseguenza logica allo stadio successivo: guardare nelle palle degli occhi le anime belle tesserate e i santi uomini di riporto arruolati dal Vaticano e dai non populisti di professione, schiarirsi la gola per sottolineare l’effetto e infine sillabare con la massima determinazione qualcosa come: o spiegate in dettaglio come risolvere i problemi o mordetevi la lingua prima di sputacchiare le goccioline vorticanti della vostra assoluta superiorità etico-razziale. D’ora in avanti, qualsiasi secrezione di muco edificante fine a se stessa ovvero alla promozione d’immagine sarà considerata alla stregua di una perniciosissima infamia.
Ogni banalità morbigena apportatrice di coma mentale dovrà essere immediatamente rintuzzata: i popoli della Terra devono vivere in pace? Schiaffone! Siamo tutti uguali e fratelli? Schiaffone! Alcuni bagnanti preferiscono il relax e altri le pratiche sportive? Doppio schiaffone!
E si sa che quando noi tedeschi intimiamo, qualche brivido lo facciamo scorrere, anche se gli italiani non dovrebbero essere considerati meno minacciosi solo perché usano circonlocuzioni viscide, allusive, cifrate: anzi! Comunque, gli italiani minacciano e marcantoneggiano soltanto tra di loro o per ordine di una potenza superiore.
Una di queste è il Vaticano, prova ne è che quando ricevono il ‘consiglio’ di non dichiarare guerra ai migranti e di ospitarli seduta stante, a nessuno di quelli del governo (bisognosi del voto cattolico per poter sfamare le famigliole (al plurale!)) viene mai in mente di scegliere come sede gli immensi territori deserti e alberati che quello stato francescano e poverello possiede su tutto il territorio.
Del resto è giusto così: se non si richiede l’isola Borromeo ai Borromeo o l’isola di Cavallo a chi l’ha comprata, perché richiedere al Supremo Pontefice qualcuno di quei gioielli detenuti con la stessa liceità e insindacabilità? C’è tanta gente che si gode immeritatamente la pace di due locali comprati con il mutuo in condomini costruiti in serie dal geometra Pippoletti!
D’altra parte è sempre per il caritatevole influsso del Vaticano, nobilmente benevolo verso i figlioli prodighi dei grandi criminali, che in Italia non si ricavano decine di miliardi ogni anno da una opportuna legalizzazione di droghe e prostituzione, ma si rimedia mungendo gli stessi due locali, le pensioni più basse, l’iva sull’iva, l’accise sull’accise, la benzina sulla benzina e, last but not least, i piccoli imprenditori risarciti in parte dalla precarizzazione del lavoro dipendente, così sono tutti contenti perché sanno come beccarsi tra di loro, da piccoli animaletti incazzosi che, ignoranti come capre (capre! capre! capre!), non riescono proprio a caprire, cioè a capire, quanto sia prezioso e mistico l'’Essere Umano.
Certe volte noi tedeschi ci domandiamo: siamo stati troppo democratici noi o troppo coglione il popolo italiano? No, no, non è vero, ma siamo pazzi?, cancellare, mi raccomando.
Avete sentito o no?
Cancellare!
Proviamo ad ascoltare che cosa sostenevano al riguardo i dotti funzionari che studiavano da monarchini e monarchetti assoluti e ciò dopo aver letto tra le righe e decifrato i testi. Stiamo parlando di capi e caponi di una periferia dell’impero che, in un processo mondiale di normalizzazione, veniva progressivamente e inesorabilmente assorbita nel marasma delle colonie.
D’ora in poi, coniugheremo i verbi al presente.
Il popolo italiano non è coglione, preferisce a volte un’ora da principe e 23 da galeotto invece che 24 da contadino od operaio, il che non rappresenta in assoluto una fesseria: dipende dalle condizioni in cui lavorano l’operaio e il contadino medi e di quanto si può prolungare per scrocco l’ora da principe.
Il popolo italiano non è coglione, è democratico nel senso che più si addice al popolo stesso: in quanto investito di valore consustanziale e primario, può servirsene in un senso autoreferenziale, certo, ma non monetizzabile ed egoista, altrimenti costituirebbe il re Mida di se stesso o un centro di moto perpetuo: può osannare i vincenti e confidare in loro con la giusta trepidazione oppure accogliere, per esempio, frange di popoli ‘meno fortunati’ e godere gli uni degli altri in un empito di carità cristiana, un modo di sopravvivere lo si trova sempre, l’importante è abbassare paghe, pretese, diritti e alzare la fiducia.
La fiducia non dipende dai fatti, ma dal credito concesso a Dio e agli dei e da Dio e dagli dei, quindi la fiducia del popolo risiede nella fiducia che il potere riserva a se stesso e agli altri, che a sua volta dipende dalla docilità del popolo che dipende dalla fiducia e così via, di nuovo, all’infinito: questo è progresso (un moto vorticoso), tutto il resto è la pace dell’immobilità e della morte, quella che si confà ai disfattisti che non credono nel valore oggettivo dell’uomo a prescindere da quello che avviene e dai progetti che vengono posti in atto.
Ogni popolo che meriti il rispetto dei propri condottieri non è composto da singole persone, ma da unità che sono beneficate prima di tutto dallo stare insieme ad altre del tutto similari e quindi non possono che godere nel trovarsi uniformate in un grande crogiolo, nel concedersi bagni continui di umanità, mentre il valore morale del condottiero, il suo essere democratico, risiede nel godere anch’esso di tali bagni, non importa se riceve la calda emanazione in una sovrastante posizione privilegiata invece di restare pigiato nella calca, in compenso sopporta l’onere del comando e la partecipazione a rituali che renderebbero isterico il più serafico dei serafini. Inoltre il condottiero deve costantemente reprimere se stesso per non coprire d’insulti la massa di caproni votanti che s’illudono sull’esistenza di qualche alternativa percorribile tra la sudditanza del pensiero unico e la paranoia del comando.
Quando gli esemplari in numero eccessivo cominceranno ad avere reazioni violente come dimostrato sperimentalmente per topi o conigli stipati in una gabbia, si potranno sempre reprimere o deportare, ma l’uomo è molto più di un topo o di un coniglio e quindi si può essere fiduciosi che sopporterà molto meglio gli affollamenti.
Ogni popolo d’individui è una contraddizione in termini, rimanda al sogno o incubo liberale, ormai archiviato, di una società con strane, capricciose autonomie, parola di condottieri amatori che hanno potuto sperimentare sulla propria pelle (finendo addirittura alla sbarra!) un popolo di individui secondo l’eccellenza italiana.
In fondo, se ci si pensa bene, è tutta colpa dei cinesi.
Noi tedeschi dai russi non ci siamo mai aspettati niente, eccetto Schroeder (che guarda caso figura tra i nostri leader così e così, meno eccellenti diciamo, o addirittura eccellenti all’italiana), ma sui cinesi e sugli orientali in genere, a parte le donne stupende, per dirla franca sì, un po’ ci contavamo.
Perché, invece di stupire il mondo con le inaugurazioni di eventi sportivi, le dighe da Diluvio Universale e Cattività Babilonesi o grattacieli vittime di megalomani convulsioni che li spingono così in alto da bucare perfino l’altissima coltre di smog, non abbiano insegnato al mondo come passare dal comunismo al kolibianesimo, rimane tra gli arcani più impenetrabili della Storia recente.
Vorremmo riuscire a evitare la risposta più tragica e desolante e cioè che in tutto il mondo imperversano ormai i prototipi di un solo tipo di vincente.
Sarebbe un disastro, significa che finché quelli non cozzano con il loro sorriso giulivo contro la realtà dei fatti, diventano seri per la prima volta nella loro vita e (nuvoletta o non nuvoletta) fanno: ‘Ops!’, non ne verremo fuori.
Potrebbero volerci dieci anni o anche più: impossibile resistere!
Se non vinciamo, in cambio di un mutuo vantaggio, proporremo a questi figuri di approvare un disegno di legge molto liberale (almeno quello!) sull’eutanasia. Potrebbero mandare degli abili negoziatori da Sua Eminenza il Papa Assoluto spiegando che si tratta di togliersi dalle palle delle pulci fastidiose che potrebbero ingenerare pericolose epidemie come quelle che si nascondono nel pelo dei topi.
Non tutti ce la fanno a suicidarsi alla vecchia maniera senza cattivi pensieri.
Bah, pessimismi passeggeri, vinceremo senz’altro, non è possibile essere già arrivati al mondo di Idiocracy!
Però, accidenti! Forse qualcuno di noi si ricorda certe macchiette satiriche di politicanti nei film degli anni 70 o 80. Esageravano al punto che a volte si era costretti a constatare come gli analoghi personaggi del mondo effettivo erano magari dieci volte più figli di puttana (chi ha mai potuto escludere una cosa del genere?), ma non lo davano mica a che vedere con quella facilità! Fanfani, per esempio, ci era sempre apparso una persona più seria, come minimo, di alcuni compagni di banco o vicini di casa.
Oggi molti uomini politici di successo richiamano smaccatamente proprio quelle caricature.
Speriamo che non significhi niente.
Oh, eroicamente non temiamo il fallimento del nostro progetto e non ci addosseremo colpe se nessuna nazione saprà dimostrarsene all’altezza. Il tentativo va fatto, rientra tra gli imperativi etici più elementari, e non si può accusare di avventatezza o difetti di discernimento chi, constatando i risultati tecnologici di avanguardia sparsi per tutto il pianeta in mezzo a un preponderante squallore, ritenga impossibile che tanta ingegnosità di punta, mirabile e potente a prescindere dalla sua scarsità, a causa della resistenza invalicabile di interessi minoritari, possa rimanere completamente muta quando si tratti di elaborare costruzioni d’ingegneria sociale capaci di prevenire una crisi sistemica dagli esiti più o meno letali per tutti.
Certo, gli stessi Padri Fondatori nutrivano più di una perplessità al riguardo, sottolineando tra l’altro lo scarto di livello sistemico tra una creatività tecnica a carattere settoriale, selettivo, intenzionale e una produzione sociale assimilabile prevalentemente a un contesto di ecologia naturale adulterato da energie inconsulte, iato strutturalmente profondo e già intuibile sul piano della stessa gnoseologia scientifica, quando, per esempio, in astronomia, professionisti in grado di concepire le incredibili raffinatezze delle sonde e dei telescopi spaziali rimangono assolutamente spiazzati davanti a trasmissioni di dati che configurano realtà fenomeniche la cui prevedibilità, almeno come possibilità tra le altre, sembrava una quisquilia in confronto alle difficoltà tecniche delle missioni esplorative.
La dimensione ottimale sia per quanto riguarda i risultati dell’agire, sia in relazione alla tenuta e qualità dell’esperienza psicologica, rimane quella tribale sancita da un percorso evolutivo a cui è vano oltre che presuntuoso cercare di sottrarsi. Il responso è chiaramente confermato dalla potenza innovativa, valenza metamorfica e concreta causalità rappresentate dall’organizzazione aziendale e dalla imprescindibile importanza storica del partito, della setta, della camarilla eccetera in ambiti politici o religiosi e della dialettica sociale in genere. Non dare retta a queste indicazioni di base sarebbe pura follia e infatti il kolibianesimo, fin dalle origini, ha tenuto ben presente tutto ciò configurando idealmente lo stato alla stregua di collezione sapientemente strutturata di iniziative atomiche nei vari sensi: economico, amministrativo, di suddivisione territoriale, federale eccetera.
Comunque la si metta, non si dovrà mai sottovalutare la conclusione abbastanza ovvia e incontestabile che la complessità dell’esistente, senza ipotesi semplificative e manipolazioni ad hoc della scena sperimentale, si colloca oltre una barriera insuperabile rispetto alle potenzialità del ragionamento e del pensiero. La considerazione risulta ancora più allarmante se riflettiamo che discipline come economia, politica, sociologia si iscrivono nella dimensione molto critica in cui ogni formulazione e ogni riferimento a una oggettività esterna coinvolge la natura delle formulazioni e dei riferimenti, modificando nel frattempo la stessa oggettività.
Una società, come ogni sistema, non è la semplice somma delle sue componenti (incorporando come minimo tutte le leggi basilari dell’Universo e i loro effetti mai completamente prevedibili e del tutto anomali ed eterogenei rispetto ai criteri di selezione cognitiva che fondano la specificità del sistema) e del resto neppure il singolo uomo è la somma delle sue interazioni, elaborazioni, esperienze: che non si riduca in toto alla propria soggettività e a ciò di cui è cosciente fa parte delle verità definitivamente acquisite, la questione inquietante si pone quando cominciamo a sospettare che la parte preponderante (e molto!) di ogni vita non rientri nel controllo cosciente del suo ‘titolare’.
Se forme sofisticate e compiaciute di beata ignoranza non soffocassero i contesti umani, basterebbero queste basilari e ovvie considerazioni per orientare le scelte politiche di ogni popolo saggio verso l’adozione di schemi organizzativi auto-fondanti, sostenuti cioè da vincoli di coerenza interna molto forti e assetti strutturali chiusi e circolari, guardando al concetto di società ‘aperta’ come a una mostruosità senza senso.
Il problema della libertà, della tolleranza, della democrazia eccetera dovrebbe rimanere sullo sfondo o agire in modo complementare, il che paradossalmente non significa affatto che verrebbe sacrificato o considerato come un mero effetto collaterale, tutt’altro: proprio perché si tratta di valori compresi in un ordine esistenziale diverso rispetto a quello della consistenza economica e amministrativa, la qualità ‘spirituale’ della vita potrebbe venire esaltata da un approccio tecnico-sistemico e spieghiamo meglio perché.
Per prima cosa, una visione realistica elementare e irrinunciabile in vista di ogni discorso serio, costringe a porre la scarsità e la conseguente aspra contesa per i beni più ambiti come scaturigine prima delle sofferenze e delle ingiustizie che affliggono la condizione umana, quindi una soluzione tecnologica e progettuale in senso olistico e non parcellare (la nazione come una sola ‘holding’) che individui i beni primari sostanziali e ne risolva la penuria consentirebbe di sicuro un gigantesco passo in avanti.
Quanto alle durezze e alle costrizioni da evitare in corso d’opera e a risultato raggiunto, pochi principi fondamentali concretamente attuabili funzionano senz’altro meglio di una nube di possenti idealità le cui promesse rimangono sulla carta. Diamo una esemplificazione sommaria e incompleta: 1) non fare a un altro quello che non vorresti fosse fatto a te stesso (con alcune avvertenze, come l’esclusione dei sado-masochisti); 2) obbligo di abolire (per quanto possibile) le sofferenze di qualsiasi natura; 3) garanzia della possibilità di manifestare e soddisfare in modo non invasivo e non dannoso per gli altri la propria natura specifica, in ambiti ristretti e per tempi limitati, ma ragionevolmente cospicui; 4) declassazione del principio di maggioranza (a parte l’esercizio amministrativo di voto), da subordinare sempre e comunque a regole certe e neutrali, in modo che non possa essere usato come strumento di sopraffazione.
Ciò accade quotidianamente in tutte le attuali democrazie del mondo e si sta addirittura esasperando proprio con la messa in crisi del concetto stesso di interessi riferibili in blocco a una maggioranza o minoranza qualsiasi: una politica ordinaria priva di progetto è ormai illeggibile e indecifrabile perfino per gli stessi fautori e chi sostiene il contrario o è in malafede o confida scioccamente in leggi automatiche e garanzie inesistenti.
La politica senza progetto si sta trasformando in pratica auto-referenziale di puro potere, basata sull’accalappiamento di correnti marginali di voto attraverso quelli che sono veri e propri ‘falsi ideologici’, come quello di auto-attribuirsi meriti storici per la modifica delle regole fondamentali di sistema pur disponendo di poco più di un terzo di consensi stabiliti da sondaggisti e non da elettori: come se una squadra comprasse l’arbitro, lo rendesse noto e se ne vantasse sollevando l’ovazione della curva dei sostenitori mentre tutti gli altri guardano allibiti, curati a vista dalle forze dell’ordine.
Quanto detto è perfettamente logico e coerente e non vi si può trovare alcuna pecca filosofica, se non quella, impossibile da verificare, di un anticipo eccessivo della tempistica, impugnabile seriamente da chi crede in una gradualità di fatto inesistente e quindi non teme evoluzioni drammatiche senza preavviso e in tempi strettissimi. Sussiste però una difficoltà capitale legata ai requisiti generali indispensabili al funzionamento dei modelli artificiali: potrebbero richiedere limiti e durezze tassativi e preliminari da qualcuno giudicati intollerabili.
Per esempio, potrebbe essere necessario limitare o addirittura abolire alcune libertà fondamentali, come per esempio il diritto di procreare quando e come si vuole. Si tratta di questioni gravi, non c’è dubbio, ma che potrebbero, in casi simili a quello citato, essere ridimensionate attraverso accorgimenti specifici, come lo stanziamento e la commerciabilità dei diritti, analogamente a come si è proceduto nei confronti dell’inquinamento industriale attraverso il mercato dei diritti di emissione. D’altra parte se, come in Cina, si limitano le nascite, non avviene perché si odiano i bambini, bensì perché il pianeta non può sopportare a lungo termine una quantità di esseri umani anche di parecchio inferiore a quella attualmente esistente (i più pessimisti collocano addirittura la soglia di tollerabilità, nell’attuale situazione di sviluppo tecnologico, sotto i due miliardi di individui)
Per altre restrizioni, come quelle attinenti a determinati diritti di privacy, altri dovranno essere i rimedi escogitati e non è escluso che, in alcuni casi, ci si debba rassegnare ad accettarle in cambio di vantaggi più importanti. Abbiamo già evidenziato la natura di componente essenziale rappresentata da una rivoluzione dei flussi finanziari.
Per quanto scelte rigidamente razionali possano dare adito a incognite, risulta lampante che ogni soluzione affidata prevalentemente a valori etici e spirituali di ascendenza metafisica, equivale all’estrazione di un bussolotto a caso, nel migliore dei casi, e a una concessione illimitata di fiducia e di credito ai poteri esistenti, nel peggiore, a meno che la natura del mondo non sia interamente risolvibile secondo concezioni desumibili da premesse di tipo confessionale, il che presuppone che l’universo fisico e biologico descritto dalle scienze si riduca a una specie di complicato giocattolo maneggiabile a piacimento da esseri trascendenti dotati di poteri condizionati soltanto dal volere divino, il quale provvede ad assegnare deleghe soltanto alle personalità più meritevoli. Ogni visione intermedia è un puro non senso.
Purtroppo i più moderati sostenitori di visioni siffatte non si rendono conto che stanno concedendo alla natura umana un credito illimitato e potenzialità demiurgiche che, eccedendo l’ordine naturale delle cose, richiedono di considerare le categorie del mito religioso fatti concreti e presenti.
Alla stessa stregua con cui il modello di società vincente a livello globale si è generato da un presupposto di libertà puramente materialista ed economica (che di fatto ha dapprima favorito, poi, nel corso dello sviluppo evolutivo o involutivo, sempre più imbrigliato e sottomesso altri tipi di libertà), un modello sostitutivo dovrà basarsi sulla progettazione di alternative produttive e distributive dei beni materiali nel quadro del bene materiale incontestabilmente più grande e indispensabile, ovvero la salute e vivibilità del pianeta Terra: alternative serie non esistono.
L’inevitabile estensione del flusso normativo dalla sfera della produzione di oggetti e servizi concreti a facoltà e condizionamenti di natura psicologica implicherà poi la valutazione di riscontri il più possibile effettivi. Se, per assurdo, trascorrere almeno una notte a settimana nella discoteca Cochabamba o Cocoricò si configurasse (speriamo di no!) come una pulsione ineliminabile di un numero non trascurabile di esseri umani, necessaria a placare una insoddisfazione cronica foriera di colpi di testa ribelli non rimediabili con concessioni e trattamenti sostitutivi, si dovrebbe disseminare il territorio nazionale di discoteche Cochabamba o Cocoricò (se a gestione statale o privata alla fine è la cosa che conta di meno).
Naturalmente ogni kolibiano del mondo, che sia tedesco, peruviano o cinese, nutre la speranza che i bisogni fondamentali della persona possano essere ricondotti a gratificazioni semplici e primarie, capaci di disintossicare le menti da quelle fioriture allucinogene che il plagio sapiente di affaristi e impresari è riuscito a impiantarvi, anche con il concorso di un furbissimo ‘impegno sociale’ degradato o promosso a convenientissimo strumento di lancio pubblicitario: se ciò non risultasse possibile, ben difficilmente il mondo potrebbe mai apparire diverso da quel manicomio pieno di pazzi furiosi e pericolosi in cui attualmente consiste.
E’ vero che per le fantasie soggettive, le abitudini consolidate, i costumi politici e sessuali e altre manifestazioni antropologiche avviene ciò che sta avvenendo per i pianeti esterni al sistema solare: sforzati d’inventare quello più strano e improbabile e prima o poi ne troveremo qualcuno di simile. Chi, alla vecchia maniera (senza ‘debugging’), ha testato il funzionamento di programmi per computer abbastanza complessi non dovrebbe stupirsene, dato che quello di stravagante che riescono talvolta a esibire nonostante le più assidue attenzioni (escandescenze puramente distruttive domate e ricondotte a un umile servizio dalla correzione di meno di un millesimo di testo) trasforma il testimone in un grato e stupefatto ammiratore della costanza e ‘normalità’ manifestate dal funzionamento delle ‘macchine più complesse dell’universo’ (una conferma in senso lato di come la complessità stabilizza di norma, nel quotidiano, e crea invece sfracelli in casi sporadici come quelli dei pazzi criminali).
E’ altrettanto indubitabile, però, che molte contorsioni sia mentali che comportamentali derivano dalla deformazione indebita e costrittiva, spesso coadiuvata dal martellamento propagandistico, di tendenze naturali che sono tali indipendentemente dalla loro rarità.
A ogni buon conto, considerarne alcune illegittime per il gravissimo danno potenziale (pedofilia, necrofilia, tendenze omicide…) rientrerà indefettibilmente tra le scelte di ogni legislatore, anche se subire certe attrazioni non è certo una scelta del soggetto implicato. In ogni modo, sarà consigliabile non esagerare dilatandone eccessivamente il novero, nonché attivare per tempo una medicina preventiva.
Forse un estremo relativismo etico, una volta raggiunto un certo livello di saggezza sociale, non solo non dovrebbe essere sconsigliato: dovrebbe essere incoraggiato.
Un concetto spregiudicato di una natura umana valorizzata per mera convenzione (per utilità e interesse dichiarati), definito senza forzature, enfasi, manicheismi attraverso solidi riscontri scientifici e protetto da regole e obbiettivi certi e dettagliati, rappresenta secondo noi l’opzione di salvaguardia migliore per la singola persona, soprattutto se parte dal presupposto che ogni uomo non sopravvalutato e non nefasto si configura necessariamente con i tratti dell’individuo solo e impotente davanti a tutti gli altri e alla Natura.
Come è facile intuire, ci dichiariamo qui agli antipodi di ogni mistica sociale che ricerca l’inesistente e l’impossibile di una purezza etica di base, da raggiungere e sublimare prima della definizione delle specifiche dinamiche di gestione politica ed economica: da queste dinamiche dipendono interamente la bontà, l’onestà, l’innocenza, sempre drammaticamente relative, degli operatori, mentre il viceversa non vale in quanto l’etica da sola non determina nulla, senza riferimenti storici e atti calati nel tempo si volatilizza come ogni concetto religioso.
Partecipare significa qualcosa soltanto in relazione alle caratteristiche effettive del movimento in cui si è immersi, partecipare e basta non crea nessuna giustezza d’intenti che già non fosse implicita nell’impianto preliminare di una iniziativa e anzi può diventare facilmente una costrizione, un ricatto della moda, l’antitesi quindi della libertà. Confondere malamente la semantica dei concetti non può essere considerato un errore veniale, soprattutto quando c’è la necessità di tracciare fin dall’inizio linee chiare e coerenti. Se un disegno adeguato non esiste, si brancola semplicemente nella nebbia, a parte illudersi di una libertà quando s’ignorano i confini molto ristretti della fisiologia animale oppure vi si scorrazza per una saltuaria ricreazione o libera uscita come avviene nelle discoteche sotto l’influsso di suggestioni musicali.
Non vi piace? Prendetevela con il ‘Creatore’!
Di questi principi elementari ci si può anche dimenticare, ma allora, pur non dichiarandolo e continuando magari a millantare ideali posticci, ci si acconcia di buon grado alla routine della democrazia puramente formale, dove governo e opposizione non sono mai l’uno migliore dell’altra e viceversa: vincono o perdono in relazione a fattori che pubblicitari e uomini di spettacolo intuiscono meglio di analisti, storici e sociologi, legati a riflessi e suggestioni che si collegano a nient’altro che a nodi d’interesse, anche se in modo spesso ambiguo o addirittura visionario.
Collocarsi a un estremo dello schieramento e proclamarsi superiori si può fare, in certi frangenti particolari: alla fine di un ciclo o durante le svolte epocali può risultare l’atteggiamento più consigliabile e addirittura quello più ‘moderato’, ma ci vuole un piano e non un piano generico: un piano ben preciso, altrimenti si partecipa al Grande Concerto con funzioni ausiliarie di contrappunto, stacco o controcanto, nient’altro, e la libertà comincia e finisce insieme allo spartito.
La libertà di mercato (del resto autodistruttiva e sostituita nel tempo, ineluttabilmente, dalla pianificazione oligarchica), come tutte le soluzioni frazionate in localismi, propizie alla vitalità personale e democratica soltanto in una fase transitoria sostituita presto dalla confusione che prelude ai giri di vite, non può rappresentare una soluzione al problema energetico. Nessuna congiuntura dove domina la dispersione e il conseguente aumento di entropia costituirà mai una propedeutica adeguata al riguardo.
Qui, come in altri poderosi nodi strategici, il sistema delle multinazionali trova la rotta spianata e irrompe spedito anche per le spinte fornite alla cieca dalle inette, disorientate e spesso corrotte amministrazioni statali.
Soluzioni pragmatiche basate sul buon senso e una tecnologia semplice ed essenziale si riveleranno senz’altro ausili preziosi nella gestione privata delle singole esistenze e degli ambiti familiari, come è sempre stato e sempre sarà, ma l’aurea di democrazia concreta e volontaristica che circonda il dibattito intorno a questioni come le energie rinnovabili, l’agricoltura ‘biologica’ eccetera, se male interpretata e adottata, rischia di rivelarsi il solito polverone sollevato ad arte per nascondere il nocciolo spinoso delle vere problematiche cruciali.
L’avvenire dell’umanità, mi si consentano i termini aulici, verte su un ben diverso ambito dimensionale, quello inerente all’unica generazione di energia rinnovabile meritevole di questo nome e che sia mai concepibile senza travisamenti e finzioni, l’attivazione cioè di una energia talmente potente da potersi applicare alla concentrazione di elementi pressoché inesauribili necessari alla produzione della stessa energia con rischi, costi e rendimenti sostenibili ed esaustivi nel senso di non richiedere altri apporti esterni al ciclo.
Tale energia non sarebbe ‘pulita’, dato che il concetto di energia pulita è una contraddizione in termini, ma sarebbe più ‘pulita’ di ogni altra energia utilizzata finora, dato che il concetto di ‘rinnovabile’ precede quello di ‘pulita’ in quanto vi si rapporta in veste di condizione necessaria, ma non sufficiente. Solo una vera energia ‘rinnovabile’ infatti consentirebbe di rimediare alla degradazione provocata dalla sua produzione, il che suscita il sospetto che un’energia effettivamente rinnovabile e quindi pulita non esista: è quasi un teorema logico. Sembra un sofisma, ma non lo è, significa invece che ‘rinnovabile’ non può essere l’energia, ma la società, il che comporta necessariamente un suo opportuno inserimento in quel ciclo generale dell’ecologia terrestre che l’uomo, con buona pace dei suoi mistificatori, non riuscirà mai a controllare. ‘Rinnovabile’ è quindi da intendersi come ‘pseudo-rinnovabile’, esattamente come ogni reversibilità termodinamica è una pseudo-reversibilità.
In sostanza, come si desume da analisi e riflessioni elementari, energia rinnovabile è quella che, grazie alla sproporzione del suo valore rispetto alla scala dei fenomeni naturali, consente qualsiasi prestazione in modo economico, per esempio l’estrazione di uranio, litio o tantalio dall’acqua di mare o da una roccia o una terra qualsiasi.
Qualsiasi altro concetto di energia rinnovabile cozzerà, prima o poi, ma sempre nell’arco massimo di qualche decennio o pochissimi secoli (secondo gli attuali modelli di organizzazione e sviluppo) contro qualche scarsità di base irrimediabile o comunque pregiudizievole del benessere economico diffuso.
Ovviamente è ben difficile che, salvo stravolgimenti degli attuali paradigmi scientifici, certi salti di livello possano scaturire da processi fisici, chimici o termodinamici in cui non abbia larga parte la violazione del principio di Lavoisier per la famosa formula di Einstein sulla relazione quantitativa tra materia ed energia. Solo in questo caso, in una prospettiva cioè, non di chimica ordinaria, ma di fisica delle alte energie e dei campi fondamentali si può pensare di contrastare a tiro lungo gli effetti della devastazione e del depauperamento di ambiente e risorse.
Avvalersi, per così dire, della formula di Einstein al fine di alimentare la sopravvivenza quotidiana di un assetto socio-economico ordinario significa anche e però superare limiti oltre i quali un metaforico ‘tasso di naturalità’ decade a favore di una dimensione artificiale in cui la vita umana si trova proiettata nei domini extra-biologici dei violenti fenomeni astrali: se ciò non alzasse drasticamente la probabilità di rischio capitale, allora sì potremmo considerare l’umanità una super-specie beniamina del Cosmo e quindi di Dio.
La necessità di vincere a una lotteria imbandita dal lato più fondamentale ed enigmatico della Natura e la possibilità di creare un ambiente terrestre artificiale stabile che faccia a meno della biodiversità naturale: ecco due presupposti indispensabili la cui problematicità non viene mai evidenziata (e anzi accuratamente celata) da chi riesce a credere in un luminoso futuro che si stenda oltre l’asfittico confine della propria esistenza.
Che si possa vincere entrambi le scommesse non ci dice nulla, poi, sulle mutazioni antropologiche e gli stravolgimenti esistenziali implicati da quelle vittorie.
Il buono e cattivo e perfino l’ottimo e il pessimo, ancora una volta, sono legati indissolubilmente insieme e in quell’avverbio ‘indissolubilmente’ sta la chiave di molte comprensioni aggirate o rimandate solo perché inquietanti.
L’unico sistema politico per il cui funzionamento non sia richiesto una rieducazione e un ricondizionamento profondi dell’essere umano rimane il liberalismo.
Quando questo, vero o presunto, supera le soglie di stabilità, si tramuta in una degenerazione che di fatto limita l’esercizio effettivo dell’autodeterminazione (leggi: la possibilità di assecondare istinti e inclinazioni considerati ‘propri’) ad ambiti tecnici avulsi dalle correnti dottrine umaniste, connessi quasi esclusivamente a intraprese di tipo economico, ‘libere’ solo teoricamente dato che richiedono ‘il successo’ e questo si tira dietro una catena di trabocchetti e condizionamenti più sferragliante di certi fantasmi della letteratura gotica. Esse privilegiano un novero di attitudini socialmente prevaricatrici o comunque individualistiche sottoposte ad alchimie mimetiche e allora ogni riforma che non implichi una ‘riforma’ delle facoltà umane e una loro calibrazione e armonizzazione a ogni livello della scala gerarchica, risulta assolutamente inefficace e velleitaria.
D’altra parte, in regime di democrazia anche solo formale, che rifugga quindi, per quanto è possibile, da metodi coercitivi e imposizioni dispotiche, rieducazione significa soprattutto auto-repressione di particolari istinti e predilezioni incompatibili con il modello di società che si vuole realizzare.
Rifiutare pregiudizialmente questo tipo d’impostazione significa ribellarsi al principio di realtà, il che risulta ancor più ambiguo e ingannevole quando quello che si sta cercando di attuare si rivela in effetti, non un piano di emancipazione onesto e disinteressato, ma un riformismo autoritario e moralistico.
E’ improprio e pericoloso concepire i modelli produttivi attualmente dominanti in agricoltura e zootecnia come una generazione di risorse rinnovabili quando in effetti, in notevole, determinante percentuale, consistono in un consumo progressivo e irrecuperabile.
Di pienamente rinnovabile in effetti, perlomeno sulla scala temporale che attiene plausibilmente al destino dell’umanità, resta l’apporto dell’energia solare, tutti i restanti elementi trofici, acqua inclusa, nonché la tenuta e la consistenza dei terreni e il quadro generale di stabilità e salubrità della natura in libertà condizionata o sotto carcere duro si trovano mediamente a rischio di alterazione, consunzione, esaurimento di apporti primari.
Si è già detto del rapporto tra produzione e ‘anabolizzanti’ e che, senza quegli idrocarburi le cui riserve economicamente congrue sono in via di esaurimento, sia le industrie chimiche sia la movimentazione meccanica per la semina, raccolta, smistamento eccetera pagherebbero (sorprese da dottor Who a parte) uno scotto elevato, non tanto perché le molecole del petrolio & C. non siano ottenibili artificialmente da altre fonti di carbonio, ma perché molti prodotti secondari della raffinazione sono ottenibili a prezzi bassi grazie a sinergie produttive connesse ai cicli di sintesi dei vari carburanti.
Il sistema ecologico artificiale predisposto dall’umanità si fonda su una trentina di taxon vegetali e, con una efficienza decine di volte inferiore, qualche unità di taxon zoologici, che trasformano materie inorganiche in cibo per la specie dominante del pianeta. Tale sistema rappresenta ormai un flusso energetico superiore a quello provocato da tutto il resto della componente vivente della biosfera, da cui la specie padrona attinge per via diretta ulteriori risorse soprattutto attraverso una pesca industriale la cui intensità sta spingendo gli ambienti marini al collasso.
Ai tassi attuali di crescita dell’economia mondiale, supponendo che la riduzione dell’intensità per unità prodotta dovuta al progresso tecnologico compensi esattamente l’intensità maggiore necessaria alla produzione delle fonti energetiche stesse, tale flusso generale raddoppierebbe ogni venti anni o poco più (circa trenta volte in un secolo), contribuendo di per sé ad apportare calore e disordine negli strati bassi dell’atmosfera indipendentemente da ogni altro fattore e secondo frazioni del forcing solare che nessuno sa fino a che punto possano essere considerate irrilevanti soprattutto in presenza di concentrazioni crescenti di gas climalteranti.
Un sistema ecologico naturale comincia con la colonizzazione di un ambiente abiotico da parte di organismi resistenti e poco specializzati (pensiamo per esempio alle distese di loess lasciate da un ritiro recente dei ghiacci, costellate da macchie di licheni). All’inizio la produzione primaria delle specie fotosintetizzanti di tipo primordiale supera di molto il consumo delle specie eterotrofiche, ma quando il sistema è maturo, produzione e consumo si equivalgono all’interno di contesti fortemente elaborati e interconnessi in cui, a ogni livello trofico, le entità delle varie specie di nicchia dotate di adattamenti molto particolari tendono a equivalersi: è questa, ridotta all’osso, la strategia biologica fondamentale di colonizzazione degli ambienti terrestri, da essa si può desumere la vera sostanza dell’autoregolazione che sostiene la vita sul pianeta e intuire come consista in meccanismi del tutto antitetici rispetto a quelli di cui è responsabile la specie umana, che sottomette di volta in volta il territorio a pochissime specie intensive, congelando di fatto il sistema in uno stato primordiale mostruosamente distorto.
Un sistema ecologico maturo è stabile e omeostatico, nel senso che tende a riprodurre le condizioni che favoriscono la propria continuità nel tempo sintonizzandosi, per così dire, con i ritmi, i flussi, gli equilibri, gli indici, i valori che regolano i cicli di trasporto, diffusione, reazione ai contatti tra le porzioni coinvolte di litosfera, idrosfera e atmosfera. Il sistema predisposto dall’uomo è analogo ai cicli di produzione industriale e nessuno sa fino a che punto potrà riuscire a integrarsi con più generali e incondizionabili dinamiche planetarie.
Un sistema ecologico maturo, grazie a una serie illimitata di meccanismi di feedback, è inattaccabile da disturbi che si collocano sotto determinati valori di soglia, ma è fragile di fronte a perturbazioni in prossimità di tali soglie, in presenza delle quali comincia a manifestare reazioni, dapprima marginali e quasi impercettibili, del tipo tutto o niente, innescando oscillazioni di tipo caotico che, partendo da focus circoscritti, possono irradiarsi e interferire in modo catastrofico.
Un numero di esseri umani superiore a tre o quattro miliardi (volendo essere ottimisti) rappresenta di per se stesso un catalizzatore di disturbi tale da fare esplodere in qualsiasi momento (tra anni, decenni o secoli) oltre ogni limite critico gli indicatori di pericolo per la sopravvivenza dei vari ecosistemi: per la prima volta, nella storia dell’unico corpo celeste ‘fertile’ che finora conosciamo, una sola specie sta gestendo l’intero pianeta come uno zoo, un parco o un giardino di sua esclusiva competenza e vi sta conducendo esperimenti alla cieca che, se falliscono, saranno irripetibili per il semplice motivo che l’uomo non esisterà più.
Gli ultimi rilievi possono apparire banali compitini da bignamino dell’ecologista, ma li si racconta per sottolineare ciò che banale non è: il fatto che non spaventino il grosso degli intellettuali e dei tecnocrati (la gente comune, già troppo impegnata a spaventarsi per quello che le capita un giorno sì e uno no, non può preoccuparsi anche delle minacce incombenti su tutti, belli e brutti, e inoltre dubita che quei furboni dei potenti siano così sprovveduti da farsi minacciare insieme a loro, finiscono quindi per non crederci).
Nei capisaldi ecologisti non siamo mai riusciti a trovare niente di eccessivo o sbagliato, li abbiamo trovati sempre semplicemente veritieri, il che porta a interrogarsi sul perché di tanta serafica indifferenza. O i caporioni trascurano ciò che non andrebbe trascurato perché credono nel Dio Re che li ha infeudati o non afferrano il quid.
Quando si tratta d’ingegneria genetica molti sono disposti ad accorgersi dei pericoli, mentre ricoprire territori immensi di granoturco o bovini (e analoghi, ovviamente), purché selezionati per vie tradizionali, continua ad apparire ai più un atto bucolico.
Invece, indovinate un po’! Eh sì, si dovrebbe ragionare esattamente al contrario.
Una volta innescato, nelle condizioni degli attuali criteri di ‘sviluppo’, il riscaldamento globale prosegue implacabile, la degassazione degli strati solidi superficiali e degli oceani diventa autocatalitica. Anche stabilizzando le emissioni antropiche, in assenza di meccanismi di assorbimento aggiuntivi, i gas climalteranti già presenti impiegherebbero secoli a tornare ai valori dei secoli passati, nel frattempo l’unico feedback negativo, lo sviluppo automatico e correlato degli organismi fotosintetici, è compromesso dall’antropizzazione crescente.
Altri meccanismi compensativi non ce ne sono: il forcing solare per ragioni astronomiche (i famosi cicli di Milankovic) sembra proprio che non potrà agire in senso inverso almeno per qualche migliaio di anni e al massimo riuscirà a neutralizzare (ma probabilmente non ci riuscirà e ciò a prescindere dalle fonti di energia utilizzata) l’apporto calorifico costante delle attività umane: questo, come detto, raddoppierà ogni venti anni circa agli attuali tassi di crescita, già gravemente insufficienti a generare benessere diffuso, almeno secondo i modelli organizzativi che adesso predominano.
Tralasciando ipotesi puramente speculative come la nube di polveri in cui la Terra entrerebbe periodicamente in seguito alle oscillazioni dell’orbita rispetto al piano dell’equatore solare (polveri che, per quello che ne sappiamo, da qui in poi, potrebbero addensarsi come rarefarsi), rimangono i feedback negativi legati a eventi catastrofici (gigantesche eruzioni vulcaniche, l’arresto della circolazione termoalina o cadute di asteroidi), rimedi peggiori del male in forma acuta e comunque tutt’altro che tranquillizzanti, se si tiene conto dell’effetto inopinabile che hanno le perturbazioni in contesti instabili. Inoltre, le grandi eruzioni vulcaniche costituiscono un aggravante: nel breve, peggiorano le condizioni economiche e sociali per gli effetti negativi sulla produzione agricola e zootecnica e i consumi di energia, nel medio e lungo incrementano il riscaldamento (se non fosse così la Terra sarebbe una palla di neve immutabile dal tempo della prima glaciazione totale).
A contrastare i drammatici eventi di rinforzo al riscaldamento auto-alimentato (soprattutto evaporazione generalizzata e variazione di assorbimento e di albedo per lo scioglimento dei ghiacci polari e montani) potremmo contare, se esistesse, su un altro feedback negativo fondamentale che riguarda la questione alla base della maggior parte delle discrepanze e delle incertezze da cui sono afflitte tutte le simulazioni computerizzate sull’evoluzione del clima: l’effetto delle coperture nuvolose che il riscaldamento favorisce. Se, come sembra probabile, l’effetto coperta (trattenimento del calore) sopravanza l’effetto respingimento (riflessione dei raggi solari) o se addirittura conta di più l’effetto serra determinato dal vapor d’acqua non ancora condensato, signori miei, almeno in assenza di rimedi tempestivi, la situazione mi appare molto, ma molto… brutta!
Quindi, dato che quasi tutto il carbonio assorbito dalle piante sembra ormai destinato a ritornare nell’atmosfera attraverso la respirazione e i rifiuti animali (anche se di quell’animale eccelso e divino che è l’uomo), una Terra tappezzata di granoturco e bovini o quant’altro non possiede meccanismi per frenare l’incremento esponenziale dell’effetto serra ed è quindi destinata a diventare come Venere (tra anni, decenni o secoli?).
L’unica soluzione imporrebbe di sostituire il granoturco, i bovini e compagnia bella con distese di boschi e foreste che, una volta reinseriti massicciamente, in seguito si autoregoleranno secondo il livello di anidride carbonica nell’atmosfera, fattore limitante fondamentale che forse può spiegare da solo (forse, ma se non è così facciamoci tanti auguri!) la scarsa utilizzazione dell’energia solare da parte del mondo vivente terrestre: l’ingegneria genetica e l’industria alimentare centralizzata sarebbero chiamate allora a sopperire alla produzione agricola e zootecnica, la prima predisponendo specie molto fruttifere, resistenti e dietologicamente complete (gli otto aminoacidi non sintetizzabili dall’organismo umano!), ma relativamente poco invasive e infestanti, da disseminare ovunque, e la seconda presiedendo al trattamento molecolare del prodotto vegetale grezzo e promiscuo veicolato con sistemi non distruttivi che rispettino l’equilibrio naturale.
Se anche il palato ci rimettesse (ma giganteschi volumi di ricette ottenute sfruttando un trattamento tecnologico di materiale organico primario sostengono il contrario), ci guadagnerebbe comunque la qualità della vita comune e il fascino di un mondo non più a rischio Venere.
Ma no! Invece di trovare la via della salvezza, i pre-venusiani si affollano festanti all’Expo e lì si ubriacano delle eccellenze italiane benedette con divertita indulgenza da Mc Donald. Come questo paese di gente ingegnosa abituata a cavarsela sfiorando un baratro dopo l’altro rimanga inestricabilmente accalappiato nella rete dei suoi meriti e delle sue fortune più che in quella delle manchevolezze (pensate solo ai morti e agli invalidi che sono costate tante belle opere architettoniche), a noi tedeschi appare una beffa crudele e se fossimo inglesi bastardi non potremmo fare a meno di ricamarci sopra il loro tipico humour da quattro soldi.
La specie dominante (intesa come opinione della maggioranza dei suoi membri) fa tranquillamente spallucce e considera gli ultimi rilievi fastidi da cui non vale la pena farsi ossessionare: dal punto di vista di una gnoseologia generale riuscirà sempre a costruirsi una visione, una filosofia dell’esistenza e una scala dei più supremissimi valori morali tale da giustificare e anzi glorificare il proprio soverchiante dominio (le religioni monoteiste di concerto con le fedi progressiste di destra e di sinistra vi riescono agevolmente), ma perché l’atteggiamento risulti anche saggio e produttivo in una prospettiva concreta è necessario e inderogabile che la costruzione di un sistema ecologico artificiale organizzato da una sola specie ‘intelligente’ risulti effettivamente plausibile e non una patacca appiccicata sulla faccia del pianeta come una maschera di Halloween destinata a creparsi e imputridire in un ghigno satanico entro pochi anni, decenni o secoli (chi lo sa con esattezza quanto tempo ci vuole?): questo è ovviamente il punto cruciale, tale questione occorre dirimere se si vuole stilare con qualche pertinenza le pagelle dei buoni (o vincitori) e dei cattivi (o perdenti), fermo restando che ecologisti radicali come i kolibiani, così romanticamente démodé e arcaicamente moralisti, ci tengono a essere iscritti da subito tra i cattivi (per rivoluzionare, un po’ cattivi bisogna essere) e fermo restando ancora che quelle forme biologiche che sanno godersi la vita, da un punto di vista tecnico e quindi anche, in qualche misura, morale, devono sempre essere considerate vincenti anche se si saranno prodotto gli orgasmi neurali risucchiando come vampiri la polpa del pianeta che dopo di loro tracolla.
Ovviamente nessuno sa con sicurezza se un sistema ecologico artificiale come quello costruito da Homo SS o SE possa vantare, dato un termine congruo (anni, decenni o secoli, ma pur sempre una irrilevante minuzia rispetto ai tempi geologici), una probabilità non lillipuziana di sopravvivenza, tuttavia un minimo di sensibilità scientifica porterebbe a guardare con sospetto tale possibilità e forse a escluderla con sdegno incredulo e schifato.
Occorre quindi decidere se gli attuali arbitri delle sorti del mondo, i governanti così abili a entrare nel campo percettivo di ogni suddito con i loro magniloquenti messaggi, siano imbelli ignoranti o fatalisti giocatori di azzardo.
La malevolenza possiamo tranquillamente escluderla: qualsiasi persona mediamente intelligente dotata di un minimo di capacità introspettiva e di quella neutrale spregiudicatezza indispensabile per un’analisi seria di qualsiasi situazione, è in grado di ravvedere in sé i germi di qualsiasi eccellenza e magnanimità, come di qualsiasi perversa aberrazione, sa che il buono e il cattivo (e, più raramente, quando ci sono, l’ottimo e il pessimo), in ogni essere umano (anche per la sua ambigua collocazione tra l’istintività animale e un mondo di concetti astratti e artificiali) si trovano indissolubilmente legati (prego sottolineare ancora una volta ‘indissolubilmente’), esita quindi a concedere la definizione di ‘bastardo’ o ‘depravato’ o ‘perverso’ a qualsiasi individuo che non sia vittima di circostanze estreme e particolarissime recrudescenze negative, il che non è probabilmente avvenuto, o almeno si spera, per i rappresentanti ordinari dei pubblici poteri.
Quando le probabilità di perdere al gioco superano certi livelli di guardia, occorre quindi propendere per l’ignoranza, l’incoscienza o la paranoia del giocatore che continui imperterrito a fare mosse sbagliate, quindi trovare una messa a punto e calibrazione del concetto che autorizzi la sua applicazione a persone di sicuro molto più abili, tenaci o intelligenti della media (con doti, cioè, non necessariamente congiunte, ma presenti almeno singolarmente).
Procediamo quindi con l’evidenziare come ‘ignoranza’ indichi una posizione esistenziale molto ambigua e relativa: tutti siamo fondamentalmente ignoranti e nessuno lo è a prescindere dal contesto.
Per un dirigente, l’ignoranza è perfino auspicabile, quando una visione parziale e distorta, non solo non ostacola il raggiungimento di specifici obbiettivi, ma addirittura lo facilita troncando dubbi e resipiscenze fastidiosi e ritardanti: l’importante per lui è guadagnarci nel breve passando sui cadaveri che servono, nel medio-lungo chi si ricorda più delle cazzate che hanno procurato soldi e prestigio a chi le ha commesse!
Un capo politico non può vantare mai, quindi, un prezioso carico d’ignoranza assoluta, bensì un quantitativo da pesare secondo la collocazione storica e sociale: potrebbe apparire spigliato e decisionista in determinati frangenti oppure sprovveduto e, appunto, ignorante, solo pochi anni prima o dopo: in genere fini commentatori e storici con le contropalle assegnano il verdetto in base al successo sociale che si è permanentemente conseguito defilandosi al momento giusto e lasciando ad altri l’eredità di revisioni e revoche.
Sarebbe importantissima la profondità di campo dell’inquadratura temporale, ma questa in realtà non viene valutata perché qualsiasi osservatore umano, che lo faccia consapevolmente o no, giudica in base alla durata della propria esistenza terrena, assegnando agli anni un coefficiente d’importanza progressivamente maggiore quanto più si avvicinano al presente e sfumando tutto il resto nei toni del grigio luminoso.
Un altro aspetto da considerare riguarda poi il tipo di metafisica inerente a quella che definirei ‘la cultura implicita di scambio’, ovvero la quotazione della moneta intellettuale con la quale ciascuno conquista il consenso e gli appoggi indispensabili per la carriera e ritiene di poter stabilire una base di comunicazione affidabile e pagante: quella nefasta categoria di persone che meritano l’appellativo di ‘grandi comunicatori’ in genere adibiscono allo scopo vezzi, moine e salamelecchi tanto più efficaci quanto la massa di ricevitori è considerata portatrice di handicap cognitivi, come è stato bene esemplificato dalle fotografie che i telegiornali Mediaset per anni e anni hanno esibito a copertura di tutto lo schermo ogni volta che si parlava del capo per antonomasia, il quale vi appariva immortalato con le stigmate della soverchiante nobiltà fisionomica secondo una moderna cristologia fatta di mezzi sorrisi e sguardi profondi da escatologico manager. Chiunque vi abbia ravvisato aspetti comici e controproducenti ha potuto immediatamente sperimentare, come in un infallibile test attitudinale, l’umiliazione bruciante della propria inadeguatezza politica.
La conquista della stupidità diventa poi una priorità assoluta in concomitanza con la diluizione e macerazione del ceto medio e il progressivo avanzare della proletarizzazione strisciante: chi anticipa il fenomeno predisponendosi con un arretramento intellettuale e culturale, di solito previene (stiamo parlando dei piani bassi e del pianterreno, ma forse potremmo salire più su) gli effetti psicologici dell’arretramento economico e a volte previene l’arretramento economico stesso.
L’involuzione dell’istituto di rappresentanza rivelata dalla scelta dei capi si tocca con mano quando a un personaggio del tutto costruito, perfettamente consapevole delle proprie artefatte finzioni (anche se affetto da strane nostalgie per una franchezza e una riottosità piuttosto inopportune), si sostituiscono figure che vivono l’arte del travestimento e del plagio barocco con vitale e convinta partecipazione facendo cadere qualsiasi barriera tra realtà e finzione in base ad abilità e competenze di cui la sinistra italiana è sempre stata specialista.
Una volta, sulla scena politica italiana, dominava la irresistibile, sottile, turbata fascinazione nonché sportivissima invidia dei comunistoni tutti di un pezzo (i trinariciuti!) davanti alla circonvenzione del popolino messa in opera dall’autoritarismo barocco e suadente di Santa Madre Chiesa Cattolica e Apostolica (molto significativo un episodio del film ‘I nuovi mostri’ con Gassman nella veste di cardinale), oggigiorno spicca l’ammirazione dolente e commossa degli imprenditori donati da Dio a Montecitorio, i superman del fare, i moderati d’assalto, verso il dinamismo illusionista dell’ultima versione di funzionario partitico riforma e getta sfornata dal sinistrismo europeista d’élite.
‘Colossale ignoranza’ in politica può quindi significare semplicemente programmatico, deliberato disprezzo di un’apprensione complessiva della natura del mondo desunta in base a strumenti analitici d’ispirazione scientifica, punto di vista (ovvero di non vista) adottato tanto più convintamente e allegramente quanto quelli non si rivelano in grado di fornire indicazioni temporali stringenti; anni, decenni o (pochi, pochissimi!) secoli (zero virgola più che uno virgola)????? Boh!
Vero anche che esistono altri criteri per conferire agognati epiteti solo in apparenza dispregiativi ai governanti dell’ortodossia liberista. L’aggettivo ‘agognato’ sottintende ovviamente che la definizione deriva, non da una plebiscitaria valutazione popolare, ma in seguito alla messa in campo di sottigliezze euristiche di cui abbiamo appena sciorinato qualche esempio, astruserie sofistiche che squalificano i propri estensori non appena si evade dal campo della cultura fine a se stessa e si sconfina in una comunicazione mass-mediatica strettamente connessa a funzioni di manipolazione sociologica.
L’attuale post-democrazia tecnocratica ed elitaria produce molte sorprendenti alchimie nell’ambito delle mentalità diffuse e delle qualità umane in generale, per esempio trasforma l’unico autentico razzismo che sia mai esistito nel corso della storia umana, ovvero il classismo, nel proprio opposto, ovvero l’umanitarismo indifferenziato, e questo soprattutto a opera delle forze politiche che, per statuto, definizione, natura, dovrebbero combatterlo (quell’iper-razzismo che è il classismo ovunque diffuso, origine e conseguenza insieme di ogni miseria), ovvero quelle di sinistra.
Mirabile potenza del capitalismo rivisto e corretto a ‘sinistra’! Una delle sue invenzioni più stupefacenti riguarda il rovesciamento delle categorie di stupidità e intelligenza.
Politicamente parlando, ma non solo, un kolibiano è e sempre sarà uno stupido, perfino nel momento in cui le predizioni che ritiene azzeccate si dovessero avverare, lasciando a bocca spalancata sotto un ricciolo connesso a una voluta bianca recante la scritta ‘Ops!’ i volitivi campioni del progressismo ottimista: in quel caso verrebbero accusati di non essere stati capaci di ‘comunicare’, quando è ovvio che per comunicare occorre una base di linguaggio comune, un medesimo codice interpretativo, il che non è possibile quando il ricevente dovrebbe essere preventivamente preparato tramite un cambio radicale di mentalità ottenibile soltanto attraverso un seria volontà di studiare e indagare che, se ci fosse, rappresenterebbe già quel cambio di mentalità che si vorrebbe ottenere.
La religione, lo spiritualismo e l’antropocentrismo non rappresentano costanti fondamentali e costitutive dell’essere umano, che in realtà, tolta la base più strettamente biologica e fisiologica ereditata dal pliocene, paleocene e paleolitico, non esistono: lo dimostra la facilità con cui caratteri e usanze si adeguano a certi stravolgimenti sociali e moltissime altre osservazioni psicologiche ed etnologiche.
Resta però il fatto che la cultura (la weltanschauung, se vogliamo essere aulici, l’ideologia se pratici) non cambia senza un avallo specifico degli organi ufficiali di pressione e, nell’ambito di questi, un teatrante o perfino (ahimé!) un cantante popolare contano molto di più di un filosofo o uno scienziato, un fenomeno che avrebbe potuto attenuarsi con lo sviluppo tecnologico dei mezzi d’informazione e che invece si intensifica in base al bilancio degli interessi delle varie proprietà. Inoltre, il costo della sopravvivenza o di un minimo benessere tende a diventare sempre più alto in termini di impegno e coinvolgimento della persona e a lasciare sempre meno spazio alla curiosità e alla verifica indipendenti, ostacolate più che facilitate dai caotici scintillii di Internet.
In tale situazione, obbiettivi, priorità e propensioni non li decide la massa dei cittadini, ma lo strato dirigente, che ovviamente, in una post-democrazia di tipo occidentale, si guarda bene dall’usare metodi coercitivi, bensì adotta i più sottili e soffici strumenti persuasivi, primo fra tutti la somministrazione delle favole belle che la gente è felicissima di accogliere come sacrosante e incontestabili, dato che aiutano ad alleviare efficacemente le apprensioni e i triboli di cui trabocca la vita quotidiana, almeno delle fasce medio-basse, insegnano insomma a come essere ansiolitici e non ansiogeni l’uno nei confronti dell’altro.
E’ un po’ difficile, in tale situazione, convincere la maggioranza degli esseri umani che Dio non è quell’entità che si preoccupa della singola anima e prima o poi la premia in cambio, non tanto delle buone azioni (sarebbe poco prudente da parte di chi possiede le licenze di ascolto e i brevetti d’interpretazione), quanto di quella buona disposizione fondamentale di spirito che ognuno che non sia pazzo ritiene istintivamente di possedere.
Tramutare il bonario, paterno Dio tradizionale in una dimensione processuale imperscrutabile da cui l’umanità riceve un destino che trascende ogni singolo individuo come la specie nel suo complesso, un gigantesco meccanismo che non concede favoritismi e assegni in bianco che evitino l’estinzione per scelte sbagliate, è ostico per i ‘dotti’ professionali, figuriamoci per gli ‘ignoranti’ più o meno obbligati.
Detto questo e cambiando prospettiva, può darsi benissimo che i capi siano bastardi e non ignoranti: è sufficiente che vedano bene i rischi catastrofici invocati (tra anni, decenni o pochi, pochissimi secoli) e ritengano che il modo migliore per attenuarli o ritardarli consista nel fare arretrare il tenore di vita medio delle masse, soprattutto di quelle occidentali, spingendole gradualmente in una condizione d’indigenza che potrebbe essere evitata soltanto attraverso uno stravolgimento rivoluzionario dei modelli di produzione economica implicanti l’abolizione parziale dell’economia di mercato (soltanto per quanto attiene alla garanzia di un minimo da intendersi però qualitativamente e non quantitativamente) e l’abolizione totale della finanza privata.
Quanto la prospettiva sia credibile in termini di fattibilità lo dimostrano le dirigenze dei paesi con economie compromesse da una crisi debitoria: perfino nel caso, tra cui rientra forse quello italiano, in cui il debito è coperto in buona parte dalla ricchezza interna (al punto che, giudicata come azienda, la nazione si troverebbe in un regime tutto sommato fisiologico e non patologico), pur di non mettere a rischio i patrimoni di pochi grandi creditori privati (il cui dissesto, del resto, nel sistema attuale, precarizzerebbe l’intero sistema mondiale grazie alle formidabili armi di ricatto di cui li approvvigiona il sistema), i governanti ‘eletti dal popolo’ (in realtà da una quota parte solo relativamente maggioritaria del 50% del popolo e non solo in Italia) accettano di pagare il debito abbassando drasticamente il tenore di vita del popolo stesso, attuale e soprattutto prospettico, facendogli sborsare di tasca sua, in un colpo solo, tutte le garanzie, le salvaguardie e facilitazioni incassate in anni di contestazioni e confronti anche duri.
Signori miei, i kolibiani se ne fregano di sindacati come quelli italiani che sono sempre stati strumento di fiancheggiamento di poteri e connivenze partigiani, più che strumenti tecnici di trasparente salvaguardia degli iscritti, e che hanno accettato per motivi di puro interesse, anche molto grezzi e dozzinali, la perdita esiziale del potere contrattuale dei lavoratori (ovvero della maggioranza della popolazione) conseguente a politiche sull’immigrazione prone davanti al potere confindustriale, ecclesiastico e mafioso e alla legalizzazione, in corso ormai da decenni, del lavoro precario di serie b tramite l’istituto delle cooperative: il cosiddetto jobs act non fa che sancire ufficialmente una situazione di fatto e anche quelli che strillano allo scandalo lo sanno benissimo.
I kolibiani trovano ripugnante un fatto semplice ed elementare: che sedicenti rappresentanti del popolo non si adoperino per migliorare le condizioni del popolo, bensì per peggiorarle privilegiando i capitali e gli investimenti stranieri, il che è scandaloso anche quando è imposto da situazioni di forza maggiore ed è connesso a conflitti generazionali e all’incremento relativo della parte anziana della popolazione.
Speriamo soltanto che gli stessi governanti non credano veramente che facilitando la ruberia dei grossi interessi il popolo ne trarrà alla lunga dei benefici: quando è dotato di potere, un uomo cattivo è sempre meno pericoloso di un imbecille.
Accantonato il metodo della fondazione teocratica del potere politico per linea genealogica e diritto divino di nascita, l’uomo non è stato capace di sostituirvi altri criteri di legittimità investiti di un minimo di valenza etica che proceda anche solo di poco oltre una sempre precaria e discutibile funzionalità pratica.
Nelle primissime fasi dell’industrialismo, il decreto sociologico di superiorità concesso a quelle menti e quelle volontà che risultavano vincenti nella competizione economica (durante un’effimera stagione di effettività che ha visto l’indagine razionale divincolarsi dalle pastoie degli ossequi mitologici) si è candidato a metodo altrettanto spietato e tassativo, ma ovviamente e giustamente non poteva reggere alla complessità di contesti in cui la mobilità delle relazioni e dei contributi s’imponeva come norma strutturale
I tempi presenti vedono l’istituto della democrazia formale (ovvero le regole per il confronto dinamico delle necessità e degli interessi espressi da compagini sociali sufficientemente rappresentative, detentrici cioè di un peso condizionante adeguato) imporsi, con varianti tutto sommato trascurabili, come metodo pressoché universale di governo delle nazioni, sbaragliando, per ora, esperimenti di democrazia diretta scaturiti da collettivismi, movimentismi e integralismi vari: esito che appare scontatissimo, ma non prolungabile a una eventuale medievalizzazione prossima ventura, se si tiene conto che questi ultimi, in un modo o nell’altro, hanno implicitamente dato per sottintese leggi eterne e immodificabili legate a un’essenza spirituale e metafisica dell’umanità che, se esistesse, la renderebbe consustanziale a ‘Dio’ , ma che ovviamente non esiste.
Altrettanto ovviamente la libertà dei sistemi a base elettorale (in cui culture, tradizioni, caratteri e stramberie di varia umanità, pur sempre presenti, non cambiano il nocciolo del problema) rimane prerogativa pressoché esclusiva di determinate categorie maggioritarie (in senso più ponderale che numerico), ma gli aspetti dispotici e l’oppressione delle minoranze che vi sono impliciti vengono in buona parte neutralizzati o almeno mascherati dall’intricato groviglio di rapporti presente in ogni società moderna, dove, per esempio, accanto a una serie inesauribile di altre complicazioni, i gruppi di pressione e di rappresentanza si alleano variamente tra simili e con gruppi più importanti (il cui successo dipende spesso da spostamenti marginali) e inoltre, a seconda degli elementi di selezione adottati (se politici, economici, sociali, esistenziali, psicologici, psichiatrici, caratteriali, fisiologici eccetera) le partecipazioni e le circoscrizioni si intersecano e sovrappongono, in modi che spesso gli stessi soggetti ignorano o vogliono ignorare.
E’ già stato ribadito (con i concetti di base non si esagera mai) che la complessità, commisurata alla stabilità di un sistema, agisce contemporaneamente su due fronti diacronici opposti: garantisce solidità nel breve termine, ma provoca vulnerabilità nel lungo, il che equivale a dire che induce resistenza alle fluttuazioni moderate, ma favorisce rotture capitali e violente in caso d’interferenze situate sopra una determinata soglia d’intensità, livello che tende ad abbassarsi gradualmente durante il consumo continuo di risorse non illimitate e l’instaurarsi di nodi e poli critici a rinforzo positivo (che una volta instaurati tendono a consolidarsi e a crescere per dinamiche implicite).
Il secondo aspetto merita però una riflessione: un nucleo di preponderanza all’interno di un sistema come una società potrebbe assicurare stabilità allo stesso invece che distruggerla, il che accadrebbe se distruggesse tutti gli altri o sopravvivesse insieme a pochi: in questo caso potremmo dire che la complessità distrugge se stessa e non il contesto che la ospita. Così facendo, però, nel momento in cui si previene il tracollo oppure una transizione di fase con ricomposizione estesa e profonda dei moduli organizzativi, si toglie contemporaneamente la difesa che una elaborazione matura offre contro le fluttuazioni più lievi e frequenti: la società o va in oscillazione continua (come accadeva in antiquo per dissapori e bisticci tra gli aspiranti al trono) o si destruttura sempre di più fino a ridursi a un monolitico blocco privo di dialettica interna, non più sofisticato di un assolutismo guerriero e teocratico.
Già questa semplice analisi ci consente di arrivare a conclusioni politicamente significative: 1) la libertà di una democrazia formale è strettamente e indissolubilmente legata a una complessità di rapporti e influenze reciproche (i famosi ‘pesi e contrappesi’) venuta meno la quale i suoi istituti non diventano meno dispotici solo perché sono spalmati di mielosa ipocrisia o benedetti dagli interpreti esclusivi della volontà di un fantomatico e non meglio identificato ‘Dio’; 2) la complessità è come una bomba a orologeria il cui tic tac diventa sempre più udibile e netto con il procedere di una scansione temporale la cui unità di misura va parametrata secondo il ritmo dei cambiamenti generali; 3) le riforme che salvano la stabilità, pregiudicando dinamismi e mobilità attraverso la cristallizzazione degli squilibri e delle sperequazioni in essere, a prescindere che rappresentino l’ultima spiaggia o meno, equiparano una democrazia a una dittatura anche se viene fatto salvo l’istituto elettorale.
Qualcuno ha sostenuto che vati e luminari come Anonimo 1 e Remoto Zampetta, ispiratori della maggior parte della meglio gioventù germanica, puntassero semplicemente, dopo aver fiutato l’aria che tirava, a procurarsi un alibi morale, esentandosi da ogni responsabilità per un tracollo generalizzato che fin da allora si annunciava con sintomi inequivocabili e che veniva semplicemente ritardato, ma anche esasperato, da quelli che ‘almeno ci provavano’, non si è mai ben capito a fare che cosa, se non trasferire ricchezza dal basso verso l’alto per incrementare il tasso di resistenza e le capacità reattive e repressive degli strati privilegiati nei confronti di una crisi radicale e irreversibile.
Peter Kurten, il principale propugnatore di questa tesi, a sostegno della quale adduceva un supposto atteggiamento di ‘evasività ed esitazione rinunciataria’, di mancanza d’incisività e di ‘coraggio’ (sic!) nel propugnare e difendere le proprie iniziative, non tiene conto, secondo noi, del particolare clima sociale che si respirava allora in Italia e delle strategie realisticamente implementabili per il surfing polemico e dibattimentale, dato che solo di questo è possibile discutere: infatti, nel corso della storia umana, nessun movimento di popolo si è mai durevolmente affermato senza il prologo di una elaborazione teorica di gruppi ristretti tale da prefigurarne più o meno confusamente, stimoli, motivazioni, intenti, piani, programmi, procedure.
Le problematiche che i Padri si trovarono ad affrontare all’inizio del loro luminosissimo tragitto iperbolico verteva dunque sulle modalità più idonee a effettuare un sondaggio che illuminasse la possibilità o meno di creare un gruppo di avanguardia ‘rivoluzionaria’: tra virgolette, perché qui la parola avrebbe dovuto in qualche modo conciliarsi con un vocabolo che per molti versi viene considerato agli antipodi del significato, intendo ‘progettazione’ e analoghi. Si trattava quindi d’incidere, non sulla sfera emozionale e motivazionale e neanche sulle mentalità, irrimediabilmente avvinte alla struttura degli interessi, da cui nessuno riuscirà mai e poi mai a districarle, ma sulle capacità analitiche e le tecniche di ragionamento astratto.
Un’operazione del genere implica qualcosa di titanicamente improbabile e donchisciottesco, dato che l’ultimo desiderio della gente comune, sormontato e schiacciato da tutti gli altri, riguarda proprio l’ipotesi di un mutamento delle proprie attitudini razionali, già così poco naturali e spontanee, quando esistono, e così difficili da costruire, repulsione che raggiunge, supera e perfino doppia il senso di schifo non appena si rischia addirittura che tali attitudini riadattate strapazzino almeno un po’ l’apparato consuetudinario e difensivo di tante dolci e nobili astuzie morali e sentimentali.
Seguire le vie tradizionali sarebbe stato insomma come correre in salita su un pendio scosceso scartando di qua e di là per evitare le pesanti bocce dei pubblicisti tradizionali che rotolavano allegramente per semplice effetto della gravità, travolgendo tutto ciò che non si piegava agli automatismi del movimento generale.
Tuttavia l’essere travolti non rappresentava il rischio principale: un pericolo ben più grave dipendeva dalle tecniche immunitarie messe in campo dai corpi di guardia più vigili e smaliziati, specialisti nel fagocitare le novità del messaggio con la concessione di un ascolto interessato e possibilista, che dura il tempo indispensabile affinché un fenomeno di moda, per quanto relativo e poco seguito, si stemperi nel sentito dire e nel già visto, poi all’improvviso scatta l’attacco al vetriolo di qualche genio dell’ortodossia, professionisti impeccabili o maestri di sofismi ironici che hanno quasi sempre gioco facile nel ridicolizzare istanze scomode, soprattutto se richiedono un sovvertimento profondo e sgradito dei costumi culturali. Questi abiti dell’esistenza umana, dal taglio perfetto per alcuni, goffi e sformati per altri, rappresentano sempre mere accidentalità storiche, passibili di sputtanamento nell’arco di un decennio o anche meno, ma sono spacciati inesorabilmente dai vincenti come sanzioni dell’Essere Eterno.
Questo quadro, nei suoi tratti essenziali, vale universalmente: in Italia si aggiungono, in modo ancor più virulento all’epoca in cui i Padri scrivevano, specifici caratteri peggiorativi legati alla carenza di un ben definito potere politico centrale che, per quanto sorvegliato in parte da altri poteri, imponesse a ogni lobby l’obbligo di connettervisi e adeguarvisi. Nel bel paese ogni forma di statalismo, definitivamente uccisa da uno pseudo-federalismo mal concepito e ancor peggio applicato, doveva cedere il passo a una sorta di Superlobby: una più generica e frastagliata Lobby del Privilegio a cui metteva capo, in successione gerarchica, un complesso sterminato di ambaradan e ambarvali di loggine e loggette, variamente alleate o conflittuali, che tutte assieme concorrevano a una vivacissima dialettica civile praticamente anarcoide, quasi sempre subordinata ad apparati di vertice abilissimi nel gestire con tecniche pubblicitarie le istanze più disparate, o contrapponendo o lisciando o illudendo o colpevolizzando o altro a seconda dei casi.
A formidabili sostegni di questa versione morbida e accattivante di dispotismo, comparivano al momento giusto, spesso a loro stessa insaputa (vale a dire con cecità freudiana favorita dall’ingegnoso mimetismo dei fili) i fiancheggiatori più insospettabili, come impegnatissimi e danarosi santoni della musica, dell’arte, dell’editoria, della religione e dello spettacolo o anziani massimalisti che, dopo aver validamente contribuito allo sfascio del paese, si godevano un sacrosanto riconoscimento delle loro doti propagandistiche e imprenditoriali, grazie alle quali la nazione più socialista dell’Occidente si trovava sulla buona via per diventare la più coerentemente liberista del pianeta…
Per noi tedeschi non è facile capire la situazione: pessimi individualmente come siamo, ci redimiamo non appena affrontiamo un impegno comune che richiede il confronto con elementi oggettivi a cui, forti anche di drammatiche esperienze passate, impediamo di parlare linguaggi confusi che tra l’altro possono sollecitare istinti oscuri e pericolosi,
Ben diverso è il caso dell’italiano: umanissimo, naturalmente simpatico e generoso, incredibilmente effervescente e creativo, se preso individualmente, sente comprensibilmente l’impulso di apportare in ogni contesto sociale la straordinaria ricchezza del proprio animo cattolicamente temprato e così ogni intrapresa nobilissima (per pochi quarti di nobiltà l’italiano non si scompone nemmeno e preferisce obbedire pedissequamente agli ordini o farsi i suoi cavolini di Bruxelles) affonda come una barca sovraccarica di vettovaglie e forzieri.
Barriere etniche a parte, non è difficile intuire l’ambascia che attanagliava i Padri: se la loro dottrina otteneva il clamoroso successo che si meritava, si sarebbero trovati imbalsamati in un ennesimo ruolo di guru da portare in processione durante le fiere mediatiche delle asfissianti polemiche nel cui rutilante polverone la prima cosa che si perdeva di vista era proprio l’essenza del progetto e delle specifiche costruzioni da innalzare con severo e metodico impegno; se veniva disprezzata e irrisa, secondo una reazione che era una sinecura per i mercenari della cultura ufficiale, tenuto conto della non eccelsa scolarizzazione del volgo, il messaggio sarebbe caduto nel vuoto.
Constatata la scarsa presa su un campionario abbastanza assortito di persone contattate personalmente, cosa che fin dal principio avevano considerato piuttosto ovvia e comunque, se non si fosse verificata, avrebbe potuto portare a poco consigliabili soluzioni di tipo settario, quale genialissima trovata fu escogitata alla fine? Tutti noi, a parte Peter Kurten (che non ha mai capito un’acca e nemmeno un tubo di kolibianesimo) lo ricordiamo con commossa gratitudine e autentica venerazione: comprare un infimo appezzamento di terreno virtuale, assolutamente periferico, e deporvi i semi aromatici di un’opera letteraria dai risvolti avventurosi ed enigmatici, lasciare che i suoi effluvi si sviluppassero come per caso, penetrando i sensi incuriositi di qualche sporadico passante, raggiunta la mente del quale avrebbero segretamente sedimentato in attesa di sviluppare appendici trasferibili ad altre menti, innescando da qui in avanti una reazione a catena: una sorta di salutare epidemia, velenosa soltanto per le truppe armate degli oppressori.
Naturalmente si doveva tenere un profilo basso, rimanere sotto traccia, impedire che il nemico si accorgesse della manovra e potesse porvi rimedio quando l’infezione era ancora arginabile. Non era difficile, data la stolida sicumera e l’invalidante ottimismo che ottenebrava i pensieri dei cosiddetti vincenti, ma guai comunque se fosse avvenuto! L’unica seria possibilità di affrontare la catastrofe sarebbe stata annientata con la stessa facilità, probabilmente, che nel corso di una lotta a viso aperto, da idealista innamorato del proprio spirito sacrificato con il ‘coraggio’ del donchisciotte rincoglionito che si accontenta dell’onore delle armi o poco più.
“O un canto privato, soddisfacente in sé e per sé, art pour l’art, soliloquio in intimità con Artemide sagittale, inutile e gratuito come ogni vero atto estetico di cui nulla si può dire intorno a quello che produce o non produce, neppure se esiste, o la stesura e la realizzazione di un progetto: tutto quello che sta in mezzo è solo soprammobile e arredamento dello spazio infinito o illimitato, sostanza di vita vissuta che non ha niente a che vedere con la pregnanza di un processo creativo, né privato né pubblico, ma solo con sensazioni, esibizioni e chiacchiere!”: chi non ricorda quella celebre dichiarazione!
E quest’altra? “L’arte è sempre vaneggiamento, mistificazione, onirismo (gli stati d’animo che ogni uomo libero ama di più), la politica o è realizzazione o è niente: tra arte e politica non scorre alcuna volontà deliberata, ma solo la vita irriflessiva, le cui ambiguità rimangono inarrivabili anche per i cervelli più contorti. Ogni intelligenza che intende agire sospesa tra il sogno creativo e il fatto concreto, senza approdare all’uno o all’altro, appagandosi di moralismi narcisisti o di biechi tornaconti, non merita considerazione alcuna.”
O ancora: “L’allucinazione artistica deve tacere quando parla la fabbrica del progetto e viceversa: soltanto la danza perfettamente sincronizzata quanto assolutamente imprevedibile degli eventi unisce i diversi momenti.”
Amici, a quali vette portentose stiamo guardando impavidi!
Infine l’applauso ci sgorga entusiasta e spontaneo ricordando una delle principali astuzie dei nostri Grandi Precursori: si slanciavano in stravaganze improvvise, sfiorando a volte il limite del sarcasmo auto-distruttivo e rassicurando con tali eccessi stilistici, peraltro squisitamente sottili, chi riteneva che le loro proposte non potessero essere prese seriamente in considerazione; si lamentavano per lo scarso seguito con un disincanto compassato, quasi arzigogolassero per una specie di ossessione privata arrendendosi di fatto a una incomprensione senza rimedio: intanto i contatti fioccavano nella misura di parecchie migliaia in più ogni giorno che passava e il fornitore del servizio di hosting era costretto a predisporre adeguati rinforzi per far fronte alle lievitanti richieste provenienti da ogni parte del mondo.
PREFAZIONE DEL PATRIARCA ANONIMO XXIV ALLA REDAZIONE ANTOLOGICA DEL 2140, LA GLORIOSA SETTANTUNESIMA.
Come curatore del presente tomo, mi sarei volentieri risparmiato la seccatura di una revisione generale, ma purtroppo una forbita e pungente postilla verbale di Matteo IV (che pare si sia divertito a rievocare un analogo intervento del capostipite della dinastia risalente al secondo decennio del secolo scorso) ha fatto piombare nel panico tutte le nostre redazioni.
Ho dovuto personalmente intervenire per riportare la calma tra migliaia di collaboratori sull’orlo di una crisi di nervi: temevano di finire nel mirino delle nuove disposizioni penali che appesantiscono le sanzioni per il mancato rispetto delle regole grammaticali in ogni tipo di documento e scrittura, secondo una rivoluzionaria concezione del diritto che, molto saggiamente, invita a concentrare l’attenzione sulle inadempienze palesi, da verificare meccanicamente, e non su questioni impossibili da dirimere per incomunicabilità tra intelligenze diverse, esse stesse, le intelligenze, troppo spesso non catalogabili mediante coefficienti di merito a dispetto della chiarezza e univocità del modello di confronto, consistente ovviamente nella complessione antropologica generosamente offerta dal nostro sovrano.
Egli è uomo d’azione, ho spiegato ai miei collaboratori, quindi la sua cultura deve assurgere a livelli di pedanteria formalistica difficilmente raggiungibili per noi comuni mortali: secondo la sua nobile e pratica visione, erudizione e pensiero non devono ostacolare la sicurezza propositiva del leader con le ambasce dei sottili ristagni dubitativi e siccome, fin dall’apparire del primo ominoide, la persuasione supportata dall’autorità si è resa necessaria, ma non è mai accaduto che logica e scienza abbiano aiutato nel soggiogare le masse a uno spontaneo e vivificante amore o almeno consenso, si è proceduto a fissare i termini delle verità secondo il metodo dogmatico del codicillo convenzionale fissato da chi risplende per grazia divina.
Quindi, d’ora in avanti si dovrà dire ‘i curricula’ e non ‘i curriculum’ anche se in effetti ‘i curricula’ corrisponde in realtà a ‘i ‘curricula’ ’, dato che il termine così introdotto subisce la modulazione inflessiva del plurale secondo regole estranee alla lingua nel cui ambito appare e quindi, configurando l’inclusione di un corpo eteroglosso, si trascina dietro un effetto di enfasi (le virgolette, appunto, che in effetti però si possono omettere senza grave danno né per la perspicuità né per la congruenza grammaticale) che a qualcuno potrebbe non piacere.
Costui, se fosse temerario, si appellerebbe a una non meglio identificata ‘sensibilità stilistica’ propendendo per un utilizzo del termine desunto da una lingua straniera alla stregua, non di prestito lessicale, ma di acquisizione omogenea a ogni altro termine, optando di conseguenza per una coincidenza tra forma singolare e plurale.
A ogni buon conto, mi domando: sarebbe saggio sfidare la Legge per una questione di lana caprina? No, certo, e tuttavia – così ho rassicurato i miei tremebondi subalterni – non dobbiamo temere per non avere corretto certi vezzi dei Padri Kolibiani, mi risulta infatti che Matteo IV si circondi di saggi e moderati consiglieri, almeno uno dei quali Gli ha fatto notare che, nonostante le migliori e più nobili esigenze di semplificazione combattiva imposte dall’incedere marziale delle Riforme Autocratiche, ineluttabili complicazioni, legate a famigerati principi di realtà che risulta impossibile abolire, si accompagnano sempre a qualsiasi tassativa imposizione delle regole.
La cultura insomma non potrà mai ridursi interamente a principi d’inviolabile classicità e alle glorie di ordinanza evocati e standardizzati da chi possiede qualche decimo almeno di sangue blu, anche quando tale prodigio umano manifesta impellenze fisiologiche di concitazione creativa e anche a prescindere dai facinorosi ‘cupio dissolvi’ di fini intellettuali sempre più ansiosi di soffocare sotto sigaro, pancione e ghigno soddisfatto certe vocazioni naturali e dissimulare poi i tratti da sibarita nella folla in fregola che agita i libretti biancodorati del Miao intorno al sospiro elettrico delle papamobili di formula 1.
Detto questo, nel rispetto di una elementare prudenza (con l’aria che tira non si sa mai), ho sollecitato tutte le 103 redazioni collegate in videoconferenza per ricevere sollecitazioni eucaristiche a ricercare pecche e svarioni che io stesso avevo un tempo consigliato di lasciar perdere in quanto legati alla scrittura di getto tipica dei Precursori, i quali, come è ben noto a centinaia di biografi non malevoli (almeno quelli che, come ogni saggista che si rispetti, sono usi dedicare pagine di ringraziamenti a esimi colleghi che hanno almeno fatto spostare una virgola), revisionavano e correggevano, sì, ma mai al punto da rimanere vittima di accessi paralizzanti di noia.
Purtroppo alcuni errori, considerati veniali da Santi e Profeti, si sono rivelati assai gravi dal punto di vista dei Grandi Legislatori Matteani, al punto che, preso dal terrore, prima o poi ogni incaricato si è dato alla fuga e io sono rimasto letteralmente solo a fronteggiare l’ingrato compito.
Costretto ad arrangiarmi, ho ripreso il lavoro da capo e purtroppo sono incorso subito nella Maledizione degli Antenati: qualsiasi revisione, mi avevano preannunciato i loro portavoce ancora viventi, sarebbe incorsa in una sollecitazione continua a ritoccare e perfino ampliare, il che ho cercato di fare nei minimi termini, alzando bandiera bianca non appena la gelida cortina di nebbia della frustrazione ha sommerso i miei buoni propositi (sventuratamente è successo dopo poche decine di pagine).
Se quanto scritto in questa avvertenza è riuscito a comunicarvi anche solo una pallida idea delle mie angosce, vi consiglio di lasciar perdere il prosieguo ancora più drammatico.
Dato che ormai, dopo la defezione del mio esercito, ricade su di me l’intera colpa di ogni errore formale (al punto che la notte mi sveglio di soprassalto, sudato e con gli occhi sbarrati, per uscire da un incubo che mi vede alla sbarra per un’accusa d’inadempienza lessicale tale da condurre all’ergastolo (nemmeno traducibile in morte volontaria per certe strane durezze del nostro Diritto Penale)), tanto vale che sfrutti questo maldestro tentativo revisionale per qualche osservazione sulla recente politica economica annunciata dal Consesso Europeo su istigazione (così si millanta) del Regno Italico.
Dunque in sostanza, se ho capito bene (ma è difficile penetrare a fondo nei Misteri dell’Economia, notoriamente una delle discipline esoteriche più indecifrabili, perfino da parte degli stessi iniziati), ogni stato comprerà i propri titoli di debito, ripartendo i rischi relativi in questo modo: l’80% caricato direttamente, il resto così calcolato: 20% da correggere secondo un rapporto rischio-beneficio quantificabile in base al fatto che si partecipa al rischio per una frazione X e si beneficia dell’operazione nella stessa frazione X totalizzando un magico valore 1 che moltiplicato per 20 dà 20 e questo 20, sommato a 80, mi sembra di poter dire con qualche tentennamento, fa 100, quindi alla fine di questo complicatissimo calcolo oserei affermare che ogni stato compra un tot del proprio debito (per un importo pari all’X % di un certo valore sbandierato ai quattro venti) e se ne sobbarca i rischi al 100%.
Questo vale a meno che la BCE non diriga le danze decidendo d’intervenire secondo necessità a comprare i titoli di uno stato anziché quelli di un altro senza compensazioni successive, il che sarà anche precisamente quel tipo di fantascienza che serve ai mercati per intrecciare fantasie erotiche di orge incestuose, ma non mi sembra coerente con i meccanismi della responsabilità delle singole banche centrali né con la concessione alle varie banche nazionali di un corrispondente quantitativo di moneta stampato ex novo. Non si capisce bene, inoltre, con che criteri le varie banche sparse per l’Europa accederebbero al rifinanziamento, come lo ripartirebbero in caso di una struttura multinazionale (non vorrei che quelle banche che, come Unicredit, possiedono filiali in Germania, possano decidere liberamente di passare parte del gesuitico tesoretto stampato in zecche romaniche, ai consociati teutonici) e quali impegni precisi sarebbero eventualmente obbligate ad assumersi per rimettere benzina nell’economia, fermo restando che qualsiasi banca fa piovere sul bagnato e concede l’ombrello solo a chi già ne possiede uno più prezioso.
Morale della favola, quasi certamente gli sciami di soldi stampati verranno sospinti dai venti di procella ai piani alti mentre le nebbie fetide dell’inflazione impazziranno in turbini compressi soprattutto ai piani terra e nei seminterrati.
Si potrebbe però obbiettare che il coefficiente rischio / beneficio che corregge il fatidico 20 dipende specificamente dal rischio paese in quanto una economia sana partecipa a quel rischio in modo maggiore di una economia malata, ma trattasi di obiezione che secondo me non sta in piedi: quale economista saprebbe dimostrare che la deviazione dall’equilibrio perfetto va a vantaggio dei deboli invece che dei forti? Il fronte dei rischi favorisce i deboli, il fronte dei vantaggi i forti: dubito che esista un allibratore che sappia correttamente valutare le quote. Dubito pure che le differenze, ammesso che ci siano, possano risultare effettivamente significative.
Ci sarebbe però da valutare l’incidenza di quegli effetti che in fisica vengono studiati dalla teoria delle perturbazioni, con tutto il suo bel codazzo d’interazioni positive e negative, di effetti che, se non si elidono tra di loro in una guerra fratricida, si sommano e allora possono sommarsi con vari tipi di progressione e risultati seriali: è norma generale che i disturbi che superano determinate soglie accentuino le instabilità che superano altre determinate soglie, ma da rilievi così forzatamente generici si possono trarre molti brividi, ma poche conclusioni.
Comunque sia, la progressione che più piace ai mercati è quella di Fibonacci, non ho mai capito esattamente perché (ma forse, per una buona manutenzione mentale, è consigliabile non capirlo): che a rendere tanto geniale, nelle loro valutazioni, le mosse di Super Drago, sia sbocciata una coincidenza numerologica per cui gli acquisti contemporanei del proprio debito da parte dei singoli stati sviluppano schemi di rapporti reciproci fibonacciabili con qualche ingegnosa trovata? (A proposito di cabalistici messaggi divini: vi concedo una settimana per decifrare i significati nascosti dei numeri 71 e 103).
Se non è merito di certe magie, dove consiste la spettacolarità di un rimedio che qualsiasi stato padrone della propria moneta esegue come e quando lo ritiene utile e opportuno? Se la scienza economica ha sempre valutato tutto ciò al livello di una panacea infallibile, l’uovo della Fenice di Colombo, perché non l’ha detto prima, non tanto a noi popolo bue, quanto ai Venerati Padri dell’Unione in modo che ci pensassero due volte prima di fare la frittata della moneta unica?
Domanda sciocca: la frittata della moneta unica è stata studiata ad arte per spostare quote di decisionalità e di reddito dal comune mortale alle corti orbitanti intorno alle dirigenze imprenditoriali di alto livello e ai vertici burocratici e istituzionali che ne costituiscono la diretta emanazione. Dopo che questo è oggettivamente avvenuto grazie a meccanismi preordinati che hanno fatto apparire le relative opzioni politiche come scelte obbligate e imposizioni di forze superiori, si procede ora alla fase 2 mediante operazioni che, se avranno successo, incanaleranno la quasi totalità della ricchezza aggiuntiva nelle fasce privilegiate o avvantaggiate, consentiranno una sopravvivenza appena appena dignitosa a quelle medio-basse e proietteranno sotto i limiti tecnici della povertà quelle frange necessarie a costituire l’esercito di riserva che tiene basso il costo del lavoro e la cui esclusione dai consumi viene ritenuta una misura sufficiente a fronteggiare i rischi climatici e ambientali.
In effetti la gesuitica genialità del signor Draghi (miracolosamente accoppiata a una leonardesca, ma non boffiana, santità francescana) appartiene a quel genere perverso che fa mugulare infallibilmente di squassanti orgasmi metafisici la immensa, grande, media, piccola e infima nobiltà.
Che nel 2015 si possa riversare nelle casse di un sistema finanziario, primo responsabile di tutto il grande pasticcio, denaro fresco che appartiene a tutti e soprattutto a precari e indigenti (che dall’aggiunta di moneta totale si vedono sottrarre una quota preventivamente imponderabile di potere d’acquisto dal massimo peso marginale, senza adeguate compensazioni in termini di rivalutazioni patrimoniali in senso lato) configura uno scandalo economico che di sicuro incuriosirà il Dio Programmatore che sta sperimentando in corpore vili.
La malvagità di Draghi, dei vaticanisti plaudenti e giubilanti e dei loro burattinai diventerà probabilmente proverbiale, anche se forse passeranno alcuni anni durante i quali la maggioranza sarà portata a santificarLi per qualche frazione di PIL in più.
Non si tratta purtroppo di aberrazione etica, niente che coinvolga la moralità e l’integrità di una persona, nessuna depravazione facile da identificare e circoscrivere, nessuna forza nemica certificabile e definitiva con cui fare i conti una volta per tutte. Magari fosse così semplice! No, come al solito, il nocciolo della questione riguarda il movimento inesorabile di una enorme massa d’inerzia culturale la cui preponderanza consiste nell’inviolabilità di diritti e privilegi che si autogiustificano in base al fatto elementare della loro esistenza: è il morbido, ineffabile, avvolgente dispotismo dell’etichetta di corte che appone su ogni realtà il marchio a fuoco dei suoi bizantini ghirigori, godendo esteticamente ed esistenzialmente di una gratuità che si radica nella sicurezza di una tradizione e quindi nella repulsione per l’esperimento e l’avventura.
Ovviamente la tecnica pubblicitaria del rovesciamento (per cui, se un prodotto presenta un difetto importante, se ne magnificheranno doti che, implicitamente e più o meno alla lontana, presuppongono l’assenza di tale difetto), interviene prontamente a imbrogliare le carte: non è stolido conservatorismo la base di certe decisioni, tutto il contrario, è il rifiuto della pigra e bolsa banalità di un assistenzialismo che snerva e avvilisce le persone, è lo squillo di tromba che risveglia la combattività creativa di un popolo sano.
Le banche traboccanti di liquidi, le quali possono sbolognare i titoli improduttivi ultimamente acquistati (dopo che erano state avvertite di farlo, perché al più presto sarebbe avvenuto il drenaggio) e nel frattempo trovarsi rivalutati i titoli acquistati a interessi superiori, le banche ritornate floride nonostante la mole di crediti pericolanti, rivitalizzeranno l’economia.
Certo, ma quale economia: quella medio e bassa della vera impresa di rischio che, sostenuta con dilettantesco azzardo senza garanzie reali e quindi dotazioni già esistenti, rimpinguerebbe di sicuro il volume delle sofferenze o quella garantita automaticamente da posizioni di monopolio o oligopolio oltre che da interessenze incrociate, scatole cinesi, incesti azionari che sigillano sempre più la circolazione della ricchezza in traiettorie chiuse comunicanti in modi arcani ed esclusivi?
Il rischio aziendale in una economia globalizzata, come ignorano o fingono d’ignorare i politici, ma sanno molto bene i banchieri, salvo coincidenze fortunate comunque minoritarie o densità di capitale e plusvalori talmente bassi che in realtà l’azienda interessata produce soltanto mansioni e servizi basati su presupposti di sfruttamento e quasi schiavismo (spesso auto-inferti dai titolari medesimi oppure sinistramente denominati ‘mondo cooperativo’), non è gestibile se non attraverso il condizionamento del mercato tramite intese e raggruppamenti dall’architettura subdola e intricata. Questi risultano condizionanti al punto che solo con un sofisma illusionistico si continuerà a definire economia di mercato quella che consta in effetti nella frammentazione privatistica di uno statalismo economico in cui le decisioni governative dipendono da un complicato intreccio di consigli di amministrazione collegati a cartelli e consorzi di grandi corporation ammanicate con gli alti gradi burocratici.
Comunque si deve concedere al GOSS (Great Oligarchic Synergic System, organizzazione passibile di una grossolana, ma immediata e pertinente esegesi secondo il dialetto meneghino) il riconoscimento di una metodica scaltrezza, gelidamente scandita attraverso performance finanziarie dall’incedere sistematicamente programmato, secondo il quale, per esempio, non si può svalutare l’euro se prima non si è data una bella ritoccata al ribasso ai prezzi del petrolio, dato che i costi energetici nelle nazioni importatrici variano inversamente al valore della moneta sui listini internazionali. Movimenti del genere comportano ovviamente un formidabile lavorio di accordi sotterranei ai massimi livelli (di un tipo che assomma in sé l’intera quantità e sostanza di quel residuo di valenza politica che non si gioca sui tavoli della pura competizione economica), decisioni d’importanza esclusiva e capitale di cui quello zombi che è ormai diventato l’elettore comune non sa e non capisce un accidente di niente.
Non tutte le macroscopiche parti in causa sono chiamate a partecipare o viaggiano di comune accordo e l’identità nonché l’estensione degli esclusi in genere si desumono dalle loro reazioni, più o meno consenzienti o indispettite e soprattutto da segnali di dissenso e contromosse che facilmente manifestano i caratteri insidiosi degli azzardi bellici e terroristici, vedi Ucraina e califfati. Per i più pragmaticamente attendisti o imperscrutabili fino alla parabola zen o confucianamente scaltri, le reazioni possono arrivare qualche mese in ritardo, il tempo di valutare la sincerità delle promesse e l’efficacia dei propositi della Vecchia Arpia, la decrepita Europa onusta di glorie ammuffite.
Quello che rimane difficilissimo da decifrare, oltre che il bilanciamento delle concessioni in un contesto in cui i benefici sembrano arridere a particolari settori continentali, riguarda le contropartite concesse a potentati planetari come le Sette Sorelle diventate quattro virgola qualcosa e gli interessi strategici anche governativi (ma attualmente antieconomici) legati all’olio di scisto e alle sabbie bituminose. Naturalmente si può anche sospettare che certe influenze siano in fase di smantellamento o comunque di riposizionamento (un cambio radicale nelle politiche energetiche e nelle scelte tecnologiche da privilegiare?) oppure che il pericolo degli effetti domino legati a certi clamorosi fallimenti (!) venga ritenuto talmente deleterio per l’economia mondiale da spianare la via a certe malleabilità perfino sorprendenti.
Ci si può avvicinare molto a certe sorprendenti verità, solo quando non si è obbligati a essere ottimisti per esigenze di popolarità o di stipendio.
Tuttavia, comunque la si rigiri, tengo a ripetere che non si può accusare di malvagità coloro che, noblesse oblige, trascurano il gioco al massacro in cui si sta trasformando la bruta massa preponderante dell’economia di medio e basso livello tendendo a infiltrarsi lentamente verso l’alto: essi azionano imperativi categorici e schemi culturali delle Grandi Scuole, che insegnano prima di tutto l’autonomia e il dover essere del comando (su implicito mandato dell’Altissimo) rispetto a una realtà che da esso è supposta dipendere, al massimo potremmo prendercela con quei politici che hanno avuto esperienza diretta del carnaio in base ad attività specifiche o a esperienze familiari, ma perché dovremmo? Trovarsi un posto al sole non è il desiderio di tutti anche se per farlo si deve cambiare la pelliccia e anche la pelle?
Sfruttamento, schiavismo: i kolibiani sono forse impazziti? Hanno perso il senso della misura? O forse sono tutti gli altri, i non kolibiani, ad aver perso il senso della prospettiva? Si sa che tutti gli stravolgimenti sociali cominciano con la pretesa dei soldati semplici di fare gli ufficiali e terminano con la pretesa degli ufficiali che i soldati semplici, a parità di trattamento, rendano ciascuno per tre. Alla fine si tratta di leggere correttamente le linee di tendenza e dove ci conducono. I grandi alibi e i formidabili atout dell’aristocrazia traggono linfa e vigore dal tenore medio di vita ricalcolato in seguito alla caduta di tutte le frontiere nazionali e dai suoi riflessi, prima che sulle concrete pratiche amministrative e giurisdizionali, sulla percezione istintiva dello status sociale, sulla intuizione subliminale della struttura dei diritti, sul giudizio intorno a ciò che è giusto, accettabile, normativo in sede economica e sociale.
Nessuna rendita di posizione è mai stata, oggettivamente e senza specifiche volontarietà, più comoda e lucrosa: più le cose in giro per il mondo vanno male e più le pretese della gente e quindi i costi del comando si ridimensionano, ovviamente finché non si supera un catastrofico punto di rottura che ognuno valuta confusamente in base al proprio ‘concetto’ (in realtà inesistente, un puro campo vuoto di speculazioni simboliche) di Dio.
Aggiunte del 26 febbraio 2015
L’intero testo (in qualche misura), ma soprattutto la parte aggiunta alla bozza del progetto vero e proprio, sono concepiti in forma di pamphlet, con caratteristiche polemiche che annaspano da qualche parte tra lo sberleffo acido e il teorema filosofico. Mentre un saggio vero e proprio in genere si legittima grazie a una certa quale implicita autorevolezza dell’autore, sostenuta dalla citazione di una centesima parte (volendo essere generosi) della bibliografia di riferimento e corroborata da una prudenza professionale che, evitando di irritare e prevaricare, sfuma ogni tesi forte e ultimativa arrivando a volte ad annacquare perfino le ovvietà, un pamphlettista può considerarsi libero da certi scrupoli metodologici e godere dell’immensa libertà che, scrivendo cose intelligenti o stupide, deriva dal non doversi sentire né saggio né nobile né serio né equilibrato né responsabile né irreprensibile né pagato, ma solo autore di cose pensate e scritte, intelligenti o stupide. Un rifiuto netto, sia della solennità pontificale, sia della ipocrisia diplomatica, segnerà allora una preventiva presa di distanza non dalle tesi esposte, ma da una lettura superficiale in un senso o nell’altro. Naturalmente si possono instaurare vari tipi di scarti, discrepanze o tensioni tra la confezione e quello che contiene, ma tutte queste sono tematiche che, se ancora risultano abbordabili per i corrieri postali, appaiono inammissibilmente astruse a quelli che oggigiorno maneggiano con profitto la merce intellettuale. Mi auguro soltanto che costoro, dovendo escludere, per un sano principio di economia, l’ipotesi che una nullità qualunque possa ergersi a credibile profeta di sventura, non si siano imborghesiti al punto da non apprezzare i risvolti umoristici di una sua eventuale verità. Considerando che, nonostante il record assoluto di sofferenze che ha prodotto e produce, Homo SS può verosimilmente aspirare alla predilezione di Dio grazie al titolo di specie più comica e divertente della Terra, forse non dovremmo sottovalutare troppo certi strani buffoni. (W.Binda)
L’ora dei resoconti si avvicina, ma già è scontato che non ci sarà sentenza finale, epigramma da incidere, testimonianza da affidare, nessun lascito che conferisca un senso a qualcosa o a qualcuno oltre la dolcezza o lo strazio del sentimento vero solo se indicibile, dello squarcio assolutamente muto, nessun traguardo raggiunto o da fissare sotto un arco immobile: solo questo strano sogno di occhio simbolico, infinitesimo cristallo di ghiaccio che rotola nel vuoto, le intermittenti pulsazioni di sbigottimento per l’irruzione inconsulta della totalità che lo attraversa e si allontana.
Ho cercato di capire, ma non ho risolto neppure la premessa di base: se cioè capire o non capire faccia qualche differenza.
Comunque il tempo è volato ed è già quasi ora di ricominciare da capo in un altro universo.
Nota del curatore. Di R.Z. si parlò diffusamente anche per il ventilato progetto di una Biografia Intellettuale di Anonimo1 da intitolarsi ‘La biografia intellettuale di Anonimo1’. La mancata redazione di un’opera tanto spasmodicamente attesa, quasi in dispregio dei pressanti solleciti provenienti dai settori della cultura mondiale più perspicace e ricettiva, è stata variamente commentata. Al curatore della settantunesima edizione della presente antologia sembra opportuno parafrasare una generosa ‘confessione’ che ebbe l’onore di ricevere (in camera caritatis!) dalla viva voce del gagliardo Zampetta. Quanto segue è ricostruito a memoria cercando di conservare e precisare il senso del discorso.
“Anonimo1 fu uomo troppo classico e apollineo per i miei gusti – mi disse in una saletta appartata del Grand Hotel che ospitava il congresso intitolato ‘Il kolibiano ti dà una mano’, negandomi peraltro l’intervista che avrei desiderato – e naturalmente troppo ottimista, come ammetteva egli stesso con lodevole onestà. Il suo pessimismo è di primo livello, del tipo cioè che tutte le persone intelligenti e sufficientemente analitiche condividono da un pezzo (l’ottimismo è ormai merce avariata che i politici disonesti spacciano sotto fragranti croste dorate come droga tagliata male per abbrutire le menti). Non basta reagire fisiologicamente davanti alla complessità ingovernabile e registrare la tenace resistenza del malaffare e dell’egoismo economico che, droga o non droga, troveranno sempre il modo di attirare l’egemonico talento per una sopravvivenza qualunque lontano dai soli antidoti possibili, quelli delle soluzioni razionalmente ovvie e praticamente difficili. Occorre scavare più a fondo negli altri e in se stessi, rintracciare le radici del male per come attecchiscono in ogni rappresentante della specie umana, nessuno escluso, i semi antropologici di quelle leggi storiche inesorabili che guidano l’instancabile e proteiforme astuzia del potere mentre si riproduce immutabile nell’oro come nella merda.”
Provai a obbiettare che secondo me A1 aveva posto più di una pietra miliare al riguardo, ma mi stoppò con un gesto insofferente e annoiato: “A1, troppo influenzato dall’ortodossia liberale, considerava ancora l’individuo come una categoria ontologica sostanzialmente emergente rispetto alle caratteristiche zoologiche della specie, una forma di spiritualismo laico. Invece l’individualità, la cui accentuazione è la sola caratteristica ‘nobile’ di Homo SS, risulta dalla modulazione infinita di una tonalità di base che è polimorfa quanto è consentito dalle differenze genetiche intraspecifiche e dai concomitanti influssi ambientali, ma si organizza macroscopicamente in blocchi di poche contrapposizioni schematiche in ogni compartimento delle quali confluisce e si livella una grande varietà di distinzioni. L’individuo esiste soltanto in un ambito d’interazioni molto ristretto, allargandosi il quale vengono rapidamente a predominare caratteristiche soggette a processi di metamorfosi trascendente, a una causalità impersonale che ognuno avverte e traduce in un riecheggiamento istintivo e simbolico: tale apprensione intuitiva, perlopiù oscura e incomunicabile, sarà a sua volta amalgamata e rimaneggiata secondo standard e modelli culturali, istituendo così una circolazione incessante e incontrollabile d’istanze fenomeniche e reazioni comportamentali.”
Personalmente rimango dell’idea che A1, padre ispiratore di tutti i kolibiani, avesse già implicitamente colto e approfondito nella sua opera le tematiche appena esposte, ma voglio esimermi dall’interpretazione maliziosa che forse R.Z. preferì sviluppare autonomamente certe idee più che desumerle da una esegesi dei testi altrui…
In Politica, Economia e Finanza, un qualsiasi movimento si manifesta per quello che è e nient’altro di quello che è appena quel tanto che basta per inibire a profani ed esclusi dai club il sostegno di un semplice modulo interpretativo basato sullo scetticismo e la sfiducia assoluti, formula esprimibile come ‘In Politica eccetera tutto quello che avviene è diverso da quello che appare’.
Sono convinto che, se uno studio scientifico riuscisse a quantificare in percentuale le bugie dei detentori (in presa diretta, differita o registrata) di pubblici poteri importanti, si scoprirebbe che, come gli allarmi fasulli (gli equivalenti del grido ‘Al lupo! Al lupo!’) lanciati da animali che intendono sviare il branco o lo stormo a cui appartengono da una fonte di cibo di cui approfitteranno conseguentemente in esclusiva, le falsificazioni mostrerebbero una frequenza di circa una volta su tre.
Purtroppo la specie umana vanta prerogative di selezione e ordinamento gerarchico e categoriale che le altre specie non possiedono, sicché i suoi più esimi rappresentanti dispongono della possibilità di concentrare in quel 33% le inerenze più importanti e spinose.
Ogni politica pubblica di sostegno all’economia privata è un controsenso: l’economia privata deve marciare sulle proprie ruote e lo stato deve semplicemente mettere paletti, recinti e barriere perché sconfinando non colpisca gli interessi fondamentali di ogni membro della comunità.
Il mercato del lavoro può essere lasciato a se stesso, se lo stato viene concepito come struttura produttiva primaria scientemente elaborata non per generare profitti, ma per coprire le necessità inderogabili di ogni membro.
Nel concetto di uno stato-azienda finalizzato a un benessere organico e costruttivo non c’è niente di contraddittorio, irrazionale o utopico ma, qualora ci fosse, riguarderebbe soltanto l’abbattimento delle resistenze opposte dai grandi interessi consolidati attraverso dinamiche storico-darwiniane prive di ogni necessità logica.
Vale invece il contrario: considerare inammissibili i concetti appena esposti, significa confidare in leggi metafisiche che configurino in modo ottimale i meccanismi della domanda e dell’offerta, quando invece è più che evidente che la domanda viene artificialmente manipolata dall’azione squilibrante e autocatalitica delle concentrazioni di capitale e dai poteri di allettamento e persuasione che vi si connettono, mentre l’offerta è sempre in qualche misura autoreferenziale, tutto ciò senza che niente e nessuno possa intervenire dall’esterno con un’azione effettivamente correttiva che non sia anche troppo severamente repressiva.
Dividere il mondo di un superfluo vigilato da quello di un essenziale programmato, previa sapiente progettazione ad hoc, non cozza contro nessuna legge, economica o anche più generale, mentre non farlo contravviene ai limiti fisici imposti dalla Natura ed evidenzia le incongruenze palesi di una crescita illimitata.
Come giudicare una politica ossequiosa al mondialismo impazzito che, invece di ridisegnare su base nazionale l’intera dinamica degli investimenti, della produzione, dei consumi e dei redditi (anticipando quell’azione che di qui a poco potrebbe diventare necessario universalizzare), spiana la via a superpotenze nominandole arbitri effettivi del destino di un popolo, capaci di deliberare al suo posto sull’uso delle risorse interne e sulla politica estera, azioni militari incluse?
Salvo vertiginose rivoluzioni degli attuali paradigmi scientifici (che ogni testa d’uovo dà per scontate senza spiegarne il motivo e che in effetti scontate non sono per niente) tutti gli elementi necessari al modello occidentale di espansione economica sono prossimi all’esaurimento o comunque nella fase di appiattimento della curva: il ritorno tecnologico degli investimenti; i mercati immaturi da colonizzare e convertire al Verbo economista; la capienza, tolleranza e generosità della superficie terracquea; la compressibilità del costo del lavoro; gli stessi margini interaziendali di concorrenza reciproca ovvero la resistenza a tensioni che non possono accumularsi indefinitamente.
Resta aperta l’unica opzione espansiva delle esplorazioni e delle conquiste spaziali, la cui dubbia realizzabilità ed efficacia rimane nascosta dietro il condizionamento psicologico di decenni d’immaginario fantascientifico, tolto il quale qualsiasi scommessa in quel senso dovrebbe mostrare sfaccettature a dir poco sinistre.
In realtà, le aristocrazie stanno solo tentando di guadagnare tempo e consolidare posizioni in attesa di quel tracollo che, se non è certo, è ormai giudicato da molti una possibilità tutt’altro che incredibile e remota.
Nonostante abbia potuto beneficiare di una clemenza e benignità che, in base a ricostruzioni di storia naturale, appaiono assolutamente eccezionali (clima più stabile del consueto, assenza di catastrofi giganti piuttosto anomala) la civiltà industriale, in poco più di due secoli, è incorsa in una incredibile serie d’incidenti numerosi e gravissimi, sotto forma sia di depressioni economiche che di sconvolgimenti sociali ed eventi bellici.
Per salvarsi ha dato fondo alle materie prime offerte generosamente da eventi geofisici (come il super-pennacchio del Cretaceo, che speriamo non diventi in prospettiva una metaforica super-pernacchia) e al progresso scientifico e tecnologico per quanto abbia potuto tradursi in efficienza dell’automazione aziendale e delle organizzazioni a essa correlate, sprecandone una buona parte in trombonate di pura superfluità, dissipando moltissimo nei circuiti collaterali della finanza, della pubblicità, della politica clientelare e del lusso fine a se stesso, proliferazione diventata ora perfino preponderante, ascesso cancerogeno che soffoca le antiche democrazie.
Intanto, le ultime novità in tema di grandi paradigmi scientifici, a parte continui affinamenti di dettaglio e speculazioni sempre più vertiginosamente astratte, risalgono a più di mezzo secolo fa e la rivoluzione elettronica e informatica si può ritenere ormai vicina all’esaurimento.
La principale fonte di energia ‘rinnovabile’, il bacino idroelettrico (la cui incidenza gonfia le statistiche che rassicurano i paladini delle energie ‘pulite’), si sta rivelando non tanto rinnovabile come si pensava, oltre che distruttiva di equilibri e cicli naturali preziosi, e lo stesso vale per tutte le altre alternative tecnologiche all’uso di idrocarburi.
La fine dell’era petrolifera è ormai segnata ed è possibilissimo che non esista alcuna alternativa completa al nucleare (fissione o fusione) e agli enormi rischi e investimenti a esso connessi, fermo restando che qualsiasi generazione di energia eccedente limiti già molto vicini rappresenterà un rischio capitale a prescindere da come venga generata.
Comunque, dopo decenni di dibattiti e polemiche intorno alle politiche energetiche, la maggior parte della gente non ha ancora capito che il punto cruciale non riguarda la specifica tecnologia adoperata, bensì la circolazione complessiva dei suoi prodotti e come ne sarà coinvolta l’intera organizzazione sociale della macchina produttiva compresa la messa in atto di controlli veri ed efficaci.
Moltissimo dunque dipenderà dai tipi di monopoli o oligopoli che necessariamente si creeranno, se pubblici o privati. Le nazioni che già condizionano pesantemente il sistema economico mondiale e che, per favorire il consorzio di multinazionali e primari investitori che controllano i membri dei loro governi, hanno già trovato il modo d’impedire, attraverso organismi internazionali opportunamente camuffati e il ricatto dei cosiddetti mercati, qualsiasi autentica autodeterminazione delle singole nazioni, piloteranno le scelte in modo da escludere i poteri pubblici e insediare i poteri privati, dopo di che si vedrà il volto imprevedibile e sotto molti versi sorprendente del Grande Fratello Neo-colonialista.
E’ comunque incredibile che, complice anche l’invecchiamento della popolazione e il relativo persistere per inerzia di pregiudizi e luoghi comuni culturali, ma anche per un concetto di libertà fasullo o comunque troppo rozzo e approssimativo che ipnotizza i giovani, non ci si accorga che la mole enorme d’infingardo opportunismo, parassitario conformismo e stolido, truffaldino semplicismo che permeavano una concezione ideologica e clientelare della cosa pubblica, tale viscido blob si è riversato sulle concentrazioni del potere privato e sulla sua obbediente corte di funzionari partitici.
Del resto quanti milioni di persone, pur menando la loro esistenza in prossimità del confine di una miseria sempre incombente, sono accorsi entusiasti a comprare i simboli esteriori del benessere e del prestigio accettando di pagare quelle assurde percentuali di ricarico che oggi si trovano alla base d’immense ricchezze?
E quante ditte sono fallite o hanno dovuto mettersi nelle mani avide dei restauratori per pochi mesi di ritardo nella presentazione di un prodotto (ritardo dovuto magari a uno scrupolo di perfezionamento inteso anche come segno di rispetto per il futuro cliente) oppure per minime caratteristiche estetiche negative in una configurazione, a volte solo esteriore e promozionale, di prodotti trascurati ingiustamente dalla domanda?
Gli agenti e i fautori di qualunque grande sistema possono assolversi se contravvengono agli imperativi della razionalità, ma tale indulgenza ha senso soltanto se credono in una razionalità superiore a loro favorevole, all’arbitrato di quel Dio che apprezza soprattutto la semplicità e la serenità dell’animo, doti che, guarda caso, non dispiacciono affatto a commissari di gara che così possono orchestrare indisturbati eleganti gimkane di bikers sciamannati.
Tutta la spregiudicata scaltrezza dell’Occidente si fonda su un fideismo da figlio unico coccolato e viziato.
L’integralismo islamico violento è senz’altro un’opzione sinistra, sgradevole, potenzialmente pericolosa e peggiorativa, ma non può essere giudicato inferiore dall’etica liberista e aristocratica. Sotto il punto di vista di una congruità e coerenza generale degli assetti umani è semplicemente un’altra cosa: se vincesse, non saremmo autorizzati a registrare nessuno ‘scandalo storico’ o compromissione ulteriore di una ‘reputazione della specie’.
Lo spirito borghese, piccolo, medio e grande, si potrebbe riassumere malignamente in attitudini e inclinazioni, contraddistinte da laboriosità e desiderio di bene apparire, che costringono maggioranze di persone a una condizione non molto lontana da un’autentica schiavitù soltanto per permettere a minoranze ben vestite e pettinate di riempire la casa di ninnoli assurdi, partecipare alle pacchianerie festaiole più ridicole e demenziali, visitare distrattamente le plaghe più remote giusto per poter dire di esserci stati (ignorando e anzi distruggendo le bellezze vicine), recitare a ciclo continuo la grande commedia sociale della chiacchiera fine a se stessa, quella in cui ognuno racconta il proprio florilegio di banali aneddoti e convenzioni accettate come fossero una grande epopea dello spirito e per ogni centesimo di argomenti interessanti a malapena sfiorati si sperperano decimi su decimi di moine, carinerie e birignao cortigiani, volonterose seduzioni intese a procacciarsi la merce preziosa, intasata in circoli chiusi scarsamente comunicanti, di benevolenze e simpatie reciproche.
Il tutto avviene nel rigoroso rispetto della scala lucidata a specchio dei valori supremi, che promuovono cose pericolose, ma prospetticamente indispensabili, come la spregiudicatezza e il non conformismo con parsimonia e cautela estreme e soltanto quando hanno ricevuto l’imprimatur della benevolenza divina, ovvero quel cono di luce della grazia gloriosa che, se non si nasconde in seno a esseri umili e schivi, risplendendo quieta nell’appagata confidenza della rassegnazione, si rivela soltanto attraverso la buona sorte di un patrimonio ereditato e/o il sigillo del successo professionale.
Malauguratamente, questi ineccepibili rilievi scadono facilmente nella stolida gratuità massimalista, se non si riesce a proporre qualcosa di effettivamente alternativo all’implacabile borghesismo imperante che non sia anche foriero di estremismi e durezze intollerabili.
Il problema di base si esprime attraverso la seguente domanda: lo stato attuale delle potenzialità scientifiche e tecnologiche consentirebbe effettivamente un livello di libertà e qualità della vita accettabile, duraturo e uniformemente diffuso (oltre che rispettoso di ricchezze ed equilibri naturali), se tutti, in cambio sia di un impegno che di una libertà adeguatamente programmati, rinunciassero ai lussi superflui e assumessero l’atteggiamento di una comune intelligenza progettuale come autentico e specifico fattore di distinzione della condizione umana in sostituzione di un sacco di vane e anche un po’ cretine ideologizzazioni mitologico-religiose e di parate zoologico-tribali?
La risposta riguarda la possibilità d’instaurare un tipo di antropologia che non sia semplicemente una forza temporaneamente vincente dell’evoluzione biologica, ma il fatto che non venga neppure posta rivela che l’umanità è una forza temporaneamente vincente dell’evoluzione biologica e nient’altro.
Abbiamo utilizzato male i nostri poteri o siamo semplicemente qualcosa di implicitamente incongruo, scombinato, antinomico?
Purtroppo la risposta più influente spetta a signorotti che non hanno mai vissuto una vita più comoda e soddisfacente in più di diecimila anni della storia umana.
Avete mai notato come costoro s’inalberano quando qualcuno manifesta giudizi e visioni negative sul comportamento umano nella sua sostanza e nella sua generalità? Si compie un vero e proprio reato di opinione, il vilipendio alla religione consiste in effetti, per loro in quanto arbitri e selettori della pubblica opinione, nel parlare male dell’umanità.
E’ strano, soprattutto se si ragiona sull’individualismo estremo che domina nella spietata lotta per il predominio gerarchico e sovrintende agli avanzamenti di carriera.
La classe dirigente pratica attivamente l’egoismo sociologico e l’individualismo economicista e questi si rivelano in tutto e per tutto darwiniani, basta sostituire la lotta per la vita con la competizione per conquistare la carica o il contratto, la sopravvivenza con una vita degna, i caratteri fenotipici con le caratteristiche socialmente spendibili, i coefficienti di fitness con la intelligenza manipolatoria, la pressione dell’ambiente con i valori e gusti da condividere e compiacere: adattamenti e schemi selettivi si assomigliano per analogia delle logiche e delle dinamiche fondamentali, né si vede come, rinunciando ad assetti definiti genericamente ‘utopici’, potrebbe andare diversamente.
Certi meccanismi non sono neanche tanto difficili da capire: l’umanitarismo e il deismo fungono in realtà, secondo i casi, da rituali di corteggiamento o di combattimento e più specificamente da rete di salvataggio o polizza assicurativa. Il sottinteso che vi domina, artefatto fino al puro e semplice inganno, manda un messaggio che nei termini arcaici delle aristocrazie guerriere potremmo formulare così: è vero, usiamo masse di uomini come bestiame per sacrifici e offerte votive, ma la nostra è una missione comandata da principi ultraterreni per fini superiori. Noi uomini di potere non manifestiamo mai una egoista e crudele demenza, al massimo sbagliamo a interpretare il linguaggio celeste.
Tradotto nei termini delle moderne plutocrazie, il sibilo subliminale, che in particolari condizioni può essere mantenuto alla lettera, al suo massimo livello di trasfigurazione democratica, diventa: è vero, le nostre possibilità di successo sono più alte della media e le regole delle partite non sono neutrali, ma, dopotutto, carissimi fratelli, ciascuno di noi sta lottando per obbiettivi che tendono a beni tutto sommato superficiali e secondari, i riferimenti e gli scenari che contano, che autenticamente fondano il senso e il valore delle nostre esistenze, sono altri e concernono affetti sinceri, sentimenti profondi, orizzonti metafisici.
Il che potrebbe anche risultare accettabile, se la cultura dominante non finisse per appiattirsi gradualmente e inevitabilmente sui diktat imposti proprio dalle necessità sempre più lievitanti delle aristocrazie che impongono la frenesia produttivistica per consolidare le proprie posizioni e moralismi fanfaroni per disarmare le velleità ribellistiche e le rabbie insorgenti, soprattutto quando la favola di epifanie dietro l’angolo e nuove età di benessere diffuso cominciano ad apparire meno credibili come incitamenti a tirare la cinghia.
Si tratta insomma dei soliti specchietti ideologici per allodolare gli ingenui e al tempo stesso disarmare l’aggressività dei meno ingenui.
Stiamo scandendo i soliti ritornelli vetero-marxisti, la cultura come sovrastruttura, i meccanismi primari nascosti sotto le fumisterie della cattiva coscienza, la porpora vescovile come necessario complemento dello scettro del principe eccetera?
E se anche fosse? Le pecche del marxismo non consistevano nella pars destruens, pressoché inconfutabile e sostenuta da controprove innumerevoli, almeno a grandi linee e sotto un profilo non specialistico, ma nella pars construens, assolutamente mitologica.
Sì, ma soprattutto, direi, in quell’obbligatorio e scalmanato ottimismo che chiamava alla riscossa proprio gli istinti peggiori dell’uomo: l’entusiasmo dello spirito rivendicativo che deve colorarsi di passioni esagerate sostenute dalla convinzioni di assecondare la volontà della Storia e quindi una ennesima forma di Dio, questo mentre il progetto esige freddezza e un disincanto assoluto nei confronti delle potenzialità umane.
I rivoluzionari arruolati come soldati semplici e sospinti dagli empiti del cuore tengono già in tasca il cartellino di assegnazione al prossimo ruolo di schiavi.
Sulla roulette della passionalità santificata importi enormi sono stati puntati da tutti i più variopinti poteri del mondo.
La base della religione, della morale, del rispetto per il prossimo e per le istituzioni consiste nell’oculato realismo dell’uomo cauto e pragmatico che non ha mai neppure preso in considerazione con sincerità e serietà l’evenienza di avvicinarsi a qualcosa di autenticamente mistico e profondo: se lo avesse tentato in modo non superficiale ed effimero, quindi con la giusta attrezzatura di strumenti euristici e sensibilità concettuale, avrebbe sperimentato la bruciante evidenza dell’inadeguatezza e del fallimento al punto da non potersi più esprimere se non nei modi di un tecnicismo funzionalista: la scienza vera e profonda, quella degli Einstein e dei Dirac, dei Godel e dei Turing, degli Schroedinger e dei Feynman, comincerebbe a parlargli il linguaggio della rinuncia ascetica, della ricerca teologica condotta in base alle regole stabilite da Dio e non alle sospette invenzioni dell’Uomo.
Analogamente, le riforme veramente incisive e decisive avvengono soltanto dopo grandi sconvolgimenti, quando una vecchia classe dirigente decimata e traumatizzata e una ancora potenziale, priva di agevolazioni e privilegi da conservare, si accordano per mettere in cantiere quegli assetti che i movimenti di popolo possono nebulosamente esigere, ma mai concretamente immaginare e realizzare.
Cuore a destra e intelligenza a sinistra, è questo clima che pervade il motore segreto delle trasformazioni epocali, laddove il cuore a sinistra e il cervello a destra rappresentano insieme il mood topico, puramente edonistico, che astutamente rientra nel corredo ideologico e nel campionario culturale adottato dalle politiche egemoniche come strumentazione tutt’altro che secondaria per consolidare la tenuta del comando in quei periodi di ‘ordinaria amministrazione’ che, entropicamente parlando, coincidono con quelli di metodica e pacifica distruzione.
Cuore a destra e cervello a sinistra: la locuzione rappresenta un atteggiamento abbastanza antitetico rispetto alle naturali predisposizioni femminili (tendenti all’armonia e alla concordia dell’assetto tribale, ma legate anche a filo doppio al realismo imposto dalle cure materne e familiari in un accampamento circondato dalla natura ostile), il che non guasta affatto, non va inteso come denigrazione del contributo delle donne, si tratta invece di valorizzarlo invitando quel pragmatismo nutrito di affettività sincera che vi è implicito a riconoscere che un’azione di forzatura da parte delle convinzioni razionali sull’intuito non può fare che bene al fine di un’azione difensiva e ristrutturativa efficace priva di fanatismi e lussurie mitologiche.
Occorrerà però sgombrare il campo da quel tipo di odiosa protervia che s’incarna in modo paradigmaticamente aggressivo in un certo tipo di ‘donna arrivata’ (il maschio, poverino, in una società schizofrenica che esige la crudezza dispotica del killer avvolta nelle cerimoniosità sdolcinate del ciambellano eunuco, e viceversa, può avvicinarsi a quella sicumera autocompiaciuta soltanto in misura inversamente proporzionale a quel miscuglio di intelligenza e sensibilità che potremmo definire genericamente come perspicacia, il che è sempre un freno, anche se meno di quanto si potrebbe desiderare).
Cuore a destra significa nostalgia irriflessiva e ingenua per l’eroismo avventuroso e l’individualità schietta ed esplicita, un sogno di fedeltà e lealtà verso una causa comune, di virtù tradizionali depurate dal fanatismo dell’ignoranza, una possibilità effettiva di liberazione incondizionata, l’esercizio di forze istintive iscritte automaticamente in un sistema di valori oggettivi, il regno mitico di una libertà creativa che contiene naturalmente in sé i crismi della giustificazione etica, la nobiltà del sangue come dono incomparabile da onorare con il sacrificio e il dovere se non si vuole sfidare la giustizia divina che l’ha prodigato.
Cervello a sinistra: spregiudicata analisi dei condizionamenti esistenti, delle carte sempre perennemente truccate per l’ingiustizia delle condizioni al contorno, la consapevolezza di una complessità che tallona invisibile ogni essere umano ed è come se si divertisse a turlupinare i migliori propositi, disincanto per la prevalenza del ruolo e degli interessi in ogni assetto morale che al massimo può fungere da traccia regolamentare, la rassegnazione all’incompleta conoscenza di sé, dei propri intenti, delle proprie ragioni, il dovuto rispetto per il diffidente realismo che cronaca e storia esigono di mantenere intorno alla specie homo sapiens sapiens.
L’uomo dal cuore al centro nega le differenze, per lui non esistono specificità e incompatibilità, tutto quello che si allontana dal punto di equilibrio in cui si crogiuola rientra nelle categorie dell’eccesso e dell’anomalia, la morale è prima di tutto certezza dei riferimenti e conformismo del quieto vivere, l’apparenza è un disegno preciso del profondo e tutta la bellezza consiste negli arabeschi delle superfici, non è necessario comprendere e interpretare alcunché che non sia facilmente raggiungibile dall’intuito, per lui le forme sociali ubbidiscono a leggi universali e non possono discostarsene pena la sofferenza e il disordine, il valore assiomatico dell’uomo è garantito da Dio e Dio è garantito dal valore assiomatico dell’uomo, non è mai una questione di buona fede e malafede poiché l’interesse è una manifestazione spontanea del bene cosmico e induce quell’alacre industriosità che è il senso comune della vita e il suo significato più solido, sul rispetto del galateo sociologico, i successi della tecnica e l’abilità nella costruzione e nel commercio dell’immagine si fonda una quantità di merito sufficiente a garantire alla singola anima diritti potenzialmente eterni.
Nessun sospetto di metafisico imbroglio, nessuna discrepanza dimostrabile con logica spietatezza, nessuna prova di grave incongruenza turberà mai il cuore che batte risolutamente al centro: è il cuore che ogni bravo amministratore dell’abbondanza vorrebbe possedere.
E’ giusto così, senza simmetrie non c’è regolarità, senza principi di conservazione e canoni d’invarianza impererebbero i grovigli omoclini.
Ma le simmetrie si rompono e si ricompongono più in là, secondo principi organizzativi diversi: quando l’abbondanza finisce, il centro si scompone e cuore a sinistra e cervello a destra (romanticismo vaghissimo insieme ad astuzia circostanziale, amore per l’uomo generico finché non diventa individuo portatore d’interessi estranei, ipocrisia umanitaria e concretezza egoista), quel binomio che dialetticamente mimava soltanto un gioco di fluttuazioni troppo deboli per superare i limiti del bacino di attrazione, si squagliano nella transizione che supera la barriera proibita.
Occorre allora ristabilire una simmetria diversa: è il momento del cuore a destra e del cervello a sinistra.
Alto sul suo destriero, Anonimo 1 dispiega i simboli della Nuova Araldica.
Sia sempre lode e grazie al nostro condottiero.
I dirigenti preposti al funzionamento di un modello utopico, una classe dirigente con il vademecum e il bignamino, priva delle motivazioni di prestigio economico al di là di un’equa retribuzione, decadrebbero nel torpore o nella turpitudine, nella mediocrità o nella corruzione inevitabile?
Alcune osservazioni: per quello che riguarda la corruzione verrebbero meno le fonti primarie ovvero il capitale privato (se, pur ammettendo e anzi incoraggiando l’iniziativa privata, i due ambiti, pubblico e privato, procedessero distaccati e a comportamenti stagni muniti, soprattutto il pubblico, di accessi e collegamenti ben vigilati).
Quanto alla perdita di dinamismo e iniziativa, inviterei a considerare la cronica scarsità d’inventiva della politica in quanto tale, creativa soltanto quando si tratta di relazionarsi alle aree di possibile condizionamento, influenza e disturbo, comunque espresse, nonché l’enorme dispendio di tempo e di energia e la scarsissima resa in termini di bene comunitario implicati nella coltivazione di una rete di pubbliche relazioni che rappresenta l’unico vero investimento fruttifero in termini di successo e di carriera.
Una società che riuscisse a far confluire verso la costruzione di strutture utili e funzionali quella parte predominante di attivismo delle classi dirigenti che, da che mondo è mondo, si è dovuta spendere allo scopo di mantenere il sistema di amicizie, contatti, referenze indispensabili per non farsi schiacciare in un angolo, probabilmente salirebbe di parecchi gradini la scala funzionale.
Il prezzo maggiore che una vera democrazia paga al principio del minor male possibile, il minimax cristiano-hobbesiano, è l’annichilimento preventivo di ogni tentativo di ricostruzione sistematica e radicale della struttura sociale, politica ed economica: esso è visto automaticamente, per riflesso condizionato annesso da secoli all’impianto della fisiologia comune, come un’opzione mai seriamente abbordabile, mentre basterebbe deviare una quota tutto sommato modesta dell’intelligenza che attualmente è impiegata nella ricerca di strategie commerciali e comunicative, con fini tutto sommato manipolatori e di arricchimento privato, per addivenire in tempi rapidi a un ventaglio di modelli concreti e piani di attuazione specificati dall’alfa all’omega, da tradurre in una presentazione aperta a un vaglio elettorale che, se si riuscisse a immunizzare contro la magia nera dei soliti stregoni, per la prima volta sfuggirebbe alla vacuità del formalismo puro.
L’intreccio planetario dell’economia già oggi si trova nell’anticamera dello sfascio totale: se togliamo dall’incremento del PIL complessivo la quota parte corrispondente 1) al semplice conferimento di una vita dignitosa agli scaglioni di 70 milioni circa di homo ss aggiuntivi, 2) alla riparazione di disastri ambientali, cataclismi meteorologici e distruzioni belliche e terroristiche, 3) alla svalutazione dei beni naturali per danni apportati e risorse consumate, 4) alle spese per mantenere e riarmare le forze militari di ogni stato, 5) a cure protratte con accanimento terapeutico e al prolungamento innaturale della vita nel disagio e nel dolore, 6) agli impieghi imputabili a criminalità, corruzione, irregolarità e degrado legati fisiologicamente e indissolubilmente al darwinismo concorrenziale (impieghi intesi sia come costi sociali e del contrasto che come spesa dei proventi riciclati), 7) alle riparazioni mediche di danni da stress e inquinamento e per regimi di vita insalubri e innaturali, 8) a quella quota di lusso pleonastico che, dalla produzione al consumo, rimane sigillato in un circolo chiuso di privilegi assoluti, 9) alle perdite dissimulate nei bilanci pubblici e privati per ragioni politiche o economiche di finanziamento e d’immagine, ovvero alla scorretta valutazione e imputazione dei debiti, dei crediti e delle riserve, 10) agli sprechi, spesso speculativi, nella produzione, conservazione, distribuzione e rielaborazione di un prodotto agricolo, sovrabbondante rispetto al fabbisogno umano totale, che si disperde in molteplici falle e voragini, 11) alle rendite parassitarie della finanza ‘creativa’ lucrate mettendo a repentaglio la sicurezza e la stabilità dei popoli (bomba atomica dei derivati e non solo), 12) alla semplice necessità di sostituire beni durevoli primari, la cui resistenza, seguendo accortezze produttive e di assistenza da gestire con tipologie di economia sociale, potrebbe essere molto maggiore di quanto deliberatamente programma il ciclo produttivo privato, 13) a gadget e abbellimenti del tutto superflui il cui scopo è mantenere stabili i prezzi di prodotti che altrimenti declinerebbero in base alla concorrenza e al progresso tecnologico e organizzativo (come, nell’industria automobilistica, il volante riscaldato e la telecamera posteriore!): che cosa rimane di quel + 3 e qualcosa percento anche se lo correggiamo con gli importi relativi al sommerso, che del resto si fissano anch’essi in un circuito di illeciti vantaggi? Purtroppo non sono in grado di procurarmi i dati per un calcolo preciso, ma chiunque dovrebbe nutrire il sospetto che, se non andiamo e di molto sotto zero, poco ci manca o ci mancherà tra poco.
La mia personalissima impressione è che le variazioni annue del PIL mondiale ‘sano e reale’, ovvero la quota che rappresenta una effettiva modifica della qualità di vita giudicata statisticamente sull’intera popolazione umana con voto capitario (per cui ogni ‘azionista’ del pianeta conta per uno indipendentemente dalle quote che già possiede), si trova già abbondantemente sotto zero anche senza tenere conto degli effetti puramente inflazionistici. Non stupisce che la deflazione stia inesorabilmente avanzando, consentendo agli eserciti di disoccupati e sottoccupati di sopravvivere, ma succhiando intanto il sangue a quella quota effettiva di capitale di rischio già schiacciata dalla mole del capitale monopolistico e parassitario che, per rimpinguare le rendite, conta soprattutto sugli interessi pagati dai paesi tenuti in bilico sulla corda del fallimento senza mai esserne spinti giù.
I governanti dei paesi in bilico, che non siano ignoranti o cretini, prima o poi mangiano la foglia e cercano di passare ai ripari, il che può avvenire soltanto in due modi: o, come il governo Tsipras, minacciando quel fallimento che costringerebbe la finanza internazionale a restituire almeno una parte delle cedole incassate nel corso degli anni (default che, ovviamente, senza un credibile piano B (un dettagliato progetto d’ingegneria generale che non sia un mero bluff), può diventare controproducente, anche perché è difficile che venga accettato invece di costituire un’occasione per dare un esempio che serva a dissuadere da azzardi futuri, come è parimenti difficile che il Tsipras di turno non sia accalappiato nelle vischiose lusinghe del Club Dominante o che già non ne fosse una quinta colonna mascherata), oppure (governo Renzi) alzando le mani e trattando la svendita di una nazione in cambio di tassi sopportabili, il che, diciamolo apertamente senza voler accusare nessuno, riesce molto più spedito e deciso quando a condurre l’operazione si trovano astuti profittatori che intendono riservare una parte del bottino da spoliazione ai propri accoliti. Altre strade non esistono, non serve raccontare frottole, se le bugie hanno effettivamente le gambe corte e i trampoli confindustriali non si adattano alla gente comune.
I trampoli non si adatteranno mai più senza rivedere quasi tutto: fondo stradale, percorsi, raggi di curva, soste, traguardi, tecniche di deambulazione eccetera. Gli automatismi della realtà se ne fregano delle eccellenze decantate in quelle corti aristocratiche che si ritengono olimpi in grado di comandare il destino del mondo, esclusa soltanto e forse una qualità di cui nessun nobil signore si vanta ovvero quella di comprendere la Natura e servirla, quindi di essere effettivamente religiosi al contrario degli atei monoteisti.
Se la presente analisi è giusta (perché naturalmente potrebbe essere sbagliata), non esiste alcuna possibilità, salvo miracolistiche invenzioni della tecnologia e quindi del sapere scientifico, di evitare una imminente (termine che va calibrato secondo un’adeguata scala dei tempi) pandemia di fallimenti per debiti, pubblici o privati, che potrebbe essere scongiurata soltanto rivitalizzando una economia democratica secondo i vecchi ideali dell’utopia liberale, il che mi appare proibitivo o diciamo pure impossibile: richiedendo stravolgimenti autoritari incompatibili con il medesimo spirito utopico, delinea una vera e propria antinomia.
Quando si parla di liberismo invece che di liberalismo non ci si balocca con polemiche petulanze terminologiche, si sintetizza invece il tramonto definitivo di una dottrina politica e dei corrispondenti assetti strutturali, sostituiti da qualcosa che si annuncia fin d’ora come un’abile mistura eclettica di forme ideologiche e istituzionali desunte dai portati rivisti e corretti di quelli che una volta i moderati senza virgolette definivano ‘opposti estremismi’: la forza del padronato non più mitigata o mitigata male dai pubblici poteri e dalle regole del gioco, da una parte, e, dall’altra, il popolo concepito non come forza attivamente impegnata nella propria emancipazione economica, ma supinamente appiattita da direttive autoritarie e quasi sacrali imposte da ceti privilegiati di funzionari e burocrati.
Sarebbe infatti un grave errore considerare gli attuali contesti mondiali come il trionfo di un pluralismo e una flessibilità legati all’economia di mercato, liberati dal duopolio imperiale. L’imperialismo economico e le polarizzazioni egemoniche si evidenziano più vive che mai, le regole del gioco sono dettate dallo strapotere di poche nazioni e comunque da una competitività tra stati e multinazionali (alleati soltanto per quel che serve a specifici interessi legati alla mungitura dei deboli) che rende praticamente impossibile a una singola nazione di organizzarsi in modo realmente autonomo, imponendo modelli esistenziali inadatti a certe caratteristiche geografiche o climatiche e in conflitto con determinate tradizioni storiche, etniche e culturali, il che ammazza, tanto per dirla chiara, qualsiasi ipotesi non puramente formale e accademica di libertà, dei singoli come delle masse, e quindi di liberalismo.
La pianificazione più o meno nascosta messa in atto ogni minuto secondo dai computer centrali dei grandi concentrati finanziari e industriali conduce alla seguente domanda: se l’Internazionale Comunista, a prescindere che non si è mai pienamente realizzata come invece è avvenuto per quella liberista, avesse potuto disporre di un armamento tecnologico altrettanto potente e del relativo esercito di teste d’uovo strapagate, Stati Uniti & C. sarebbero quelle potenze mondiali che di fatto sono? Certo, la Storia non si fa con i se, ma non sembra così peregrino il sospetto che, in un universo parallelo in cui l’equivalente della nazione guida del comunismo mondiale nell’equivalente dei nostri anni 60 del XX secolo avesse vinto la competizione grazie all’invenzione di un’arma segreta, la situazione cinquant’anni dopo non si presenterebbe necessariamente con tratti meno liberali.
Quasi di sicuro non ci troveremmo nelle secche conseguenti a uno sviluppo economico esplosivo che, goduto effettivamente da frange cospicue, ma comunque minoritarie, anche ipotizzando (per assurdo!) che sia sul punto di creare una rispalmatura generalizzata del benessere, si palesa ormai incompatibile con la conservazione di vitali equilibri planetari, il rispetto dei quali richiede una riforma radicale, diciamo pure una rivoluzione, sulla falsariga dei metodi progettuali esemplificati dal progetto Colib o di altri schemi ecologisti teorizzanti una crescita zero.
Invece, anche se spero di sbagliarmi, si procederà, come è sempre avvenuto in passato, a colpi di nuove privatizzazioni e concentrazioni di ricchezza privata, confidando che l’enorme flessibilità dovuta alla globalizzazione consenta di aggirare i redde rationem di tipo marxiano, le strozzature e i contraccolpi dovuti al gonfiarsi oltre ogni criterio di prudenza e ragionevolezza delle masse costrette a sgambettare nell’indigenza con la falsa promessa di poterne uscire, masse incanalate e sospinte dalle varie dirigenze (quelle occidentali come quelle dei movimenti insurrezionali e terroristici) nei corridoi migratori dell’orrore, costrette ad affollarsi e combattere tra di loro saccheggiando i territori circostanti.
Del resto, per le forze dominanti dell’Internazionale Liberista, il rischio conseguente da una concessione di autonomia a nuclei effettivi e coordinati di politica nazionalista e popolare che potrebbero costituire blocchi, dirottamenti e messe in scacco del ‘libero’ flusso generalizzato con cui imperversa la potenza finanziaria e industriale è talmente elevato, talmente pregiudizievole degli equilibri interni delle nazioni dominatrici, da rendere più tollerabile o comunque non scartabile a priori, per le relative dirigenze, l’ipotesi di una guerra mondiale, che diventerà una opzione credibile solo dopo che la massiccia messa a libro paga, in forma legale o legalizzata (soprattutto incarichi e promesse di carriera diretti e indiretti), di ceti amministrativi importanti nei nodi strategici non risulterà poco efficace nonostante i roboanti moniti e le salatissime contravvenzioni elevati a infrazioni come, per esempio, Cuba, l’Afghanistan, il Venezuela e ora la Russia e la Grecia.
Come al solito l’Italia si trova in una via di mezzo, una sorta di Terra di Nessuno tra l’Occidente liberista e la sempre più preponderante massa delle nazioni che ancora (ma fino a quando?) si definiscono, chi più o chi meno, ‘emergenti’ e per cui non si considera neppure la possibilità di movimenti regressivi che la fragilità dei modelli rende invece, se non proprio imminenti, sempre minacciosi. Siccome è costume nazionale, consolidato da un lungo retaggio storico di popolo disomogeneo, rissoso e sistematicamente invaso, schierarsi sempre e comunque con i vincenti, anche se non vi confà la specifica natura etnica delle costumanze, si delega supinamente il ruolo di manovratore del controverso e mal digerito processo a figure di vincenti ‘che hanno il pelo sullo stomaco e il coraggio di sporcarsi le mani’, ma, a parte il rischio quasi del 100% che tali vincenti soddisfino prima di tutto se stessi e le proprie famiglie e clientele, sarebbe meglio valutare se la Cina e l’Oriente in genere, di cui si parla poco ultimamente, rappresentino quei solidi baluardi di complemento allo strapotere USA e troi(k)esco come ci si è abituati a ritenere negli ultimi due decenni.
La possibilità di certi grandiosi stravolgimenti, infatti, renderebbe un prudente ‘barcamenarsi in cerchiobottismi’, un salomonico ‘non mi pronuncio’ di craxiana o andreottiana memoria, un tipo di atteggiamento da indossare al più presto in vista di un rinascente dualismo o pluralismo imperiale di stampo più antico, secondo schemi visitati con qualche ambiguo profitto quando il nostro bel paese protendeva il suo singolare profilo peninsulare in quelle che ancora potevano apparire avventurose acque di frontiera, surriscaldate da tensioni quasi metafisiche molto più che dal calore delle fermentazioni degenerative che adesso proliferano.
I modelli prodotti negli anni ’70 e ‘80 dai critici dello sviluppo illimitato, considerati irrilevanti dal pressoché unanime trionfalismo economicista succeduto alla caduta del muro di Berlino, al contrario di quanto ritiene la maggioranza dell’opinione pubblica succube di dogmi spacciati per valide teorie o addirittura truismi, si sono realizzati quasi perfettamente, a parte, per quanto riguarda il puro riscontro termometrico, un lieve e illusorio scostamento negli anni ‘90 dovuto probabilmente all’eruzione del Pinatubo.
Le proiezioni relative sono state sostanzialmente confermate o comunque non smentite da elaborazioni recenti che hanno potuto sfruttare moderne potenze di calcolo e maggiore sofisticazione degli algoritmi. La maggior parte fissa l’inizio dell’accelerazione esponenziale dei fenomeni (l’impennarsi delle curve) tra il 2015 e il 2020 o poco oltre ed è quindi da questi anni in poi che si gioca l’intera partita, in un verso o nell’altro. Quanto accaduto finora, in confronto, conta poco o niente.
Non conta niente, per inciso, che a nazioni periferiche più o meno inserite nel blocco storico occidentale si prospetti una luce in fondo al tunnel della crisi: nel tunnel infinito o circolare in cui l’umanità si è infilata aderendo a una visione teologica che accetta il libero gioco di strutture complesse al di fuori del proprio controllo (acquiescenza legata a una disgraziata metafisica che confida in un modo o nell’altro nella benevolenza di un fantomatico Dio posto al di fuori della totalità cosmica (estremismo volontaristico la cui forma patologica, da tea party berlusconiani passati ormai all’altra sponda, prevede la proliferazione clonale e democratica del prototipo ‘unto del signore’)), in tale tunnel senza fine ogni luce non fa che segnalare i movimenti dei treni.
Fatti i loro calcoli, si può ammettere e non concedere che i potentati internazionali abbiano deciso che è più conveniente o meno rischioso, tenuto conto delle complicazioni internazionali, impedire a ogni costo il fallimento di una nazione anche proterva (purché non si ecceda un limite numerico di ‘insurrezioni’ contemporanee) che ribadire regole inflessibili (comunque, per loro, basilari) e beneficiare di una concorrenza ridotta. Al riguardo potrebbero influire varie considerazioni, per esempio che le strategie belliche della finanza predona in procinto di defraudare i popoli di qualsiasi ricchezza autenticamente ‘in comune’ (partecipata dal singolo membro qualunque della nazione) innescando bombe a orologeria in ogni angolo del globo, non funzionano più oltre un certo livello di sofferenza economica diffusa, per cui è necessario mantenere la temperatura politica di molte popolazioni entro intervalli critici, sì (per la lievitazione dei tassi necessari ai bilanci di Wall Street & C. e ai fondi pensione), ma non drammaticamente patologici, sia per non trovarsi in mano la polvere marcia di aziende e mercati necrotici, sia per non propiziare il risorgere di modelli politici e socio-economici effettivamente antagonisti: un bel camminare sugli specchi tra un equilibrio acrobatico e l’altro in un negozio di cristallerie.
Nella presente, forse brevissima fase, predomineranno dunque i fallimenti posticipati sine die, i quali ben difficilmente si risolveranno in una vera rinascita in senso maggioritario, a prescindere da come si stia evolvendo o involvendo di fatto il substrato profondo delle cose, rappresentando il tutto la riprova che i macchinismi spontanei dei mercati non esistono: coordinandosi opportunamente, le oligarchie finanziarie sono in grado di controllare perfettamente qualsiasi indice economico, mandarlo su e giù a piacimento e anche in modo assolutamente incongruo (vedi prezzo del petrolio e rendimenti dei titoli italiani), spedirlo a razzo dove si ritiene utile che stia o sprofondarlo affinché non osi bestemmiare contro i dettami delle leggi di convenienza primaria (indovinate di chi), attuando una paradossale replica ipertecnologica, camuffata da orpelli devozionali che inneggiano al misticismo della Concorrenza Assoluta invece che da litanie sul popolo lavoratore, di quelle pianificazioni velleitarie e teosofiche che furoreggiavano negli antichi comunismi cinesi o sovietici.
Peccato che, in assenza di verità sistemiche garantite dal Sommo Padre o dalla Divinità della Storia, è difficile, non solo pervenire ad accordi convinti e perspicui, ma soprattutto comprendere con il dovuto anticipo le conseguenze globali e durature degli accordi medesimi.
Che l’Internazionale Liberista decida di allentare la morsa sulla Grecia, nonostante la scelta politica arrischiata e provocatoria, e poi sull’Italia, complimentata per la docilità cointeressata del suo strapagato consiglio di amministrazione, e poi sulla Francia e poi su Pincolandia e poi su Pallalandia, sacrificando qualcosa dei propri interessi, ma risucchiando nel frattempo quote parti di libertà, benessere e autodeterminazione più o meno dappertutto (da certi livelli in giù, si capisce), rivestirà una relativa importanza soltanto nel breve (un quinquennio a essere molto, ma molto generosi), l’esito cruciale riguarda i periodi successivi e coinvolge la tenuta dell’intero sistema: se esso non reggerà, sia per ragioni strutturali, demografiche, culturali, socio-economiche, ambientali, indecifrabili o, più plausibilmente, per una macedonia di fattori, uno stato cronico di caos e belligeranza si affaccerà inesorabile, dato che quasi certamente non si sarà stati in grado di prefigurare per tempo plausibili scenari alternativi.
Può anche darsi che molti centri decisionali, dichiaratamente ottimisti, siano consapevoli appieno della situazione generale come l’hanno tratteggiata i kolibiani, badando bene però a celare ogni allarmismo e ciò potrebbe perfino avvalorare l’ipotesi che la crisi mondiale, proprio mentre viene somministrato, in confezione oppio dei popoli di ultimo grido, il mantra ipnotizzante della ‘crescita, crescita, crescita!’, venga consapevolmente orchestrata e si prospetti quindi incontrovertibilmente segnato il destino di miseria o comunque di allontanamento dal benessere per molto più di metà della popolazione mondiale, questo, ripeto, a prescindere dagli strilli di sguaiato entusiasmo prescritti per una sorta di legge implicita da chi è interessato a divulgare la frottola della crisi come fase passeggera che prelude al sospirato ritorno di una illusoria normalità fisiologica, che tra l’altro non è mai esistita, essendo ormai appurato e dettagliatamente teorizzato il procedere dell’economia capitalista da una crisi all’altra come un ubriaco abbracciato a un lampione che si slancia barcollante verso quello più vicino.
Per quanto la possibilità di un’evoluzione catastrofica intesa come sbocco quotato secondo percentuali a 2 cifre possa considerarsi opinabile, almeno per uno o due decenni, (ricordiamo comunque che esistono studi, razionalmente argomentati e autorevolmente avallati, che stimano al 50% la probabilità di estinzione del genere umano entro un secolo circa (sì, avete capito bene: estinzione del genere umano… entro un secolo, sì… al 50%), resta indubbio che livelli di consumi e redditi pro-capite equiparabili ai valori occidentali, estesi a tutti i 7 miliardi e rotti di abitanti che costituiranno la media nel prossimo ventennio, prospetterebbero un rischio di collasso assolutamente improponibile per qualsiasi pianificatore serio.
A me sembra scontato e inconfutabile che i vari supercomitati delle classi dirigenti mondiali abbiano in mente la collettivizzazione liberista, ovvero una sorta di Comunismo a Nomenklatura non ideologica, ma patrimoniale ed ereditaria, iper concorrenziale (il comunismo) soprattutto nelle fasce più basse, con l’unico ammortizzatore sociale costituito dalle opere di carità gestite dai centri clericali, le cui alte gerarchie sono chiamate ad affiancare l’aristocrazia del censo, più o meno come, nelle fasi precoci della rivoluzione industriale, ecclesiastici e ceto nobiliare si affiancavano alla borghesia emergente continuando a detenere una parte specifica, sostanzialmente organicista, omeostatica e clientelare, del potere amministrativo e burocratico.
Un analogo del progetto Colib, insomma, salvo che lo stato retto consapevolmente dalla libera e attiva volontà popolare (forse una chimera assoluta, ma allora bisognerebbe avere la franchezza di dirlo e argomentarlo) è sostituito da potentati internazionali, industriali e finanziari, e da antichi assolutismi rivisti e corretti, senza alcuna garanzia di una qualità della vita gestita scientemente e democraticamente attraverso programmazione e regole, rimpiazzata dalla possibilità per le fasce medio-basse in espansione di sopravvivere nel mucchio soltanto se si avrà lo stomaco di lottare con la clava tra sudore e grugniti oppure di elemosinare un pidocchioso sostegno materiale (insieme al gadget obbligatorio di un lavaggio del cervello) dai centri assistenziali del confessionalismo ideologico o dalle sette dell’associazionismo politico.
Se la credenza nell’anima procede dal fenomeno dell’autocoscienza, il concetto di Dio nasce dalla sua antitesi quasi perfetta, ovvero la cognizione istintiva e non elaborata che tale autocoscienza socialmente e oggettivamente non ci appartiene, che scaturisce da concause che potremmo controllare soltanto se non esistessero (ma in quel caso non esisteremmo neppure noi), che la nostra sopravvivenza come individui comporta una cessione completa di disponibilità a poteri superiori di fatto imperscrutabili (poiché se li decifrassimo non verrebbero ‘prima di noi’).
Tutto ciò potrà apparire nebuloso e contorto e invece esistono constatazioni elementari che ce lo provano chiarendone i significati: basta pensare, tralasciando i risvolti scientifici della questione, alla fenomenologia delle passioni, all’importanza della medicina, agli influssi biografici e famigliari e infine, più attinente per le nostre tesi, all’azione metamorfica dei decorsi storici, particolarmente evidenti nell’epoca attuale, a come cioè, a distanza di pochi anni, il clima sociale di un’intera nazione, l’aria che vi si respira viaggiando da turista, le manifestazioni colte per strada, le ‘parole d’ordine’ esibite per qualificarsi, le concezioni inscenate nell’espressività più comune (i dialoghi in pubblico, vestiti e atteggiamenti, le tematiche e le tonalità dei processi mediatici, le dichiarazioni anche implicite degli uomini di spicco o di responsabilità…) si trasformano radicalmente, in quanto a frequenza e prevalenza, pur scaturendo da una medesima base genetica (a distanza di così poco tempo la distribuzione degli alleli rimane sostanzialmente immutata).
Esempi al riguardo sono perfino pletorici, ma possiamo evocarne alcuni ovvi e recenti, come la Germania del 1940 rispetto a quella del 1960, la Russia del 1960 rispetto a quella del 1980, la Cina del 1980 rispetto alla Cina del 2000. Raffronti che coinvolgono l’Italia del 1940 e quella del 1960, del 1960 e del 1980, del 1980 e del 2000, nonostante le tinte più sfumate e ‘bonarie’, offrono un riscontro ancora più icastico e significativo della stupefacente o terrificante (secondo i casi e i giudizi) labilità e vacuità delle attitudini ‘spirituali’ della gente, ovvero delle ideologie e delle mentalità, ratificando la volubile inconsistenza degli usi e costumi ‘intellettuali’ coinvolti a ogni livello, da quello del ‘si lavora e si fatica per la pancia e per la fica’ a quello delle zeitgeist e weltanschauung più raffinate, degli umanesimi più eticamente sofferti e sottili.
Ovviamente, meglio precisarlo subito prima che qualcuno urli allo scandalo di un supposto razzismo esterofilo, questo italico presentarsi in modo particolarmente sintomatico e paradigmatico non deriva da tratti lombrosiani collettivamente assunti, da atavici morbi viscerali, no, è semplicemente il frutto di un connubio di fattori storici, geografici e climatici che hanno determinato una marcatissima dispersione ed eterogeneità dei profili individuali e dei gruppi, intrinsecamente refrattaria a una disciplina statalizzata, ma assai permeabile ai centri di potere vicarianti che crescono e si fronteggiano per la debolezza del potere centrale (soprattutto chiese, mafie, circoli settari anche di enorme estensione, grandi interessi stranieri). Se quindi l’ethos nazionalistico è molto più frammentato e incerto, le specifiche dei moduli di collimazione ai meccanicismi dei poteri in atto, che tendono comunque a comporsi, presentano un pluralismo più accentuato e tempi di fissazione e durata più ristretti.
Qualcuno potrebbe obbiettare che non esistono argomentazioni capaci di fornire una prova della tesi che ‘qualsiasi uomo, cambiando i parametri di controllo ambientale e soprattutto la struttura degli interessi materiali, può uniformarsi nel comportamento (non nel sentimento e nelle sottigliezze della fenomenologia psichica, che rimangono sostanzialmente inaccessibili al di fuori dell’esperienza diretta) a qualsiasi altro (perfino il santo all’assassino e l’assassino al santo). Io ritengo invece che una estrema variabilità storica e sociologica fornisca indicazioni stringenti al riguardo, anche se succinte e quasi aforistiche, perfino una prova, se si conserva l’avvertenza che le prove assolute non esistono.
Per farsene una idea basta soffermarsi a meditare su quali elementi ci consentano di fondare una definizione non vaga e aleatoria del singolo rappresentane di una specie e in particolare dell’individuo umano (la complessione genica, ovviamente) e come si può precisare il concetto di ‘medesima base genetica’ in relazione al pool genico di una popolazione. Il passaggio dal particolare al generale e viceversa che poi è necessario mettere in atto non comporta alcuna specifica forzatura che già non sia ineluttabilmente inerente a qualsiasi ragionamento di tipo induttivo in un senso e deduttivo nell’altro.
Si potrebbe però sostenere che è sventato supporre tanta diversità nei modi di vivere, comportarsi e atteggiarsi (fatta la tara della base materiale, tecnica ed economica) tra un periodo e l’altro, addurre che, rovistando tra le pieghe delle situazioni, indagando in modo non superficiale con il fiuto del buon cronista, del memorialista, del viaggiatore curioso, emergerebbero più omogeneità che differenze.
Dipende tutto dalla risoluzione della lente con cui si osservano i fenomeni, su che scala o ingrandimento ci si concentra: qui non mi interessano quei dettagli etnologici che di sicuro proliferano nei più svariati particolari di qualsiasi esistenza osservata nel suo minuto svolgersi quotidiano, quello che mi preme considerare appartiene a una dimensione molto più estesa e non per una megalomania categoriale, un delirio hegeliano, ma semplicemente perché a un certo tipo di pressione simbolica, di stringente condizionamento istituzionale, di insistente azione dell’ortodossia imperante corrisponde la plasticità in determinate facoltà e disposizioni dell’essere umano più che in altre.
Davanti all’internazionalismo liberista che manovra di concerto con l’ecumenismo di stampo umanitario e religioso, sincero o in malafede, diventano quindi irrilevanti le abitudini gastronomiche, l’uso del tempo libero o le fantasie sessuali, mentre appaiono cruciali le visioni politiche e ideologiche o la loro assenza, l’indifferenza o il coinvolgimento in un destino comune, come si giudica la comunità dei popoli e la compattezza di una nazione, il senso di sicurezza o di minaccia, l’avversione rispetto alla guerra e alla violenza, la concezione generale dei diritti e dei doveri, le credenze e i valori considerati irrinunciabili, i sentimenti e i giudizi sulle diversità individuali, etniche e sociali, i gradi di conformismo o di ribellione, l’adesione sincera o meno alle formule culturali più diffuse eccetera.
La globalizzazione, con la sua cassetta degli attrezzi mediatici, deliberatamente spiana e asfalta le specificità caratteriali ed esistenziali, rende superflui i microscopici riti di appartenenza, costringe alla commistione livellante, a una giustapposizione orizzontale ed enumerativa che rendendo equivalente di fatto annichilisce (non perché non ci sia equivalenza reale, ma perché il reale valore soggettivo di una vita, di qualsiasi vita, si fonda sull’illusione della propria differenza, morta la quale non rimangono che la disperazione da una parte e l’orgoglio di censo, l’esibizione dei beni materiali e il consumismo dall’altra). Sopra tutto e tutti, avanza allora un’etica stereotipa, come un rullo compressore che risparmia soltanto le ideografie astratte funzionali ai teoremi tecnocratici dell’aristocrazia economica, e occorre allora dimostrare la reale sostanza dei decaloghi morali e delle tavole delle leggi che più o meno sottilmente vengono impartiti e resi obbligatori. Provando, come si ritiene di aver fatto, che un singolo rappresentante della specie umana, sbalzato da un contesto di relazioni strettamente connesso a una storia biografica, familiare, storicamente e geograficamente ben configurata nella sua immanenza emotiva e percettiva, rimane assolutamente indeterminato sul fronte delle reazioni, dei pensieri, dei vincoli morali e infine dei comportamenti, si contesta la possibilità di regolare effettivamente la vita degli uomini attraverso l’internazionalismo, denunciando così le barbarie in potenza e il carico esplosivo di una razionalità strumentale che appena oltrepassa i confini dell’interesse privato abbandona l’utopia del progetto e passa il testimone alla gestione teologica.
O questa razionalità allenta la presa o deve assumersi tutte le responsabilità, accorgersi dei pericoli oggettivi, registrare le proprie impotenze e incompetenze, infine assumersi il compito di una regolazione completa della vita degli uomini, di un tipo che, per non agire dispoticamente e in modo devastante, è necessario che si proponga come obbiettivo assolutamente primario la costituzione organizzata e consapevole di un’aria di libertà e autonomia da concedere a ogni singolo individuo della specie a fronte di un impegno specifico, ben documentato e, ovviamente, non più gravoso di quanto è indispensabile.
La tesi dell’enorme plasmabilità del comportamento umano, tanto maggiore quanto più entrano in gioco imperativi etici di natura globale e riferimenti che trascendono la sfera privata (da cui è facile trarre conclusioni circa il senso effettivo della sacralità in prassi puramente amministrative, come quelle attinenti al governo politico di una nazione), in fondo si rivela molto più ovvia e banale di quello che sembri, come dimostra un topos usato spesso dai cronisti di eventi bellici e dai critici sociali. Lo attualizzerei con la considerazione di come non sarebbe affatto strano se un tecnico manovratore di droni, morigerato e devoto padre di famiglia, a cui ripugnerebbe usare un temperino in un corpo a corpo con un delinquente assalitore, riuscisse ad ammazzare donne e bambini sconosciuti e invisibili senza subirne ripercussioni morali.
Se si vuole rinunciare a certe quasi obbligate sintesi di ragione perché le conclusioni non piacciono, sono sgradevoli ed è quindi meglio affidarsi alle creazioni della volontà animale, ai formulari della speranza e del quieto vivere, si faccia pure: è precisamente una delle spiegazioni più ovvie del perché sia così facile manipolare le credenze e i desiderata degli uomini e si instaurino i grandi nuclei di attrazione organica e strutturale e le polarità inconsulte e totalizzanti che durano finché durano.
E’ ovvio che, qualsiasi quadro storico e sociologico si disegni, resta valido in grande maggioranza, ma ammette eccezioni che tuttavia, proprio in quanto eccezioni, possiedono una rilevanza limitata nell’ambito in oggetto (soprattutto in un regime di democrazia vuota e formalistica), costituendo pur sempre ‘argomenti di salvataggio’ per quella filosofia professionale che non tenta nemmeno di abbordare l’oggettiva posizione dell’umanità rispetto al resto dell’esistente, ma insiste (e del resto, se non lo facesse, scomparirebbe dai pubblici atenei per indegnità politica e attentato ai valori e quindi agli interessi istituzionali) nel presupposto di una inesistente capacità dell’Uomo con la maiuscola di dirigere il proprio destino planetario o comunque di arbitrare tutte le partite che contano al di fuori delle mura di quartiere. Questo aprioristico ottimismo di convenienza in realtà traduce in un linguaggio aulico e ingannevole le velleità di pilotaggio degli strati inferiori da parte di ceti dominanti la cui speranza di rimanere tali si lega alla misura in cui conservano l’illusione di controllare il determinismo economico, ma la causa principale di tale illusione ha una sola spiegazione: nasce e persiste perché da tale determinismo si vedono beneficiati. Ouroburos!
Se esistesse un minimo di coerenza nella mistificatoria visione prescritta quasi per legge dalla cultura professionale come confidenza nel progresso e incondizionata passione di sapere (una sete così smodata che, discipline tecniche a parte, alla fine aspira a conoscere nient’altro che le proprie acrobazie dialettiche), non si manifesterebbero in modo così evidente e derisorio le regole di un gioco antropologico asservito a esigenze di manipolazione e di governo (destinate nel corso degli anni a rattrappirsi sulla pura conservazione dei privilegi), mentre si rivelerebbe intensa e indefettibile la ricerca costante di una utopia (ovvero un progetto) da trasformare in costruzione effettiva per il tramite proprio di quei poteri di autodeterminazione umana in cui si finge di credere a parole, ma si rivela di non credere affatto con la sostanza dei pensieri e dei comportamenti.
Anche supponendo che tale scetticismo vanti solidi motivi di fondatezza, non ne deriverebbe alcuna autorizzazione a depistare e mentire, a condurre una politica massiccia di doppie verità, quelle che ci si racconta tra savi e quelle riservate al popolino bue o anche agli zotici danarosi e influenti da lisciare per ottenere favori.
Un bell’esempio del groviglio di contraddizioni che qui si agita si può cogliere nelle motivazioni che reggono l’agnosticismo o l’acquiescenza nei confronti del cambiamento climatico e ambientale con cui molte confraternite di dotti si esentano da qualsiasi necessità di allarmismo: è inutile, sostengono, poiché le imprevedibilità legate al caos fisico-matematico vi fanno da padrone e allora prendersela non serve, meglio crogiolarsi in un fatalismo giulivo.
In realtà, il pericolo mortale, la fonte di ogni preoccupazione risiede proprio nell’incontrollabilità e indecifrabilità delle dinamiche ed è proprio questa a richiamare con forza elementari principi di precauzione che, tenuto conto del rapporto inverso tra probabilità di rischio accettabile e vastità delle conseguenze implicate, se non si applicano in questo caso supremo non dovrebbero essere applicati in nessun’altra circostanza, dato che, parametrata su un interesse umano complessivo, tale circostanza, anche la peggiore, apparirebbe in confronto più lieve di uno scherzo di carnevale.
Una sinistra che delega ogni razionalità alla tecnocrazia dei capitani d’industria mentre, abbacinata dalle formule magiche di una erudizione secolare che non fa che riprodurre pedissequamente se stessa, affida le residue speranze di democrazia a un umanesimo di maniera nutrito di ottimismo teologico (che tale è la fiducia nella inane plasmabilità della Natura e nel positivo incanalarsi delle contingenze per uno spontaneo confronto delle forze in campo, nonostante il frequente e cadenzato esplodere di crisi e guerre tremende, dimenticate ancora prima che siano finite), beh, definirla ‘sospetta’ mi sembra un generoso eufemismo.
Quanto a un conservatorismo di destra saldamento impiantato in una disincantata concretezza e un ruvido realismo popolare, viene in mente il bel detto ‘Attento a quello che desideri perché potresti ottenerlo!’.
Le virtù camaleontiche delle dirigenze di ‘sinistra’ italiane (la maggioranza), il loro accorto sfruttamento dell’impudenza berlusconiana nell’affermare il diritto del più forte (denigrazione veemente e contemporaneo incasso delle ricadute pro casta, addobbo e mascheramento, una volta assunto il potere, della conseguente vitalità darwiniana nei termini dell’internazionalismo economicista) forniscono una elegante, ‘moderata’, casalinga versione di un tipo di congiuntura che in altri paesi assume aspetti più brutali e di ostica assimilazione o sviluppa scenari sottilmente angoscianti, come nella sterminata pubblicistica, letteraria e cinematografica, intorno al tema delle amicizie tra ebrei e ‘ariani puri’ messe in crisi dall’avvento al potere di Hitler.
Anche qui (nel caso della sinistra italiana) si nasconde un teorema sociologico quasi inoppugnabile (di quelli che costringono gli uffici di propaganda a un superlavoro cosmetico) e precisamente questo: un dirigente di qualsiasi comunità non è soprattutto un membro di quella comunità specifica, è soprattutto un membro della comunità dei dirigenti. Le prove al riguardo si sprecano e qualsiasi umile pedina (ovvero il semplice pagatore di quota) di qualsiasi organizzazione nata per la tutela di maestranze o compagini professionali potrebbe raccoglierne esempi espressivi. Questa è una manifestazione di darwinismo sociale correttamente inteso, non travisato come la classe colta vorrebbe.
Spostare la competizione dalla lotta fisica al piano delle affermazioni di liceità, regole e valori, non modifica l’aspetto animalesco delle contese: per farlo, per attingere a livelli effettivi di ‘spiritualità umana’, sarebbe assolutamente indispensabile, necessario, inderogabile passare a una visione organica di razionalità superiore, riuscire a svincolare l’azione dalle convenienze di ruolo per modellare le specifiche settoriali in cui ci si trova implicati secondo principi di compatibilità armonica, criteri e norme neutrali di funzionalità ed efficienza, benefici oggettivi equamente ripartibili su tutti i protagonisti, come avviene anche se raramente in ambiti specifici. Utopia? Può darsi, ma allora mi spiace tanto per una specie che non si vede proprio su quali altre caratteristiche potrebbe puntare se non vuole costituirsi nei confronti del pianeta che la ospita e della maggior parte dei suoi rappresentanti come un puro concentrato di potenze infernali.
Una prova genetica circa l’inconsistenza della soggettività e quindi della responsabilità individuale in presenza di grandi sistemi assiologici in cui si diluisce del tutto la componente ‘tribale’ si può tranquillamente aggiungere alle famose prove esibite da A1 sulla insostenibilità di una visione monoteista tradizionale e cristiana favoleggiante di un Dio che assolve e condanna su basi morali (il Dio ebreo e quello mussulmano assolvono e condannano su basi etniche e nazionaliste, come Zeus o Thor).
Ci può essere equità di giudizio solo a parità di condizioni iniziali e in assenza di forze maggiori che dirigano la ‘piena capacità d‘intendere e di volere’, requisiti ovviamente violati in presenza di un determinismo genetico: esso divide il 100% delle influenze con il determinismo ambientale (interazioni umane comprese), ma se consideriamo che l’ambiente non può agire in modo assolutamente identico su due individui con DNA diverso, in questo senso e solo in questo senso, possiamo considerare la vita di un uomo dipendente totalmente dalla sua costituzione ATCG, almeno in un quadro di ‘sensibilità alle condizioni iniziali’ la cui applicazione al decorso di una singola vita appare molto più che plausibile.
Questo pervadere e prevaricare degli acidi nucleici, sia detto per coloro che sarebbero tentati di cogliere delle contraddizioni laddove sussistono soltanto delle complessità, innesca forze differenziatrici locali che preludono a schemi omologanti generali, secondo la più ovvia accezione del termine ‘adattamento biologico’. L’illimitata variabilità di dettaglio in accordo a poche e rigide leggi generali sembra del resto la chiave all’ingrosso per la comprensione del nostro come forse di qualsiasi altro universo.
Su tale base deterministica individuale si applica dunque il determinismo sociale ascrivibile a campi di forza e nuclei di attrattori di natura olistica e sistemica: quale spazio rimane per la responsabilità individuale, non quella convenzionale fissata dai tecnicismi legislativi, che deve valere a priori se non si desidera una completa anarchia, bensì quella universale e teologica?
Alla fine esistono soltanto colpe e meriti di specie da intendersi in senso lato e metaforico, consistendo esclusivamente nelle capacità o meno di esplicitare determinate potenzialità molto caratteristiche o esclusive, per esempio, per quanto riguarda l’umanità, un uso e un controllo adeguato della macchina cerebrale, un’attivazione di dotazioni e risorse che si può considerare esplicitata appieno soltanto attraverso una effettiva potenza creativa e progettuale, capace di generalizzare il modello molto più facile, poiché ristretto ed egoistico, della razionalità aziendale, unico autentico sostegno del benessere come molto problematicamente e discutibilmente lo intende l’Occidente più o meno cristiano, nonché affilatissima lama a doppio taglio e con un manico che si può trasformare in punta.
E’ evidente che ci troviamo qui in presenza di un classico ‘paralogismo in marcia’, la cui presenza inequivocabile sancisce l’aspetto profondamente contraddittorio del pensiero e del comportamento umano (indipendente dalla perfetta e ‘divina’ coerenza del cosmo), evidenziato in questo caso specifico da come una dimostrazione d’inesistenza (dell’anima e di Dio) si capovolge psicologicamente nella cognizione ingenua, illusoria, naive, dell’esatto opposto, ovvero nella tendenza sentimentale e irriflessiva a trovare in sé l’immediato riscontro istintivo di presunte verità religiose.
Simili paralogismi infestanti si rinvengono in svariate manifestazioni e attività socio-politiche, ribadendo così l’evidenza degli automatismi gerarchici da cui ogni uomo si trova imbrigliato, come avviene, per esempio, quando, nell’attività economica del liberismo di mercato, emerge chiara la predominanza aziendale delle figure legate al marketing.
Essendo inconfutabilmente evidente che l’abilità e quindi la quotazione dell’operatore preposto alle promozioni pubblicitarie e alle vendite si pone in rapporto di proporzionalità inversa rispetto alle qualità e convenienze del prodotto proposto, tutta l’attività relativa s’iscrive in un contesto di competizione darwiniana in cui il singolo attore gioca esclusivamente per sé e implicitamente contro una qualsiasi accezione ragionevole attinente a un ipotetico bene comune: a questo punto o il concetto stesso di bene comune è un puro nonsenso o la congruità generale di una società che monetizza le abilità pubblicitarie sopra tutte le altre e offre possibilità d’impiego e di carriera soprattutto a profili caratteriali improntati alla fattispecie del venditore (venditore di merci come di entrature, di attestati, di popolarità, di stima, d’immagine, di carisma eccetera) deve considerarsi molto strana, dubbia e problematica, evidenziando (ripeto l’espressione perché mi piace) ‘un paralogismo in marcia’, un tipo di macchinismo inarrestabile, cioè, che ingoia e macina qualsiasi movimento antagonista, soprattutto quelli ispirati ai valori che la società in oggetto professa come basilari e irrinunciabili.
Non esiste differenza sostanziale tra le tecniche psicologiche con cui il marketing edulcora e falsifica i contesti sociali e il plagio messo in atto attraverso i paramenti sacrali e la ritualità ipnotica recitata da sedicenti portavoce di Dio. Quando Keynes si stupiva davanti alle convinzioni di quei colleghi che consideravano naturale e quasi scontato far derivare il massimo bene possibile dell’umanità dalle qualità peggiori dei suoi membri, metteva bene in luce l’aspetto paradossale e teologico dell’ideologia capitalista tradizionale, la quale necessita di un Dio protettore non come un optional o un coadiuvante occasionale, ma alla stregua di giustificazione assolutamente capitale, mancando la quale, alla luce non di un radicalismo marxiano, ma di una semplice visione panoramica di tipo scientifico, anche il suddito più docile, speranzoso e conformistica dovrebbe cominciare a rabbrividire di sconcerto e di timore.
Il Timor Dei in effetti non esiste a livello di sentimento diffuso, è antitetico rispetto all’uso sociologico che viene fatto del ‘concetto’ di Dio: esiste invece il Timor scientiae, contro cui si adotta in genere quella politica dello struzzo a cui ben si adeguano gli intellettuali di sinistra rincantucciati sotto le ali di Santa Madre Chiesa, vista come un modello di democrazia popolare quando invece, al di là delle migliori intenzioni, è il fondamento irrinunciabile di un sistema ritenuto unico e insostituibile (a parte una regressione nel medioevo prossimo venturo), presupposto di cui non si tenta nemmeno di sondare la solidità e le controindicazioni, semplicemente perché chi può non ne ha le convenienze e chi ne avrebbe le convenienze non può e nemmeno ne sa.
Anche qui, se si vuole darne una interpretazione generosa, non è tanto sbagliata l’analisi, quanto il contesto morale, intellettuale e culturale in cui si compone: si smercia come conquista di alta idealità ciò che è semplicemente una supina accettazione dell’involuzione aristocratica di forme già approssimative di democrazia liberale.
Sapendo bene che tale degenerazione rappresenta una svolta definitiva non correggibile con ricette facili e poco rischiose, la si professa ipocritamente come temporanea, se ne minimizzano le conseguenze in modo da sfiancare la volontà d’investimento nei rimedi. Il condannare intere generazioni a una grigia vita da signorsì e soldatini di complemento, a prescindere dall’impegno profuso, viene sottaciuto o considerato irrilevante, dissimulando come a lungo andare la cosa sia destinata a configurare un vero e proprio dramma sociale o perlomeno un ritorno a servilismi antichi in un drastico ridimensionamento del valore, interiore molto più che materialistico, delle esistenze sacrificate agli dei della ricchezza e del superfluo.
La prevalenza della figura del venditore nelle società contemporanee (tipico esempio di ‘flessibilità’ fondata sullo sfruttamento) si connette poi alla particolare struttura di dominio della fase attuale, strategia bene evidenziata nei report che le grandi case d’investimento dedicano ai clienti più illustri, dove si raccomanda di aver fiducia negli investimenti perché il mondo è saldamente nelle mani dei ricchi, ma si richiama anche l’attenzione sul rischio sempre presente dovuto a un fatto elementare: i disagiati sono molto più numerosi.
Oggi le caratteristiche del venditore sono pregiate sia ai piani bassi che alti: in basso, rappresentano moltitudini di giovani trasformati obtorto collo in un esercito di parassiti rompiballe che allo stato maggiore conviene automaticamente (se vendono ci guadagnano tutti, se non vendono ci perde solo la manovalanza che lavora per niente); ai piani alti, il venditore commercia in plagi persuasivi e lavaggi del cervello che trasformano lo sfruttamento in un prezioso e delicato fattore ermeneutico. Quando si evidenziano, non tanto squilibri marxiani di composizione numerica, che sempre ci sono stati e probabilmente sempre ci saranno, quanto la difficoltà dei capoccioni, in un contesto mediaticamente mobile e ‘aperto’, ad avanzare promesse veritiere di gratificazioni e promozioni future, la prevaricazione brutale non rappresenta uno strumento consigliabile se non in casi limite, molto meglio abbandonare appigli stabili vulnerabili alle cannonate e rimanere in equilibrio precario sul terreno ondeggiante del marketing, del proselitismo religioso e della neo-retorica.
Già la semplice compresenza dei due paralogismi menzionati fin qui, il religioso e l’economico, strettamente complementari, dimostra senza ombra di dubbio che le società attuali non sono quello che dicono di essere e cioè quello che la maggioranza dei sudditi-elettori ritiene, si tratta invece di agoni biologici dove caratteristiche evolutive molto speciali non alterano la sostanziale natura darwiniana dei dinamismi complessivi e anzi la esasperano, come emerge drammaticamente nei rapporti Uomo-Natura e in moltissimi contesti storici e sociologici, a dispetto di dissimulazioni che raramente risultano efficaci e a cui ancora si sacrifica con speranzoso ritualismo e giaculatorie scaramantiche nelle moderne società occidentali.
Comunque sia, comunque la si metta, l’unione mistica di teologia e tecnocrazia (che in termini metaforici adeguati alle relative conoscenze scientifiche sovrintende alla quasi totalità delle forme di governo storicamente realizzate), volatilizza, fa letteralmente esplodere l’autodeterminazione del singolo, in tali crismi ogni uomo (ogni specifico corredo genetico intendo) può agire come ogni altro uomo, almeno in quei profili che contano a livello di comportamento politico e di linee di condotta che possono convergere e omologarsi anche in presenza di enormi differenze psicologiche, come le ondate revansciste e di rivendicazione bellica.
Potremmo parlare astrattamente di probabilità e frequenze diverse, di diverse predisposizioni a un ventaglio di opzioni che vanno da vette supreme di eroismo e abnegazione ad abissi di efferatezza e abominio incredibili, ma ciò non modifica il nocciolo di una questione che, lungi dal costituire una cavillosità marginale, dimostra che non si può legittimamente parlare di critica efficace se questa non coinvolge la propria stessa natura, dato che ognuno può essere eventualmente parte di una soluzione, ma prima di tutto è sicuramente parte del problema.
Da una presunzione scaramantica di tesori di nobiltà sepolti in ogni animo umano non si ricaverà mai nulla di concreto, solo l’infingarda pericolosità dell’umanitarismo celebrativo che abbonda di petizioni di principio e altari simbolici alla propria fisionomia narcisista e difetta invece di soluzioni non parcellari ed episodiche, ma potenti e profonde, dei problemi.
Alla congiuntura in cui ci si ritrova ha contribuito sia l’egoismo dei padroni del vapore, che l’azzardo morale e la ‘stupida astuzia’ dei subalterni, non se ne esce senza una correzione preventiva di certe pecche mentali e culturali e una precisa assunzione di responsabilità imprenditoriale da parte dei politici effettivamente democratici e delle ‘masse’ che riusciranno a coinvolgere. Forse per qualcuno è arrivato il momento di decidere se tornare a occuparsi seriamente di utopia rivoluzionaria oppure dedicarsi all’abbellimento di zoo esotici e camere delle meraviglie in qualche corte europea.
L’assoluta, disgustosa, vigliacca impotenza dell’etica autoincensante, nei confronti di ciò che effettivamente domina o anche solo condiziona le società umane (regolate e temperate (nei migliori dei casi possibili) da principi di ragione e di buon senso, pragmatici e amorali, che si cerca di riflettere nelle leggi e nella loro applicazione), consiste proprio in quella carenza capitale di consapevolezza critica e introspettiva che impedisce di vedere le convenienze di tipo darwiniano nel cuore dell’etica stessa.
La cecità è l’indispensabile pre-requisito di ogni iper-attivismo, miopissimo o bendato per definizione: all’azione di sfondamento non serve la vista dell’ostacolo, bensì quell’incitamento che in un secondo tempo, purtroppo, impedirà di vedere la natura effettiva di ciò che sta dietro. Un architetto o un ingegnere non affronterebbero mai qualsiasi tipo di costruzione senza la stesura preventiva di un progetto dettagliato, ma in politica una tale metodologia appare un insulto alla natura divina dell’uomo e soprattutto alla natura divina dei capi che si giocano la partita su tavoli esclusivi.
Se non si riesce a estirpare il pus dell’ipocrisia, la cancrena della malafede illusa al punto da giurare sinceramente sulla propria purezza d’intenti, ci si scontra subito con l’impossibilità di accedere a una gerarchia basilare degli interessi a parte quella fondata sulla forza pura, legittimando ipso facto la spirale riproduttiva del privilegio fedele in prima istanza solamente a se stesso e quindi alla politica come mero principio d’ordine autoreferenziale e ambiguo formalismo dei valori schierati a difesa dell’esistente contro i rischi dell’avventura.
Non sto parlando di un agnosticismo assiologico che nel contorto coacervo delle congiunture non riesce a distinguere i ‘buoni’ dai ‘cattivi: il problema è molto più spinoso e riguarda la responsabilità cruciale e forse dominante dei ‘buoni’ e la loro natura inevitabilmente ‘diabolica’.
Se non si afferrano i portati di questa distinzione capitale, non si capirà mai l’urgenza salvifica della razionalità e del progetto.
Solo rifiutando i facili equivoci della spontanea e ‘innocente’ ipocrisia (la tabe cristiana per eccellenza, forse il male peggiore quando non si tratta soltanto di sopravvivere in un’ambigua e instabile normalità, ma appunto d’impedire che sulla scena compaia il male di livello superiore, evidente e inconfutabile), l’incombenza del caos esogeno (ovvero la distruzione dell’ordine umano per le leggi inesorabili della Natura disprezzate dall’uomo o per leggi sistemiche come quella che associa indissolubilmente la non sostenibilità dei modelli economici espansivi al rischio di guerra globale), ben lungi dal configurarsi come il mero strumento di un malanimo disfattista, risulta oggettivamente un dito accusatore puntato sulle classi dirigenti e sui sudditi che non sono in grado di correggerne l’azione.
E’ veramente buffo che gli storici dei prossimi secoli, se esisteranno, saranno costretti a certificare la collaborazione decisiva delle cosiddette sinistre, anche quelle radicali, alla disfatta di un comunismo liberale scientificamente pianificato di fronte al vetero comunismo liberista detto anche vetero liberismo comunista: quando non si tratta di puro opportunismo machiavelliano, un collettivismo di maniera legato a mitologie romantiche, la credenza religiosa nella vitalità dei popoli (quel fuoco sacro il cui unico riscontro empirico rimane la velocità con cui opera l’appiattimento consumistico), il travisamento del concetto di umanità (che è un regno vuoto di possibilità disperse in uno spettro vastissimo, assenza totale di determinazione sia etica che ontologica, infimo riflesso speculare del cosmo intero) e la sfiducia nell’astratta ragione costruttiva (che, tramite la tecnologia, costituisce invece l’unico autentico motore, accanto alle forze istintive e belluine, della storia umana e che, per quanto attiene essenzialmente alla fase creativa, non appartiene, se non per imitazione, all’umanità in quanto massa (una specie animale prevaricante e, in senso ecologico-metaforico, ‘nazista’), ma alla sua facoltà di diventare, in particolari condizioni, un insieme coordinato di individui pensanti e dialoganti), tutto ciò può giocare a volte dei grandi brutti scherzi.
La definizione di ‘forza politica di sinistra’ sfuma nell’ambiguità più totale, sia per lo sfaldamento delle categorie politiche nella gestione proteiforme e illusionista delle scenografie sociali da parte di quelle lobby e varie egemonie che assoldano i disciplinati specchietti umani da incastonare nel caleidoscopio culturale, sia per uno statalismo distorto da tabe e tare di eredità storiche che, per esempio, in Italia, legano a filo doppio le sinistre con regioni a statuto speciale non dichiarato, quindi intrinsecamente separatiste, che derivano dalla contrapposizione di blocchi politici della guerra fredda imperiale.
La mirabile soluzione italica di tale formidabile impasse, ennesima genialità virtuosistica di una nazione che assomma nella sua popolazione un livello di variabilità genetica che è in assoluto il più elevato al mondo (fatto scientifico e non idelogico) e che quindi è abituata a circonvoluzioni acrobatiche nell’ambito di una uniforme e tutto sommato noiosa anarchia (derivante, com’è quasi automatico senza rimedi ad hoc di tipo razionalistico e strutturale, dalla carenza di ‘idem sentire’), si può sintetizzare così: creiamo (si sta parlando degli anni precedenti alla caduta del muro di Berlino) un grande patto consociativo tra due enclave di diversa ispirazione ideologica, ma con una medesima matrice dogmatico-religiosa: la principale base occidentale del comunismo internazionale, poi diventato ‘terza via’, e la sede centrale dell’integralismo cattolico, ossia il Vaticano, che insieme alla mafia della lupara, controllava il Sud e, insieme alle camarille massoniche degli affari, parte del Nord (che, appunto perché diviso, non tanto politicamente (le divisioni della casta si rivelano sempre molto più labili di quanto non sembrino), bensì ideologicamente e antropologicamente, conta molto meno politicamente di quanto non valga economicamente).
Ovviamente alla solidità dell’accordo di spartizione tra sottostati necessitava un certo tipo di alleanza sottaciuta sia con le logge che con le mafie, previa una potatura degli elementi più acutamente patogeni (fu il grave errore di Riina non averlo capito) e una loro conseguente istituzionalizzazione nell’aria grigia del ‘ci dobbiamo pure arrangiare’ (ammortizzatori e lubrificanti senza i quali le eviscerazioni ideologiche non sopravvivono alle dure leggi elementari dell’economia, neppure a breve termine (a lungo termine ci pensano le voragini nei conti a suonare la sveglia o la campana a morto)).
La storia dell’ultimo quarto di secolo diventa chiaramente leggibile se consideriamo lo scenario appena tracciato e vi aggiungiamo lo scompenso avvenuto a sinistra con il venir meno del grande faro metastorico della Madre Russia che, per quanto squalificata sul piano dei fatti, conservava una forte valenza attrattiva e simbolica. E’ ovvio che le forze affariste e mafiose (illudendo occidentalisti e liberali sinceri che ne avevano due palle così di Divinità celesti o terrestri mollemente spaparanzate (con pancioni enormi e sessi minuscoli) in mezzo a offerte sacrificali provenienti dalle casse dello Stato) avrebbero cercato di movimentare i patti e le gerarchie per guadagnare quote di potere, cosa che puntualmente è avvenuta associando in seguito quel separatismo rozzo, ingenuo e impulsivo del nord che era attecchito presso le classi medio-basse comprensibilmente inviperite contro l’ambiguo separatismo (ovvero unionismo parassitario) delle dirigenze centrali e meridionali, alle quali va comunque ascritto il merito, a fronte di più avidi egoismi e particolarismi nordisti, di aver mantenuto in vita patti sociali basati su un’effettiva distribuzione di ricchezza, anche se, ed è forse l’unico motivo, non era tutta farina del loro sacco.
Anche per la rozzezza del separatismo ‘celtico’ o soltanto per la sua esplicitazione politicamente sventata, una magistratura che si era potuta avvalere della rottura leghista per ergersi a baluardo contro l’infiltrazione del malaffare in politica (e che era già indebitamente sbilanciata a sinistra) assunse un ruolo improprio e accreditò ex comunisti che, se apparivano più onesti, lo dovevano solo a una maggiore scaltrezza oppure ad ambienti economici ‘più rilassati’, di una superiorità morale soltanto fittizia, il che determinò una valanga di confusioni e di equivoci che permisero al berlusconismo, mentre gridava, non sempre a torto, alla persecuzione, di coltivare insieme ai fieri oppositori di sinistra e alle destre separatiste e nazionaliste che (chissà con quali razionali argomenti!) si convertivano e si santificavano andando a braccetto, una serie di complicità eufemisticamente definibili ‘oscure’, tutte a vantaggio di questa o quella casta o lobby o profittevole settarismo.
Poi è intervenuta la probità, sobrietà e austerità dell’imperialismo europeista attraverso cui l’ideale o l’utopia o la chimera o la mistificazione di un oligarchismo nobile, disinteressato e sovranazionale dovrebbe riuscire ad azzittire tutto lo schiamazzo esageratamente chiassoso del pollaio italico.
Per quanto si possa rabbrividire di gelo e raccapriccio alle crude sferzate del vento del nord, è indubbio che, con la sua purezza, ha rinnovato l’aria di ambienti mefitici contribuendo a elevare alle presidenze supreme la novità assoluta della migliore cultura democristiana, in parte energicamente ringiovanita e in parte sapientemente stagionata, concedendo un ruolo di dovuta preminenza alla spietata acutezza di gente come Pirandello, Tomasi di Lampedusa, Sciascia, spirito dapprima potato dalle spine di un eccessivo disincanto nella versione Montalbano (la serie televisiva (vedi dopo) preferita da Mammauno), frollato e tenuto a bagnomaria, infine inserito in una vena ottimista e collaborativa da quelle sovrintendenze culturali capaci di creare posti di lavoro a un ritmo così incredibile che le sedi preposte alle varie attività possono a buon diritto vantare una densità di popolazione (visitatori esclusi e del resto quasi assenti) superiore a una persona ogni metro quadrato. Se provate a immaginarvi, qualora ve ne riteneste all’altezza, quale sapientissima coreografia manageriale occorre imbastire perché lavoratori tanto assiepati non si urtino nei gomiti o si pestino i calli al minimo movimento, potete capire come esempi di una così qualificata tradizione dirigenziale protratta per generazioni meritino senz’altro di ricoprire posizioni della più alta responsabilità.
Comunque il determinismo, ovvero il Dio del panteismo scientifico, è in azione e l’unico elemento che può anticipare l’esito della Sua volontà, per quanto riguarda le capacità reattive della schiatta umana, è la tipologia e il comportamento dei parlamenti e la capacità e possibilità della gente comune di sventare manovre che, rappresentate come il portato di un cosmopolitismo ineluttabile sancito da un principio superiore di saggezza, una divinità immanente nel cuore dell’Umanità una e indivisibile, si rivelano niente più che delibere monopolistiche delle Multinazionali Riunite in Lobby Suprema, disegni di legge il cui avallo governativo denuncia semplicemente la facilità con cui si può comprare la collaborazione di ‘rappresentanti del popolo’ eletti tramite procedure istituzionali ridotte a puro formalismo.
Da quello che si riesce a intravedere finora, siamo conciati molto, ma molto male.
Se un’autentica azione rivoluzionaria rimane improponibile, conviene forse attendere l’esito catastrofico delle politiche in atto e l’onda di reazione immane che ne seguirà. Perfino chi si preoccupa esclusivamente di gestire le proprie posizioni d’interesse, riuscirà a farlo con molta più aleatorietà di quanto egli stesso sia indotto a ritenere.
Se viene accantonata per difetti di mentalità od ostacoli strutturali la costruzione consapevole di un progetto radicalmente innovativo, temo che l’unica azione politica praticabile oltre una dichiarata e inconfondibile sottrazione di consenso e scissione di responsabilità, possa soltanto vertere sul contrasto veemente all’azione predatoria condotta dai loschi affaristi celati come sempre dietro le insegne della mistificazione metafisica. Questi giocano in casa poiché il Sistema li favorisce enormemente e si configura ormai come puro autoritarismo oligarchico che punta deliberatamente a chiudere in recinti vigilati da guardie e riflettori quella percentuale di eccedenza umana che vale soltanto come ‘esercito di riserva della forza lavoro’ e che manderebbe fuori binario tutti gli automatismi del pianeta qualora, per assurdo, contasse di più e aspirasse ai frutti della ‘crescita’ economica inarrestabile.
Non dobbiamo stupirci se, sfiduciata nonostante l’intimo e assiduo colloquio con i più gloriosi tra i precursori kolibiani, la sagoma da Maestro Confuciano del saggio e solenne Anonimo1 (i cui strali pochissimi riuscivano a scorgere mentre gareggiavano in splendore con gli altissimi cirri) già allora arretrasse volontariamente in quell’ombra da cui sbucheranno le mosse cadenzate di guerrieri ninja (i cui strali ogni fruitore comprenderà perfettamente realizzandone appieno natura, pertinenza, efficacia).
Perchè ‘biografia intellettuale’? Che significa ‘intellettuale’? A1 non credeva nei fatti, ma, a differenza di spiritualisti, pragmatisti e seguaci del ‘pensiero debole’ in genere, non credeva neppure nelle capacità fondative di una psicologia generale, pubblica o privata o comunque la si voglia intendere, di una fantomatica ‘antropologia’ metafisicamente compromessa e artatamente slegata dal gioco illimitatamente complesso delle azioni e interazioni ambientali.
“L’uomo non è ciò che mangia, ma ciò che riflette” era una delle sue massime preferite, ma, con atto di riflessione, intendeva la pura attivazione energetica dei processi causali che, in ogni istante di una vita, avvengono in un flusso continuo e mai interrotto entro i confini fisici di ogni corpo animale.
Semplificando si può dire, come il geniale Leibniz, che tutto il cosmo si frammenta nelle monadi dei singoli cervelli intorno ai quali è impreciso e fantasioso sostenere che il mondo esterno vi agisce e li condiziona, dato che il nodulo di materia che consideriamo un’entità animale altro non è che un grumo incredibilmente minuscolo, ma vertiginosamente organizzato, di sostanza cosmica.
La base dell’identità umana, la personalità individuale, si attua nel persistere delle tracce mnemoniche che si sviluppano per sovrapposizione e conseguente riadattamento olistico e sistemico, accrescitivo o anche degenerativo, nelle impalcature strutturali e nei circuiti fisiologici e nervosi. Ciò che siamo consapevoli di ricevere si presenta in forma di pacchetti di informazione che non possiamo analizzare in dettaglio, ma solo reinterpretare in blocco attraverso schemi cerebrali e rielaborazioni linguistiche che determinano, essendone determinati, quelle forme riconoscibili dalla vita mentale ‘emergente’ con cui non possiamo fare a meno di identificarci.
E’ ovvio che qualsiasi discussione che non parte dall’assumere tale vita mentale come un dato acquisito e fondamentale, ma cerca di rintracciarvi un’origine e una causalità preesistenti risulta campata sull’abisso dell’indecifrabilità assoluta, del tipo contro cui hanno cozzato i tentativi di fondazione della matematica o di Grande Unificazione a cui ogni maggiore semplificazione e generalità comporta costi elevati in termini di ambiguità e arbitrarietà, nonché l’aggiunta di nuovi principi basilari non certo più perspicui ed eloquenti di altri più antichi (se validi per intuizione o convenzione o per un a priori di tipo kantiano, cognitivo, biologico, cosmologico o altro in fondo conta molto meno di quanto possa sembrare: si tratta di concezioni che scivolano l’una nell’altra e si modificano in base a principi generali che in qualche misura rimangono sempre intercambiabili, basta pensare agli equivoci irrisolti legati al concetto d’infinito (a cui, salvo poco rilevanti questioni di dettaglio, si può ricondurre l’intera diatriba tra logicisti, formalisti e intuizionisti) e all’equivalenza in fisica tra causalità efficiente e finale, tra una modellistica strutturale e una ‘teleologia’ variazionale, una volta fissata la nozione di sistema in evoluzione secondo leggi deterministiche).
Tutto ciò, nonostante la confusione sciorinata ad arte dai paladini dell’assioma di autorità assurto a unico metodo di fondazione sociale, è perfettamente comprensibile alla luce di una forma adeguatamente sofisticata di realismo scientifico, ma rende nondimeno lampante perché le religioni prosperano o almeno sopravvivono ovunque: perché si nutrono di quelle assurde banalità che è così facile e riposante accettare, mentre rimane comunque complicato e spinoso comprendere e far comprendere il motivo per cui non sono per niente necessarie, almeno dal punto di vista teorico e morale.
Il tutto per dire concretamente che cosa? Che pensiero ed esperienza non sono separabili nella vita di un qualunque animale, che non esiste possibilità di apprendere senza interpretare, che la maggiore o minore importanza che si tende ad attribuire al rapporto diretto, non mediato, con la realtà rispetto al filtro intellettuale, all’esperienza esistenziale rispetto all’acquisizione culturale, dipende in sostanza dal ruolo che si attribuisce all’azione, soprattutto se la s’intende come pura passività funzionale e seriale dell’ingranaggio sostituibile, caparbia percussione di ariete o schema programmabile di una rete d’interazioni.
Ecco il punto cruciale: quel rapporto tra teoria e prassi, tra pensiero e azione che il marxismo ha imposto teoricamente e dogmaticamente all’attenzione culturale dell’occidente e il liberalismo ha risolto in pratica finché non è finito intrappolato nella pratica stessa.
Dalle proprie esperienze, A1 perse qualsiasi rispetto nella mistica dell’uomo di azione e dovette accorgersi che, senza un distacco, una presa di distanza consentita soltanto da un’opportuna armatura concettuale, ogni consesso umano, a qualsiasi livello, metteva in scena una complicata farsa teatrale alla cui regia ciascuno partecipava inconsciamente e del cui sviluppo era corresponsabile senza poter decidere come.
A1 non temeva l’accusa di apparire astratto e libresco: astratto significa semplicemente ‘che dispone di una enorme varietà di semantiche’, quindi ‘massimamente potente nella prospettiva dei mondi possibili’. ‘Libresco’ significa preferire le argomentazioni organiche e meditate alle manifestazioni vocali improvvisate, magari ricche di valore pratico e anche emotivo, ma perlopiù povere di potenza ideativa originale, cioè non tratta, in un modo o nell’altro, direttamente o indirettamente, dai libri.
A questa determinazione e spregiudicatezza nel difendere le masse dotte e squisitamente acculturate contro le piccole, ma aggressive e virulente, squadracce d’ignoranti zoticoni e impudenti che alteravano con la violenza consultazioni e sondaggi, si deve naturalmente buona parte della vasta e calorosa popolarità di cui godette incessantemente fino alla fine gloriosa dei suoi giorni.
La falsa coscienza delle attuali società sprofondate in viscidi intrecci causali sovrapposti e avvoltolati tutto intorno alla sfera planetaria si rivela nella povertà assoluta dell’immaginario collettivo che emerge dal groviglio immane della comunicazione mediatica.
Di quella ‘giungla simbolica’ di cui strutturalisti e semiologi parlavano fino a trent’anni fa, pochissimi, tra quelli che vi ci stanno immersi fino al cocuzzolo del cranio cinguettando, pavoneggiandosi, sguazzando nel proprio ‘particulare’, mostra di averne un grado minimo di consapevolezza salutare, quasi tutti gli internauti si sentono capitani coraggiosi di un personale piroscafo che fila la sua scia maestosa nel mare calmo e solenne di valori semplici e chiari. Dio e tutta la corte dei santi, nelle forme più diverse, anche e soprattutto laiche, dentro quel guazzabuglio di virtualità si sono ritagliati le proprie nicchie dorate e ci stanno più comodi che nel silenzio delle cattedrali.
Che ormai si viva in un mondo irreale più reale del reale in cui mandanti e incaricati dei più diversi, perlopiù ambigui, poteri mettono a segno i loro messaggi con molta più incisività e precisione del vicino di casa o del collega di lavoro o degli stessi familiari, non rappresenta una congiuntura degna di una considerazione attenta: è più importante, oltre che più divertente, spedire in rete la paccottiglia iconica con cui si annuncia al mondo una mitologia privata che aiuta a sentirsi vivi e partecipi in un grande e innocuo festino.
Proprio perché la vita di un uomo per la maggior parte non esiste, come diceva il Poeta, non ci si accorge della sostituzione avvenuta e si sopravvive come avatar fingendo di occuparsi di cose concrete e comprensibili, opponendo al blob alieno che ci compenetra la saldezza di una sostanza che non teme la immaterialità proteiforme dei plagi perché come quella è instabile, capricciosa, evanescente.
Nel momento stesso in cui la fantasmagoria tecnologica ci sovrasta, il nostro comune essere fantasma si rivela nell’adesione irriflessiva a quella caverna nebbiosa dalle altissime volte: invece di riflettere se non sia il caso di munirsi di un filtro, di stendere una zona di passaggio e compensazione tra la mente e la vita, quell’intercapedine che ora servirebbe a tutti e non solo al livido e sinistro intellettuale, la capacità cioè del pensiero di rielaborare i frutti del pensiero, di giudicare la vita degli altri come un complicato castello di costrutti mentali e non uno spontaneo rigoglio vegetale, ci si slancia all’indietro con le braccia tese, si salta dal palco affidando la schiena a una folla di spettri supposti benevoli, fiduciosi sul fatto che si trovano lì soltanto per accoglierci in un morbido abbraccio.
Cultore del raccapriccio latente e onirico di serie mitiche come Twin Peaks o Lost (che non avrebbero dovuto finire, ma semplicemente interrompersi) e nonostante certe tare intellettualistiche innate che comunque non gli impedivano di apprezzare anche le forme meno dozzinali del fantasy problematico e simbolista (tipo ‘Il Trono di spade’), quando A1 irrise a ogni pretesa di compatibilità tra scienza e religione non intendeva sfondare la porta aperta dell’irrazionalità fideistica, quanto evidenziare l’assenza di coerenza interna e autonomia organica di visione in una dottrina sedicente profonda compromessa in realtà con ogni forma di arrivismo politico, irrimediabilmente prosaica, gravata da necessità di successo istituzionale che vanificavano ogni aspirazione a sollevarsi al di sopra di una ritualità iper-conformistica dai contorni ondivaghi, fuligginosi, offuscati da un grigio opportunismo.
Nota interna. Poiché si citano qui famose serie televisive, una forma culturale importantissima per A1, che vi vedeva rappresentata la possibilità di lavorare in gruppo a lungo (decine di ore di spettacolo contro il paio del film tradizionale) a un prodotto complesso e coerente, non solo in modo tecnico, del che qualsiasi fabbrica bene organizzata costituisce un esempio efficace, ma anche ideativo, inventivo, creativo, elaborando di continuo sviluppi o divagazioni molto ricchi e pregnanti, secondo schemi indispensabili per il progetto Colib (è nota la citazione delle ‘camere di scrittura’ accanto a imprese informatiche fondate sul volontarismo cooperativo come il ‘collettivo Linux’ (di vecchia, gloriosa e ormai decaduta memoria, vista e considerata l’astuzia con cui i Ciclopi dell’IT si sono pappato il free software rendendolo, insieme alle mandrie dei venditori, esempio paradigmatico di ‘lavoro flessibile’ da sottrarre al bene comune e immolare al profitto privato) e Wikipedia (che gode di maggiore libertà finché l’ambito della cultura autonoma e fine a se stessa non interferisce con determinate priorità, altrimenti è probabile che intervengano manine sapienti a correggere e precisare, un po’ come avviene nei ‘liberi’ dibattiti interni ai social network più seguiti, quando giudizi negativi che coinvolgono particolari prodotti industriali vengono immediatamente seguiti da contrastanti dichiarazioni d’amore).
Costituendo inoltre, ovviamente in casi non rari, ma comunque specifici, un prodotto di genere ‘alto’, ma tutt’altro che noioso e facilmente fruibile, almeno in seconda o terza visione, A1 vi vedeva altresì la conferma, una volta registrata l’audience relativamente bassa, che l’acculturamento dei popoli non dipende dalle ripetute opportunità di accesso e dalla affabilità comunicativa, bensì da un lavoro preliminare di formazione che, quando non viene fatto, rimane praticamente irrecuperabile.
In realtà tale interpretazione, come egli stesso si avvide, potrebbe apparire troppo dispregiativa verso il comunque malfamato pubblico sovrano e troppo assolutoria verso le tendenze censorie delle mezze maniche comandate dalla propaganda ufficiale. E’ noto infatti il generale, cosmopolita ostracismo che certi ambienti riservarono a serie di pregio come ‘Wire’ o ‘I Soprano’, soprattutto perché ne emergeva con disturbante evidenza una sostanziale affinità morale tra mondo della malavita e mondo delle istituzioni, il che sarebbe forse stato giudicato ancora tollerabile se non si fosse affiancato alla sensazione di una superiore capacità di lavoro ed efficienza organizzativa, corroborate da dosi enormi di coraggio fisico e volontà di rischio, del primo rispetto al secondo, della società dei delinquenti rispetto alle pavide, manieriste e routiniere ‘istituzioni democratiche’, trasudanti opportunismo e rassegnazione, prive ormai di qualsiasi afflato ideale e sincera convinzione filosofica, di qui o al di là dell’oceano.
Se ne deduceva insomma un sentore di crisi culturale e morale (espressivo e significativo proprio perché trasmesso da opere per molti versi collettive, da un lavoro di gruppo (con molte zone d’ombra, anche qui, di talento non riconosciuto, di ‘lavoro creativo e flessibile’ donato alla fama e alla ricchezza di pochi)) di cui i più fini politologi, se fossero sufficientemente eclettici e disponessero dello strumento coadiuvante di una sensibilità artistica non fossilizzata su questo o quel tema o settore, avrebbero potuto servirsi come di un fondamentale fil rouge ermeneutico per decifrare il successo del leader carismatico svuotato di idee e riempito di protervia combattiva.
Quando una serie come ‘Breaking bad’ conferma questo tipo di rilievi nonostante il suo vero, sfortunato eroe sia un agente della DIA (del resto anche in ‘Wire’ abbondano le figure positive), dobbiamo concludere che nel motore di questi fenomeni non sono implicate volontà individuali, ma ineluttabilità legate ai meccanismi di processi storici e sociologici: il capitalismo anzianotto e anzi, senza la chirurgia estetica del socialismo d’élite, assolutamente decrepito, ha alzato i livelli di competizione a una quota tale, almeno per quanto riguarda il traguardo di un’effettiva ricchezza, che solo una volontà muscolare di tipo selvaggio e implacabile, disponibile alla frode e molto peggio, mantiene probabilità accettabili di successo quando non si parte da posizioni di vantaggio acquisito per diritto di nascita.
Intanto un’analoga escalation avviene nel campo politico e amministrativo, dove non basta più il gigantesco pelo sullo stomaco del manipolatore di uomini, cifre, valori, lo speculatore abile nel trattamento della merce umana, esperto in alchimie psicologiche e propagandistiche: occorrono doti quasi surreali di antropologia mutante che difficilmente si possono apprendere, ma perlopiù sono innate, capacità metamorfiche per cui alla fine non si mente neppure, bensì ci si trasforma in una continua spirale polimorfa, si avvolge la forma candida e gentile su quella velenosa e serpentina, o viceversa, con la più grande e ineffabile naturalezza, come per una reazione chimica dei tessuti biologici a contatto con determinati indici ambientali.
Così, per continuare l’apologo sulla falsariga delle serie televisive che, tra l’altro, possono vantarsi di essere uno dei pochissimi prodotti di buon livello culturale diventati ‘di moda’, i campioni più rappresentativi della politica gentilmente ferina, ricalcata sui modelli della sinuosità mafiosa, gettando la maschera sotto l’impulso di un comprensibile orgoglio da vincente che non ci sta a sfigurare, mostrano pubblicamente di apprezzare prodotti, come ‘House of cards’, che svelano le funzionalità effettive della politica professionale: la trattazione non piacerà agli idealisti, ma almeno corregge certe imbarazzanti intuizioni subliminali che forse cominciavano già a penetrare nell’opinione pubblica più qualificata, la quale sarà allora indotta ad ascrivere anche a un ceto politico non più accusato di inconsistenza e pavidità un florilegio di doti darwiniane di solito ritenute appannaggio dei ceti criminali.
Quanto poco convenga al pubblico e al comune mortale una tale infatuazione da autocastrazione rituale è perfino inutile rilevarlo, ma credo che in un modo o nell’altro ci si dovrà in futuro rassegnare a tale schizofrenia delle popolazioni oscillanti tra la brama di pietismo consolatorio somministrato nei grandi raduni confessionali e il mito masochista del super-eroe cattivo con i cattivi e buono con i buoni.
Le stesse impressioni, spunti per il medesimo ostracismo (che in Italia si connette a una ipocrita difesa dell’onore e del prestigio nazionale (che, siccome non esiste in forma libera, non ipotecata alle dinamiche dei vari consorzi padronali, deve essere proclamato con la fanfara al minimo pretesto, anche il più scemo)), emergono dalla serie ‘Gomorra’, e ciò, come in ‘Wire’ eccetera, non per uno spirito di denigrazione contestataria, bensì grazie a quella finissima sensibilità mimetica che solo i prodotti di buona fattura sanno assumere, quella capacità di calarsi in un inferno sociologico tradotto secondo concezioni e moduli che obbligano una qualsiasi impresa artistica che non voglia occuparsi soltanto di favole a essere ‘più vera del vero’ e quindi a conferire il crisma dell’effettività metastorica (una specie di concessione di ‘onore’ non voluta) a una mostruosità barbara rutilante di aliene magnificenze abissali, all’energia terrificante del selvaggio proto-umano: un novero complessivo di arcaismi tale che alcuni poteri, considerati più evoluti soltanto perché rivestiti di speciosità ed eleganze che nascondono un’analoga sostanza, non possono e non vogliono reprimere e anzi mantengono in vita come valvola di sfogo e opzione tattica di complemento.
Ogni forma di rispetto programmaticamente formalistico e dogmatico con il quale un qualsiasi gruppo sociale intende cementare la convenzionalità dei propri istituti (secondo schemi che rimangono di tipo tribale a dispetto della complessità tecnologica e strutturale degli assetti implicati) richiede un minimo di sincerità e coerenza mancando le quali l’artificiosità truffaldina dei costrutti risulta evidente e non potrà mai pretendere la complicità sincera di qualsiasi intelligenza effettiva, a dispetto di quanto sia pragmaticamente desiderosa della loro legittimazione e consolidamento.
Intendo dire che tale complicità continuerà a esserci comunque, ma dovrà rassegnarsi a un’empatia fisiologica mai promossa a un tipo di consapevolezza ed elaborazione superiori.
La casistica di tali intelligenze è molto varia e abbondante, ma certe palesi violazioni di armonia interna denunciano la strumentalità dell’appoggio, l’opportunismo dell’inchino rivolto all’ortodossia, la sottigliezza tattica del mero interesse travestito per l’occasione.
Rimango convinto che A1, con l’argomento dell’energia, intendesse stigmatizzare il conflitto della fede moderna occidentale prima di tutto con se stessa, la pusillanimità di una concezione che non osa sviluppare le conseguenze inevitabili dei propri assunti in ossequio al fariseismo borghese, al buon senso necessario ai normali processi produttivi.
Nessuno, effettivamente convinto della propria spiritualità immortale, può rivelarsi scettico fino alla derisione riguardo alle arti di alchimisti, maghi e fattucchieri, negando con stolido e perbenista realismo qualsiasi plausibilità a fenomeni paranormali come quelli così ben gestiti da Merlino o Gandalf o Amelia la strega che ammalia.
Sposando un tale prosaico oggettivismo, si denuncia tutta la convenzionalità e la dipendenza sociologica di impulsi devozionali poco intimamente avvertiti.
Nota interna. Valutare se inserire qui la sincera manifestazione di stima e solidarietà che il Vate indirizzò in carta da lettere con lo stemma ufficiale kolibiano a un noto imprenditore sorpreso da qualche Indiana Jones o Tintin del gossip a indulgere in téte a téte con svariate chiromanti.
Valutare anche se è il caso di mettere qui o altrove o escludere del tutto la prolusione seguente.
Questi coboldi pennaioli svolazzanti dietro le innocenti o veniali tresche dei soliti noti sarebbero abilissimi, ne sono sicuro, a sorprendere ben più gravi magagne come truffe e ladrocini dei medesimi, se le prospettive di carriera, salvo circostanziate eccezioni difficilmente riproducibili, non ne uscissero gravemente compromesse.
Dato che la corruzione dei pubblici amministratori costa una enormità alle casse dello stato, perché un politico riformista non crea la sovrintendenza ministeriale di una squadra di giornalisti d’indagine sottratta ai mercanti di pettegolezzi oppure, perché no, ai collezionisti di dossier dei servizi segreti e incaricata invece di reperire su tutto il territorio nazionale reportage scandalistici in campo politico-economico? Questa sì rappresenterebbe un bel tipo di vera riforma!
I fondi potrebbero essere deviati economizzando grazie all’implementazione coerente e sistematica degli algoritmi usati dalle società internazionali di revisione e certificazione per focalizzare automaticamente e velocemente la maggior parte delle irregolarità contenute nei bilanci aziendali (chi li ha visti in azione non può nutrire dubbi al riguardo), lasciando perdere magari, senza dirlo, quelle evasioni del piccolo o piccolissimo cabotaggio o dei settori disastrati che in genere corrispondono a espropri proletari mal riusciti, come appare chiaro se si confrontano, per esempio, i rapporti tra retribuzione e impegno nell’ambito artigianale e della piccola impresa in genere, con quelli stabiliti per consuetudine in ampi settori professionali sia pubblici che privati.
Invece il fisco tartassa i piccoli, che sono molto più malleabili di professionisti tecnicamente preparati (e pagati) almeno quanto il funzionario pubblico, ma in genere di più, personaggi con cui lo stesso burocrate spesso trova più conveniente amoreggiare che scontrarsi, anche per la comune radice sociologica e culturale di collaboratore stipendiato, di corpo diplomatico addestrato con un linguaggio comune, caratterizzato da una certa repulsione verso la strana e miserabile fauna di chi rischia veramente in proprio in un’arena di polvere e sangue, di sicuro perché non ha doti mirabili da vendere a un potere superiore divinamente legittimato.
Di passaggio, si può anche osservare come lo scenario antropologico appena tratteggiato costituisca alla lunga un cofattore non secondario della inevitabile fusione fino alla perfetta coincidenza finale, ancora non avvenute in pieno, tra liberismo aristocratico e comunismo autoritario.
(Paragrafo probabilmente da espungere) Voci maligne sostengono che ci fosse della piaggeria in quel sostegno tendente a entrare nelle grazie del tycoon, del resto già fin da allora impegnato, insieme a tanti esimi compari anche di maggior lustro, a ridimensionare certe iniziative di tipo nazional-popolare diventate troppo costose per i tempi di vacche magre, un’altra prova, se ce n’era bisogno, che con sufficienti quattrini quasi tutti sanno fare molte cose ottenendo il beneplacito e perfino l’ammirazione dei tanti, senza denaro quasi nessuno sa fare anche poco e finisce per sottrarre quel poco che ai tanti ha regalato disinteressatamente per effetto collaterale.
Implicitamente si riaffacciava qui il principio euristico fondamentale che segretamente ispirava il nostro autore: la prima dimostrazione di futilità implicita nelle credenze assolute procede dalla sostanza antropologica dei comportamenti degli stessi credenti assoluti, che, lungi dal rammaricarsene, si professano ‘umani’, proclamano l’onorevole umiltà di non essere santi, quindi con le loro manchevolezze ‘umane’ si propongono di esaltare per contrasto il luccichio di quella santità che li ispira e li rende orgogliosi e veritieri.
E’ del resto notissima, almeno quanto l’argomento dell’energia, la dimostrazione di A1 dell’inesorabile precarietà morale legata al ruolo di capo religioso. La riassumiamo sinteticamente: un prelato molto alto in grado, come un papa cattolico, o è un visionario o è un ateo, dato che o percepisce voci interiori e allucinazioni che gli trasmettono la sensazione di trovarsi in comunicazione con Dio o dal silenzio dell’ipotetico Creatore di tutto l’universo (che di certo non è prodigo di consigli come il crocifisso di Don Camillo) riceve una testimonianza di tale estraneità e freddezza da non lasciargli altra supposizione tollerabile che quella, appunto, della sua inesistenza (molto più ‘digeribile’, alla fine, rispetto all’ipotesi della propria indegnità). Beninteso si sta parlando di meccanismi molto dissimulati anche in regime d’intimità con se stessi e mai del tutto consci.
Ovviamente è quasi impossibile non ravvisare nel sommo capo religioso una buona dose d’intuito pratico e accortezza politica al servizio di quella indispensabile manipolazione dei consensi senza la quale la carriera nasce e finisce in parrocchia, onde per cui è statisticamente raro trovare in quella posizione un visionario puro (perlomeno nell’occidente industrializzato), si deve quindi dedurre che al comando di tutte le grandi correnti religiose si trovano perlopiù atei e miscredenti ‘psicanalitici’, gente cioè che tale si dichiarerebbe in una situazione realisticamente irraggiungibile di piena trasparenza coscienziale.
Rimane poi aperto il problema del politico che osserva ritualità e prescrizioni della fede ortodossa assumendo nel frattempo atteggiamenti magniloquenti di omaggio ai valori supremi e poi assume risoluzioni quantomeno meschine su questioni amministrative spicciole, come per esempio non trovare una valida argomentazione giuridica per convalidare un taglio (molto modesto!) di esose pensioni.
Chi pensa veramente che, soprattutto in una giurisprudenza bizantina come quella italiana, a volte creata ad arte proprio per essere disattesa, pro o contro qualsiasi decisione politica o civilista non si possa inventare una caterva di rilievi giuridici di sostegno in un senso o nell’altro a seconda del pregiudizio iniziale, mettendo al lavoro insieme i sostenitori esperti di una parte e dell’altra, non merita che si dia troppo peso alle sue capacità critiche, a meno che non risulti qualcuno che dispone di una ben precisa tavola di obbiettivi e valori concreti, di una gerarchia ferrea di priorità, nel qual caso sarebbe bene che mettesse il pubblico sovrano al corrente di maggiori dettagli.
Gli apprezzamenti di chi conta non verranno comunque indeboliti dalla relativa mancanza di precisione dell’uomo di eccelsi e nebulosi principi, dato che più i principi sono eccelsi e nebulosi più si schierano per partito preso e non dichiarato accanto alle egemonie vincenti.
Venendo al campo più squisitamente religioso, A1 non temeva d’irrompervi a gamba tesa e più volte ne esplicitò il motivo: l’immunità diplomatica conferita dal diritto alla sacralità inviolabile configurava secondo lui un esempio abbietto di slealtà politica. Non aveva egli stesso posto un’estrema cura nell’infarcire la propria predicazione di elementi autoironici e burleschi proprio per non contribuire a diffondere la suggestione e il ricatto implicito dell’autorità anche se diretta a frange così minoritarie da sparire del tutto (stiamo parlando del periodo antecedente al successo mondiale)?
Un politico non può considerarsi rispettoso delle tendenze laiche se non si comporta da uomo intelligente prima che da uomo dei valori e l’intelligenza esige di affrontare spassionatamente il privilegio e la cambiale in bianco che il fedele esige inappropriatamente dalla società e in particolar modo il problema venuto di moda con l’attentato a Charlie Hebdo (cavalcato subito, cicero pro domo sua, con ipocrita astuzia anti-intellettualistica, dai grandi interessi), dell’offesa a Dio.
Se non lo fa, rappresenta al massimo quei laici fasulli che si sentono orfani della divinità e si tormentano per l’incapacità di credere, non certo quelli che perseguono una ricerca metafisica autonoma appoggiandosi alle opere di scienziati, filosofi e artisti.
Non mi risulta ci sia mai stato un presidente di tutti che abbia consigliato a certi ambienti religiosi di non eccedere in cattivo gusto per non urtare la sensibilità culturale e tutto sommato autenticamente religiosa (anche se non utilitarista) del pensatore laico. Del resto, si sa: ‘antropologicamente in minoranza’ equivale, nella ‘democrazia’ italiana di sicuro, a ‘offendibile e del tutto sacrificabile’.
Non è offensivo e blasfemo (nei confronti di Dio, ma anche di una umanità consapevole ed evoluta) e quindi meritevole di solenne riprovazione, il solo pensare da parte della creatura e quindi del suddito fideista di potersi levare in difesa di Dio? Se fossi Dio, la cosa che più mi offenderebbe è che qualche scalzacane, non di rado intellettualmente brutto come il peccato, si ergesse a difensore della mia reputazione anche solo per menare un pugno francescano.
Ovviamente non sono Dio e potrei giudicare male, ma neppure chi si crede indispensabile per il buon nome del creatore, da solo o (molto meglio!) in comitiva, lo è (Dio) e intanto, agendo come agisce, gonfio d’indignazione, omologa il rapporto creatura-Creatore a quello tra il semplice adepto e il capo di una banda settaria o di un partito come il PD o il PDL (che, a differenza di altri, hanno capi buoni e belli a prescindere): non mi sembra proprio il massimo dell’onore per chi ha fabbricato e deve gestire miliardi e miliardi di galassie contenenti miliardi e miliardi di corpi celesti alcuni dei quali (forse, probabilmente) biologicamente fertili.
Domanda collegata più o meno alla lontana: perché, in un modo o nell’altro, ogni atto terroristico risulta all fin fine collaborare con le mire dei poteri effettivi, colpendo oltretutto sempre troppo in basso e non richiamando neppure un costo di vite umane sufficientemente rappresentative di quegli interessi? (Appena le Brigate Rosse alzarono il tiro si presero addosso una reazione tale da annichilirle e lo stesso sta accadendo all’Isis per avere ammazzato non un povero sciita o sunnita qualsiasi, ma un pilota dell’aviazione militare giordana)
Risposta di A1 (riservata ai discepoli più fidati): qualsiasi terrorismo nasce da nuclei di pressione con caratura almeno nazionale quando intrattengono rapporti conflittuali con avversari che stanno guadagnando posizioni di eccessivo e irreversibile (con strumenti convenzionali) vantaggio, rappresenta quindi il ricorso a deterrenti di emergenza adottati da poteri che si ritrovano in condizioni di rischio o di mala parata, ma non dispongono di energia sufficiente per scatenare una guerra in via immediata e diretta.
Il terrorismo è insomma ‘la continuazione della politica con altri mezzi’ quando, per una ragione o per l’altra, una vera e propria guerra non rientra tra gli sviluppi praticabili almeno in prima istanza.
In genere forze istituzionali finanziariamente munite ispirano gli attentati ritenendo di trarne comunque dei vantaggi, almeno finché riescono a mantenere l’incognito, e tramite tali messaggi comunicano il proprio malcontento ad altre istituzioni.
Ovviamente la sofferenza di un popolo, se può essere condizione necessaria per la fornitura della manovalanza (altrimenti, come avvenuto per i servizi deviati italiani, si dovrà ricorrere alla delinquenza comune), non è mai condizione sufficiente per l’insorgere di una lotta terroristica: deve affiancarsi al disagio e all’instabilità delle rispettive élite di comando e qui interviene quella sottile solidarietà sostanziale che di fatto accomuna le dirigenze della società globale anche quando si trovano in conflitto feroce (non escluse quelle che si sono inventate un concetto astratto di solidarietà tra i popoli che è sempre il primo a franare sotto la pressione degli interessi). Non escluderei nemmeno che stati in apparenza umanitaristi ed ecumenici, nel momento stesso in cui incoraggiano e diffondono opere di carità, possano arrivare a finanziare specifiche forme di terrorismo analogamente a come, in passato, per ragioni economiche, hanno sostenuto il riciclaggio di denaro sporco e la stampa pornografica.
Comunque sia, se la solidarietà tra gli strati di comando venisse meno, le guerre di alto livello diventerebbero meno probabili, data la relativa facilità con cui la tecnologia moderna consentirebbe agli stati maggiori e ai massimi livelli gerarchici di annientarsi reciprocamente.
Il manovale terrorista rimane tra i pochi che ancora si sforzano di credere sinceramente nella democrazia: non potrebbe conservare il rispetto di se stesso e delle proprie azioni, se non considerasse un popolo responsabile della qualità di chi lo governa, il che, se sotto certi aspetti e in qualche misura è sempre vero, implica anche un fraintendimento fondamentale di quelle complessità sistemiche e statistiche che a volte assolvono da eventuali misfatti governativi perfino i governanti che li hanno promossi in prima persona, come testimoniano spesso analisi storiche accurate, lontane dal semplicismo tipico di quegli integralismi metafisici che costituiscono una degenerazione e quindi un tradimento del panteismo razionale.
Il vero terrorismo dal basso, l’unico democraticamente efficace, dovrebbe affidarsi alla forza delle idee e della fantasia e disseminare esplosioni soltanto in due modi: o movimentando masse decisive anche se disarmate con il vento di passioni immaginifiche e predicatorie (Gandhi, Luther King, forse (con molti dubbi) Mandela, oltre a molti leader fatti fuori in giro per il mondo dalla CIA e dal KGB prima della Glastnost) o configurando paradigmi progettuali completamente antitetici rispetto alla cultura politica vigente.
Dato che sul primo tipo di azione si sono già versati fiumi d’inchiostro retorico e attualmente finisce nelle secche e nei vicoli ciechi che i propagandisti del Regime Mondiale, in costante contatto con le menti dei sudditi grazie alla tecnologia mediatica, riescono a orchestrare ad arte (vedi Primavera Araba e non solo), mi concentrerei del tutto disinteressatamente sul secondo.
Un gruppo serio e agguerrito, sia finanziariamente che culturalmente, di persone che si dedicassero con costanza e impegno a modellare un impianto giuridico e istituzionale in media molto più conveniente per il membro qualunque di una comunità, a prescindere dagli assetti in essere, delineando con precisione le tappe di transizione dal vecchio al nuovo, dovrebbe essere temuto dai potentati incongrui e parassiti molto più dell’Isis.
I potentati, però e forse per fortuna, non ritengono mai di essere incongrui e parassiti e in genere, benché dotatissimi e perfino geniali nell’amministrare l’esistente e prolungare le proprie allegre agonie, hanno la vista troppo corta, confortati in questo dalla mentalità della maggioranza dei sudditi, per immaginarsi la possibilità di costruzioni radicalmente alternative: sta tutta qui la incredibile, assurda, brutale, ripugnante miseria della storia umana (miseria scientifica e intellettuale, ovviamente, perché dal punto vista romanzesco c’è al contrario da rimanere ammaliati, stupefatti, ammirati), dove i momenti rivoluzionari violenti implicano sempre l’esasperazione intollerabile prima, il dogmatismo schematico dopo e il fanatismo incontenibile prima, dopo e durante.
Purtroppo, un difetto fondamentale del terrorismo politico e non militare, munito di idee e di visioni e sprovvisto di armi offensive, risiede nei tempi lunghi necessari per imporsi e nella necessità di convertire larga parte dell’establishment a un riconoscimento delle ragioni avanzate in blocco e non per gradi, senza alcuna accortezza diplomatica, ma piuttosto come una sollecitazione e una sfida. E’ una tara non rimediabile di ogni radicalismo legittimo e razionale, parziale giustificazione di ben altre impazienze, la necessità che gli anziani e sonnolenti luminari, che si godono comprensibilmente i frutti di una lunga carriera, abilitino i giovani di cui condizionano il successo a concedere mezzo orecchio all’ascolto delle nuove istanze. Se questo non accade, i giovani, che appaiono più svegli e ricettivi, ma generalmente, difettando di esperienza e indipendenza e dovendosi preoccupare per prima cosa di non soccombere, sono solo più dinamici, carrieristi e manovrieri, dovranno arrivarci da soli quando giovani non saranno più, passerà allora troppo tempo e si dovrà parlare di occasione mancata.
Insisto in modo un po’ paradossale sul termine ‘terrorismo’, che potrebbe apparire improprio, per il semplice motivo che invece allude in modo appropriato a un effetto propulsivo e disturbante, in assoluta e pertinace evasione di tutte quelle pretese di onore, rispetto e tranquilla obbedienza che l’ortodossia ritiene tributi obbligatori, di quelle genuflessioni davanti a mistificazioni talmente scadute e rafferme che la semplice pretesa dell’omaggio risuona come un atto oppressivo perfettamente simmetrico a uno scatto fisiologico, non più rinviabile, di ribellione totale.
Senza scosse culturali non esiste vero progresso, soltanto un lento rilasciarsi e fermentare di paradigmi che subiscono la fisiologia della Storia anziché intervenirvi con la progettualità del pensiero, una ‘evoluzione graduale e democratica’ che in realtà conserva un minimo di credibilità ed efficacia durante il periodo fiorente di una civiltà, non al di là di quel plateau della maturazione da cui è cominciata la curva discendente.
Certo: il dove e il quando esatti del declino resteranno sempre oggetto di forte controversia tra chi il declino può condizionarlo almeno in parte e quindi ha interesse a negarlo e chi il declino lo subisce.
Paradossalmente, al contrario del socialismo reale, che è morto a furia di rivoluzioni popolari, il capitalismo e l’economia di mercato sono sopravvissuti grazie a continue rivoluzioni gestite dall’alto, ma il gioco sta cominciando a mostrare la corda: la mossa vincente di accantonare le fumisterie ideologiche e concentrarsi sul livello medio di benessere economico non sta più funzionando tanto bene e probabilmente è molto vicino a incepparsi del tutto, quindi ora finalmente si vedrà di che pasta si compone davvero quel paternalismo tecnocratico che finora è riuscito a dissimulare la vocazione autoritaria dietro un sapiente e contrastato intreccio di sbrigativa concretezza efficientista e astuto sentimentalismo moraleggiante.
LA SAGA DEI KOLIBIANI Interventi di commentatori, testimoni e protagonisti dell’epoca, tra cui le note del curatore della sesta edizione sul tema dell’anonimato e la famosa prefazione di Anonimo2
(Aggiunto il 15 agosto 2014)
Il clamoroso incipit che pochi compresero davvero
Olismo inorganico (Olin). Su un pianeta vivo, l’energia della stella centrale alimenta il riciclo continuo tra fasi e sottofasi di atmosfera, continenti e oceani. In ogni partizione, enormi quantità di elementi in transito lasciano invariati contenuti relativamente minuscoli, se l’equilibrio dinamico persiste.
Complessità biotica di livello 1 (Cb1). Superando la discretezza dimensionale delle cristallizzazioni silicatiche, la polimerizzazione carbonatica esplora il continuum frattale: legami stabili, ma fortemente neg-entropici, richiedono nuclei organizzativi con attività di selezione mobile. Gli organismi biologici utilizzano in totale meno dell’uno per cento dell’energia radiante con un rendimento intorno al 20%, limiti intrinseci compatibili con la necessità di salvaguardare i meccanismi Olin.
Complessità biotica di livello 2 (Cb2). La profondità temporale dell’elaborazione sistemica resa possibile dalla trasmissione ereditaria sviluppa i centri di controllo gerarchico fino all’autoriferimento cerebrale: una specie acquista le abilità per crearsi un ambiente artificiale. Questa specie condiziona pesantemente Olin e Cb1, ma ne rappresenta un’appendice incongrua che non riesce a costruirsi un’adeguata cognizione d’insieme e ignora i vincoli da rispettare. Intelligenza e imbecillità si chiudono in un cerchio.
Complessità biotica di livello 3 (Cb3). Per ora, soltanto un punto di domanda.
Minimo di base (Mib). Le molecole inorganiche di un pianeta morto raggiungono rapidamente un equilibrio stabile di minima energia e massima entropia relativa (minima energia libera), dopodiché l’astro, fino alla fine dell’universo, sostanzialmente non farà che dissolversi con progressione lentissima (se non viene inghiottito dal sole o sbattuto contro un altro pianeta).
Leone Sperandio da ‘Stakanov sul tappeto rotante’
Cinquant’anni fa, beghe d’interessi e conflitti imperiali a parte, forze oneste e vitali in cui si bilanciavano (più o meno) le disparate tendenze, discutevano su come distribuire il peso delle decisioni tra le iniziative private del libero mercato e gli schemi direttivi della programmazione centralizzata, tenuto anche conto che fin dagli albori della rivoluzione industriale era apparso chiarissimo che: o lo stato rinunciava a qualsiasi ammortizzatore sociale o, senza intervenire nell’economia, sarebbe stato il gonzo e il servitore sciocco delle imprese che, dopo essersi goduti i profitti degli anni buoni, alla minima congiuntura negativa sarebbero ricorse alle pubbliche casse per farsi remunerare i mancati licenziamenti (si sorvola qui, data la complessità del tema, sui rapporti tra grandi imprese e grandi sindacati e sulle sottili connivenze attraverso cui, da un certo punto in poi, sembra si siano tacitamente spartiti i compiti di mungitura delle finanze statali divenute quasi ‘cosa loro’).
Rinunciare agli ammortizzatori sociali era ritenuto ai tempi inconcepibile, o per spirito umanitario o per timore di reazioni violente.
Da allora gli strumenti potenzialmente utilizzabili da una economia pianificata (grazie al dinamismo e all’inventiva del capitale di profitto, certo, ma ora come ora non cambia niente) sono diventati un milione di miliardi di volte più potenti (il miliardo si deve alla legge empirica (provvisoria) di Moore che riguarda la miniaturizzazione dei circuiti, il milione si può ottenere sviluppando al massimo le architetture di elaborazione parallela e collegandole in reti di calcolo distribuito e grid computing), stiamo parlando di un fattore di dieci elevato a quindici, un milione di volte il numero di molecole che si possono allineare lungo un metro.
Nel frattempo un governo alacremente impegnato a erigere frettolose riforme di facciata può scoprire che molto più del 50% dell’economia nazionale è in mani straniere (considerando non soltanto le quote di controllo disponibili all’estero, ma anche le scelte di ‘esternalizzazione’ degli imprenditori e investitori nazionali e gli effetti domino) e che la semplice direttiva di una banca d’affari internazionale ai propri clienti illustri (state alla larga dai bond periferici!) o una fattura dalla solita strega del Rating contano molto più di tanti sforzi ponderosi eroicamente espletati sotto le amabili sferzate dei leader carismatici. Costoro, tutti in formato usa e getta, vogliono, fortissimamente vogliono i diktat dei loro superiori in incognito, ma in qualche modo ciccano sempre i compiti, sono un po’ asinelli (eufemismo per idiotoni: regalano l’Alitalia e non l’ENI, e per di più a quelli sbagliati!), così li si lascia lavorare qualche mese e poi già scattano gli ammonimenti e i cartellini gialli (Dài, Matteo, tu ce la puoi fare, a qualcuno di noi in fondo non dispiaci, basta che abbandoni l’antipapa e ti converti al Kolibianesimo: in hoc signo vinces)
Ricapitolando: in cinquant’anni si è verificato un incremento di 10 elevato a 15 volte la potenza di calcolo disponibile per simulazioni di economia pianificata e ciò in concomitanza con il volatilizzarsi della concorrenza perfetta e l’instaurarsi di regimi di oligopolio programmato e monopolio mascherato, che discendono da una generale e progressiva sottomissione degli automatismi di mercato alla pura potenza in quanto tale.
Si capisce quindi molto bene perché oggi, dopo cinquant’anni, l’idea di una società pianificata ha ceduto completamente il passo all’arbitrio liberista: perché l’economia non è soltanto quella scienza che ti spiegherà domani perché le previsioni effettuate ieri hanno fallito oggi, ma è soprattutto la foglia di fico che permette a quei politici che per decenni, più che da fantini, si sono condotti da zecche attaccate al pelo del cavallo della società civile, di continuare, finita la festa, a sostenere la propria convenienza accettando più che volentieri il dominio della forza maggiore.
Il poetico sketch di un rappresentante degli ERESO (Eretici sognatori, frangia dissidente dei Carbonari pentiti, da non confondere con i Carbonari ecologici)
I had a dream: Matteo e Beppe poliziotto buono e poliziotto cattivo, i Serpico che si ribellano ai mandanti mafiosi della Macchinazione Internazionale, lo spirito marinaio e corsaro dei Doria e la sottile malizia di Lorenzo Carpe diem si alleano e assalgono il caveau dei barbari bundenbanker e bundenbroker, duellano, capriolano e dopo varie peripezie costringono l’anima nera gesuitica che regge le fila in incognito a confessare davanti al telefonino collegato a milioni di computer.
Ma prima dell’alba Nightmare ha ingoiato tutto, don Krueger con il cerone di terracotta si torce le mani bavoso sopra la testa del giovane virgulto da salvare, Lino e tutti i nonni, le famigliole e le pippe calzelunghe più buoni di Mediarai si ubriacano insieme a padre Pio che fa la lap dance, le colombe dell’eterna sottocultura parrocchiale svolazzano con i pizzini nel becco, concorsi a premi e papa boys in ogni angolo, milioni di manichini estatici si muovono come l’omino di latta di Oz e intanto sotto l’ebete bonomia dei volti emerge il ghigno putrefatto di Freddy.
La ‘scorbutica’ tesi di Rolando Savona
Se esistessero regole tassative di semplice, incontrovertibile decenza, se si potesse instaurare un Consiglio Superiore della Morale (CSM plus) che richiamasse ogni schieramento parlamentare all’obbligo della trasparenza e della correttezza, si dovrebbe prima di tutto vietare 1) la dipendenza di un partito, di destra o di sinistra, da una singola persona; 2) la ramificazione delle correnti teocratiche e confessionali in più partiti; 3) il dichiararsi di sinistra pur avendo di fatto rinunciato al controllo razionale dello stato sull’economia.
Per chi conserva un minimo di onestà intellettuale, i punti 1) e 2) non necessitano di spiegazioni. Sul punto 3) è appena il caso di notare che, in assenza di scientismo e statalismo, ogni forza non separatista, volente o nolente, si limita a un ruolo di integratore vitaminico, nonché fluidificante, del Dogma Centrale Liberista e se anche ottiene deroghe verso una maggiore liberalità e morbidezza dissemina più inefficienze che benefici reali e sostenibili.
Il Dogma si sta trasformando in effetti nel denominatore comune di un trasversalismo che, integrandosi con quello religioso e clericale, determina la riduzione-svuotamento della politica a un puro ratificatore di decisioni trascendenti, veri e propri kafkiani messaggi dell’imperatore, che ovviamente non è una persona, ma un Sistema.
Si palesa allora tutta la grottesca ipocrisia sottesa al tentativo di sostituire alla politica del disegno organico forme di sentimentalismo collettivista giocate sulla partecipazione coreografica di masse tripudianti. E’ ovvio che lì si cerca di coniugare in termini di moralismo spicciolo-borghese un coinvolgimento ipnotico da scenografia dittatoriale e, simmetricamente, di propagandare una gretta, prudente, arrendevole visione attraverso paludamenti aggressivi: un gioco molto, molto pericoloso.
Il massimo dell’assurdo si raggiunge quando, dal palco che sovrasta simili rappresentazioni di educato delirio, per il momento ancora represso e perbenista (poi si vedrà), il leader maximus incita la folla dei fan ad avere (udite, udite) coraggio, quando la sfarzosa messa in scena che si svolge intorno testimonia un cedimento assoluto, una resa senza condizioni. L’evocazione magica e apotropaica di una coralità emotiva può infatti giustificarsi soltanto in due prospettive: o come arretramento verso forme civili e sociali arcaiche o come sottomissione e acquiescenza nei confronti di chi si è già impossessato privatamente o in nome di potenze straniere degli strumenti di una razionalità dominatrice (a cui si può rispondere soltanto attraverso un altro tipo di razionalità).
Oggi esiste una modalità unica ed esclusiva di esercitare il coraggio sociale (e sottolineo ‘sociale’): quella di rimanere individuo pensante (il coraggio individuale è un’altra cosa, anche conquistarsi un posto al sole fregandosene di tutto e di tutti è una forma di spirito combattivo).
Una nazione che coltiva desideri inconfessabili di dittatura sotto l’egida di un grande modello unificante, che si coccola in seno l’archetipo immaginale del proprio duce come il sogno erotico del Cristo nudo in croce, è politicamente morta: o abolisce i partiti o abolisce se stessa.
Fresca fresca da un corrispondente (ore 13 del 12 agosto 2014)
Robin Williams ci ha lasciato, era un corresponsabile della signora Doubtfire, ma aveva avuto modo di riscattarsi, soprattutto con le ultime interpretazioni.
In mano a buoni registi come Peter Weir aveva fornito prova delle sue potenzialità anche durante il suo periodo migliore (ovvero il peggiore).
Ma adesso ti voglio parlare della celebrazione che poco fa ne ha fatto il telegiornale di Italia 1. Indovina che cosa hanno scelto ed enfatizzato con solennità cerimoniale? Proprio il film di Weir e in particolare l’episodio in cui gli allievi (la maggior parte: in quei tempi si prospettavano conformismi ben diversi dagli attuali) si ribellano alla grettezza del preside e salgono sulla scrivania!
Il telegiornale di Italia 1, quello di Toti, l’organo di partito sorretto da una disciplina e/o uniformità che l’Unità di Togliatti se le sognava!!!!!
Mi è venuto subito in mente Zizek e il programma sull’ideologia, l’inno alla gioia di Beethoven elevato a simbolo dai più disparati movimenti, spesso agli antipodi tra di loro (e quindi dal più grande e ambiguo di tutti, in modo, ambiguamente, non ufficiale) e poi il giovane nazista che canta e lo spettatore che, rimanendone coinvolto suo malgrado, confessava di avere intuito così la sottile abilità persuasiva della propaganda nazista.
La canzone era un brano contemporaneo (al film) composto da autori ebraici.
Alle grandi Convention religiose e umanitarie avviene lo stesso: tutto uno spalancarsi, un respirare profondo dei cuori da cui ciascuno estrae quello che vuole, senza sapere, lui per primo, che cos’è e come lo userà a sbornia smaltita.
Se si imbastisce una scena come un buon manipolatore dell’immaginario sa fare, episodi come l’omaggio al professore iconoclasta commuoveranno tutti, anche quelli che in occasioni del genere rimarrebbero seduti maledicendo la protervia anarchica di quelle teste calde dei compagni.
La celebre ed enigmatica barzelletta di Berlusconi (riferita da G.T.)
Agiografi e mitologi raccontano che Berlusconi, all’apice della carriera politica, era talmente acuto e preveggente da raccontare la seguente barzelletta: esiste una nazione (ai bei tempi metà degli astanti, dopo la parola ‘nazione’, si scompisciava già) più strampalata e pazzerellona di quella in cui il number one della televisione privata decade vox populi da number one politico per il successo di un protagonista dei suoi quiz? Attesa, occhi sgranati, silenzio interrotto da scoppi e singulti, poi: sì, certo che esiste, è quel paese nel quale il passaggio di consegne, se non migliora le cose, neppure le peggiora (dodici persone finite sotto le sedie dal gran ridere).
Scrittori come Shakespeare, Gogol, Kafka, il Caligola di Camus, saggi e resoconti storici, film e documenti di archivio e molte altre testimonianze esemplificano quella verità fondamentale che qualunque mente sgombra da pregiudizi può intuire ogni giorno per le strade e le piazze cittadine, su Internet e in televisione: il lato goffo, risibile, grottesco del potere non coinvolge le persone che lo incarnano in presa diretta (le quali, in qualche enigmatico modo, non ne vengono danneggiate, ma anzi vi acquistano una beffarda e inquietante grandezza), bensì infetta, con atroce virulenza e senza alcuna attenuazione proporzionale alla distanza e, se mai, molte accentuazioni, l’entourage più stretto, poi la cerchia di competenza professionale, gli ambiti successivamente collegati e a seguire tutti i settori dell’area d’influenza che alla fine comprende una nazione intera.
Il motivo per cui palesi deficit di sostanza antropologica, vuoti di cultura, molti aspetti caricaturali di una personalità egocentrica e vanitosa, scivolano via, quasi senza danni, dal singolo protagonista per contagiare e storpiare i vari contesti ambientali, deriva in buona parte dal fatto che tali caratteristiche oggettivano uno stato di crisi e di sbando, di dissesto e confusione generalizzati, una congiuntura che ridicolizza di fatto qualsiasi assunzione di responsabilità al punto che dimostrare uno spiccio semplicismo, una ruvidezza disinibita, scettica e sprezzante diventa indice di sagacia e realismo da parte di chi si candida a ruoli di comando.
Se un boss appare istintivamente credibile quanto un idealista si rivela automaticamente insulso (se non falso), è quasi assiomatico che il rozzo spontaneismo e perfino l’esibizionismo, non privi, certo, di calcoli e sottigliezze, appaiano come una specie di monito a guardare la propria trave, di orgoglio rivendicativo per una solida spregiudicatezza di base, mentre gli atteggiamenti ieratici e pensosi instillano il costante sospetto di una subdola mistificazione, peraltro irrobustito dall’inanità ineluttabile di ogni specifica iniziativa dell’uno o dell’altro, dell’iniquo temerario come del solido coraggioso.
Angelo Beria da ‘Un pollo per ogni testa tagliata’
Influenzare le modalità di come andranno suddivise le sofferenze dopo il disastro totale (avete notato con che delicatezza ho evitato il termine ‘apocalisse’?) non è come dibattere se l’operaio deve muoversi con la cinquecento o con la millecento nel mentre che il padrone sale sulla Ferrari o sulla BMW. Ci sono gradi di conflitto che, scoppi di violenza a parte, si risolvono soltanto in due modi: o con una ingegnosità e creatività estreme o con l’ignorare i problemi come se semplicemente non esistessero.
Le categorie morali applicate agli eventi storici sono tra le mosse più miserabili che galoppini e portaborse in cattedra possono tentare. A parte Hitler & C. (che richiede categorie di tipo psichiatrico e nasconde il quesito ben più spinoso e angosciante delle responsabilità di un popolo intero) è semplicemente idiota pensare che tra un dittatore sanguinario e un leader democratico si possano stabilire confronti che prescindono da una definizione categorica dei ruoli di potere distinti in base alle tipologie economiche e sociali in cui agiscono.
Un dittatore sanguinario che governa un popolo in cui il livello medio di vita è tale da suscitare la domanda se non sia semplicemente meglio non esistere e che comunque si pone all’inizio di un periodo di progresso materiale è peggio di un leader ‘democratico’ che subentra al culmine di un’epoca di espansione economica la quale, dopo di lui, comincerà a declinare verso situazioni di sofferenza e di caos?
Quanto di Nerone c’era già in Augusto e quanto di Commodo in Adriano?
Chi è veramente responsabile e di che cosa?
La condanna a subire come spregio reiterato e incessante della propria natura le stranezze caratteriali di ‘condottieri’ la cui impronta tende incontrastata a espandersi oltre la sfera dell’ordinaria correttezza amministrativa, a prevaricare attraverso i mass media con una insistente improntitudine priva di delicatezza e qualsivoglia urbano senso della privacy, tale verdetto inappellabile discende come passaggio obbligato di una sorta di peccato originale del popolo tutto, del cui peso il singolo membro si carica in quanto appartenente a una comunità sbilanciata e non funzionale.
In casi simili, sussiste in media una sorta di subliminale sindrome di Stoccolma, l’acquiescenza rassegnata per una espiazione dovuta, nell’obbligo che viene imposto all’elettore di accettare le implicite ingiurie e avvilirsi davanti a uno specchio per iniziativa di chi, eletto, riesce a brillare con la sola virtù concessa dalle dilaganti incompatibilità strutturali: la tracotante baldanza del maschio alfa, dell’esemplare dominante nel caotico branco.
Valga a riprova il modo in cui, quasi per disposto di leggi inviolabili e senso superiore di giustizia, si replicano le tipologie personali nonostante un passaggio di consegne politiche da una compagine all’altra, nonostante le precedenti, furiose esecrazioni di specifici tratti antropologici prima che quelli cambiassero di abito e si redimessero così agli occhi degli esecranti, dimostrazione palese di quanto determinismo super individuale giochi in siffatte curiose e tragicomiche vicende.
Decisione lungimirantissima: speriamo solo che passi almeno un decennio prima che trapelino notizie negative sulle riserve di greggio del Medio Oriente, le quali, secondo le solite malelingue, sarebbero più vicine all’esaurimento di quanto comunemente si creda.
Bah, chi conosce la verità dei fatti si starà muovendo di conseguenza e chissà che le nuove orde jihadiste non anticipino un’era di potentati cedenti e di clientele che cambieranno bandiera quando i petrodollari non innaffieranno più i loro ideali.
L’importante è stendere in fretta un velo pietoso sulle scelte politiche e gestionali degli ultimi anni, chi ha guadagnato e chi ha perso, chi è stato accorto e chi meno.
Grazie a Mamma Rai, a Mamma Mediaset e ai coraggiosi azionisti dei grandi editori, i giornalisti d’indagine, in Italia, sono una razza in via d’estinzione e quindi grossi pericoli non si vedono all’orizzonte.
Anche se spuntasse o si confermasse qualche rara avis di quel tipo, il picco isolato che determinerebbe nell’encefalogramma dell’opinione pubblica italiana verrebbe immediatamente subissato dai cavalloni sollevati in seguito alle ultime sbalorditive uscite di papa Francisco o Balotelli.
Il segreto di una sinistra ‘moderna’ è la piacevolezza.
La differenza sostanziale tra i Bush, da una parte, e Clinton od Obama, dall’altra, a parità di obbiettivi (consolidare nel mondo il dominio a stelle e strisce grazie alla forza militare e al successo economico delle grandi Corporation) riguarda le scelte di metodo: per quegli scassacazzi dei repubblicani s’impongono proclami marziali insistiti e martellanti, epici richiami al pubblico sacrificio, per i democratici ci si deve invece rilassare, godere il presente e lasciar fare alle forze libere e vive del mercato e della nazione. In politica interna i risultati relativi si sovrappongono: quello che conta è uno spirito privato d’iniziativa e un dinamismo civile che finora (finora!) resiste (sostenuto dagli sforzi di tutto il mondo e dai risparmi cinesi); in politica estera purtroppo abbaiare non basta, ogni tanto qualche migliaio di morti, tra i due fronti, ci vuole, per cui con il serafico Clinton arrivano gli Osama Bin e con Obama Bar i califfati.
In fondo la sinistra è rimasta ferma ai primordi eroicamente irreprensibili dello stalinismo, quando i contadini lavoravano cantando per diciotto ore di fila, senza perdere troppo tempo a mangiare (per quelle due robette che c’erano non valeva nemmeno la pena). Siccome non ha potuto durare a lungo, padre Giuseppe ne è rimasto contrariato fino a diventare un po’ carogna.
I comunisti ‘dal volto umano’ e quelli dal volto alfano, come Renzi e Berlusconi, sono più fortunati, non hanno bisogno di chiedere proibitive prestazioni canore, intanto possono contare su Francesco Sugar The Pope che, tra una ola, un balletto e un segno della pace, ti sprona perfino i cadaveri (lavorare fino ai 75? si vede che non ha mai fatto un lavoro vero, dove le pensioni non esistono, di solito la gente rimedia morendo molto prima!), inoltre le performance da caldeggiare appaiono sopportabilissime, come andare ogni giorno a compiere il proprio dovere a cinquanta chilometri da casa, se necessario (lo stipendio di sicuro copre la benzina e sottoscrivendo la tessera di partito o di qualche associazione cattolica si ha diritto a uno sconto), o lavorare secondo la discrezione ‘umana’ del committente, appesi a un labilissimo filo che non si rompe soltanto se possiedi le stesse tessere o paghi in natura o sei amico dei ‘consigliori’ (altrimenti pussa via, azzeriamo il contatore dei tre anni, dovendo continuare a competere non ci si può permettere ingenuità e cretinate).
Migliorando i telegiornali, le prime serate, i pomeriggi domenicali, i quiz e i trucchi delle star, si garantisce in cambio una quotidiana iniezione di fiducia.
Qualche economista mi spiega, per favore e di grazia, se e come si dovrebbe ridimensionare un PIL gonfiato da un’alta incidenza percentuale di produzioni e servizi in beni voluttuari (assistenze estetiche, massaggi e fisioterapie di tesoretti e patrimoni vari, oggetti decorativi, vestiario elegante, cibi raffinati, intrattenimento, spettacoli, turismo, festival, fiere, riciclaggio, consumi dei redditi delinquenziali…) e puntellato dalle megalomani opere una tantum che sollucherano l’esibizionismo di politici specializzati nel farsi baciare, insieme alla mano, il pubblico portafoglio? Come paragonare questo strazio di feroci egotismi e devastazioni territoriali con un PIL sostanziato invece da un effettivo valore ambientale, tecnologico e ingegneristico?
Come si può equiparare il consumo fine a se stesso e la cura della ricchezza (lecita o meno), che in eredità lasciano soltanto una via spianata per i disastri futuri, alla diffusione di mezzi, nuclei e progetti efficienti, piani di salvaguardia e ripristino, accorte gestioni energetiche, tutte intraprese che durano nel tempo e nel corso di tale durata fungono da riorganizzatori e potenziatori delle più disparate attività produttive in una catena di mutui ritorni e rinforzi?
Di quanti punti si deve rivalutare un PIL che si armonizza con capacità di gestione naturalistica, urbanistica, archeologica e quanto dobbiamo sottrarre a quello che lascia dietro di sé cimiteri di scorie tossiche, scempi naturalistici e architettonici, azzeramenti di bellezza?
Domande collegate: quali modifiche degli indici comporta il tenere conto della resistenza a stress futuribili ed emergenze dei più svariati motivi? Come si può dare una stima econometrica di quel tipo sempre più essenziale di ricchezza che consiste nel livello culturale di un popolo (e quindi anche nella capacità di una classe politica e amministrativa di forgiarlo) con particolare riferimento all’incidenza relativa di quelle predisposizioni che consentirebbero una qualità della vita sfrondata dagli ingredienti più insostenibili e distruttivi?
Guardando certi bellimbusti della politica e la loro capacità di gestire il consenso al di fuori di qualsiasi visibile spessore culturale, in assenza di un’autentica e manifesta profondità di visione, nel più totale appiattimento della personalità sui luoghi comuni della socievolezza spicciola e ingannevole, da festa paesana dove tutto si stempera in chiacchiere e forzosa allegria, dove tutti hanno ‘fiducia’ per non guastarsi il momento in vista dei triboli del giorno successivo o perché non contano le banalità sciorinate a iosa o le maschere di carnevalesche idealità, ma soltanto strusciarsi e magari, perché no, scoparsi l’un l’altro, guardando e vedendo tutto questo, c’è da porsi le solite disperate, inconcludenti domande: ci fanno o ci sono? Sono colpevoli per la popolarità che li circonfonde o il demerito è tutto di chi li vota?
E il semplice porsi tali domande denuncia una pericolosa deriva antidemocratica o la schiettezza di una disillusione quasi doverosa?
Di sicuro, alcune recise e dolorose spaccature all’interno delle mentalità correnti depongono a ulteriore conferma di una crisi, ma non dobbiamo farci illusioni: chi formula soluzioni radicali ma non riesce a promuoverle sarà giudicato alla stregua di un fattore aggravante, soprattutto quando tale radicalismo può essere giustificato solo da eventi futuri che potrebbero essere dietro l’angolo oppure ritardare di anni o addirittura decenni.
E’ viceversa facile e remunerativo profondere magnanima bonarietà e intanto accentrare i poteri e assottigliare le libertà sostanziali, quando la vista del ‘pubblico sovrano’, impegnato mattina e sera a sfangarsela, a ‘tirare avanti’, non può arrivare al di là di ricette come il dittatore dal volto umano o la carità dei rappresentanti di Dio.
E’ ovvio, a questo punto, che la prosecuzione di un trend attraverso un riformismo di facciata sia l’opzione preferita da molti, anche perché, temperamento a parte, la prospettiva profetica non è lusso che si possono concedere in molti (risatine di compiacimento e accenni di applauso).
Dopo aver considerato sia la bassa qualità di certi tipi di PIL, che rendono dipendenti da una domanda estera generosa quel tanto che è consentito da prosperità e interessi stranieri e non di più, insieme ad altri fattori negativi come lo stato disastroso delle finanze nazionali, la iniqua e disfunzionale struttura distributiva della ricchezza, lo scadere di ciclicità storiche e planetarie che impongono uno stravolgimento radicale dei modelli di sviluppo, quale via è più logico intraprendere, quella della fatica di Sisifo di una ristrutturazione tradizionale condannata con verdetto quasi certo al fallimento o quella di una reinvenzione dei più fondamentali concetti economici e politici?
Una volta individuata la linea giusta, non sarebbe bene incoraggiare tutte quelle attività che rivestono un’effettiva utilità sociale e tartassare invece iniziative da ‘buffone del re’ o ‘funambolo di corte’, tutte quelle intraprese, cioè, che soddisfano soltanto al divertimento e agli sfizi di ricchi o di scialacquatori? Che cosa ne pensa signore economista?
Inoltre gradirei sapere se qualcuno abbia meditato su come scorporare dalle stime di PIL quei contributi che derivano direttamente o indirettamente da un calo più che proporzionale di ricchezza privata, come per esempio gli interventi per rimediare a disastri idrogeologici, le cure delle malattie per stress ambientali sia fisici che psicologici, le vendite per acquisti forzati provocati dall’azione implacabile di un’obsolescenza programmata che impazza in assetti di disoccupazione strutturale e quindi di povertà che cresce nel tempo (divaricando la forbice tra la medicina che serve alle aziende e quella utile alla gente), le pendenze rimaste irrisolte, ma non formalizzate, seguite a crisi aziendali e fallimenti vari, più molti eccetera collegati a instabilità e perdite di controllo e tutti gli effetti latenti e corrosivi per impostazioni generali vetuste e inadeguate.
Grazie.
Capisco bene come un certo orgoglio intellettuale possa costituire, in questi tempi di lupi gentili adorati da vitelli grassi e pecorelle ignoranti e sprovvedute, un sollievo e un refrigerio, soprattutto quando il semplice scrostare un po’ la patina dell’inganno procura una nomea di iettatore da parte di quelli che, menando e brigando alla cieca, si considerano depositari e concessori di chissà quale polizza divina.
Certi fremiti di compiacimento aristocratico tuttavia mi preoccupano.
Non dobbiamo isolarci nel disprezzo per la mancata comprensione, ma stilare giorno dopo giorno, con implacabile meticolosità, quel catalogo delle nequizie altrui che, in un momento che io giudico più vicino di quanto non faccia il mio esimio collega, inchioderà i nostri avversari ai loro tragici errori.
Johnny Spatafora Plizenko detto Malocchio contesta l’intero impianto della società globale
Quando è un intero modello socio-economico che scricchiola, quali interventi si dovrebbero attuare nelle scritture di bilancio di aziende e nazioni (Cina, India, Giappone e Stati Uniti in testa) a copertura dei rischi? Non è forse vero che uno dei criteri non secondari per giudicare la qualità e la solidità di un bilancio richiede una valutazione attenta delle voci ‘ammortamenti’ e ‘accantonamenti’?
E quanto dovrebbe accantonare ogni singola azienda, dalla più piccola alla più grande, fino a una nazione intera, per conferire una monetizzazione adeguata agli attuali rischi sistemici?
Le devastazioni ambientali sono a costo zero per l’apparato produttivo e al massimo riguardano soltanto i singoli cittadini? L’esaurimento delle materie prime è indolore perché non viene registrato nei prezzi? Se la vista degli operatori economici, sempre alleata di quelle tecnostrutture che mirano soltanto a massimizzare il profitto immediato, non arriva più in là di un paio di anni, è giusto così? Che accade se la massa critica di quelli che non hanno nulla da perdere conferisce a una qualsiasi area del mondo un ruolo di minaccia esplosiva e il contagio si allarga? (Ricordate il vecchio detto? Meglio un giorno da leone che cento anni da pecora!) E se la destabilizzazione del clima comincia a farsi sentire davvero (un giorno di caldo mortale in una megalopoli o, al contrario, l’avanzata del gelo per l’arresto della circolazione termoalina)? E se un’eruzione solare o una cme mandano in tilt da un giorno all’altro per intero o in larga parte le reti satellitari ed elettriche mondiali?
Dalla corrispondenza di Virginio Orenziani de Medici: lettera ricevuta da un sottosegretario dell’ultimo governo partitico.
Caro mio, scrivo in via riservata e auspico, nel comune interesse, che tu non voglia diffondere il tenore di queste considerazioni: prendile come uno sfogo ad alta voce, utile anche per riordinare le idee e sollecitare consigli.
Leggendo le considerazioni dello Scacca su come la qualità del PIL rende il nostro paese la Scimmia Ammaestrata e l’Orso Ballerino dei paesi più ricchi, ripensavo a un’intervista rilasciata recentemente, con il giusto orgoglio e il doveroso sfoggio di fregi, galloni e mostrine, da un alto ufficiale coinvolto nell’operazione Mare Nostrum, quella formidabile esibizione di abilità marinaresca intesa ad arricchire schiavisti che guadagnano in proporzione alle vittime registrate dalle cronache contestuali: quanti più morti annegati ci sono e ci saranno, tanto più i baluardi di confine, gli ufficiali custodi della nostra sicurezza gonfieranno di orgoglio il petto per la propria efficienza umanitaria e tanto più gli organizzatori dei trasporti clandestini potranno servirsi di bagnarole e gommoni rattoppati.
In linguaggio evoluzionistico si chiama corsa agli armamenti, anche se qui l’applicazione del concetto è abbastanza paradossale: chi perde si arma, chi vince si disarma e il risultato non realizza più sopravvivenza, ma più stragi e morie.
Speriamo che i Servizi Segreti, invece di perdere tempo con i Kolibiani, abbiano almeno capito che il sistema consente una scorciatoia nell’individuazione dei terroristi che s’infiltrano dietro la nostra linea di fuoco umanitaria (avanguardie del califfato che quando è pronto ci dichiara guerra in quanto centro del cattolicesimo), tutti in viaggio su mezzi molto più sicuri di quelli in cui sarà imbarcata in modo sempre più precario la manodopera destinata a lavorare a prezzi stracciati per boss, trafficanti e imprenditori disonesti o disperati (tutto grasso che cola per un PIL che adesso incassa anche i contributi malavitosi).
La mia sensazione, insomma, è che il nostro paese, grazie alle aristocrazie che, per ora, ci guadagnano, stia diventando la scimmia ammaestrata e l’orso ballerino anche delle nazioni meno ricche e addirittura povere.
Mi è anche venuto in mente quel film della Manetti Bros di cui ti avevo parlato, hai presente?, Wang che fa qualcosa, arriva, sì, ‘l’arrivo di Wang’, quello che immagino sia piaciuto poco alle ‘Istituzioni’ e ai suoi critici organici perché politicamente scorretto, ovvero non ipocrita. Ricordi quali erano le ultime parole rivolte dall’extraterrestre all’esterrefatta trasfigurazione della generosa e fervida protagonista (uno straziante dagherrotipo che emerge dalle macerie dei bombardamenti, il ritratto di una vaporosa, rinascimentale Madonna alla Maria Elena Boschi)?
“Sei proprio una cretina!” Con un tono tra l’incredulo, il commiserante e il divertito, quell’aria biecamente notarile da rugoso condor dei comics, da jedi Joda imbolsito e incarognito: impagabile!
Tonio Amianto Favela da ‘La catastrofe negata’
I ritmi temporali della Natura ingannano la psicologia umana al punto che diventa incapace di valutare l’accelerazione antropica impressa ai processi naturali.
Le dinamiche e i rapporti di scala delle transizioni sistemiche esulano dai parametri che si usano comunemente nella vita di tutti i giorni, così l’interessata ignoranza e l’elementare incoscienza possono andarsene spensierate a braccetto accanto ai germi delle più ovvie e ineluttabili apocalissi, confidando nella protezione di qualcosa di non meglio definito chiamato ‘Dio’.
Le scansioni interne di processi e ambiti di causalità che trascendono il concetto stesso di specie animale e, a maggior ragione, quello di una umanità che vi interviene senza possederne alcuna cognizione o esercitarvi alcun controllo, creano un tipo d’influenze reciproche la cui importanza capitale non è comunque adeguabile ad alcun contesto politico tradizionale.
Priva degli strumenti concettuali e linguistici per affrontare tali problemi cruciali, la dialettica civile non trova niente di meglio che proiettarsi all’interno di un’area d’inviolabilità assolutamente fittizia, si confeziona aprioristicamente una lettura indebitamente tranquillizzante della propria posizione nel mondo, stolidamente ‘ragionevole’ soltanto nell’ottica di interessi a breve termine.
E in quanto a questi, è bene parlarci molto chiaro: chi ha 100 non sacrifica 50 per una probabilità di perdita totale ignota, ma comunque stimata molto meno del 50% (e tale stima si modificherà poco fino al momento della certezza), dal presente per la durata di una vita, mentre, stante la stessa stima attuale, poiché si tratta di evitare rischi capitali, chi attualmente detiene per un 10 essenziale e non revocabile accetterebbe senza indugio di scambiarlo con un 10 di natura diversa.
Una siffatta impostazione in termini di teoria dei giochi, se appartenesse alla sfera del comune confronto sociale, evidenzierebbe ipso facto conflitti profondi: sarà allora sottaciuta sulla base degli interessi di quei ceti che presiedono alla fabbricazione dei filtri culturali.
Bisogna anche considerare però che alla parte maggioritaria che possiede l’indispensabile o poco più non può realmente importare più di tanto se il mondo va all’aria.
Dopo che nell’analogia l’atto fisico del divorare sia stato sostituito da modalità economiche di controllo, ricatto o completo dominio schiavistico (sostituzione necessaria finché, in qualità di cibo, continueranno a funzionare molto meglio degli homo le altre specie animali e vegetali: se non fosse così, i nuclei dominanti finirebbero prima o poi per allevare esemplari umani alla stessa stregua del bestiame da carne), pretendere che un qualsiasi assetto sociologico non si sviluppi in una intricata architettura ecologica di prede e predatori richiede una somministrazione alcolica di forte idealismo. In particolari fasi storiche, certe affermazioni potranno sembrare agli sprovveduti perversamente allucinate e grottesche, ma l’assottigliarsi e l’estinguersi delle risorse primarie o un qualsiasi evento catastrofico fuori dal comune può proiettarle da un giorno all’altro nella sfera del plausibile.
Stemperiamo un po’ (l’ironia di Beniamino Francoli)
In politica, avviene normalmente che un ministro, da un giorno all’altro, con grande spirito di abnegazione, accetti di spostarsi da un ministero all’altro, per esempio dai Beni Culturali alla Sanità, guadagnandosi un credito ideale di eclettica perspicacia ed enciclopedica sapienza (la tesi anarchica e disfattista che il movimento riveli lo scarsissimo apporto sostanziale dell’alta politica alla effettiva gestione tecnica e amministrativa va rifiutata in toto).
Quanta incommensurabile distanza intercorre tra un mondo di semidei dalla superiore intelligenza e la massa di inetti semi deficienti che pullulano nel comune mondo del lavoro, dove le aziende arrivano a pretendere (e ci sarà pure una ragione se gli onorevoli legislatori annuiscono!) che un giovane studi soltanto per le attività ultra specialistiche che interessano a loro!
Intermezzo epistemologico (apocrifo di Anonimo1)
Le persone che affermano un relativismo gnoseologico totale, l’assenza di qualsiasi possibilità di approssimare anche l’ombra di una verità oggettiva o almeno di concepire gradi successivi e crescenti di certezza intorno all’oggettività della Natura, si contraddicono ogni volta che devono ricorrere a un tecnico o a un esperto di settore per sbrigare specifiche faccende: per esempio quando non riparano l’auto in casa, ma la portano dal meccanico.
In realtà quello che vogliono significare risuona press’a poco così: non esiste una verità mondana che possa soddisfare l’essenza sublime e ineffabile della mia personalità profonda.
Di solito, infatti, queste persone esibiscono una giunonica vocazione religiosa.
Si considerano immensamente e anche infinitamente superiori a un motore di automobile o a una caldaia, per cui ritengono concetti adeguati a quei macchinari risibili e perfino insultanti se applicati alla propria natura.
Così, pur affermando l’impossibilità di addivenire a qualsiasi risultato certo e incontrovertibile, non ne approfittano per svolgere tutta una serie di ipotesi e sondare i conseguenti scenari riguardo a se stessi e alla propria posizione sociale, non si guardano mai in modi che il possibilismo e ‘indifferentismo’ illimitati della loro filosofia anti-scientifica renderebbero pienamente legittimi, sospettando, per esempio, di essere persone fasulle, ipocrite, sopravvalutate, la cui carriera è dipesa da trucchi e falsità.
Più in generale, quando si tratta di giudicare la congruenza delle gerarchie sociali, i redditi e privilegi di un entourage ritenuto amico o alleato, tutto il loro relativismo di sottili intellettuali si stempera in ineffabili e gratificanti certezze.
Non c’è da stupirsi che lo spirito religioso sia tanto gettonato in società.
Già in via preliminare e con giudizio certo e inappellabile, l’ipotesi di Dio non può costituire il presupposto di una spiegazione razionale del mondo, in quanto Dio, essendo creatore del mondo stesso, deve essere considerato su un piano concettuale enormemente più complesso di quello che ha creato: poiché qualsiasi procedimento cognitivo che passa dal semplice al meno semplice o dal complesso al più complesso non si può interpretare come una spiegazione, consistendo in effetti in una complicazione, la teologia, nella più significativa accezione che vi si può attribuire, risulta nulla più che lo strumento professionale di filosofi azzeccagarbugli ingaggiati in un sistema sociologico d’influenze.
La torre di tartarughe, ovvero la caricatura del modello esplicativo che richiede un rimando all’infinito del termine finale (il mondo poggia sull’elefante, l’elefante poggia sulla tartaruga e la tartaruga su che cosa poggia?), delinea allora un tipo di risposta metafisica più ingenuo, certo, politicamente parlando, ma anche meno illogico: perlomeno lascia aperta la possibilità di una saldatura del cerchio, di uno stabilizzarsi delle funzioni d’onda universali in una oscillazione stazionaria, una torsione topologica delle torri, una progressione frattale dei nodi quantistici (come gli orbitali elettronici) all’interno di uno superspaziotempo curvo.
Al contrario, la torre di tartarughe a sbalzo categoriale dei monoteisti non può che proiettarsi nel vertiginoso vuoto senza fine, lo stesso che viene mitologicamente trasfigurato nel paradisiaco regno della beatitudine perpetua.
Se qualsiasi dio o dea non può assolutamente fungere da spiegazione, la relativa messa in gioco non attiene alla sfera della conoscenza, ma a quella dell’emotività e delle convenienze, va quindi iscritta in un complesso d’istanze istintive e/o sociali che coinvolgono vari atteggiamenti etnici e passionali, meccanismi difensivi di rassicurazione e conforto, collanti e stabilizzatori nei rapporti tra l’io e la comunità, costanti antropologiche e innatismi che coinvolgono esigenze di senso e di valore…
E’ tale sproporzione tra i contenuti ideologici (la Verità totale, il Bene unico ed eterno, la infinita Potenza) e i prosaici meccanismi funzionali di base a rendere le religioni istituzionali molto pericolose per un’autentica democrazia.
Niente nuoce più alla devozione che l’evidenza degli ingranaggi e dei fili, la messa in luce dei banali congegni da cui si sviluppa l’energia confessionale e allora l’esistenza stessa degli atei agisce come una confutazione in atto, bisogna considerarli alla stregua di minoritarie, forse patologiche, stranezze.
Un monoteismo tradizionale, per sopravvivere come istituzione, deve giocoforza identificarsi con una concezione autoritaria dello stato e saldarsi con altri interessi egemonici.
In società veramente liberali (difficili se non impossibili, data la congerie di insuperabili vincoli economici e strutturali che subissa ogni angolo del pianeta) la religione in senso classico si ridurrebbe ad associazioni monacali finanziate grazie al libero contributo dei simpatizzanti e all’offerta a stato e privati di servizi civili remunerati. Ogni religione si scontrerebbe con resistenze durissime qualora cercasse di espandersi oltre.
Niente funziona meglio come segnale di distanza da una democrazia liberale effettiva quanto il grado del potere condizionante assunto dal clericalismo organizzato.
I concetti funzionano bene in isole di regolarità, ma queste, nel mondo effettivo, si disperdono nel mare delle eccezioni. Un esercizio minimale della razionalità richiede in un modo o nell’altro di erigere palizzate intorno alla civiltà e preservare al di fuori quella jungla da cui bene o male dipendiamo.
Purtroppo, poiché a decidere sono coloro che, sotto sotto, pensano di non aver niente da perdere e anzi di avvantaggiarsi se a imperversare sono le leggi della jungla, si preferisce abbattere i recinti cercando di addomesticare la jungla.
Quando calò il suo argomento (“So che è un uppercut sferrato da un pugile a un bambino – si giustificò – ma a un bambino killer come quello nascosto nel tunnel del cult horror di Larry Cohen”), un suo vecchio conoscente lo rimproverò di usare argomenti antichi, datati, consunti, fuori moda e fuori design, ed era un tale che ripeteva la stessa filastrocca da più di quarant’anni, sempre in difesa del solito modo filone, gigione e marpione di destreggiarsi e veleggiare, della solita piratesca, salamandrica astuzia dei silviuzzi che sono passerottini.
L’asserzione di Marat, che qualche migliaio di teste tagliate avrebbe evitato alla Repubblica francese guai molto peggiori, è considerata una ripugnante mostruosità, mentre la tesi degli Stati Maggiori statunitensi secondo cui un paio di bombe atomiche e duecentomila vittime civili giapponesi sarebbero valsi a diminuire il costo complessivo di morti a stelle e strisce, merita ancora il grave, ponderoso, amletico rispetto degli storici più sottili.
In effetti, Marat appare un personaggio molto patetico: nell’epoca d’oro delle aristocrazie da lui combattute, la percentuale di nobili e ufficiali caduti rispetto a civili e soldati semplici era enormemente più alta di quanto non avvenga nei tempi presenti, in cui le élite del censo esecrano i campi di battaglia e vorrebbero delegare per intero l’antiquato privilegio dell’assassinio ai tecnici che manovrano i droni.
Nelle aristocrazie guerriere esistevano regole di onore, rispettate o meno, che imponevano parità di condizioni e il disprezzo per i mezzi sleali a prescindere dalla qualità e dal valore dell’avversario. Oggi, invece, combattere un uomo armato di fucile con un superjet armato di missili non disturba affatto le attuali aristocrazie del denaro.
Riuscire ad ammazzare i soldati degli altri senza sacrificare i propri testimonia inoltre quanto sia più raffinato e intelligente il militarismo di sinistra rispetto a quello di destra e spiega una buona parte dell’ammirazione che, nei confronti della scienza, nutre ancora la più venerata tra le ideologie attuali: l’umanitarismo autoritario.
Immaginate uomini che hanno semplicemente compreso lo stato d’immensa fragilità della condizione umana e quanto il futuro dipenda dall’esercizio inflessibile di capacità razionali finalmente emancipate dal gioco stupido e folle delle illusioni seminate e concimate da meschini, venali, vanitosi interessi: come dovrebbero reagire costoro, davanti alle ridicole sceneggiate di individui al potere che possono permettersi avventure e vacanze nei luoghi più affascinanti della Terra e invece dichiarano pubblicamente di aver vissuto emozioni insuperabili partecipando a fiere del confessionalismo popolano come Medjugorje? Luoghi dove, come se la storia fosse alla fine una pochade e il progresso culturale un acrobata e un saltimbanco, tutte le abilità comunicative e scenografiche ruotano intorno a modesti archetipi visionari riassumibili nell’apparizione della Madonna a pastorelli diventati nel frattempo operai, artigiani o impiegati. Che senso di fiducia e di identificazione uomini non ancora convenientemente privi di ragione (libera e speculativa, non pragmatica e opportunista) dovrebbero trarre da tali rappresentazioni della mentalità di persone che tengono in pugno una buona parte del loro destino?
L’intelligenza analitica, l’incondizionata ragione sono diventati dunque lussi presuntuosi ed esclusivi? Forse, allora, l’umanità stessa è un lusso che il pianeta non può più permettersi. Forse, per un pianeta modestamente scaltro, non più temerario e sognatore, è venuto il momento di disfarsene.
Forse è finito il tempo del Dio dei poveri di spirito ovvero dei cretini, per vocazione o per necessità. Quale Dio, antico o moderno, potrebbe sopportare umiliazioni così lunghe e ripetute?
Benché non manchino ovviamente documenti espressivi e rivelatori da focalizzare all’interno della sterminata pubblicistica dell’epoca, è difficile determinare un limite temporale dopo il quale, a prescindere dalla follia o meno, dalla sua precocità o avventatezza, possa considerarsi ripristinata una convinzione non episodica, ma compiuta e diffusa, anche se ovviamente minoritaria, della necessità ineluttabile di una lotta armata insurrezionale.
Se non fosse rimasto a lungo un caso isolato, un segnale si potrebbe chiaramente identificare nello sfogo televisivo, sottoposto subito a censura, di quel pazzoide, condannato ormai alla damnatio memoriae, che, durante un programma televisivo a cui assisteva tra il pubblico, malauguratamente interpellato, sbottò dicendo press’a poco così: se non vengono istituiti per legge centri di eutanasia assistita a disposizione di chi non sopporta la vita di merda che ci aspetta in mezzo all’invasione degli ultracorpi schiavisti o leccaculo, come potete sperare che qualcuno, dovendo pericolosamente e in modo umiliante e antiestetico optare per l’omicidio violento di se stesso (che comporta una laida intrusione di investigatori e redattori di cronaca nell’insindacabilità di una scelta personale), non prenda in considerazione di compiere prima un atto di ribellione terroristica?
In teoria dei gruppi, la branca della matematica pura che, traducendo il concetto di simmetria in modo sistematico e pressoché definitivo, si sta rivelando la più consona alla natura fondamentale della realtà fisica, il teorema di Cailey sull’isomorfismo tra un qualsiasi gruppo e un corrispondente gruppo di permutazioni, occupa mezza paginetta, mentre il teorema di Feit e Thompson, in apparenza molto meno profondo e significativo (anche se importantissimo per la classificazione generale), si estende per 250 pagine.
L’istinto è connaturato in ogni animale per esigenze di reattività immediata, di risposta rapida alle imprevedibili sfide ambientali: soltanto percorsi effettivi di ricerca, non percezioni intuitive o istintive, ci permettono di stabilire quanto siamo distanti dall’acquisire la verità strutturale dei fenomeni e quindi anche dal poterci raffigurare la loro evoluzione e il loro esito.
Quanto detto, situato nella giusta prospettiva, significa altresì che, nel progresso delle conoscenze di qualsiasi genere, non esiste alcuna sostanziale differenza tra indagine empirica e indagine teorica.
La leggerezza di Lubitsch o di Capra non è più compromessa o meno innocente di quella dei grandi autori di favole. Si può essere abbastanza sicuri che volevano crederci o almeno ce la mettevano tutta per illudersi di volerci credere.
Billy Wilder è superiore alla compromissione o all’innocenza: la sua ‘leggerezza’ rivela la facilità e l’indifferenza con cui la vita assolve o condanna con poca considerazione di quanto ci si affanni.
Con Woddy Allen, la leggerezza cessa di essere l’arbitrio del caso, per diventare una spensierata ingiustizia: la classe dirigente meno meritevole e più irresponsabile dell’intera storia umana si gode la morte di Dio.
Parlandosi addosso come in una sorta di diarrea dello spirito, abbatte il confine che una volta esisteva tra la sottile arguzia e l’esibizionismo osceno.
Allen piace molto all’intellettuale della sinistra italiana, che ignora le classi basse anche quando ne fa parte.
Per conquistare il pubblico raffinato di destra, ci vorrebbe un autore brillante che aggiungesse alla effervescente libertà delle classi alte la rinnovata sottomissione teologica di quelle basse, chiamando a godere di entrambi il suo pubblico di fini intenditori.
Non conosco ancora un simile scempio, se non a livelli molto dozzinali (fiction Rai, Mediaset o giù di lì).
Variante per i più grandicelli riservata a scuole private parificate dove le rette e i sussidi statali consentono di investire: si allestisce un locale in modo da riprodurvi la vibrazione atmosferica di un club riservato o di una festa da crociera; a ogni prova, a cui accedono solo gli alunni la cui famiglia corrisponde un extra, si arruolano vivaci e affascinanti tardone che si mangiano con gli occhi il giovane scolaro chiamato a esibirsi con una logorrea o uno strimpellamento qualunque.
Se le più moderne ricerche di psicologia empirica e sociologia del potere non mentono, si dovrebbe riuscire a far sbocciare nei nostri amati infanti il seme di una fiducia nel sol dell’avvenire degna di un futuro leader.
Per le scuole private, la bontà dell’investimento risulta palese se si valuta che il perdurante senso del conforto trasmesso favorirebbe una remunerativa gratitudine da parte di quel potente che vi assocerà nel ricordo le premesse indispensabili per il proprio successo.
La indecorosa e ruffiana premessa di Anonimo4 dopo il fallito blitz dei Kolibiani
Emerito e glorioso Principe del Denaro qui richiamato da un rigoroso scrupolo documentaristico, in seguito Vostra Grazia troverà spunti e commenti salaci che potrebbero urtare la suscettibilità delle menti austere, anche quelle più sobriamente distaccate e superiori.
La prego, mio signore, non si limiti alla superficie grezza e pietrosa, si degni invece di usare quel discernimento che la onora, la illumina, la eleva.
Voglia generosamente ascrivere all’enigmatico testo e ai suoi singulti i sensi di un riverente cuore al limite estremo di una corsa tesa e trafelata.
Possa il suo sanguinare trasfigurarsi in testimonianza di amore e di saggezza al servizio di tutti quelli che riconoscono il più divino dei verdetti: il mondo in vinti e vincitori scisso.
Il progetto e soprattutto il metodo erano lì, il popolo avrebbe potuto accedervi e assumerli a norma sovrana. Così non fu, altre possibilità non esistevano, che cosa è più utile di questa adamantina sentenza a rinverdire i fasti, i gaudi e le fragranti certezze di un imperituro regno di potenza?
Vostro umile servo per sempre.
Come incaricato della presente edizione mi sarebbe piaciuto divulgare l’identità dell’autore di questo ‘Progetto Colib’: non nascondo di essere intervenuto più volte al fine di convincerlo a rivelarsi al mondo e ricevere apertamente e umilmente i plausi e i riconoscimenti di quella vasta popolarità che io, Giancarlo Gualtiero Imenotteri, nato a Pieve di Sacco Imbottino, in quanto unico riferimento noto, sottraggo al destinatario legittimo.
La risposta è sempre stata un diniego: c’è già troppo personalismo in giro – ha ribadito – a fronte di pochissime idee sostanziali, il mondo pullula di leader itifallici che, invece di compiere alacremente, silenziosamente ed educatamente il proprio dovere per guadagnarsi uno stipendio più che dignitoso e appropriato, invadono continuamente la privacy familiare, la inondano con la spropositata dilatazione di un ego ritenuto degno di contagiare tutto e chiunque con il pretesto di chissà quale taumaturgica centralità. La Storia non sa più dove metterli questi preminenti figuri, belli o brutti, buoni o cattivi, acuti od ottusi, appena deposto quello che recitava avvolto in una bandiera avanza sotto il riflettore qualche copia conforme con un’altra divisa, non se ne può più, davvero, ma che cosa hanno mai concluso alla fine? Non si sa, dato che non è mai stato sufficientemente chiaro che cosa si prefiggessero oltre esigenze di potere e di carriera che solo nei casi più favorevoli potevano tradursi del tutto in una brama molto poco aristocratica (e proprio per questo assai apprezzata dai sudditi) di conquistare la venerazione delle folle.
Possedere o fingere tale brama è una dote indispensabile dell’uomo di successo (inteso come destinatario della simpatia popolare), poiché l’elettore (in senso lato) deve potersi considerare parte di un’entità da cui l’eletto dipende per un sincero impulso interiore, per una specie di irresistibile vocazione. Lo spettatore che si spella le mani ad applaudire e trasmettere affetto all’istrione sul palcoscenico o al candidato al comando alimenta il proprio entusiasmo con la presunzione che tale e nient’altro sia il lubrificante e il carburante della leadership, sarebbe molto deluso se scoprisse che una complessa idealità di obbiettivi contasse di più.
Per cui il dogma centrale delle divisioni marketing (fatto proprio dalla democrazia post-postmoderna) recita più o meno così: padrone assoluto del gioco è l’acquirente e l’acquirente si può giocare.
Inciso di Anonimo3 (primo biografo di Anonimo 1)
Se c’è un indicatore infallibile del passaggio da una democrazia liberale (con tutti i suoi difetti di base a prescindere da quanto sia pienamente realizzata, qui non s’intende certo crearne un mito) a una pseudo-democrazia elitaria di stampo liberista e neo socialista, morbidamente e capziosamente autoritaria, tale sintomo lo individuerei nell’abdicazione del leader tanto seriamente impegnato quanto elegantemente consapevole e distaccato, che piace al cittadino individuo, a favore di un modello costruito secondo i canoni della società dello spettacolo (che piace al cittadino suddito): una scelta astutissima che sembra strategicamente studiata dalle solite anime nere affinché la transizione sia avvertita il meno possibile, ma che in realtà appartiene a quella ratio immanente che misteriosamente permea l’infallibile istinto di preservazione delle classi privilegiate come le manifestazioni per molti versi inquietanti dell’Immaginario Collettivo.
Ma se i capipopolo, antichi o recenti, avessero palesato i loro piani o non piani (qualsiasi piano o non piano che non sia il prodotto collettivo di una (purtroppo ipotetica) intelligenza sociale), quanti gioiosi sostenitori sarebbero rimasti? Qualche prima donna ha vinto e altre hanno pareggiato o perso, per il resto si sa che gli avvenimenti sono raccontati con mille ambiguità non da chi vince, ma da chi è costretto a schierarsi, in un modo o nell’altro, conscio o non conscio (ah, spirito divino della vittoria! Come può Iddio tifare per i perdenti?) dalla parte del vincitore. All’interno di una valanga di tonanti arzigogoli, finora (finora!) il benessere materiale è avanzato comunque grazie all’evoluzione organica, oggettiva, sistemica della tessitura economica e tecnologica, quel processo impersonale sul cui dorso i papi della politica montano fingendosi piloti e ispiratori e dispiegandovi le loro belle ruote di pavoni. Finora (finora!) è andata così. Però già negli ultimi decenni si nota un fatto strano: il giudizio vale come media per il benessere mondiale, niente affatto per i singoli paesi, dove in molti si dà il caso che a prosperare siano soltanto cerchie minoritarie. Una vera domanda cruciale è: perché le fasce maggioritarie lo accettano, perché non chiedono una revisione dei criteri, dei modelli, degli scenari? Si rassegnano o sono ‘fiduciose’? E fiduciose in che cosa?
A me sembra stupido, non coraggiosamente ottimista, rifiutare di porsi un’altra domanda cruciale: dov’è il limite di quell’evoluzione o involuzione?
Di sicuro, in una Storia di idealità e di proclami slegati dai fatti, si vede molto caso e poca grandezza (a meno che non si consideri tale il coraggio smargiasso) e forse le due cose sono inversamente proporzionali.
Soltanto le menti vegetalizzate per eccesso di ‘ricostituenti’ possono auspicare l’avvento sulla scena di dei avventurosi e desiderare una vita spericolata: si dovrebbe invece, appena possibile, isolarsi nel cantuccio appartato di chi rinuncia a sfidare il Grande Fratello dell’Universo, anche se Esso, per qualche irrilevante fluttuazione, insinuerà prima o poi i suoi onnipresenti tentacoli e l’innesco esponenziale delle complicazioni e dei triboli scatterà inesorabile quando meno lo si aspetta. E anche se non accade, evenienza incredibile che diventa plausibile quando si consideri che la durata di una vita umana è in fondo un bazzecola per ogni forma di Causalità Primaria, l’attesa vale quasi altrettanto.
Diversamente, in mezzo alla folla, nel pieno della lotta e della vita, di buono, profondo e incisivo non accade mai niente: solo agitazione e rumore. E’ la legge essenziale dell’entropia. Uno non se ne accorge solo se vive nel recinto incantato delle proprie tripudianti fantasie e se lo porta appresso sempre e dovunque come il girello di un infante, il segreto per sentirsi giovani. Del resto la vita è così: una centrifuga di molti sgargianti colori tutti con il medesimo peso specifico.
E’ noto che i grandi artigiani del passato rompevano la simmetria dei propri intrecci quando temevano che la troppo perfezione raggiunta avrebbe indispettito gli dei. Oggi, nel formicaio unificato di tutta l’umanità, le creazioni più mirabili e spudorate si accatastano alla rinfusa in un mostruoso magazzino vivente che diffonde la sua mortale infezione epidermica sulla superficie di un povero astro, il decrepito pianeta degli umani, fintamente succube e remissivo.
Solo i blasfemi e gli eretici della falsa religione continuano a giocare d’azzardo con la dea Fortuna in persona, sfidano le leggi del caos aggiungendo altro caos per l’impulso di nient’altro che la propria infantile baldanza, così quasi tutti sono costretti ad aggirarsi sonnambuli in mezzo a quel rombante ingorgo impazzito dove i maggiori responsabili sfilano su agili motorette come giovani delinquenti spensierati in cerca del prossimo scippo.
Ed ecco i decreti per rilanciare le grandi opere, ecco le delibere ammazzaboschi per rivitalizzare con suffumigi cancerogeni una società malata terminale che avrebbe solo bisogno di riposo e analgesici, di quella pace e quel silenzio necessari allo studio e al progetto di nuovi ordinamenti.
Un nordamericano (ovvero un appartenente a quella stirpe che è la prima responsabile dei dissesti climatici e ambientali, uno di quei selvaggi per soddisfare in pianta stabile il modello generalizzato del quale ci vorrebbero sette pianeti invece di uno), a un paio di orette o poco più da casa (velocità di crociera) si trova in mezzo, se vuole, a una natura pressoché incontaminata. Un lombardo, ovvero un abitante di uno di quei territori che, anche senza spiagge per la tintarella, lo struscio, l’aerobica o il karaoke, solo qualche decina di anni fa poteva annoverarsi in assoluto tra i più belli del pianeta, (avete mai sentito un localista, federalista o secessionista rivendicare quella bellezza? Troppo abbagliati dal mito del superuomo iperboreo innamorato della bionda fabbrichetta dagli occhi azzurri!) per sfuggire all’antropizzazione dilagante deve sudare le proverbiali sette camicie e spesso non ci riesce. Eh sì, c’è proprio da farsi venire i lucciconi pensando alla generosità verso i nostri poveri connazionali che sbarcavano a New York.
Ma non dobbiamo essere pessimisti, piuttosto guardare l’altra faccia della medaglia: sissignori, il dissesto idrogeologico permanente è una panacea e una boccata di ossigeno per quei PIL molto svegli che non si fanno scappare nemmeno una fattura delle riparazioni e riequilibrano così un paniere che chi scende sempre dalla parte sbagliata del letto e soffre di mestruazioni pensa sia troppo sbilanciato verso l’effimero fine a se stesso, la dissipazione edonistica, la soddisfazione degli appetiti che crescono in un’aria grigia tra la legalità e il crimine.
Una fisima da sciocchi, in realtà, covare la preoccupazione che una simile economia si regga su piedi di argilla: per non avere problemi a lungo termine, basta mantenere florida un’aristocrazia del censo, ingaggiare al suo servizio un numero adeguato di cortigiani e servitori e fare in modo che gli altri non rompano i coglioni più di tanto.
Tutto è possibile per una nazione che inventa 1) un rigoroso statalismo da padri della Costituzione che non solo smette di rapinare, ma si prosterna indaffarato e servile in quelle aree dove il secessionismo è un reale pericolo, 2) autonomisti che non tutelano e anzi devastano le bellezze locali e non riconoscono agli abitanti di una grossa valle il diritto di veto sulla gestione del proprio territorio, 3) un partito di sinistra comandato a bacchetta da un premier che ha partecipato a un telequiz della televisione controllata dal tycoon che comanda a bacchetta il partito avversario, 4) anarchici, rivoluzionari e comitati di base, culturalmente ed economicamente influenti, che, non appena Cia e Kgb cessano di duellare e i fondi vengono meno, si squagliano come neve al sole, 5) un confessionalismo umanitario, pietista e pauperista che funge da principale strumento ideologico utilizzato dalle alte gerarchie tecnocratiche per il controllo delle masse, 6) intellettuali caustici, spregiudicati, anticonformisti che considerano un’onorificenza spirituale rinculare davanti alla disciplina di partito, 7) intellettuali caustici, spregiudicati, anticonformisti che manifestano allegramente i fili delle dipendenze economiche spalancando l’impermeabile per mostrare a tutto il paese un’erezione tutto sommato così e così, 8) una destra che, invece di essere rigorista come tutte le destre serie, è ‘garantista’, o perché ritiene che le classi agiate non possano diventare o restare tali senza delinquere oppure perché delinquere nel giusto, elegante e ‘moderato’ modo può ben rientrare tra le raffinatezze di un’autentica aristocrazia di sangue, 9) una sinistra che accorre festosa ai funerali dei ‘veri compagni’, il cui tipo più pregiato è l’autore e strimpellatore di filastrocche melense, supermilionario, sì, ma così deliziosamente autentico e ‘umano’ nei suoi opportunismi e nelle sue vigliaccherie! 10) una sinistra che pregia talmente queste rarefatte atmosfere culturali da trovare tollerabile, una volta che tramite esse sia stata disinfettata e profumata, la teoria rozzamente realista che la maggiore quota media di benessere si ottiene soltanto per intercessione della ricchezza concentrata e dinamica.
Vorrei continuare, ma il signor Imenotteri sta battendo l’indice sull’orologio.
Quando sono tornato alla carica e ho fatto presente che una minoranza di persone infide e maldisposte ventilavano che l’anonimato mascherasse timidezza e vigliaccheria, ecco la risposta, che riferisco con assoluta neutralità, non escludendo che si tratti di una maliziosa vanteria: “mi risulta che perfino alcuni servizi segreti si sono occupati del P.C.: quanto tempo ci mettono le persone pericolose (sinonimo di potenti) a verificare chi è il titolare di un sito?”
Bene, amici, è evidente che a questo punto, al posto di un macho riformista, vi dovete accontentare di un filosofo e profeta in incognito (anche perché i sondaggi eseguiti a tempo debito per mettere in piedi una squadra di pimpanti visionari hanno emesso, effetto di selezione permettendo, un responso probabilistico negativo). Nondimeno, mi ritengo autorizzato a rivelare che l’autore della prefazione che segue non è il titolare del sito, bensì un suo complice preventivamente benedetto e illuminato. Sarebbe per voi una vera sorpresa scoprirne l’identità.
Mi riferirò a lui come Anonimo2. Vedrete che in ogni caso non resterete delusi.
Vaughn Orrin Greenwood. The Baltimora Journal book review
I segreti di una società perfetta e perfino dell’universo svelati nell’unico modo possibile: deludendo.
Gwendolyn Gail Graham. Los Angeles Times Literary Supplement
Il manuale ideale su come si deve scrivere se si vuole allontanare la gente, una dimostrazione inconfutabile della preminenza assoluta dei modi e dello stile rispetto al tenore delle argomentazioni.
L’ho studiato a fondo e lo consiglio a tutti i miei clienti.
Clifford Robert Olson. Nume tutelare della Super Bombastic Advertising
Un mostro di eclettismo, un ineffabile sberleffo rivolto a uno degli idoli più venerati dei nostri tempi: la specializzazione!
Marie de Brinvilliers. Cahiers philosophiques
Oggi, o ti agiti in una gabbia per conquistarti la simpatia e le noccioline o ti siedi da solo nel deserto. Questo solitario anacronistico si dimena e ballonzola sotto l’intera volta stellata ignorando se qualcuno lo vede.
Da tedesco, trovo curioso come tenti di utilizzare qualche annoso dibattito filosofico di casa nostra per affermare un paradossale orgoglio etnico di ‘antitaliano’.
Joachim Kroll. Der Spiegel Online
Sfida le arti più subdole e astute dell’ingiustizia e del dominio, costruite attraverso ricatti morali e sapienti ipocrisie, seguendo la via più diretta e insidiosa: quella della limpida e inquietante realtà non ideologicamente intorbidata.
Adolfo de Jesus Constanzo. Intervistato da Milena Quaglini
Piantato quello che ritiene il seme della verità definitiva, sembra disinteressarsene, non si capisce se per davvero o per una tattica tutta sua. Non bisogna illudersi che il pericolo sia passato, che un dio malvagio non possa ingoiare un Dio buono nel momento in cui meno te lo aspetti.
Padre Franco Santino Perfetti. Civiltà cattolica
Difficile pensare che sarà profeta in patria. Lui infatti la vede così: dopo le belle invenzioni della terza via e delle convergenze parallele, la politica italiana riscopre le proprie radici autentiche nel machiavellismo e nell’appello delle classi dirigenti (per salvare il feudino o il ‘cadreghino’) a questa o quella potenza straniera. Grazie alla grande tradizione culturale (moda, gastronomia, cattolicesimo), la vocazione a tradire e immolare diventa ecumenismo, il machiavellismo si stempera in ‘mazzarinismo’.
Jose Antonio Rodriguez Vega. El Pais semanal
Parecchie interpretazioni, sovente contrastanti, sono state addotte in merito alla scelta di scandire all’inizio del testo un florilegio di giudizi critici, alcuni inventati, altri parafrasi di commenti reali succedutisi nel corso delle mille e più ristampe, gli uni e gli altri attribuiti a protagonisti della cronaca nera, compreso il più famigerato di tutti, quel sacerdote che tanto obnubilò l’immagine della chiesa a cui apparteneva. A noi interessa evidenziare come quell’impronta di scherzo macabro, discutibile, ma senza dubbio sottilissimo e geniale, si accordi perfettamente all’atmosfera disperata, da presentimento del disastro, che si respirava allora in Italia. Ci sono luoghi e tempi nella storia umana dove e quando ogni iniziativa, anche la più banale, sembra in prospettiva accarezzata da un pregiudizio favorevole della fortuna, un’aura magica e nobilitante che si possiede per diritto di nascita. In altri, al contrario, ed è di quelli che stiamo parlando, anche le cose migliori si portano dentro un tarlo segreto, un difetto e una stanchezza connaturati, l’effluvio di un veneficio assorbito da un clima di decadenza inesorabile. E’ una condanna che risale dalle radici e accomuna i realizzatori e i fruitori, ogni tentativo richiama immediatamente un sacrificio morale, un prezzo umiliante a prescindere dal fallimento o dalla riuscita. Forse il segreto di quei nomi è tutto lì.
Peter Kurten. Consigliere della signora Merkel e autore del libro ‘Drogobol e gli specchi ribelli’.
Così, con consapevolezza sempre più chiara, cominciavamo a renderci conto che il significato del gioco, in una pregnante accezione sia formalistica che antropologica, poteva cambiare da un episodio all’altro. L’accumulo non puntava alla semplice espansione quantitativa, ma si riverberava all’interno della massa lievitante di parole, modificandone i circuiti, trasfigurando l’organicità di un blob effettivamente vivo, contagioso, mutante.
Ciò, beninteso, indispettiva coloro che avrebbero preferito una proposta semplice e lineare, un messaggio univoco da cui disimpegnarsi presto, bene e per sempre, dopo le benevolenti critiche e i doverosi elogi, rendendolo lettera morta.
Billy Christopher Goal. La capitolazione vincente
Ci trovavamo davanti a un tentativo di aggirare il modello più deleterio della comunicazione elettronica, ovvero il bombardamento dei sensi attraverso la giustapposizione neutrale e passiva. Qui non si poteva soffermarsi sbrigativamente su qualche giravolta di colore per accedere quanto prima a una proposta uguale e contraria: si doveva scegliere se dare forfait, portando con sé il sospetto di un’occasione perduta, oppure impegnarsi nella decodifica e farsi invadere l’intero apparato pensante, anima o cervello che fosse.
E il senso della perdita di chi rinunciava non era lieve, bensì un pungolo angustiante, dato che già allora quasi tutti intuivano che nell’aria aleggiava l’annuncio di una sorpresa clamorosa, una Rivelazione sconvolgente e sublime.
Theodore Kaczynski. The Independent
Fu allora che gli uomini di Clifford Robert Olson si accorsero di lui e ‘un milionesimo di Moccia’ divenne espressione gergale per intendere quel poco di cui ci si sarebbe accontentati più che volentieri.
Christopher Wilder. Benvenuti nella Parusia.
In una sorta di parodia al contrario, di trasposizione solenne e quasi mistica del primo episodio de ‘Il senso della vita’ dei Monty Python, lo sputtanamento del giocattolo pubblicitario usa e getta, del microelzeviro cosmetico alla Twitter si armava di lame vendicative e affilate, scagliava sull’allucinante falansterio della Web Comunity, trasformato dai mercanti del tempio in un orrido bazar di gretti, penosi e tutto sommato timidi e servili individualismi, il lancinante grido di riscossa di un Logos stanco di umiliazioni. Dalle sontuose tombe scoperchiate, dalle sconvolte lastre di marmo dell’antica saggezza, i finti morti e i veri vivi già defunti tornavano vestiti soltanto di pure e trasparenti parole ed erano zombi più belli e sensuali di tutti i manichini imbellettati che ogni giorno recitavano la tristissima commedia dell’allegria artificiale e di un monotono, moralistico, faticosissimo successo: la litania del lavoro e del sacrificio, non per edificare solido e concreto benessere anche e soprattutto spirituale, ma per gonfiare i palloncini di capricci, privilegi e sciocche, controproducenti idealità, per soffocare il mondo umano e naturale sotto il marciume del più vieto e superfluo edonismo grondante di auto-gratificazioni sentimentalistiche.
Lisong Zhang. Agenzia Nuova Cina
Quando edificò il concetto di PDCO debole a tutti divenne chiaro come la sconfitta più volte evocata non si riferisse a uno specifico progetto (che anzi, almeno come modello ispirante, avrebbe costituito una delle poche possibilità di autentica salvezza), ma alla nazione nel suo complesso. Tracciando in modo profeticamente assiomatico le debolezze irrecuperabili di un popolo situato geograficamente e storicamente in una situazione insostenibile, egli delineava pure, con schietto e disilluso senso di vivida realtà, l’opportunismo e la vigliaccheria che avrebbero portato i comandanti traditori ad abbandonare la nave che affondava fingendo di portare soccorso ad altri naufraghi ancora più disastrati. La tecnica di dileguarsi tra i reietti della terra per non assumersi le proprie responsabilità né in patria né fuori, e anzi spartirsi ulteriori privilegi, sarebbe risultata evidente (indulto a parte) quando i fuggitivi apparenti (in realtà rintanati come grosse pantegane nel formaggio che stagionava nei meandri sotterranei dei palazzi) si sarebbero rivisti, a tempo debito, in mezzo alle truppe degli stranieri invasori che procedevano, secondo i piani strategici di largo, pluridecennale respiro, a piantare la bandiera della tirannia sullo sfasciume rimasto.
Domhani Sivah Infumo. Il Messaggero di Bankgog
Un saggio politico – filosofico declassato (o promosso?) a una specie di pulp fiction metafisica o una specie di pulp fiction metafisica declassata (o promossa?) a saggio politico – filosofico?
Si potrebbe pensare a una involuzione cervellotica, più probabilmente si tratta del salvataggio in corner di un’operazione politicamente perdente (ma, a volte, il fallimento è un concime per le idee).
Intendeva agire nell’ambito di un concetto di ‘verità oggettiva’, ma niente interessa di meno alla gente; quasi tutti rimangono convinti di poter far valere la forza dei propri pregiudizi o interessi sentimentali ed esistenziali su quelli degli altri o di poterli almeno conciliare in un gioco autoregolamentato che oltre certi limiti non potrà mai degenerare.
Il mondo dell’etica sociale è un frullato di manicheismi diversi, molto spesso in antitesi quasi perfetta. Lui preferiva un tipo di schematismo che divide le persone in due categorie: gli ignoranti e i consapevoli. I veri ignoranti sono forse meno di quanto si pensi, purtroppo la stragrande maggioranza (la quasi totalità) dei consapevoli opta per quella che ritiene qualcosa come una menzogna costruttiva o una finzione strumentale: una maschera di illusione che dovrebbe fungere da lubrificante nei rapporti e nelle interazioni tra singoli e tra gruppi.
Come dargli contro quando sottintende che il fallimento di un paese primatista mondiale in queste tecniche di vita (in quanto campione del loro massimo raffinamento all’interno di una weltanschauung tipicamente cattolica) getta non poche ombre sul metodo?
La politica del doppio binario verso la realtà, il tenere il piede in due scarpe, quella solo utilitaristica della scienza e quella culturale dello 'spirito umano’ sottoscrittore di una formidabile polizza teologica, non paga e sarebbe ora che chiunque ne prendesse atto una volta per tutte.
In politica forse non accadrà mai, per cui, dopo un breve periodo storico in cui la categoria sociale della critica e della libertà individuali sembravano poter ambire a qualche forma di protagonismo non secondario, si ritornerà inesorabilmente al confronto / scontro tra il formalismo di un potere oligarchico (che, in cambio di una rigida obbedienza, offre ordine, stabilità e misure realistiche di relativo e discutibile benessere nella fatica) e il sentimentalismo umanitario delle masse (che hanno dalla loro tutte le ragioni della democrazia, ma contro le leggi di natura e i divieti inviolabili delle regole strutturali).
Naturalmente gli apparati clericali e tutti gli annessi e connessi svolgono le funzioni arbitrali, facilitando però anche e forse soprattutto le connivenze e le spartizioni tra i capi degli schieramenti (vera ossatura di ogni solido pacifismo) e propiziando il soffocamento del pianeta sotto una massa antropica informe e indifferenziata che sta diventando il principale nemico anche di se stessa.
Thomas Quick. Perché la Svezia non è più il paradiso del sesso
Come in Memento di Christopher Nolan, dove si procede per sequenze narrative in ordine temporale inverso rispetto alla progressione da un inizio a una fine, qui, anche se sostanzialmente per caso, il discorso comincia con i gradi di disillusione dall’ultimo al primo e poi arriva alla fase progettuale che ha fondato la motivazione originaria in una sorta di inopinato e poco opportuno entusiasmo fuori tempo massimo per la proposta politica e il messaggio via web.
Come nel Memento di Christopher, che sembra trattare un caso di patologia particolarissima, ma alla fine fornisce un quadro iperrealistico dell’autentica condizione umana, qui si parla di un progetto, ma in realtà si mira alla natura effettiva e autentica di Dio.
Jeanne Darc Weber. Le cinéma du Salvateur
Fortuna che gli immigrati si sono accollati mansioni che nessun indigeno avrebbe più voluto sobbarcarsi? Si domanda a un certo punto e ora esporrò sinteticamente i termini della sua risposta analitica.
Se un lavoro non incontra richieste bisogna alzare la busta paga finché non ne trova, non importare schiavi dall’estero. Si creano disagi e impossibilità? Intervenga l’Assistenza e lo stato sociale. Ce lo dice la dottrina liberale classica, che ovviamente presuppone che uno stato funzioni. Oggi il più scamiciato dei rivoluzionari si trasforma di fatto in un millenarista codino e nostalgico, un retrogrado generoso e velleitario. Sogna flussi romantici di barbari buoni che diano manforte agli altri suoi sogni, e intanto il mercato del lavoro è il primo e l’unico che salta per ordine dell’Internazionale Liberista, annesso e sottomesso da tutti gli altri mercati, più vivi e selvaggi che mai.
Del resto, basta ricordare come, negli ultimi anni del millennio scorso, i sindacalisti selvaggi, quando trovavano un terreno adatto, tiranneggiavano la piccola impresa e poi si scioglievano impotenti davanti agli avvocati e ai dirigenti specializzati nella gestione del personale, dai cui uffici uscivano frastornati o con uno strano languore al pancino.
Sindacalismo e malaffare impregnavano l’aria di veleni aromatici, non necessariamente sovrapposti, ma anche non necessariamente non sovrapposti.
Mafie, sindacati, Vaticano, clientelismi e conflitti d’interesse: la tempesta perfetta nel più tarantiniano degli splatter sociologici.
L'immigrazione non è la soluzione: è uno dei mali peggiori. E’ sempre stata la scappatoia attraverso cui l’occidente si è rifiutato di costruire società veramente libere ed equilibrate puntando invece a modelli di economia autoritaria, imperialistica e oligarchica. L’immigrazione è il perfetto complemento del colonialismo, nel senso di riprodurne i vantaggi con dinamiche mutate e fascia di fruitori interni ulteriormente alzata e ristretta. Funziona soltanto come colonialismo verso la natura, per nazioni che hanno immensi e ricchi territori disabitati: qui contribuisce effettivamente al dinamismo economico, diversamente crea masse di indigenti che consumano poco, una parte dei quali deprime la bilancia dei pagamenti con le rimesse di denaro ai paesi di origine.
Per decenni l’immigrazione è partita da paesi che possedevano tutte le risorse per impiantare una versione autoctona di società avanzata, quelle risorse che, attraverso la corruzione delle classi dirigenti locali, venivano incamerate dalle varie potenze (tra cui si schieravano, con plebiscitaria approvazione, anche alcune nostre multinazionali), le stesse risorse che poi, in pochissimi anni, hanno consentito a nazioni emergenti di avvicinare e addirittura superare le nazioni europee più deboli. Il processo è iniziato quando l’allargamento dei mercati e la creazione di un bacino più vasto di consumatori ha prevalso, nei calcoli di convenienza dei vertici economici, sui fattori legati al contenimento dei costi e sta subendo metamorfosi epocali in relazione a questioni strategiche e strutturali che inducono a ribilanciare il mix di pesi e preponderanze relativi all’incremento dei fatturati, da una parte, e al rischio delle passività, da un’altra.
Eh sì, è molto difficile che tutto torni come prima.
Li Ben Ciu Lai. Corriere della Confindustria di Shangai
Ci siete tutti, siete tutti qui? Fino a nuova disposizione sarete i miei cicciolini. Dunque, da dove cominciamo? Ecco, sì: dormicchiavo su un horror francese, La horde, a un certo punto mi sveglio e vedo una scena fantastica in tutte le accezioni del termine: un tale sta in piedi su un tavolo (o quello che è) e tutto intorno a lui si agita una folla di assatanati nell’abusatissima forma di zombi o morti viventi, allestiti secondo il classico stilema dell’automa cadaverico invasato di furia divoratrice. L’uomo sul tavolo, che conserva i caratteri abituali del sapiens in forma di atletico omaccione, non mostra segni di terrore, al contrario, urla e inveisce contro l’assembramento da cui si protendono braccia cupide e impotenti e mentre sbraita e insulta alla volta dei famelici imbranati, esplode raffiche di colpi a caso verso teste ingolfate nel mucchio che mandano rossi zampilli. Le due pistole che usa in contemporanea sono evidentemente dotate di un caricatore molto capace.
Tutto qui, ma mi è parsa subito una metafora azzeccatissima del rapporto tra l’istrione di successo e i suoi sostenitori, tra un idolo rock e i suoi fans, tra il politico carismatico e il suo entourage-clientela e via con tutte le varianti, quel rapporto di mutuo cannibalismo, insomma, per cui il dominatore mediatico deve esercitare continuamente la defatigante costrizione di un’autorità, oniricamente estremizzata, come nel quadro descritto, o più sfumata, edulcorata, trasposta. Ciò che conta è che il pubblico apparentemente succube e tiranneggiato ne goda masochisticamente, vi allevi una foia incontenibile di divinità, assaporando la propria umiliazione subalterna in attesa di quell’inevitabile cedimento che autorizzerà a fagocitare il feticcio nella vischiosità soffocante dell’adorazione delusa, secondo il canone di quella bella invenzione pornografica che è il dio che per le sue creature si sacrifica, si scortica, si dilania in un reciproco, vampiresco atto di sempiterno amore.
Stupendo! E ha funzionato anche, quasi istantaneamente, come metafora della produzione artistica e simbolica in generale: oggi uno può perdere mesi ad analizzare alla moviola i grandi classici del cinema, dopo di che, se volesse antologizzare una serie di estratti e di sintesi al di fuori della misteriosa (perché tutto sommato impraticabile e inapplicabile) compiutezza inerente alla singola opera, al suo tirannico, annichilente potere (quando tutto ciò anima effettivamente il prodotto e non emerge come pura illusione pregiudiziale, pigro favoritismo critico), raccoglierebbe meno di quello che uno spettatore un po’ smaliziato potrebbe piluccare, in una giornata o poco più, usando il telecomando come veicolo con cui girovagare a caso tra una produzione dignitosa, ma ordinaria. Che è poi un omaggio-scopiazzatura nei confronti di un famoso intermezzo televisivo che ora appare come il canto del cigno di una sinistra antiberlusconiana (purtroppo, da subito, freudianamente plagiata), del resto, come capirete bene rimanendo attenti e fedeli, qui si sta inaugurando un piccolo festival della recensione e del riconoscimento.
Infatti, ecco qua: c’è un filosofo che esemplifica bene questa situazione e, guarda caso, ho beccato anche quello girando più o meno a caso tra i vari allestimenti della televisione e di Internet; costui, Slavoj Zizek si chiama, ha confezionato ‘scandalose’ storie del cinema e dell’ideologia, inframmezzando a spezzoni di vari repertori commenti che (una volta tanto!) arricchivano e non banalizzavano i pezzi scelti e mutuamente contaminati, per cui mi sono buttato speranzoso su un’intervista diffusa in rete che sondava il suo illuminato parere su un certo ‘speculative theorism’.
Il caustico, paradossale sornione diventava serio e profondo e tutto il suo fascino svaniva: oh, non perché diceva cose difficili che richiedevano concentrazione e fatica per essere comprese, semplicemente perché, dovendo sobbarcarsi il dovere di una ideologia professionale per quel grande gioco antropologico che è la Popòlitica culturale con le sue finte opposizioni rovesciabili come certe giacche o certi jeans, non poteva fare altro che proporre quel fumo stordente e illudente in cui consiste ogni speculazione appena mette fuori un quarto di piedino sghembo dalla tecnicalità disciplinare o dalla simbologia artistica, quella non moralistica e predicatoria, ovviamente, o dalla proposta progettuale, se proprio si vuol fare il Donchisciotte come Anonimo1.
In appendice troverete il saggio che scrissi di getto per il disappunto, spronandomi con il fiero proposito di spedirlo a chissà chi: la solita patetica carota sulla punta di un bastone proteso davanti all’espressività fine a se stessa mentre brancola in cerca di uno specchio appannato, finzione obbligata di un super alter ego in forma di platea approvante, nient’altro, alla fine, che il solito fantasma di quel Dio spettatore di cui ciascuno abbisogna per non disperdersi nel cosmico vuoto interiore, quel filamentoso frattale di materia oscura e galassie che sta tutto in una scatola cranica, la stessa in cui conoscenti e personaggi pubblici rimangono impaniati come ospiti non sempre graditi e in cui ognuno impania se stesso, dato che è obbligato a credere che l’universo sia quello che il cervello produce (percezioni, sentimenti, pensieri) e non quello che il cervello è.
Chissà poi perché ribellarsi al dissolvimento, se l’alternativa è diventare un clown coperto di stracci, cerotti e ceroni, tutti molto sporchi e colorati.
Non per niente, anche se c’entra molto alla lontana (non pretenderete mica da me la coerenza di Anonimo1!), se su usanze, costumi, prescrizioni non gravassero inerzie pachidermiche e drammatiche anemie culturali, tutti gli attuali cimiteri sarebbero già stati sostituiti da altrettante piccole camere provviste di disintegratori al laser annesse a un archivio elettronico che potremmo considerare un museo di testimonianze: ognuno vi affiderebbe, se vuole, un lascito spirituale, un messaggio che ritiene importante, consultabile da tutti in un ambiente simile a un internet café.
Chi invece desidera (almeno in quei momenti!) un po’ d’intimità, può ricordare che gli antichi romani se li tenevano in casa gli altari evocativi invece di trovare nella morte un altro pretesto per recitare ed esibirsi. E’ davvero così edificante finire sotterrato in mezzo a una folla (per di più in una cassa!) e farsi rimboccare sotto il mento della fototessera (enigmatico, indecifrabile reperto) quell’assurdo involto di pietra?
Gli attuali cimiteri occidentali forniscono una rappresentazione fedele delle società moderne, una specie di fotografia al negativo in cui un fluido comune di torpore e sfinimento pervaso di frenesia artificiale è trasformato in un barocco contorcersi di forme cristallizzate dal senso della morte. Una società reale, se funziona, consiste di persone in grado di trasformarsi in automi indefettibili quel tanto che impongono esigenze di sopravvivenza e dignità materiale per poi riassumere quell’identità di strampalati, enigmatici, indecifrabili individui che di fatto le rappresenta. Purtroppo, soprattutto a chi deve piacere a Dio, non sembra bello e allora ci si inventa un sacco di condizionamenti e finzioni, di ossequi e idolatrie, ma ha senso, mi chiedo e vi chiedo, studiare le mosse davanti allo specchio per imitare la naturalezza di quegli animali dal cui regno di grazia siamo stati sbalzati fuori per decreto divino? Agitarsi come macachi per recuperare quel paradiso (ipotetico) che non ci è mai appartenuto? Possibile che la gente trovi tanto appagante cimentarsi nello squallido gioco delle apparenze e reputi davvero così esaltanti le mediocrissime mitologie che esaltano virtù inesistenti di una specie che si è guadagnata meriti soltanto a colpi di iniziative individuali o di gruppi selezionati?
Rispondetemi sinceramente: voi credete nelle capacità spontanee e istintive dell’umanità?
Ma torniamo a La horde e non mi dite che non lo merita, lo merita eccome: pensate davvero che le tavole dei valori, le graduatorie d’importanza e di rispetto pubblicamente accreditate abbiano una consistenza assoluta e non esprimano prima e sopra di tutto il gusto e gli interessi di gruppi di pressione più o meno influenti, interiorizzati e parafrasati da ciascuno su un nastro da ventriloquo accuratamente nascosto nelle viscere di stoppa di un pupazzo che fa ingelosire lo stesso puparo?
Se poi, dormendoci sopra, ho esaltato un valore artistico che in realtà è molto più modesto, chissenefrega: guardate il film dopo aver preso un sonnifero blando e fatevi svegliare nei punti in cui mi sono svegliato io.
Ehi, ciccioloni, non è che ci vuole molto, in fondo, non mi sembrate proprio quelle volpi che vi vantate di essere!
Ma comunque c’è questa signora che si guarda allo specchio, una di quelle francesi dall’aria spigolosa e sofferta che non si capisce mai quale sottile attrazione ti muovono dentro, e ha uno sfregio profondo, una cicatrice di sangue ancora fresco che le percorre la guancia dalla tempia al mento. Non so come se l’è procurata: dormivo.
Vabbè, smettete di rompermi le balle e giungiamo al punto: c’è un gruppo di sapiens (che un appartenente alla specie zombi potrebbe trovare flaccidi e disgustosi) in fuga, mentre il loro collega mostro si diverte a fare esplodere le teste dei devoti che tumultuano e invocano. Costoro si aggirano in un labirinto di corridoi dove le forze dell’ordine delle anime risuscitate cercano di catturarli. Dopo le solite peripezie che non saprei descrivere per filo e per segno, dato che ero impegnato a lottare con il dormiveglia, due soltanto riescono a cavarsela e a sbucare all’aperto: un uomo possente e nerboruto che ansima e trasuda come un geyser e la nostra smilza amichetta sfregiata che sarà la metà di lui, ma quasi non respira e non si muove, sembra un idolo di cera.
In fondo, potrebbe argomentare qualcuno, la massa che ha dovuto spostare era molto inferiore, così io sarei costretto a far notare all’analfabeta scientifico che è il rapporto peso potenza che conta e così dovrei anche incazzarmi per una divagazione inutile che rischia di farci perdere di vista il nocciolo della questione, tanto più che a questo punto diventerebbe obbligatorio un approfondimento sulle dinamiche di allenamento e sulla differenza che sussiste tra tensioni muscolari statiche e isometriche, che sviluppano le masse implicate ma non necessariamente a favore di una resa dinamica, e ripetuti movimenti sciolti e armonici, che aumentano la resistenza, ma non necessariamente la prestanza fisica.
A questo punto avrei perso il filo e rimediato una magra pazzesca, se fossi un protagonista di uno di quei talk show dove le persone telegeniche esibiscono eloqui garbati che accarezzano la pelle vellutata dei frutti dialogici lasciando integra e indelibata la polpa invisibile, ma fortunatamente sono l’istrionico mattatore di un classico one man show e nell’ombra impenetrabile oltre il mio cono di luce siede nientedimeno che il Dio Spettatore di cui vi ho già parlato.
Quindi ecco qua, l’uomo si piega affranto, ma quando risolleva gli occhi, quando si guarda intorno e vede la nebbia leggera che si alza dal fiume e circonfonde un ponte inarcato sul chiarore di un’algida e livida alba (in realtà che cosa vede esattamente non l’ho memorizzato, quindi ho dovuto arrangiarmi), il piccolo dio spettatore intuisce il sollievo che sgorga dal suo animo e il sentimento di gratitudine religiosa che vi si iscrive (perché, tra tutti, soltanto io e lei ci siamo salvati, perché il destino ha voluto così, quale misteriosa giustizia ci ha assegnato questa salvazione e perché?), per non farsi venire il diabete con eccessi zuccherini è quindi tentato di spegnere il televisore, data anche l’ora tarda, o di cambiare canale, ma avrebbe sbagliato in pieno. Chi invece volesse andarsi a vedere il film e gustarsi il finale dovrebbe spegnere questa schermata o saltare il paragrafo successivo.
Infatti i due non si lanciano l’uno nelle braccia dell’altro, non si perdonano le reciproche ingiurie, no: la donna punta la pistola contro il cranio dell’uomo, il carrello recede dal primo piano a una inquadratura a mezzo campo e bum, l’uomo stramazza. Da parte mia mi sveglio del tutto (adesso che il film è terminato!) e subito mi avvedo (le illuminazioni di solito mi colgono all’uscita dal sonno) che in questo finale imprevedibile (per me che non ho colto l’integrità della trama e dei riferimenti) si cela non il mistero di un evento (perché la donna si comporta così? Si era convertita alla profonda verità degli zombi?) ma l’essenza stessa del comune mistero (attenzione, ragazzi, ho detto comune: non il religioso mistero scientifico di cui parleremo più avanti!), il suo fondarsi, cioè, su un indispensabile antefatto d’incoscienza, sonno, fortuita o ineluttabile ignoranza.
Quando avranno ritrasmesso il film per la ventesima volta finalmente sarò riuscito, forse, a visitare le parti necessarie per giustificare la scena, riuscendo a venire a capo dell’arcano, ma il recupero vale davvero la pena? Il film migliorerà dopo questa resipiscenza? Non converrebbe stilare in proprio una serie d’ipotesi e rimanere nel dubbio davanti a un più ricco ventaglio di possibilità? Non consiste forse in ciò il metodo più diffuso per la creazione di senso e di significato, il trucco della religiosità non kolibiana?
Dunque, già nel film La horde, forse non esattamente quello che si dice un capolavoro (ma quanti tra i presunti capolavori di oggi, tra cento anni, se l’umanità ci arriva (fate il tifo voi, se volete, io per adesso mi astengo) rimarranno tali?), se solo lo si riguarda dalla parte giusta e vi si aggiunge il giusto condimento esistenziale (una calibrata dose di sane ronfate) troviamo né più e né meno tutti i grandi enigmi dell’Arte e della Vita, tutti i ponderosi quesiti che migliaia di anni d’istinto filosofico e religioso ci hanno posto davanti.
Una vera disdetta, un ennesimo squarcio di verità che mi proietterà tra i reietti, le persone d’infimo rango, i loschi figuri irrispettosi e blasfemi: la gente infatti tanto ama e onora i potenti che sanno atteggiarsi a santi custodi del Sovrannaturale e Imperscrutabile Altro (ancora Zizek, che palle!), tanto odia i saccenti desiderosi di dimostrare quello che istintivamente tutti sanno benissimo e fanno miracoli per dimenticarlo, ovvero che le cose possono stare in piedi soltanto in un solo, banalissimo modo (odiatemi pure, ma io vi dimostrerò che intendo abbattere il mistero per costruire il Mistero).
Per dire quanto sono scalognato, già il giorno prima che La Horde mi fulminasse sulla via di Damasco, sfogliando una vecchia rivista estratta a caso da un mucchio, mi sono trovato davanti a un articolo d’importanza capitale, una vera pietra miliare nella spiegazione di tutto, anche se sono pochi quelli che se ne ricorderanno in termini così ultimativi e ancora meno saranno disposti a riconoscerlo dopo che ne avrò parlato io.
Nonostante il titolo allettante avrei scantonato, in fondo scartabellavo come per una specie di tic, ma subito dopo sono stato sferzato dall’invito pressante di un importante periodico, ‘fatevi una cultura!’ ordinava e io subisco molto il condizionamento dell’imperante ethos giornalistico.
Perché lo subisco? – mi chiederete famelici – e allora non posso non soddisfare la vostra brama di sapere anche se, accidenti a voi, mi costringe a divagare un’altra volta per rispondere così: perché, essendo in anticipo sui tempi, soffro del complesso di essere inattuale.
Infatti l’accusa più temibile emanata dalle firme che rappresentano la coscienza viva della nazione è quella di essere retrogradi, passatisti, pedanti, un rimbrotto che suona particolarmente sferzante soprattutto quando viene brandito da secoli, sempre uguale, dai surfer più stagionati, quelli che, chissà poi come fanno, riescono a rimanere sulla cresta dell’onda nonostante tutte le capriole che fa (l’onda) e che fanno (essi). Come cazzo riescono ad armonizzare le une con le altre? – mi sono domandato spesso, grondante di invidiosissima bile.
Effettivamente, in cotanto passare di mode e di anatemi, di visioni del mondo che nascono, muoiono, rinascono, rimuoiono, di ricette per salvare il mondo che si contraddicono a distanza di mesi come le sentenze di primo e di secondo grado (che però in Italia sono più lente e richiedono anni), l’uomo di successo sopravvive inossidabile, ha scoperto un segreto a dir poco poderoso: non legarsi mai a qualcosa di troppo stringente e compromettente, abbandonarsi con la leggerezza di Ginger e di Fred a giravolte sociologiche e antropologiche più imprevedibili dei cambiamenti climatici, ovvero fare cultura come si fa la pppopppòellittica ovvero la pupulitica ovvero la PPPolitica: tanto chi o che cosa comanda si sa e il gioco consiste nell’essere buoni verso quella cosa lì (potremmo definirla in prima approssimazione ‘Il Denaro’), in modo che essa non abbia necessità di diventare cattiva.
Un ineffabile filmetto che, traboccando d’intelligenza woodyalleniana, è piaciuto tantissimo alla sinistra hollywoodiana (woody non è il wurstel che ha fatto la mamma) ci ha fornito i riferimenti concettuali e terminologici adatti a inquadrare il fenomeno. Subdolamente intitolato, giusto per pararsi le chiappe, ‘Le invasioni barbariche’, rivelava che, per decenni, come il personaggio di Bill Murray in Ghostbusters, gli intellettuali pagati dalle pubbliche università si erano interessati ad arte, scienza, letteratura, non per ragioni di specifico interesse o di pubblica utilità, ma soltanto per scopare gli alunni e scoparsi tra di loro onorando un empito di amore sensuale verso la vita che deve commuovere e rendere partecipi: dei simpatici ragazzoni, insomma, scapestrati ma ‘umani’ e divertenti, in ogni modo meritevoli davanti al mondo per aver generato e opportunamente non educato figli seri e con la testa sulle spalle, giovanotti intelligenti senza essere insensibili: costoro, dopo aver capito a che cosa mirava il sindacalismo (il tornaconto dei capoccia, avreste mai potuto crederlo? E non vi viene il sospetto che allora anche le mire dei politici…), si sono detti “alla larga, piuttosto partecipo a videogiochi dove compro una casella dello schermo al prezzo di x e la rivendo al prezzo di y”.
Detto fatto, ecco tanti soldini per sottrarre paparino alla fossa comune degli ospedali burocratizzati, anche se egli stesso confessa di essersi condotto, in passato, da complice ideologico dello scempio e quindi un po’ se lo meritava. A sinistra (quella vera, non dei dilettanti populisti) fu tutto un prerenziano tripudio di approvazioni (me lo ricordo bene da come mi mandò di traverso il film dopo che me l’ero sorbito al cinema per doveroso rispetto dei critici, anche se non mi sembrava così sconcio come dopo averlo rivisto in televisione l’altra sera, per dire come ci si inselvatichisce invecchiando!).
E poi dite, se ne avete il coraggio, che Renzi non era destino!
Registi così nascono con la camicia, tengono il cuore a sinistra e l’intelligenza a destra: sempre, non da giovani in un modo e da vecchi nell’altro (come pretendeva il più importante scopatore di Marilyn), sempre, altrimenti si rischia di rimanere sempre sfasati, esattamente come i pirla che una volta detestavano sindacalismo e burocrazia e adesso odiano banche e multinazionali, come i sognatori che non sopportano l’eterno patto di spartizione del mondo tra i funzionari della cultura e quelli del potere (quell’abile compromesso, inventato dal genio cattolico, che permette al palluto sinistrorso di appropriarsi dei beni spirituali lasciando quelli materiali a chi gli salva la reputazione presso le masse buone senza turbargli il menage), con il bel risultato, alla fine, di detestare, sia prima che dopo, l’accorto ossequio alla realtà da parte dei sedicenti riformisti e farsi fottere sempre e comunque, prima dai sindacalisti selvaggi e poi dai padronisti selvaggi, di destra o di sinistra a seconda di come tira il vento, con le parti rigorosamente assegnate per nascondere sotto le baruffe le intese trasversali di cui nessuno parla.
E’ stato osservato da più parti che anche Anonimo2 aveva cercato fortuna al ‘videogioco’ della finanza, rimanendo scornato, per cui molti avevano trovato facile stigmatizzare un’avversione sorretta da corrivi motivi di frustrazione personale e di latente invidia, su cui solo in un secondo tempo si sarebbe costruito un biasimo più seriamente motivato. Pur riconoscendo con grande degnazione un certo qual fondo di verità aneddotica a tali argomentazioni, ci permettiamo di dissentire con il massimo garbo dai sottintesi malevoli di quei bastardoni schifosetti.
E’ arcinoto, innanzitutto, che la sua partecipazione puntava a raccogliere fondi per iniziative la cui rutilante luminescenza è sopravvissuta al loro abbandono nel regno dei pii desideri irrealizzati e tuttora luccica nel paradiso eterno delle somme idealità, in secondo luogo l’esperienza che egli trasse da quell’allucinante tragitto nell’incubo virtuale in cui giaceva addormentata l’umanità dopo aver morso la mela della strega serpente gli servì come prova della truffa legalizzata che costituiva i termini esistenzial – giuridici del tipo di società predisposta dalle ultime micidiali retroguardie del capitalismo pre-apocalittico.
E’ noto che ai più stretti discepoli A2 elencava cinque inconfutabili eventi a sostegno delle sue tesi di totale disaccordo e repulsione:
La discesa dell’indice generale delle blue chip di Piazza Affari da 48.000 a 12.000 in soli 5 anni, più di tutte le altre borse, Grecia esclusa, a partire dallo scoppio della bolla subprime, quindi per motivazioni che avrebbero dovuto sfiorare soltanto il listino milanese, dato che tra le economie più sviluppate le banche nostrane erano tra le meno coinvolte in assoluto (mungendo a sufficienza, con la complicità a doppio senso della classe politica, il correntista comune, non dovevano inventarsi diavolerie alla Lehman Brothers per sostenere gli utili).
La ripresa dell’indice in coincidenza quasi perfetta con l’introduzione del regime fiscale della Tobin Tax, che rivelava così da parte dei banchieri andati nel frattempo al governo una ‘profetica previsione’ dell’andamento futuro.
Il recupero di quasi il 100% dell’indice (da 12.000, agosto 2012) e la discesa di due terzi almeno dello spread (e quindi, data la sostanziale stabilità dei titoli tedeschi, dell’onere per interessi), in assenza totale di qualsiasi miglioramento (anzi!) sia dello stato della pubblica situazione debitoria che degli indicatori economici e patrimoniali di sintesi generale, anche tenendo presenti proiezioni a 6 mesi o un anno (classico anticipo del ciclo da parte delle borse).
La clamorosa non correlazione tra i valori dei titoli in flessione e i bilanci delle sottostanti attività industriali, sintomo che il valore di queste non si connetteva tanto ai dinamismi specifici, ma alla salute di istituti di credito e d’investimento che così, con i loro casini interni, contagiavano a macchia d’olio e con velocità incredibile l’economia generale, avvalendosi di ciò come arma di pressione per ottenere tutti gli aiuti e i regali possibili da Mamma Stato.
Il risultato finale più lampante di una fase depressiva paragonata da molti alla Grande Crisi del 1929: una ulteriore e più marcata concentrazione mondiale delle attività industriali e finanziarie e una decisiva perdita di sovranità dei paesi generalmente più deboli (a prescindere che fossero colpevoli o meno per i meccanismi primari della crisi e implicati nei suoi effetti immediati e specifici), una ulteriore fetta del cui capitale produttivo, almeno per quanto riguardava i livelli superiori maggiormente condizionanti, i volani fondamentali di tutta l’economia, aveva preso il volo verso il controllo di grandi gruppi stranieri che ormai si avviavano a detenere in presa diretta il 50% dell’intera economia nazionale.
Si dovrebbe poi aggiungere che tutto il sistema della finanza decentrata presso i trader indipendenti che operano dai computer di casa è congegnato come una immane rete per gonzi inequivocabilmente comprovata da un sacco d’indizi e statistiche oltre che da grossolane mistificazioni, come la pubblicazione di indici econometrici in grado d’influenzare i mercati, programmata ufficialmente nel rigido rispetto di date e orari prefissati.
La precisione era talmente inflessibile che a volte capitava che nei grandi portali di notizie economiche i dati venivano rilasciati qualche ora prima provenendo da siti di secondaria importanza, come per uno sberleffo e una sfida passati sotto silenzio da tutti i commentatori più chiacchierini.
Quando fughe e trasgressioni cominciarono a configurare un classico segreto di Pulcinella, un bel giorno, con la stessa faccia tosta e rimarchevole nonchalance (nel silenzio più o meno imbarazzato delle altre banche centrali e degli scribacchini teste d’uovo), la FED rivelò che le statistiche erano comunicate in anticipo a tutto uno stuolo di clienti privilegiati (istituti finanziari, pubblici o privati, organismi industriali, associazioni di rappresentanza, varie personalità di spicco e chi più ne ha più ne metta).
La gestione di questa perfetta ‘simmetria d’informazione’ da parte delle democraticissime élite statunitensi (probabilmente imitate dagli omologhi di ogni parte del pianeta che però conservavano il pudico aplomb del segreto) consentì ad A2 di cominciare a vedere chiaro in tutta una serie di giochi e giochini, tra cui, per darvene un’idea, la strana e inesplicabile comparsa di notizie da cardiopalma che si perdevano anonime in mezzo a eventi di ordinaria amministrazione: nessuno sembrava prestarci fede o valutarle importanti. Trascorso qualche giorno o qualche settimana, il tempo di cui i grossi speculatori avevano bisogno per sistemare le esposizioni più pericolose, la stessa notizia, che sembrava essersi nel frattempo volatilizzata come una voce scandalistica priva di qualsiasi fondamento, veniva rilanciata a grandissima cassa e con megafononi sulle prime pagine di tutti i giornali, quelli finanziari come minimo.
Qualcuno potrebbe ironizzare circa la lentezza della presa di coscienza di A2 intorno alle distorsioni di un sistema, ma si deve considerare come quello era ed è strettamente interallacciato attraverso i diversi piani che vanno dalla politica alla finanza fino alla ‘libera’ informazione e alla società civile dei tecnici e dei funzionari: un’architettura di interessi che rende ingenue e dilettantesche le trovate di tutti i dietrologi di professione (impossibilitati a tenere il passo dietro le falcate con cui gli scandali corrono gioiosamente raccogliendo ovunque applausi e consensi) e che funziona con la stessa infallibile sistematicità di un formicaio.
Com’è possibile? Basta rendersi conto in che cosa consiste l’efficacia e il successo evolutivo dei molti miliardi di miliardi di formiche che popolano la terra: esse agiscono ricevendo ordini e attuandoli, ma il medium tra il messaggio e l’esecuzione non è verbale, logico e semantico e nemmeno si basa su riflessi istintivi, bensì è chimico, ormonale, molecolare, quindi riduce al minimo ogni distanza e dualismo tra le fasi. Le formiche dialogano tra loro attraverso automatismi che sono più simili ai rapporti tra momenti angolari nei vetri di spin o alla rete di segnali nelle masse neuronali, piuttosto che a interazioni tra individui biologici.
Benché la struttura di una società umana non possa operare con meccanismi neanche lontanamente paragonabili, quando si tratta di comportamenti basilari, etologici, ancestrali, che presiedono alla sopravvivenza in un’area fortemente gerarchizzata e pervasa da diritti inviolabili di predominanza, gli schemi di reazione vengono prudentemente interiorizzati e agiscono per autocensure e autoimposizioni, quindi attraverso una sorta di regolazione endocrina. Gli automi umani soggetti alle leggi del potere si coordinano in prevalenza grazie a una riorganizzazione preventiva dei controlli chimici e fisiologici interni. Il modello etico destinato ad affermarsi nella società globalizzata è la formica e di fronte a tale efficienza il pensatore, già una razza perdente per natura, è spacciato.
Che conclusioni si devono trarre allora circa la reale natura delle forze e delle identità che effettivamente (e non per finta o sotto mentite spoglie) governano una nazione e alle quali, anche volendo evitare accentuazioni scandalistiche e complottistiche, si deve attribuire una oggettiva ed esplicita volontà di menzogna, falsità e dissimulazione?
E’ ovvio che la capacità della Finanza Internazionale di gestire calcolatamente ‘irrazionali’ fluttuazioni dei generi elencati venendone fuori più florida e pimpante che mai getta ombre oscurissime sull’effettiva autonomia delle scelte elettorali, prima, e delle decisioni di governo poi.
Si può continuare a credere nella democrazia soltanto se si è cretini o in malafede, diceva A2 ai suoi più stretti discepoli, ma questo mi limito a riferirlo.
Lasciatemi solo porre, urbanamente, la seguente questione: dato il formidabile e micidiale tenore della partita planetaria che si sta giocando e l’enorme influenza annessa a interessi privati che spesso raggiungono valenze di massa paragonabili al PIL d’interi stati sovrani, com’è possibile che non si pensi seriamente a riconsiderare in blocco la concezione della politica e dei parlamenti in modo che le popolazioni riunite sotto una medesima identità nazionale possano complessivamente operare (attraverso rappresentanze politiche opportunamente ricondizionate in senso manageriale e sistemico e sotto il controllo di organismi studiati per agire nella più piena trasparenza e in regime d’infallibili controlli reciproci) come una controparte economica almeno altrettanto solida e meritevole di considerazione (ma auspicabilmente di più) delle varie multinazionali?
Per esempio, nel rispetto di un’articolata serie di piani diretti a soddisfare i bisogni assolutamente irrinunciabili del cittadino collaborativo, lo stato potrebbe costituire aziende produttive e d’intermediazione commerciale che garantiscano un controllo pubblico sulla disponibilità degli elementari beni primari (sport, godimento della natura e passatempi culturali compresi), anche in rapporto a produttori esteri che potrebbero essere chiamati a concorrere per aggiudicarsi contratti esclusivi.
Garantito l’essenziale, lo stato manterrebbe la massima libertà consentita da limiti di salvaguardia e non dannosità.
Non sarebbe un’opzione più concreta e umanamente ricca (lasciando impregiudicato il concetto di alleanze organiche) rispetto a un internazionalismo così immensamente e volutamente impotente e ipocrita da sposare sempre la logica perversa del più forte, al punto che si è sempre obbligati a desiderare (vedi crisi del 2007) che il forte rimanga tale altrimenti stravacca tutto quanto?
Il sospetto che si presenta allora spontaneo è che l’affrettata e prematura internazionalizzazione delle sovranità sottintenda l’obbiettivo delle aristocrazie di disinnescare il pericolo di tale escalation manageriale e imprenditoriale delle singole nazioni, operando nella misura diametralmente opposta a quanto sarebbe effettivamente desiderabile nell’interesse delle maggioranze demografiche, ovvero contrastando la ricerca di quegli assetti e quelle dimensioni collaborative che consentirebbero a una compagine nazionale di svolgere un ruolo da protagonista effettivo, non contro le altre, ma insieme alle altre, sviluppando settori complementari e specializzazioni nell’ambito di un commercio globale che continuerebbe a esistere conservando tutti i suoi vantaggi, ma eliminando le ormai tragiche distorsioni.
E non si tenti nemmeno di affermare che il quadro è utopistico: sarebbe ostacolato dall’ostilità del privilegio e richiederebbe misure draconiane contro la fuga di capitali, ma questo solo all’inizio o comunque in una fase transitoria, dato che il sistema, una volta instaurato e reso funzionale, richiamerebbe inesorabilmente, secondo leggi di attrazione attinenti a una tradizionalissima concezione dell’economia come gioco d’interessi, tutte quegli operatori esteri a cui interesserà un mercato a prescindere da avversioni o ideologie.
Non penso che nessuna multinazionale estera, a cose fatte, sarà così schizzinosa da rifiutarsi di trattare contratti miliardari con uno stato. Inoltre, dato che il fallimento di una nazione del peso di quella italiana, che si prospetta pressoché inevitabile, sarebbe dannosissimo per tutta l’economia mondiale, un leader abile (Matteo, stai ascoltando? Se tu mi dessi ragione dopo tutti gli sberleffi e le prese per i fondelli che hai ispirato ai kolibiani (dai quali, ti giuro su Dio, io personalmente mi sono astenuto arrivando al punto di redarguirli) ipotecheresti la loro e la mia ammirazione eterna) un leader abile, dicevo, potrebbe cogliere l’occasione buona per trattare con le controparti europee e americane agevolazioni, sospensive e licenze orientate a un esperimento che potrebbe risultare interessante o almeno non negativo per tutte le forze sane della Terra.
Certo, un tale tentativo di ribaltare la deriva autoritaria e le nuove egemonie imperiali andrebbe preventivamente studiato molto bene, mobilitando energie intellettuali almeno pari a quelle che vengono quotidianamente messe a libro paga dai grossi interessi per diffondere la loro propaganda. Non sono sprovveduto al punto da ritenerlo un compito facile e soprattutto da pensare che basti ad attuarlo il fervore e l’attivismo movimentista delle pubbliche piazze (che però potrebbero fungere da indispensabile coadiutore strategico), anche se sono abbastanza scellerato da nutrire molti dubbi che tutto si evolverà nel miglior modo possibile lasciando libero corso alla divina quanto inesistente libertà dei mercati. Anzi, ve lo voglio proprio cantare chiaro, ‘papale e papale’, sono ignobilmente convinto del contrario, continuando questo andazzo mi dichiaro un catastrofista più che convinto e anzi dogmaticamente certo, anche se ho idee abbastanza pallide circa il tempo preciso che ci separa da Armageddon.
Non credo che un complesso di formiche umane possa mai essere intelligente come un formicaio vero e proprio. Non credo che possa esserlo nemmeno per la centesima parte.
La famosa prefazione di Anonimo2 (prosegue)
‘Visitatori nel cervello’ di Robert Sapolsky, Le Scienze aprile 2003, s’intitolava così l’articolo gioiellino: se non avessi paura di sputtanarlo ed escluderlo dall’assegnazione fondi (sembra che NSA, FBI E CIA non amino tanto i kolibiani, non si capisce perché, visto che sono gli ultimi liberali rimasti al mondo) direi che l’autore mi è fratello in spirito e del resto anche gli sponsor del settimanale che non cito per non contravvenire alla deontologia pubblicitaria (era L’Espresso), dovevano esserne rimasti affascinati se avevano emesso il loro caloroso invito subito dopo che una simile perla aveva sparso il suo lucore. R.S. si occupa o si occupava di neurofisiologia eppure rivela una dote veramente encomiabile e impressionante per uno studioso che probabilmente dipende o dipendeva da finanziamenti, approvazioni burocratiche di progetti, imprimatur di enti e istituzioni: la sincerità non fiducistica.
Reduce da uno di quei mega congressi professionali così tipici degli States, probabilmente tra le pubbliche manifestazioni che più hanno ispirato gli autori di gag teatrali e gli sceneggiatori di film comici, dopo aver cercato invano di districarsi tra più di diecimila relazioni in una calca di più di diecimila partecipanti, tutti in permesso pagato per la gioia di ristoranti, escort e night club, Robert (amico mio, ti adoro!) confessa di averne tratto perlopiù una desolante sensazione di sforzi inutili che cozzano contro un muro d’impenetrabilità sempre più fitto.
Già qui emerge in tutta la sua bellezza una prima folgorante intuizione sul perché le religioni sopravvivano indisturbate a tutte le prove contrarie: non è l’ignoranza che le tiene in piedi, no, è un difetto più sottile, è l’impossibilità di tollerare l’ignoranza, di sopravvivere al messaggio più solido e indiscutibile della scienza moderna, quello che, perentoriamente, suona così: uomo, tu non otterrai mai alcuna spiegazione che possa soddisfare la tua sete profonda di sapere, non riuscirai mai a giustificare te stesso e la complessità da cui emergi.
In fondo, in una cultura che più progredisce e più conferma la sua inadeguatezza verso il mistero che scivola sempre più in là, l’unica vera e sostanziale ignoranza consiste nell’insistere in un tipo di spiegazione che non esiste per il semplice motivo che non potrà mai esserci.
Anche qui, come ha fatto Anonimo1 sulla questione dell’inesistenza dell’anima, vi fornisco una prova inoppugnabile e semplice.
Supponiamo che una tale spiegazione esista, in che cosa potrà mai consistere? Cercate d’immaginarne l’apparenza superficiale, di averla distesa davanti a voi in bei fogli aromatici elegantemente ricoperti da una grafia rotonda e incisiva. Ci siete? Ecco, adesso immaginate di leggere e corredatevi di pipa e caminetto, se vi va, o di qualunque comfort che possa facilitarvi la concentrazione. Quante ore o giorni ci vorranno per cominciare a instillarvi il fastidioso sospetto di un’occasione mancata, di un innocente, involontario raggiro (se vi fidate di chi vi ha raccomandato il testo)?
Oh, non che la lettura manchi d’interesse, no, merita senz’altro, ma, caspiterina, si erano spinti a garantire che avrebbe svelato l’essenza di tutti i misteri più profondi, forse hanno esagerato un po’.
Un po’ tanto.
Forse già cominciate ad accusare la vostra natura libresca, a rimpiangere i metodi adottati da qualche vostro conoscente, basati su estasi mistiche e scariche fisiologico-sentimentali, a volte incoraggiate da qualche aiutino di natura, diciamo, farmacologica.
Del resto, come avrebbe mai potuto sostanziarsi questa sublime spiegazione del tutto? Con la teoria delle stringhe o delle brane, quella pletora di sculettamenti infilati in tutte le dimensioni extra che riescono a scovare? (tra un po’ si scopre che lì va a finire anche un po’ di tridimensionale energia così qualcuno ne approfitta per confutare la prova di A1 sull’inesistenza dell’anima). Se anche i numeri magici del cosmo (qualsiasi combinazione di quantità fisiche fondamentali (carica dell’elettrone, costante dell’attrazione gravitazionale, costante di Planck…) in una formula che fornisce un valore puro (insensibile alle unità di misura che si elidono)) derivassero naturalmente da rapporti di vibrazione o simili, la domanda ‘perché avviene così?’ sostituirebbe ‘perché hanno quel valore?’ e saremmo da capo.
Inoltre resterebbe da spiegare, tra innumerevoli altre cose, come, per esempio, quei numeri si connettono al gruppo di simmetrie planari (quelle esemplificate sui muri dell’Alhambra), che sono 17 come le particelle elementari del sistema standard, ai gruppi finiti che si compongono (salvo errori od omissioni) in 18 famiglie e 26 gruppi sporadici e così via. 17, 18, 26: quei numeri potrebbero cambiare lasciando praticamente invariato l’universo in cui vengono trovati? Ne dubito fortemente.
E se anche si riuscisse a spiegare 17, 18, 26 eccetera in termini d’interazioni fondamentali, la teoria che li spiega potrebbe fare a meno di qualsiasi numero davanti al quale il solito incorreggibile buontempone, che non ha niente di meglio da fare che complicare la vita ai veri saggi, potrebbe arrivare a chiedersi: perché proprio quello? Ne dubito fortemente un’altra volta: voi riuscite a intravedere un modo di far sbocciare numeri senza seminarne degli altri? Io no!
Per sbugiardare una formuletta di 8 simboli in tutto (più gli spazi) ci sono volute molte centinaia di pagine (a proposito, non capisco perché Andrew Wiles avrebbe dimostrato il teorema di Fermat, Wiles ha dimostrato la congettura di Taniyama-Shimura che altri prima di lui avevano collegato al teorema: ci mancava proprio che anche i matematici esaltassero berluscenzianamente i fortunati vincenti individuali invece di mantenere il giusto quadro prospettico!). Per accertare che la coloritura di una mappa senza confondere i paesi (per fonderli è facile, basta un solo globalismo) richiede quattro colori e non di più, un computer ha dovuto lavorare mesi.
Considerando tutto ciò, che aggiungere? Beh, dubito che una persona ardente, ispirata, profonda si accontenterebbe di simili scatole nere.
Quindi la scienza è culturalmente e filosoficamente inutile, ha solo un valore pratico? Niente affatto, la scienza definisce i contorni del mistero: senza scienza, non c’è mistero, soltanto scene prese a caso da film come ‘La horde’ o molto peggio, baggianate che corrono spargendo coriandoli e viscide serpi di crema, travestite per una sfilata di carnevale o un ballo in maschera da misteri banalizzati al punto da poterli considerare risolubili o da sciarade che nascondono una molla con la sorpresa finale: una bella beatitudine eterna per tutti o almeno per i buoni che ci credono.
Vi sembra poco, siete delusi? Scusate, ma non avete capito niente, vi manca la stoffa del monaco, sarebbe meglio che vi dedicaste interamente alla vita sociale lasciando perdere Dio, la metafisica, l’essere, siete spiriti pratici e affettivi.
Voi siete la regola e io l’eccezione, non sto mica criticando, vorrei solo che non mentiste soprattutto a voi stessi.
Occorrono anni di studi prima che, con ragione di causa, uno possa dichiararsi sconfitto davanti al mistero dispiegato in tutto il suo affascinante fulgore. La gente che danza e saltella alle grandi convention religiose non può minimamente sospettare quello di cui sto parlando e neppure gliene importa granché, cerca sollecitazioni emotive, baraonde viscerali, le stesse emozioni, né più e né meno, dei tifosi sportivi che si abbracciano sugli spalti dopo una importante vittoria o del suddito fedele che partecipa entusiasta alle scenografiche ‘adunate oceaniche’ promosse da regimi collettivisti nei periodi di massimo fervore iniziale.
Tutte cose bellissime, ma introducono a metodologie praticabili di soluzione dei problemi? In che percentuale e con che durata, tali travolgenti ispirazioni resistono alla concretezza delle sfide esistenziali e agli inevitabili conflitti dell’operatività quotidiana? In una certa misura possono fornire conforto agli emarginati e agli sconfitti (funzione che potrebbe essere espletata in assenza di qualsiasi predominante influenza politica ed economica), ma riescono anche a impedire che la maggior parte dei cittadini diventi tale? Ma se è proprio questo che alla fin fine le alte gerarchie desiderano al fine di assolutizzare le caratteristiche teocratiche del controllo!
Più il tempo passa senza che sia trovata alcuna soluzione di rilancio di una effettiva democrazia laica, più risparmi e riserve si assottigliano, più l’ambiente si degrada, tanto più il disegno clericale acquista credibilità ed efficacia. Moltissimi gongolano per questo, ma prima di trarre conclusioni affrettate bisognerà aspettare il responso di ‘Dio’ e capire anche bene che cosa significano le virgolette.
A questo punto, se, nonostante tutto, rimanete dei patiti intellettuali della Grande Rivelazione, vi rimangono solo libri su libri di prosa ordinaria. Bibbie e libri sacri vanno bene? Non mi sembra che i loro messaggi riescano a fornire molto aiuto e conforto nel mondo moderno, ma se vi accontentate…
E la rivelazione finale quale sarebbe? Dio senza virgolette?
Se ne trovate uno che vi dona amore e felicità avete fatto bingo (ve lo meritate perché siete buoni, io invece sono cattivo), altrimenti, se si rivela un essere freddo e impersonale, vi trovate esistenzialmente nelle peste e intellettualmente al punto di partenza.
Vi spiego il lato intellettuale: se fosse qualcosa di semplice e intuitivo scaturirebbe da un favoleggiamento illusionistico che non potrebbe rendere conto in alcun modo della complessità inestricabile dei nostri organismi e dell’universo in cui viviamo, se fosse qualcosa più complicato di quello che ci costituisce e ci circonda, equivarrebbe al trasloco del mistero a uno dei piani superiori del falansterio che abitiamo senza sapere come e perché.
Anche se potessimo andarlo a trovare nel suo appartamento, fatto reso impossibile dall’inaccessibilità dei vani alti di quell’enigmatico palazzo, Dio non sarebbe una spiegazione di alcunché dato che una spiegazione è una riduzione dal complesso al semplice, non dal complesso a qualcosa di più complesso ancora.
Una complessità maggiore non può fungere da Rivelazione di una oggettività più semplice, ma una infinita estensione e/o successione di varietà equivalenti non correlate può invece costituire la chiave esplicativa di una singola configurazione o perlomeno spostare il problema in un’area concettuale effettivamente trascendente e irriducibile.
Il principio antropologico debole, che presuppone una infinità ‘cantorianamente adeguata’ di universi ciascuno dotato dei propri ‘numeri magici’, solo una infima parte dei quali ammetterà osservatori coscienti, è in grado di fornire una cornice completamente innovativa alla questione del significato ontologico.
Una infinità di universi può sembrare uno spreco e un’assurdità, ma, da un punto di vista metafisico, coinciderebbe con il semplice nulla, con qualcosa, insomma, di autoesplicativo: è la frazione che esprime lo zero, soltanto rovesciata.
Dato che dobbiamo prendere atto che può accadere qualcosa di diverso dal semplice nulla, rassegnarci a qualcosa che alla fine vi equivale giustificando il nostro sconcerto e la nostra impotenza a capire, rappresenta una soluzione: elegante o meno, appare come l’unica opzione praticabile.
Questa impostazione può non piacere, ma alla fine, davanti al fatto che non esiste la possibilità di concepire qualcosa di meglio, si tratta di gusti personali.
Spiegare il tutto, un universo in quanto tale, è tutt’altra cosa infatti che spiegare un evento attraverso una certa concatenazione precedente di fatti.
E’ impossibile che un rimando di quel genere a un qualsiasi complesso organico di nozioni, qualunque esso sia, non porti a una domanda successiva del tipo: sì, d’accordo, ma perché quel complesso organico è come è?
Il principio antropico (debole) fornisce inoltre una concezione compatibile (forse) con una sorta di fissità eleatica implicante costrutti teorici come equazioni più o meno stazionarie tipo Wheeler-De Witt che rimbalzano in circuiti temporali chiusi, ipotesi la cui interpretazione dipende da tante cose che non si conoscono, tra le quali la natura effettiva del tempo.
Robert Sapolsky dice tutto questo? No, lo fa trasparire con il breve articolo di cui ho solo fornito un piccolo assaggio, perché il bello deve ancora venire. Infatti, subito dopo aver espresso tanta sincera disillusione (un atto molto leale e coraggioso da parte di chi è ufficialmente aggregato al Molosso della Cultura Accademica, un azzardo che rivela, non esagero e non ironizzo, la tempra dell’eroe prometeico deciso a infrangere i veti dell’olimpo, a raccontare la verità nonostante le ferree autocensure imposte da un interesse di appartenenza a certe classi intellettuali e burocratiche), Bob fissa una pozzanghera davanti ai gradini su cui siede sconsolato e riceve una illuminazione improvvisa: i microrganismi e i protozoi che colà si riproducono ne sanno molto più di noi intorno al funzionamento del cervello umano!!!!
Perché, qualcuno potrebbe a questo punto domandarsi, ce l’ho tanto con questo Sapolsky, che cosa mi avrà mai fatto di male per ridicolizzarlo così, forse è riuscito in una ricerca sulla quale, in giorni ormai lontani, contavo di costruirmi una carriera scientifica che invece non ebbe mai inizio?
Se, come questo signor qualcuno, anche voi vi state interrogando così, mi spiace, ma dovete ricredervi alla svelta, non sto affatto ironizzando, ancora una volta non comprendente i contrappunti e i timbri della mia tastiera: l’ho già sottolineato e lo confermo, di quell’articolo sono sinceramente entusiasta e non sto facendo altro che chiarire la mia ammirazione, esagerandola quel tanto che mi vale a ottenere il pretesto per allargare e precisare problematiche già toccate su questo medesimo sito.
Sapolsky, prendendo spunto da alcune relazioni congressuali, ci racconta di come virus, microrganismi, metazoi modificano i comportamenti degli esemplari che infettano, li rendono scalmanati e feroci, oppure, con berluscenziano talento, ilari, fiduciosi e fiducisti, socievoli e molto malleabili, fanno sì, per esempio, che un topo, per il resto normalissimo, non sia più così diffidente verso i gatti (i nostri capoccioni, che mi seguono assiduamente, a questo punto hanno già di sicuro drizzato le antenne), sanno dunque manipolare il sistema nervoso degli animali con una finezza per noi inaccessibile: è un fatto, nessuno scienziato riuscirebbe a modificare le attitudini di una qualsiasi specie vivente con quella specificità che certi parassiti realizzano, quindi, se potere è sapere e due più due fa quattro…
Potete naturalmente dare per inteso che ogni effetto comportamentale determinato da protozoi e compagni è organicamente funzionale a uno scopo, quindi teleologicamente orientato, il topo, per esempio, è reso amico e confidente del gatto perché dalle parti membranose del gatto e da ultimo le sue feci, l’alacre e simpatico parassita toxoplasma gondii ha necessità di trasferirsi armi e bagagli con tutta la famigliola, adesso comunque non sto a raccontarvi i particolari, ma arrivo subito al punto, ovvero a un altro importantissimo insegnamento generale.
Se un aggeggino molecolare dotato di poche decine di geni assemblati in modo da duplicare se stessi (geni così ridotti in numero perché devono solo predisporre il montaggio di una struttura che impara da sé le proprie simmetrie) e organismi poco più complessi manipolano i neuroni con tanto ‘ingegno’, può significare una cosa soltanto: la complessità del mondo vivente e del suo campione migliore, il cervello umano (primatista assoluto in tutto l’universo!), è perfettamente dominata dai meccanismi dell’Evoluzione darwiniana, quindi l’Evoluzione, descritta da schemi concettuali semplici e potenti, dimostra di poter manovrare, attraverso un’euristica che opportunamente ingloba e congegna l’opera del Caso, gradi di strutturazione così elevati (noi, il nostro corpo, la nostra mente!) da apparire trascendenti e sproporzionati rispetto a specifici programmi d’indagine e ambizioni teoriche messi in opera dallo stesso recordman cosmico, ovvero l’uomo dotato di un complicatissimo cervello.
Dunque la forza esplicativa che qui riscontriamo è analoga a quella di domini della fisica in cui un ristretto insieme di equazioni spiegano una varietà sconfinata di fenomeni, come avviene per esempio con le equazioni di Maxwell o la funzione d’onda di Schroedinger, con la relatività generale o il modello standard delle particelle elementari. Cambiano il lessico e la grammatica fondamentale, è chiaro (l’uso della matematica è episodico e accessorio in un campo ed essenziale e sistematico nell’altro), ma non i principi cardine fondamentali di una spiegazione scientifica che riguarda la nostra realtà più completa e profonda.
Tant’è, a meno che io non stia traendo conclusioni mistificatorie e affrettate da fatti che non meritano tutta quella importanza, ma sinceramente non vedo come potrei ammetterlo senza ridimensionare nel contempo il concetto della mirabile complessità di un essere biologico in genere e dell’essere umano in particolare, il profondo rispetto che tutte le domeniche e le feste comandate il guerriero economico, la formica del PIL, riserva in genere al prototipo di se stesso in quanto organismo sorprendente, poco animale e molto divino, almeno nei momenti migliori.
Gli altri (momenti) saranno pure il 99%, ma, religiosamente e francescanamente parlando, non contano.
Brani del 20 giugno 2014 fino a diversa specificazione
La prima Rivoluzione Industriale culminò intorno al primo decennio del XX secolo, dopo che i frutti maturi della tecnologia classica, essenzialmente termodinamica ed elettromeccanica, avevano già offerto molto della loro polpa insieme ai paradisi o inferni coloniali.
Il XX secolo s’inaugurò all’insegna dell’ottimismo più sfrenato, in una ingenua e quasi folle esaltazione di abilità umane così mirabili e traboccanti che, quando, di lì a poco, si scissero e si scontrarono tra di loro, dimostrarono in effetti una incredibile efficienza distruttiva.
La seconda Rivoluzione prese piede allorché l’ingegnosità tradotta e sviluppata in forme nefaste per più di un trentennio si trasmise dalle incubatrici militari ad assetti civili più armonici, per quanto ancora pervasi da febbri diverse.
Terminò intorno allo scadere dei primi tre decenni del XXI secolo, quando la nuova spinta tecnologica (informatica, telecomunicazioni, microelettronica e scienza dei materiali in testa) e la dilatazione mondiale dei mercati giunsero a saturazione in parallelo con l’emergere di problemi strutturali di rilevanza capitale (picchi di Hubbert generalizzati, impossibilità di scalare la montagna dei debiti e della ricchezza virtuale e di carta, eccesso di sfruttamento e inquinamento delle acque in genere, collasso della pellicola fertile di poche decine di centimetri per il dilavamento di fenomeni atmosferici troppo violenti e l’uso intensivo di pesticidi e fertilizzanti…)
La terza rivoluzione avrebbe richiesto, o l’abbandono delle mitologie di crescita incessante o un nuovo gigantesco balzo dei paradigmi tecnologici, sia in termini di concezione che d’investimenti, nonché il superamento dei confini di un pianeta esausto e la conquista di altri corpi celesti.
Il grosso dell’opinione pubblica, condizionato da anni e anni d’immaginario fantascientifico, attendeva fiducioso le prossime meraviglie, fingendo nel frattempo d’ignorare che senza l’immigrazione clandestina e in generale tutte le forme d’illegalità, di sfruttamento e di sopruso, piccole o grandi, l’intera economia mondiale sarebbe crollata.
Henry Lack. L’ultimo secolo dell’era industriale Edizione del 2068
CERTIFICATO DI POSITIVITA’
Ossequiosamente premesso che
Questo scritto, in quanto configurabile alla stregua di teorema limitativo dell’intera dialettica sociale, basato su un tasso di scientificità, ancorché modesto, comunque superiore al tenore medio del corrente dibattito polemico, si qualificherebbe alla pretesa di tutte le esenzioni di merito
Ciononostante
per una doverosa sottomissione al neo decisionismo correttamente emendato dai difetti antropologici e morali dell’ultimo ventennio, tra cui, ultimo per effetto di virtù, ma primo per quello di ragione, il semplice dichiararsi di destra quando si sa che certi indispensabili obbrobri si possono perpetrare soltanto sotto una copertura di sinistra
Il presente testo procede all’autodichiarazione della sua costruttiva positività per i seguenti documentati motivi
Contiene l’indicazione di un progetto che può essere valutato a discrezione del pubblico intelligente e perfino, democraticamente, di quello non intelligente: la distinzione non dipende dall’estensore.
Post Scriptum
Onde immantinentemente elevarsi a un livello così positivo che più positivo non si può, nemmeno col cazzeggio (riferimento culturale troppo antico e sottile per essere colto dai più giovani), la modesta fatica in oggetto si affretta a proporre un disegno di legge per rendere la Ppppolitica liscia e vellutata come il sederino di un bebè.
Obbiettivi:
multare salatamente coloro che parleranno di ‘fiducia’ senza specificare in dettaglio in chi e in che cosa;
multare ferocemente coloro che parleranno di ‘partecipazione’ senza specificare minuziosamente in quale intrapresa, attività, gioco di squadra e tutti gli intendimenti relativi;
multare diabolicamente coloro che parleranno di ‘solidarietà e volontariato’ senza garantire che sotto quella copertura non si stanno istituendo centri di lavoro gratuito (a parte vitto e alloggio) diretti da funzionari e organizzazioni ben pasciuti che li adibiscono a interessi privati o finalità di potere.
Legge di riserva od optional gratuito: istituire un centro di documentazione e analisi per mappare le interdipendenze professionali dei parenti più stretti del personale politico di prima fila, incrociando i dati con le linee di condotta legislativa e di schieramento procedurale: i risultati costituiranno un archivio di libera consultazione senza conseguenze giurisprudenziali di alcun genere.
Nota Bene: Particolare cura dovrà essere impiegata nel rintracciare flussi di denaro collegati a multinazionali e stati stranieri, soprattutto se occupano enclave nostrane, come, per esempio, la ex Fiat (in partenza da una colonia troppo sfruttata) o lo Stato di S.Marino.
Nota Bene n.2: Probabilmente, perché l’iniziativa si riveli benefica fino in fondo, diventerà necessario districare l’incredibile giungla delle partecipazioni pubbliche, sia locali che nazionali, nella quale tutti ripongono ovviamente la massima fiducia fiducistica, ma che forse è meglio radiografare e passare al setaccio, non fosse altro per dimostrare la falsità di quello che sostengono disfattisti e sabotatori: che non rappresenta, cioè, una pantagruelica fabbrica di assistenze e influenze in dotazione ai partiti e alle lobby di privilegio clientelare che vi si connettono, ma un formidabile congegno di ricchezza nazionale che non può che farci felici, contenti e fiducisti.
Nota Bene n.3: E’ più che probabile e quasi certo che la gestione della giungla di cui all’NB2 si riveli un’autentica schifezza e tuttavia una schifezza ancora maggiore, nella fase storica attuale, risulterebbe il procedere, non a una energica e spietata ristrutturazione intesa a ripristinare il prestigio della Cosa Pubblica, ma alla solita umiliante capitolazione nei confronti degli appetiti innominabili dei soliti furboni che prenderanno gratis, si pagheranno principeschi emolumenti dirigenziali e poi, tra pochi anni, restituiranno i debiti da ripianare a quel tontolone dello Stato ancora e sempre convinto della loro abnegazione di capitani coraggiosi (tanto che saranno i primi, passato un turno o due, a essere riconvocati, essi o i loro pupilli, per analoghi sacrifici).
Nota Bene n.4: Dovrebbe infatti considerarsi cosa buona, giusta e salutare farsi correre un brivido lungo la schiena ogni qual volta i nostri esimi governanti parlano di ‘dismissioni’. Chi compra i beni dello stato ‘dismessi’? Sprovveduti senza arte né parte che non sanno che cosa farsene dei soldi e a cui si potrà appioppare qualsiasi bidone traendone ampi benefici da devolvere al cittadino Beniamino?
(Nessun amministratore delegato di gruppo si felicita se deve vendere qualcosa: quelli più vituperati dagli azionisti si sono sentiti rimproverare per anni la cessione di aziende che sotto la loro gestione perdevano e poi hanno fatto quattrini a palate. E lì era un gioco alla pari. Figuriamoci quando gli staff di grandi fondi d’investimento o di ditte sane e liquide si confrontano con qualche commissione di tecnici messa insieme prevalentemente anche se non esclusivamente per motivi di duttilità e amabilità politiche.
Se poi a essere ceduti sono licenze, diritti, marchi o immobili, il quadro secondo me si fa ancora più grigio: che le operazioni possano essere condotte con abilità e fiuto commerciale è senz’altro possibile, ma è anche probabile? Indiciamo un referendum?
Quale organismo retto da politici o commissionato da politici (con l’attuale andazzo e nel presente sistema di politici generalisti), riuscirà mai a valutare la convenienza o congruità di una cessione anche nel caso in cui quello che viene ceduto è afflitto da bilanci in perdita e produce soltanto dei buchi?
Anche qualora il subentrante non torni a chiedere i soldi dei contribuenti, ma, usando il guanto di ferro, anziché la manina di velluto dei manager in eccesso di numero e in difetto di competenza, provveda a decimare le fila degli addetti ingrossando l’esercito dei disoccupati, magari trasferendo all’estero tutta la produzione o magari semplicemente chiudendo e introitando sconti fiscali, la cessione resterà una scelta migliore del tentare un recupero di funzionalità dando un calcio in culo ai manager stracotti e alle maestranze incancrenite e ingaggiando qualche tecnico e dirigente dei tanti che attualmente sono disoccupati o sotto occupati? Per questa nostra Italia incoronata e turrita forse sì (la domanda delle cento pistole che l’italiano è costretto a porsi per prima è: dove e in che modo il malaffare creerà più danni?), ma in generale, ovvero su un piano di pura razionalità non macchiata da tare ereditarie, direi proprio di no.
Certo, per disquisire senza accademismo, occorrerebbe un ripensamento generale di tutto il marchingegno che risolvesse, tra tanti altri, il seguente enigma: come può un ‘parlamento sovrano’, per di più affetto da gigantismo, denunciare tanta inettitudine nell’utilizzo e nel controllo dei manager pubblici e poi pretendere di fornire un sostegno e un indirizzo che non siano desolantemente labili e sommari (in realtà controproducenti e basta) all’attività economica privata?
Infatti, ammesso che l’abbia mai fatto, non può più e non lo fa più, riceve dall’esterno anche quello che finge di creare o elargire, supposto che proceda appena di un passo piccolo e breve oltre la semplice amministrazione di routine: si conferma grande profeta dell’esistente, eroico sostenitore del fatto compiuto e della legge del più forte, risoluto e volitivo seguace del laissez faire, arbitro e garante della spontanea dialettica tra lupi e pecorelle, grande pontefice delle mirabili invenzioni del Caso Vero, Assoluto e Matematico.
Chi ritenesse ciò che ho appena affermato eccessivamente polemico e massimalista probabilmente ritiene anche che un qualsiasi tipo d’interventismo economico possa ambire a effetti veramente incisivi anche senza proporsi in via preliminare e rigorosa un controllo effettivo e completo della macchina finanziaria, ovviamente con tutte le accortezze e sofisticazioni che l’enorme e faticosa impresa richiede. Per me non è possibile, i palliativi che vengono adottati al riguardo denunciano appunto una superficialità che è spia di un peccato ideologico capitale: quello di accettare come leggi di natura i portati di un’accidentalità storica pilotata dai grandi interessi, intendendo come leggi assolutamente fasulle quelle che sanciscono la superiorità ineluttabile dell’economia privata su quella pubblica (pregiudizio che ha resistito perfino alla diffusione delle ‘public company’) e l’inammissibilità di una nazionalizzazione del sistema bancario. A parte che vere e proprie leggi economiche che prescindono da particolarissimi contesti non esistono, come tutte le persone informate sanno molto bene, nessun economista è in grado di affermare un’opinione contraria alla mia se non in base a giudizi personali privi di qualsiasi scientificità inattaccabile.
Il bello è che la maggior parte della gente è convinta del contrario.
Secondo il mio modestissimo, scandaloso parere di liberale rivisto e corretto per necessità di sopravvivenza del concetto e della stirpe, di ingenuo estremista di centro irradiante inviso alla serpentina mellifluità del moderato di centro risucchiante, se una classe politica oggi non è in grado di potenziare la macchina pubblica garantendo la stessa efficienza (almeno) dell’economia privata, facendo funzionare al meglio l’una e l’altra, non… come potrei dire in un modo semplice ed elegante… vediamo… ecco sì: non serve a un ccc…tubo!
Non serve che dia la stura ai leader d’assalto, intendo: è meglio che riassuma i modi dell’eminenza grigia o del santone alla Rasputin secondo prototipi e modelli, di cui abbondava la prima repubblica, che in Italia funzionano benissimo, basta non farsi prendere con le mani nel sacco.
Non serve che la si meni con la fiducia, la partecipazione, l’entusiasmo, il patriottismo, il dinamismo, l’etica, i valori, dato che, se l’iniziativa privata è destinata a sovrastare sempre e comunque, per statuto definitivo e universale, quella pubblica, significa che le ambizioni e gli interessi egocentrici e predatori (come pure, d’altro canto, la paludosa, venefica pigrizia del ‘moral hazard’) si dimostrano l’origine esclusiva dell’azione sociale umana e quindi ci si faccia almeno il favore di piantarla con frottole e ipocrisie e lo si proclami forte e chiaro.
E’ ovvio poi che senza una visione degli scenari futuri e un conseguente piano sufficientemente (ovvero enormemente) dettagliato, anche se può apparire che per qualche anno ci si azzecca, alla fine sarà soltanto per caso.
Per rendersene conto in mezzo minuto basta ragionare sul concetto di ‘spreco’: primo, il famoso moltiplicatore di keynesiana memoria dipende dalla spesa netta e quindi, diminuendo questa spesa attraverso risparmi anche razionalmente ineccepibili, se ne inibisce l’effetto; secondo, l’abolizione di uno spreco senza una revisione dei modelli e dei contesti non risolve niente di per sé: infatti, se uno stakanovista prende 10 e un lazzarone 20 pur facendo lo stesso impiego, il fatto non rappresenta necessariamente una negatività per l’economia in quanto scienza ‘positiva’: infatti lo stakanovista potrebbe essere avaro fino alla patologia e il lazzarone un dissipatore sempre sull’orlo della bancarotta, il che, da un punto di vista psicologico, non sembra così assurdo, anzi. La razionalità, come l’etica, non funziona a spizzichi e bocconi, disseminata senza un perspicace disegno in mezzo a isole eterogenee di lussuriosa spontaneità può fertilizzare le incongruenze invece di abolirle, può allearsi alle proliferazioni selvagge in modi che nessuno può prevedere.
Siamo così arrivati al tema della puntata, che s’intitola:
AUTO CONTRADDIZIONE DELLA POLITICA IN QUANTO TALE
ovvero LA SINDROME DEL PANGLOSS NON PROGETTUALE
(Senza offesa o ironia per il galantuomo Leibniz o pregiudizio a favore della velenosa coppia Newton & Voltaire)
Aggiunto il 20 giugno 2014 insieme al Certificato
Quando la curva del benessere comincia a declinare dopo il punto di massimo, la vittoria elettorale non può prescindere né dai cultori della bisboccia sopra e davanti a tutto, ancora molto numerosi, né dalla dilagante tristezza dei dopo sbornia che, come testimoniano le statistiche dei centri di recupero per drogati e alcolisti, richiede a gran voce la sollecitudine terapica dei portavoce di Dio.
Billy Goal. La capitolazione vincente
Quando la diffusione del segnale televisivo passò alla codifica digitale e l’offerta di programmi si ampliò, l’analisi delle statistiche di ascolto rivelò molto presto l’esistenza di un bacino di spettatori (pari ad almeno il 20% circa del totale) che era stato bellamente ignorato sia dalla Rai che da Mediaset, a parte rare e saltuarie concessioni in orari lontani dalle fasce principali.
In sostanza, i palinsesti dei canali che nel complesso detenevano il monopolio quasi completo delle trasmissioni via etere, quelli statali ancora più dei privati, consideravano nulli o insignificanti i gusti e le inclinazioni di una fetta di utenti costretta a pagare il canone come gli altri, dedicandosi quasi esclusivamente all’intrattenimento della maggioranza.
Immagino che discriminazioni analoghe siano avvenute, per decenni, anche nel valutare, ai fini dell’assunzione, le caratteristiche antropologiche del personale di maggiore visibilità o influenza culturale.
Ecco, signori, il vero volto della democrazia, come conculca le fasce minoritarie e impedisce loro di crescere, il modo in cui perpetua e garantisce la propria identità di dittatura del conformismo irriflessivo!!!
Debra Maria Teresa Tuggle. Lassù qualcuno ci odia
Dopo anni di odio feroce nei confronti di Berlusconi, ci si domandava come la sinistra avrebbe mai potuto raggiungere il potere, visto e considerato che la psicologia e fisiologia del personaggio, al di là di ideologie e interessi specifici, piaceva così tanto all’italiano medio.
Si trattava di un errore prospettico: il popolo della sinistra non detestava la specifica figura, non gli rimproverava, per esempio, i modi e la filosofia da boss, vera o presunta, o un ipotetico massacro delle menti perpetrato dalle sue televisioni, no, lo odiava semplicemente perché faceva vincere la concorrenza.
Shokko Asahara. Lo spasso nella manica
Quando fu presentata la squadra di governo, fu palese a tutti quanto fossero pretestuose e ipocrite tematiche come le quote rosa o le pari opportunità.
Nel corso della storia occidentale vari gruppi di persone distinguibili in base a certe caratteristiche hanno subito prima o poi qualche discriminazione, è toccato perfino ai cattolici, nelle aree a maggioranza protestante o durante le rivoluzioni.
Se però esiste una categoria che, mediamente, se l’è cavata meglio delle altre e in genere non necessita di alcuna spinta, penso proprio che il tipo della donna avvenente che sa il fatto suo vi si possa candidare con grande credibilità, perlomeno nei periodi di pace.
D’altra parte non puoi favorire per legge quelli che ne avrebbero effettivamente bisogno: li insulteresti e umilieresti.
Nanny Doss. La contessa scaltra con il cagnolino
Una delle più pompose panzane e speciose mistificazioni che circolano a tutto svantaggio dei giovani in cerca di occupazione, avallate da politici veramente o fintamente creduloni (secondo i quali gli automatismi di mercato valgono ancora e la fede nella competitività e superiorità ineluttabile del privato rispetto al pubblico non è un dogma né una ideologia) recita più o meno così: l’apparato scolastico italiano è disdicevole perché non prepara gli studenti al mondo del lavoro.
Purtroppo si dà il caso che la scuola di qualsiasi ordine e grado non può essere propedeutica all’inserimento nel mondo del lavoro, semplicemente perché la gran parte delle prestazioni che vengono richieste ai vari addetti di una qualsiasi azienda risultano in genere specificamente settoriali e richiedono virtuosismi ad hoc che possono essere imparati solo sul posto.
La scuola deve trasferire solide nozioni generali e favorire le capacità di apprendimento e di analisi, spetterebbe alle aziende, una volta selezionato il personale, fare imparare il mestiere che in genere, accanto ad automatismi di destrezza, richiede una minima e povera parte di quanto viene imparato in una decade di studi effettuati a dovere (almeno finché si sottende una logica alla riverenza verso la funzione imprenditoriale che il nuovo catechismo di sinistra comanda in perfetta antitesi al disprezzo prescritto fino alla fine del secolo scorso).
L’intelligenza che serve e non di più, buona volontà e spensieratezza: ecco le qualità che aiutano nella stragrande maggioranza dei casi a occupare bene il posto di lavoro.
A bassi livelli si deve poi aggiungere umiltà, laboriosità e rispetto per i superiori, ai livelli più alti disinvoltura e ambizione uniti a un monolitico attaccamento alla causa e a un giusto senso del limite.
Queste (con molti omissis per non apparire troppo polemico) alcune delle caratteristiche preferite, più o meno, a prescindere dai compiti.
Le facciamo insegnare a scuola?
Facciamo allora imparare alle ragazze come essere belle e ai ragazzi come vestirsi e pettinarsi bene, dato che sono palesemente tra i tratti più apprezzati da molti selezionatori non appena ci si allontana un po’ dai tecnicismi sofisticati e dai compiti di fatica.
Richard Trenton Chase. I migliori anni della nostra vita di tirapiedi
Com’è riposante, che profonda libertà di spirito comporta farsi dettare l’agenda dagli avvenimenti: cade il muro di Berlino e non sei più rivoluzionario, si forma il parlamento europeo e non sei più populista, sale lo spread e non sei più di sinistra se non per prendere voti.
Shokko Asahara. Lo spasso nella manica
Si racconta che, intorno agli anni 2000, fu indetto, non so da chi né a quale scopo, una specie d’inchiesta o sondaggio internazionale con inclusa una domanda che faceva pressappoco così: qual è il popolo più stupido della Terra? Ebbene, sembra che i giapponesi abbiano in prevalenza risposto ‘gli italiani’ e gli italiani abbiano in prevalenza risposto ‘i giapponesi’.
Non conosco le motivazioni e posso solo azzardare una mia ipotesi: gli italiani ritengono i giapponesi il popolo più stupido della Terra perché manifestano uno spropositato concetto dell’onore epperò pretendono di vivere una vita normale addirittura riuscendoci, mentre i giapponesi ritengono gli italiani il popolo più stupido della Terra perché non manifestano il minimo concetto dell’onore epperò pretendono di vivere una vita normale addirittura riuscendoci.
Bela Kiss. Calma piatta sul fronte occidentale
L’Italia si rivelò un territorio dove i visitatori provenienti da altri mondi avrebbero trovato interessantissimo analizzare esemplari significativi della specie dominante.
Gli atteggiamenti di opportunismo tattico e infedeltà accorta e strumentale che altrove venivano accuratamente nascosti dietro alibi elaborati e contorte astuzie mimetiche, nel Bel Paese facevano elegante sfoggio di sé in qualità di dote indispensabile, selezionata da un lungo tirocinio storico, del personaggio sano, energico e vincente, pronto a rimettersi in gioco ogni volta che il padrone di turno fosse stato obbligato a sloggiare in seguito all’ultimo arrivo per mare o per terra di questo o quell’esercito del mondo.
In nessun’altra nazione la gente credeva così compiutamente ed estesamente nell’anima immortale e ciò poteva derivare dall’ammirazione per come quella sostanza così elusiva e volatile miracolosamente sapeva condensarsi all’occasione in polpose scaturigini di sentimento franco, aperto, vivissimo e sincero, che evocavano la benevolenza e il perdono quando tutto il resto era al momento perduto o irraggiungibile.
Gianni Fregoli. Come riconoscere i tuoi santi
All’inizio della terza decade del secondo millennio fu raggiunta la prova certa e inconfutabile, se non dell’incommensurabile grandezza della stupidità umana, perlomeno della natura bislacca, squilibrata, paradossale insita nella concomitante intelligenza, irta di ripide vette disperse in un vuoto nebbioso.
Qualche centinaio di volonterosi, assortiti in modo da coprire un ampio campo interdisciplinare di conoscenze scientifiche e tecnologiche, nonché di studi umanistici, storici e filosofici, stilò in un paio d’anni e divulgò su internet un progetto da cui si poteva desumere la possibilità teorica di una economia congelata in stato stazionario, tale da consentire a ogni abitante della Terra un tenore di vita per molti versi più gratificante di quello accessibile ai più ricchi e prestigiosi aristocratici del 700, boriose compiacenze egotistiche e lussi inutili esclusi.
Fu ben presto chiaro che tale lodevole iniziativa sarebbe rimasta lettera morta, non tanto per le ovvie resistenze del privilegio in genere e delle potestà organizzate in particolare, seppure formidabili, ma più ancora per il pregiudizio diffuso e la morbosa difesa a oltranza di un nevrotico tipo di individualismo già chiaramente fallito, fisime particolarmente assurde se si pensa che non esistevano alternative alla ricerca di una modesta e frugale felicità, che ogni sogno di benessere maggioritario era ormai kaputt, insostenibile per invalicabili limiti materiali di tenuta del sistema planetario.
In attesa delle eventuali generazioni future, la frangia minoritaria di ostinati paladini poté soltanto consolarsi con una constatazione ormai universalmente acquisita, qualcosa che, in forma gnomica, potremmo sintetizzare così: il re è nudo!
Beatrice O’Rinco. Hollywood o morte
AVVERTENZE
Il presente è un testo dichiaratamente avverso a tutte le religioni istituzionali, non per una ostilità benpensante verso qualsiasi forma di misticismo, tutt’altro: perché le si ritiene strumenti di persuasione e controllo al servizio di quell’opportunismo laico che adotta forme di pseudorazionalità pragmatica esageratamente fluide, troppo adattabili ai comodi e alle mire dei poteri in carica.
Non ho nessuna remora nel dichiarare che la definizione di ‘oppio dei popoli’, d’infausta memoria, conserva tuttora intatta una sua validità, anche se in effetti considero che l’aspetto più insidioso della forma mentis religiosa consista nelle facili scappatoie morali che concede al competitor individuale attraverso meccanismi darwinianamente selezionati di autoinganno e autoassoluzione.
In apertura di sezione viene ‘addirittura’ sviluppata una dimostrazione scientifica dell’inesistenza dell’anima, con il presupposto implicito che l’esposizione addotta è enormemente più solida del medio argomento confezionato e scambiato nella comune dialettica civile, ma è comunque neutralizzata da una delle tante batterie di anticorpi che sterilizzano sul nascere le istanze culturali non gradite, depotenziata da quel filtro protettivo che, predisponendo l’equivalenza babelica dei linguaggi, garantisce alle effettive sovranità in atto il monopolio dell’unico modello ammesso di arbitrato e responso efficaci, vale a dire il principio di autorità.
Che una religione canonica rappresenti il motto della FIAT ‘Sempre governativi!’ è opinabile (anche se in Italia molto meno che altrove), ma che io lo reputi e ritenga di avere il diritto di dirlo e di scriverlo, è un fatto.
Nella mia visione delle cose una certa religione e una certa politica rappresentano due facce di una medesima moneta, per cui risultano sinonimi in senso negativo: nella dialettica democratica vera o presunta persistono divisioni d’interesse che ostacolano il percorso subliminale dei messaggi, in religione la circolazione è molto più facile e produttiva.
Con ciò non resisterò a manifestare a mia volta una paradossale vocazione religiosa, anche se la religiosità da me professata è di un tipo che s’incentra sull’oggettività cosmica e non sull’auto esaltazione utilitaristica che l’umanità tributa a se stessa assegnandosi di ufficio un valore metafisico completamente fittizio.
Quanto e come sia fittizio, è appunto dimostrato in apertura.
Contesto quindi, implicitamente, che qualsiasi illusoria glorificazione partigiana possa produrre vantaggi se non casuali a quella frazione di esistenza che viene surrettiziamente glorificata, mentre rimango convinto che incorre di continuo in un analogo del paradosso edonistico.
Per ‘paradosso edonistico’ s’intende quell’atteggiamento istintivo per cui si ritiene assurdamente di poter perseguire il bene o il piacere in quanto tali, mentre ciò che si può ragionevolmente perseguire sono fatti, azioni e strumenti che, in una modalità sempre soggettiva, anche quando è socialmente diffusa, si giudica che possano produrre bene o piacere.
Secondo la presente concezione, l’umanità dovrebbe puntare direttamente e senza alibi a forgiare l’armonia e la bellezza dell’ambiente naturale e sociale in cui vive e non crogiolarsi in vanità melodrammatiche, in masochistici sogni di sensualità e potenza repressa, in omoerotici, incestuosi, ossessivamente riflessivi idilli amorosi con le sublimazioni platoniche di sé medesima.
Dio, comunque si voglia intenderlo, non può amare l’umanità più di quanto ami il suo contesto terrestre: pretenderlo è qualcosa di semplicemente grottesco, una sindrome di egoismo iperbolicamente velleitario e ipocrita che ridicolizza con la prova dei fatti qualsiasi etica che voglia insistervi.
Altre avvertenze si trovano all’inizio dei capitoli successivi.
PRECISAZIONE SUL CONCETTO DI RELIGIOSITA’
Deve essere molto chiaro che la parola ‘religiosità’ non si riferisce a ciò che uno crede, in quanto la fede religiosa, opposta a inferenza logica, induzione empirica o semplice opinione su circostanze specifiche, presume sì una particolare predisposizione psicologica e comportamentale, ma nessun oggetto di riferimento intenzionale identificabile con sufficiente precisione, soprattutto linguistica.
Persone che condividono un credo ufficiale, non riusciranno mai a stabilire neppure approssimativamente se confidano in un medesimo Dio oppure no, dato che il concetto stesso di Dio si perde nella definitiva ambiguità del paradosso ineffabile.
Dette persone si riconoscono tra di loro e davanti a terzi da come aderiscono a certe caratteristiche convenzioni espressive e rituali, mentre già a livello di scelte morali possono manifestarsi differenze nette legate a incompatibilità profonde che emergono soltanto in fasi critiche.
In che modo allora contrappongo la mia religiosità a quella che ho definito ‘istituzionale’? Appunto sul piano degli stili di vita e ritenendo in particolare che tali stili non debbano limitarsi alla venerazione astratta di fantasmi spirituali (dimostrati tali!) ma adattarsi alle necessità di preservazione di un mondo che Dio, ammesso che il termine si attagli a una causa efficiente universale, ha creato.
Di solito, le sfumature di una dottrina si colgono da idiosincrasie o divieti molto meglio che dalle sue predilezioni.
E’ emblematico, per esempio, che il tipico cattolico tolleri e spesso approvi l’edonismo gastronomico e condanni invece l’erotismo estetizzante e l’ebbrezza indotta da droghe anche leggere.
Valutazioni siffatte rendono assai sospetta la genuinità del movente religioso che sta dietro: erotismo ed ebbrezza, come si evince da svariati documenti storici ed etnici, possono favorire infatti esperienze di tipo mistico, il ‘peccato’ di gola è quanto di più prosaico si possa immaginare.
Così mi confermo nella certezza che una normativa di tipo pratico e funzionale, diretta soprattutto a preservare esigenze di ordine e produttività, la faccia qui da padrone.
Qui la religione affianca la politica come una specie di gendarmeria in servizio attivo permanente e il mio dissenso si radicalizza quando devo considerare che, sia il propendere per le piacevolezze conviviali sia l’avversare gli indugi estatici e contemplativi depongono a favore di calorici dogmi produttivistici (basti pensare ai riti infestanti dei ‘pranzi di lavoro’ e a come conferiscano rilucenza sacrale a cuochi e ristoratori ‘di fiducia’) e intrinsecamente presuppongono un ambiente planetario incredibilmente servizievole e generoso, sottomesso a tutti i capricci dell’uomo intrallazzone e divoratore.
Le concezioni implicite nel progetto Colib (religiose, estetiche, filosofiche e quindi anche politiche) richiamano criteri di giudizio sulla qualità della vita completamente antitetici, nonché il sottinteso che modelli in grado di attuarli, man mano che certe licenze scadranno senza rinnovo, diventeranno sempre più raccomandabili.
CONSIDERAZIONI DI STORIA CULTURALE
Per alcuni aspetti il progetto Colib richiama esperienze storicamente concluse, valutate in genere fallimentari o almeno stravaganti e slegate da un contesto di concatenazioni più ‘serie’ e cruciali.
Alludo alle utopie libertarie che presero piede in nord America durante gli anni 60, in continuità con il trend esistenziale etichettato come Beat Generation.
Locuzioni come hippy, figli dei fiori, comunità psichedeliche, nomadismo pacifista, il famoso film ‘Easy riders’ eccetera possono forse fornire una idea meno vaga.
Benché le premesse concettuali ed esistenziali da cui il presente testo prende le mosse siano completamente diverse e nonostante i toni vagamente assurdi e caricaturali che certi termini e riferimenti potrebbero suscitare anche nelle menti meno prevenute, non disdegno affatto l’evocazione di certe affinità.
Per dirla tutta, anche se, per ragioni sia anagrafiche che banalmente ideologiche, non mi sono mai trovato in corrispondenza con certe atmosfere originali e anzi ho sempre trovato insulsa e infantile, a normalizzazione avvenuta, la continuità ereditaria di certe istanze radicali nel filone di un finto ribellismo giovanilistico manovrato da impresari dello spettacolo, ancora adesso mi chiedo se non si sta parlando qui di una delle più grandi occasioni sprecate dell’umanità moderna, se il tutto, cioè, non avrebbe potuto bilanciarsi meglio, suonare meno stonato, qualora le mitologie pre sessantottine, invece di uscire nettamente sconfitte o conglobate in rivendicazioni e proteste funzionali a certe polarità di sistema, avessero rimediato, anziché una disfatta senza condizioni, un armistizio che riconoscesse almeno in parte la legittimità di una certa antropologia alternativa.
Beninteso, per legittimazione opportuna, non intendo il diritto a occupare qualche angolino dell’immaginario collettivo da cui irradiare suggestioni private e nostalgiche di eden perduti, bensì una effettiva penetrazione nella cultura politica professionale, robusta abbastanza da incrinare il duopolio costituito da un ideale paternalista di ambiguo ordine democratico, ambidestro o ambisinistro, rigido o flessibile secondo le resistenze, seduto accanto all’attrezzeria di anatema e vaselina del pietismo cristiano.
Oggigiorno, se si facesse un sondaggio per domandare alla gente chi apprezza di più tra Timothy Leary e Maria Teresa di Calcutta, l’esito sarebbe plebiscitario tra le poche risposte informate e la maggior parte degli interpellati non risponderebbe o per ignoranza (chi è Timothy Leary?), o per indignazione (per l’offesa arrecata alla Maria) o perché riterrebbe si tratti di uno scherzo.
Per quanto mi riguarda, da un punto di vista teorico e a prescindere che la risposta sia indimostrabile, più che impossibile, il seguente quesito rimane molto interessante: se possedessimo una metodologia per quantificare piacere e dolore e si disponesse di tutti i dati empirici che servono, chi, facendo la somma algebrica ‘piacere procurato più dolore alleviato meno dolore inferto’, otterrebbe il punteggio migliore tra Timothy e Maria?
Suggerimento: per tentare una vaga e ipotetica risposta occorre una conoscenza precisa e neutrale di dati storici e biografici, non basta la fede!
Ovviamente la caratura della domanda non poggia sullo specifico interesse di merito, quanto, appunto, nella pressoché certa e bulgara unanimità degli ipotetici responsi e in quello che implicitamente dimostra: la gigantesca distorsione dei processi cognitivi che coinvolge il corpo elettorale e gli effetti indotti dalla propaganda martellante delle correnti di pensiero egemoni.
Naturalmente, proprio in conseguenza di quanto elucubrato finora, mi guardo bene dal conferire al sig. Leary buonanima un qualunque riconoscimento di merito circa l’utilità storica della sua figura, anzi: sono convinto che, valutando i riscontri concreti e non le simpatie culturali, ogni Chiesa dovrebbe essere grata a figure come lui più che a personaggi come Maria Teresa.
Appurato che, dagli anni 70 in poi, in termini di dominanza delle weltanschauung ufficialmente ammesse, il naturalismo estetico contemperato di razionalità scientifica è uscito massacrato dallo psicologismo ambiguo avido di padroni e dogmi curativi, i maggiori indizi di colpevolezza ricadono sulla puerile arroganza di guru siffatti, su certe arbitrarie forzature, sulla dilettantesca e avventata esaltazione delle droghe pesanti.
Concesso a Cesare quel che è di Cesare (frase molto esplicativa sia del fallimento in vita di Gesù Cristo che del suo successo postumo), ribadisco che si è trattato, secondo me, di una grande sciagura poco o nulla casuale: certe esperienze, molto salutari se adeguatamente concepite e controllate, si rivelano ingovernabili anche e soprattutto perché rimangono purtroppo incompatibili con certi caratteri sacerdotali che la politica non riesce a scrollarsi di dosso, benché la percentuale di deputati che fa uso di droghe, legali o no, sembra sia incredibilmente alta non solo in Italia.
Beninteso (chi ha afferrato le linee generali del discorso l’avrà già intuito, chi, in malafede, era già pronto a gridare trionfalmente allo scandalo è meglio che si diriga altrove), l’evocazione del sex and drugs duro e puro è solo metaforica. Come sarà meglio argomentato in seguito, gli spazi di libertà che una società può concedere all’individuo non possono impedire quella fisiologica schiavitù che non può non essere richiesta a titolo di compensazione imprescindibile.
Soprattutto non devono compromettere, sotterrandole sotto deliri ed estasi di massa, quelle facoltà di analisi e comprensione che dovrebbero rappresentare uno dei piaceri fondamentali di una persona veramente umana.
Evocando i movimenti libertari del secondo dopoguerra negli Stati Uniti, alludo semplicemente a una diversa filosofia di abbattimento delle barriere dell’io rispetto all’artificio devozionale e alle sue infinite repliche laiche e psicanalitiche, a uno sblocco effettivo dei circuiti ossessivi al posto di quegli occultamenti e quei travisamenti che sono terreno fertile per le manipolazioni più dubbie.
Linguaggio dell’utopia? Certo, ma utopia di qualsiasi progetto che venga esaustivamente delineato tramite ideazioni slegate dal parapiglia obbligatorio che esalta, per contrasto, gli atti pontificali della politicizzazione metafisica di tutto.
Tolta l’opzione dell’utopia e comprovati i caratteri favolistici e fantasmagorici del linguaggio politico effettivo, la cui razionalità non sale come un palloncino nella stratosfera solo perché è abbrancata con tendini e nervi alla concretezza degli interessi e delle disfide, a che tipo di democrazia moderna possiamo realisticamente aspirare quando gli strumenti dell’epistemologia generale, dell’indagine critica, il gusto dell’accertamento spregiudicato, il concetto stesso di ricognizione oggettiva indipendente, soccombono alla mistica dell’ortodossia obbediente, della disciplina santificata di chiesa o di partito, degli alti e remoti olimpi che irradiano modelli di umanità suprema e indiscutibile?
A che tipo effettivo di libertà si può aspirare, quando, esercizi accademici a parte, pensare scientificamente diventa una prerogativa esclusiva gelosamente riservata alle ferree gerarchie produttive?
Il mondo umano è diventato troppo complesso per la democrazia dell’ignorante (e siamo tutti ignoranti!), la politica tradizionale agonizza nella tenaglia micidiale le cui ganasce sono gli automatismi darwiniani dei principi strutturali e l’entropia che si gonfia serpeggiando negli spazi tra i nodi di predominanza. L’intransigenza della forza maggiore sbaraglia la concepibilità stessa di una serena e trasparente uniformità, di comportamenti cristallini, e questo in ogni ordine e grado del labirinto in cui ci aggiriamo sperduti.
L’utopismo degli anni 50 e 60, alla fine, s’incentrava su questa presunzione principale, che l’individuo potesse aderire armonicamente a un movimento collettivo conservando libertà, salute e integrità: il fatto che sia stato sconfitto non dimostra che si tratta di premesse impossibili.
L’oligarchia politica sorta dalle spoglie del liberalismo tende a farcelo credere, ma in parte comincia ad avvertire un pericolo d’incongruità insostenibile tra il suo vecchio e pigro concetto di ‘dignità della persona’ e le applicazioni disponibili (dignità della claque, del devoto in ginocchio, del suddito adorante?!?), così ricerca una formula accettabile e discreta di autoritarismo che sia efficace e recisa senza essere dittatoriale: non ha fatto molto di più che affiancare al mito di un disinteressato efficientismo industriale vecchi schemi dogmatici preindustriali impastati di romanticherie e moralismi postindustriali.
Quando la finiranno di raccontarci delle emerite balle, i campioni dell’anti populismo prima e sopra di tutto? Che costruiscano alla svelta il loro nuovo cosmo tolemaico, se ne sono capaci, oppure gettino la maschera e abbiano almeno il coraggio della franchezza.
Qualora qualcuno avente voce in capitolo decidesse di puntare per vie mimetizzate e traverse su schemi e modelli assimilabili al progetto Colib, è pregato di farlo sapere in un orecchio a me o a qualche membro della confraternita segreta: prometto che manterremo l’incognito!
Fine delle premesse.
E’ veramente buffo che la maggioranza della gente, anche acculturata, ritenga con assoluta sicurezza che non esiste una dimostrazione scientifica dell’inesistenza dell’anima.
In realtà una reductio ad absurdum esiste ed è molto semplice.
Supponiamo che ogni persona umana sia dotata di anima.
Ogni suo più delicato sentire, le squisite infiorescenze delle sensazioni intime, i brividi e i trasporti della coscienza emotiva e morale coinvolgono allora l’attività dell’anima (se non fosse così la relativa concezione equivarrebbe a un non sequitur ricadente sotto il rasoio di Occam e la presente argomentazione terminerebbe per sparizione dell’oggetto e forfeit dei contendenti)
Pertanto ogni manifestazione di un’anima si comunica a un’altra attraverso manifestazioni linguistiche ed espressive che coinvolgono occorrenze fisiologiche scientificamente rilevabili e analizzabili, per esempio da una tomografia computerizzata (se non fosse così le persone che si amano relazionerebbero soltanto attraverso fenomeni paranormali, con conseguente grave e anzi definitivo, irrimediabile pregiudizio di tutta la pubblicistica e l’oratoria di ascendenza spiritualista: la dimostrazione vincerebbe ancora per sparizione dell’oggetto e forfeit degli avversari).
Quindi ogni espressione dell’anima deve obbedire al principio di conservazione dell’energia (e a tutti i principi che coinvolgono relazioni esatte di simmetria nel senso che vi conferisce la fisica fondamentale).
D’altra parte un’anima, in quanto sostanza immateriale, per produrre effetti energetici, in qualche inesplicato modo deve crearli dal nulla.
Quindi, se si ammette la validità ubiqua e continua delle leggi scientifiche accanto al principio metafisico dell’irriducibilità dell’anima immortale, l’anima si fa un punto di onore nel violare il principio di conservazione dell’energia.
Dove c’è un’anima il principio di conservazione dell’energia vale e non vale.
Cvd
Ex absurdo sequitur quodlibet, così ogni tertium che si ha la forza d’imporre sarà dato.
La dimostrazione logico-matematica dell’inesistenza dell’anima è inoppugnabile come tutte le teorie scientifiche attualmente accettate e forse di più, ma scalfisce il tacito accordo che impera da secoli tra la soporifera religione istituzionale e la scienza ortodossa e benemerita, il patto scellerato che sacrifica a considerazioni di ordine, convenienza e autorità, ovvero di addomesticamento della cultura tra ufficialità accademica e rimbambimento demagogico, ogni analisi profonda della condizione umana, dell’azione antropica e dei processi causali a medio e lungo termine che vi si correlano, quindi, in senso lato, tutte le chance di ridefinizione radicale delle strutture economiche, politiche e sociali appena si ragiona in termini temporali più estesi delle scadenze di presentazione dei prossimi bilanci o delle prossime elezioni.
Se si riflette sull’immenso apparato di potere che si regge su una siffatta fabbrica intellettuale dell’illusione, su falsificazioni così elementari da diventare quasi commoventi (che sia questa la molla della loro fantomatica attrazione?), non si può non trarre conclusioni molto scettiche e inquietanti intorno alla reale sostanza del dibattito democratico, alla spettrale natura di un confronto di opinioni che rimangono a veleggiare nel regno del più nebuloso pressapochismo quietistico, nel volatile ambito di fumisterie inquinanti che offuscano ogni possibilità di visione approfondita, trasparente, inflessibile, mentre le informazioni e gli strumenti che consentirebbero analisi serie e credibili si trovano celati oltre gli orizzonti dell’asfittica visione comune o gelosamente serrati nei bunker riservati agli stati maggiori in comando.
Concedetemi, allora, un piccolo e maldestro sfogo pro domo mea: abbasso l’ottimismo trionfalista di cui non si può controllare congruità, pertinenza, onestà, perspicuità e saldezza di stimoli e ragioni, viva il catastrofismo paradossale e sardonico, se qualche piccolo dubbio lo instilla, fermo restando che alla ridanciana sicumera dei più quel piccolo sbuffo non procurerà nemmeno uno starnuto.
Se dall’assurdo consegue qualsiasi cosa, come è facile dimostrare usando le inferenze della logica classica, allora, avvalendoci della verità ontologica di una semplice contraddizione, possiamo dimostrare qualsiasi enunciato.
Per esempio, partendo dai due assunti che il principio di conservazione dell’energia, in ben circostanziati eventi spaziotemporali, vale e non vale, si può seduta stante produrre la dimostrazione logico-matematica che Papa Francesco è un cavaliere Jedi oppure che il nostro amato Premier Renzi possiede più poteri di Superman.
Se mi concedete un atto di fede, vi risparmio il noioso, ancorché facile, compitino.
Ciò consentirà di rendersi conto senza fatica del perché la sinistra hegeliana e la destra teologica, quindi la politica in genere, pardon, la Politica (collettivista e/o liberista, quella che disdegna l’antipolitica liberale e ne è disdegnata), da che mondo è mondo adorano le contraddizioni, amano follemente quei potenti sortilegi in base ai quali, per un cortocircuito miracoloso, ogni frase acquista dosi massicce di verità divina (prosaicamente definita ‘analitica’) e non è tenuta a rispettare vincoli semantici di asservimento alla realtà, emergendo così in tutta la sua invitta efficacia la bontà dell’unico sostegno oggettivo concepibile, quello del ‘padrone sono me’ modulato e declinato secondo l’eleganza e la profondità che designer e stilisti ci insegnano.
La Politica non onora l’umile verità, ma il Valore, così s’inginocchia devota davanti a tutto ciò che Essa Stessa produce a proprio giudizio, volontà, discrezione.
Qui ci troviamo a costeggiare l’enigmatico e portentoso Iperuranio dell’Autoriferimento, quella stupefacente potenza metateorica che il Potere detiene in esclusiva nazionale e adibisce all’impresa di raffigurare se stesso come un apparato di formulazioni che illimitatamente si sdoppiano e si sovrappongono al modestissimo mondo oggettivo.
E’ apoditticamente noto tra i cultori di scienza che quando un sistema è abbastanza complesso (quindi ‘potente’) da simulare se stesso, può dare corso a formule che sanciscono da sé la propria indimostrabilità, fornendo lo stampo e il prototipo di sentenze e vaticini veri proprio in quanto imperscrutabili, veri perché altrimenti falsificherebbero tutto.
Abbiamo testé esposto un caposaldo logico universale che è sciocco e inopportuno lasciare in mano a libertini e dilettanti che grufolano tra accidentalità e relativismi, bisogna tradurlo in una fabbrica di significati, o meglio: Significati!
Un modo potrebbe articolarsi più o meno così: se Io, Dio, affermo che tu non riuscirai mai a dimostrarmi e tu mi dimostri, io dico il falso e non sono Dio, quindi, se vuoi che sia quel Dio che tu, ardendo, bramavi dimostrare, tu devi essere un povero essere impotente che non può dimostrarmi, ma io ti voglio bene anche così, anche se sei un povero pasticcione inconcludente che cerca Dio nel cilindro e tira fuori la sua negazione.
Il comune politico generalmente è solo un modesto sacerdote che in genere padroneggia male certe profondità filosofiche, molto più consustanziali all’effettività di certa metafisica sociale intrisa di multinazionalità organizzata, finanza gesuitica e offerta televisiva predominante in termini di audience.
Il personaggio parlamentare medio difficilmente, quando subisce un’analisi approfondita, sfugge a quella malignità eretica che si picca di scovare ovunque falsari etici e morali, riuscendoci spesso e volentieri.
E’ facile infatti farsi appioppare tale definizione ogni volta che si manifesta la caratteristica molto strana e peculiare di non presentarsi mai come mosso da interessi propri, ma soltanto da priorità generali e altruistiche.
Del resto, come puoi fare il politico e atteggiarti diversamente?
Non puoi, e allora bisogna farlo con stile e cioè con ‘carisma’.
Per il politico ‘carismatico’ è naturale che ogni impulso agisca in lui soltanto per il bene della comunità e non solo (attenzione!) quella comunità che si limita alla parte del corpo elettorale che gli conferisce prestigio e influenza, bensì la gente in quanto tale, la nazione tutta nella sua strutturazione gerarchica, una totalità, insomma, che, esclusi i malvagi, annovera anche chi è così sprovveduto da non saper valutare le proprie convenienze.
A ben guardare, gli sciocchi così ciechi e meschini da non vedere nemmeno la propria convenienza, vengono inclusi troppo generosamente nei vantaggi dell’azione, dato che, non apprezzando la bontà e l’abnegazione dell’imbroglione etico-carismatico, dovrebbero essere considerati malvagi e, se non avviene, è soltanto in virtù della straordinaria bontà e abnegazione dell’imbroglione medesimo, come egli ci fa notare esponendoci, in stretto parallelismo con le necessità logiche e ontologiche in precedenza elencate, la ferrea, tetragona solidità del suo teorema.
La folla dei sostenitori che circonda il leader carismatico trae dalla brillantezza e disinvoltura del suo comportamento tutte le rassicurazioni di cui necessita per affrontare con caparbietà e fiducia le incognite del futuro.
Il leader carismatico, che, per quanto esemplare di eccellenza, condivide le debolezze e i limiti assoluti della specie, trae a sua volta dalla folla di sostenitori che gli si affolla intorno gli incoraggiamenti e le conferme di cui necessita per perseverare nella propria disinvolta sicurezza.
Se ogni approfondimento teorico dissemina dubbi e reticenze non confacendo né all’ambizione del condottiero né al fideismo entusiasta del seguace, ogni approfondimento teorico dovrà essere abolito a favore di una presa di possesso volitiva.
Il decisore d’assalto non si preoccupa se, in un mondo complesso in cui la divisione estrema del lavoro intellettuale s’impone come un’esigenza pratica minimale, ogni esperto accede a una visione troppo ristretta delle cose per raggiungere la certezza di un pericolo di vasta portata, confermando nel frattempo la tranquillità sua e dei referenti attraverso l’analoga assenza di allarmismo che ravvisa in tutti gli altri esperti settoriali, in una reciprocità di sollievi accordati per risonanza.
Promuovere comitati interdisciplinari di analisi dettagliate delle varie questioni cruciali implica un investimento cognitivo che ha ritorni troppo tardivi e incerti rispetto alle velocità di rendita necessarie alla politica per non farsi dichiarare fallita.
Gli anni passavano e gli ecologisti continuavano a ripetere: se non si interviene oggi, domani sarà troppo tardi.
Seguivano il canovaccio per cui la gente non andava spaventata, ma aiutata a comprendere in modo da renderla desiderosa di collaborare al risanamento con serena, fattiva fiducia.
Di fatto non s’interveniva mai, se non in misura molto inferiore ai danni inferti.
Così il grosso dell’opinione pubblica si convinceva anno dopo anno che, se non si interveniva e non succedeva nulla di drammatico, significava che ogni appello s’ispirava a un vuoto allarmismo.
In realtà, non s’interveniva con sufficiente profondità ed estensione, per quanto fosse necessario, perché l’intervento avrebbe richiesto costi che la maggior parte della gente non era disposta a pagare.
Quando l’urgenza si palesò con evidenza schiacciante, era ormai troppo tardi per concedere quella disponibilità che si era sempre negata.
Questa fantasmagorica euristica, questa morbida sinuosità tautologica della teologia politica pervade e condiziona le menti abituate ad assumere decisioni istintive senza attrezzarsi con diffidenze pregiudiziali e schermi di freddezza intellettuale, difese peraltro assai costose in termini di socialità e coinvolgimento in un lavoro di squadra o in un’azione comune.
Di solito un compromesso s’impone, ma le capziosità della comunicazione malata, coinvolgente, per esempio, il famoso doppio legame di Bateson o messaggi canditi di lusinghe intorno a un cuore di antinomie nascoste, dilagano a qualsiasi livello della vita sociale a cominciare dai precoci rapporti familiari e scolastici, così il corpo elettorale trabocca di abbonati ai soffici e spumosi lavaggi di cervello, di utenti passivi privi di qualsiasi difesa e già abbondantemente acciaccati in tutto l’ambito delle proprie cognizioni profonde.
I casi veramente patologici, gli individui privi di difese appartengono pur sempre a minoranze, certo, ma minoranze decisive, e comunque il problema non riguarda unicamente né prevalentemente le trappole emotive della comunicazione ingannevole: ben più gravi danni procurano le impostazioni generali del mercato della politica e dell’ideologia, tuttora giocato su una miriade di suggestioni e stimoli depistanti e fasulli, mentre la vera sostanza dei problemi viene obliterata o perché non la si sa o perché non la si vuole trattare.
Alla fine, se non predomina ovunque la palude dell’evasività e del travisamento lo si deve, paradossalmente, all’esercizio di accortezze legate all’elementare struttura degli interessi, unico filo rosso che è ancora capace di chiamare in causa una certa concretezza di competenze quasi razionali.
Il cemento della vecchia e moribonda democrazia liberale, nonostante i continui sabotaggi venefici apportati dai mercanti di etica, patriottismo, immagine e carisma, rimane tuttora, per fortuna, l’identificazione di un banale tornaconto e il suo agire in contrapposizione dialettica agli altri.
Anche questa labile e corriva zattera di salvataggio, però, sta cedendo
Purtroppo è facile far passare per fatalisti vanesi quelli che intuiscono il problema ma incontrano difficoltà a esprimerlo, mentre molti, troppi altri credono o fingono di credere (per coltivare la ‘speranza’) che le vere problematiche cruciali rientrino ancora sotto il controllo della politica tradizionale, quando invece stanno maturando per processi oscuri che nessuno si dà la pena di identificare e decifrare o per le trame deliberate o automatiche dei grossi organismi che se non controllano, comunque conoscono enormemente meglio dei non addetti ai lavori settori e apparati cruciali di estensione planetaria.
E’ vero: l’unica salvezza possibile poggia sulle mitiche riforme, ma quelle che non ribaltano il tavolo, finiscono per arrendersi alle regole del gioco, si concentrano al massimo sul consolidamento della cabina di comando per restare a galla nelle acque tempestose.
Quando i governanti potranno contare su pannelli di comando più maneggevoli, si sarà verificato soltanto un piccolo passo in direzione di un maggiore autoritarismo dalla maggiore efficienza ipotetica: i timonieri avranno qualche appiglio in più nel trattare, di volta in volta, la liberazione di questi o quegli ostaggi del sistema globale, fingendo nel frattempo, solcando i cavalloni, di seguire deliberatamente una rotta decisa in realtà dal caso, deviata di continuo da incontrollabili motivi di ordine superiore.
Fino al definitivo affondamento.
O alla rinascita gloriosa, chissà, ma non certo per merito di chi, pur disponendo di qualche teorica facoltà d’intervento e correzione, non fa che sottoscrivere e legittimare il rafforzarsi degli squilibri automatici, affiancando percettori di privilegi non più giustificati da un’effettiva utilità manageriale (politici tradizionali e prelati) ai rappresentanti di categorie detentrici della effettiva decisionalità strategica.
Il pragmatismo politico sfocia inevitabilmente nella babele dei linguaggi e non potrebbe avvenire altrimenti per il semplice motivo che procede a colpi di confusioni ed equivoci metodologici e linguistici, sprofondando in ambiguità paludose dove tra movente e obbiettivo scattano le trappole infinite dell’azione che si riavvolge di continuo su se stessa e gli attori interagiscono verbalmente senza neppure riuscire a discernere il piano sintattico (un rispetto adeguato delle regole), quello logico formale (la correttezza tecnica e la coerenza operativa delle istituzioni) e quello semantico (la realtà ineluttabile delle leggi di natura e dei principi di realtà, nonché dei congegni sistemici in azione sui più svariati livelli).
Come hanno bene evidenziato gli atti di fondazione costituzionale storicamente più eminenti, prima di tutto quello del generale Washington e compagni, il vero fondamento dell’azione politica è la volontà di Dio, infatti solo un autentico miracolo consentirebbe che il guazzabuglio di velleità umane sguinzagliato nel libero gioco delle opinioni e degli interessi possa dare corso, nel lungo periodo, ad assetti funzionali di autentica democrazia equa e liberale.
La questione cruciale, speriamo risolubile (ma, ahimè, temo proprio il contrario), riguarda il quesito se la politica così com’è concepita praticamente in tutti i paesi del mondo (ma in modo particolarmente contraddittorio e schizofrenico in Italia), derivi da equivoci e aleatorietà di tipo storico (che concedono un alibi di fedeltà e di prudenza a un ciclo ormai scaduto) oppure sia irrevocabilmente connessa ad antinomie, stranezze e, insomma, difetti consustanziali della natura umana.
Provate a far ragionare un politico di successo su questioni come l’insostenibilità di una crescita a oltranza davanti al deterioramento drastico del tasso marginale di produttività tecnologica aggravato dal declino delle risorse primarie in prossimità di un punto di non ritorno degli irrimediabili stress demografici e ambientali.
E’ come domandare a una rock star all’inizio di una promettente carriera che cosa ne pensi del pessimismo kafkiano o della teologia della crisi e se li ritenga adatti ai propri costumi di vita.
Provate a fargli capire (al politico) che, in assenza di stratosferici balzi dei paradigmi scientifici, di una conseguente esplosione tecnologica paragonabile almeno agli ultimissimi decenni di boom dei computer e similari, di un allargamento dei mercati che per procedere ai ritmi del passato dovrebbe scoprire mitici regni sottomarini abitati da tritoni e sirene affamati di consumismo non più represso, anche secondo le teorie economiche più ortodosse l’orizzonte si riempie di nubi se non si cambiano radicalmente i concetti, i criteri e gli stili di convivenza sociale ed economica.
Al massimo, anche quando è intelligente e si avvale di consiglieri capaci di somministrargli qualche pillola amara ogni tanto, senza esagerare, ciò a cui oggigiorno può ambire un politico di successo, anche e soprattutto quello selvaggiamente riformatore, s’impernia su come organizzare misure tampone per resistere alla meno peggio fino a quando si potranno imbarcare sulle astronavi in partenza per Marte le masse di disoccupati non più mantenuti dalle pensioni dei quasi centenari.
Del resto si sa che religione, fantascienza e ottimismo sono tutta la cultura che serve alla politica di governo, quella vera, una volta che si dispone dell’essenziale, ovvero della capacità di capire alla svelta chi o che cosa dirige le danze nei tempi medi e brevi, unita alla faccia tosta di prenderlo a braccetto e accompagnarlo dove (quel chi o quel che cosa) ha già deciso di andare.
Quando una civiltà si appella alla speranza, è cominciato l’inizio dell’epilogo.
Quando i primi inter pares si baloccano con allettamenti così carezzevolmente messianici, significa che qualcosa di vagamente sinistro comincia ad affacciarsi anche nel loro luminoso e tranquillo futuro.
I veri potenti in carica, solidi o transeunti, non necessitano di aspirare a quell’essenziale che già possiedono: la certezza di trovarsi nel vivo del gioco disponendo di rassicuranti mucchietti di fiche e ottime carte sia in mano che dentro il polsino.
Tutto il senso e il gusto della vita è racchiuso nella partita che scorre, ciò che non vi rientra appartiene agli sbiaditi fondali.
I buoni giocatori sanno molto di opportunità, tattiche e strategie, ma niente di speranza, quell’abominevole spia di debolezza e distrazione.
E la forza e la resistenza di chi non ha niente da giocarsi e non può neppure avvicinarsi ai tavoli non risiedono nella speranza, al contrario, si temprano nella leggerezza della sua totale assenza, nella libertà e nel sollievo che conseguono dal non soggiacere a certe impegnative e ricattanti promesse.
Questa incredibile, micidiale resistenza dell’umanità devastatrice, dei popoli locusta che tenacemente sopravvivono alle proprie rapine, si fondano sulla stessa caparbia adesione al compito che è propria dei capi e delle élite, su quell’immergersi e immedesimarsi nel ruolo e nella sfida, anche se qui non si tratta di guadagnare ricchezze o trofei, ma del fascino primordiale, del gusto nudo e crudo della pura sopravvivenza.
Alla fine il male peggiore coincide con il bene più grande e viceversa, si rivela come l’essenza indomabile di una sorprendente, eroica etica animale che basta a se stessa e non sa che farsene della speranza, la usa al massimo come ruota di scorta per momenti di stasi e di ricarica.
Quando si evoca la speranza per rinsaldare quella sinistra efficacia della specie, quel millenario rullo compressore di volontà e intelligenza contratte intorno a uno scopo, uno qualunque, significa che qualcosa comincia a scricchiolare nella compagine dove si afferma il commercio di rassicurazione e conforto, il che non sarebbe poi così disdicevole se gli homo sapiens appartenenti al gruppo potessero avvalersi di moduli di adattamento sociale meno istintivi e grezzi.
In Italia, ogni anno avviene un turn over incessante di piccole aziende, decine di migliaia muoiono e altrettante spuntano, sarebbe interessante stimare il costo del bailamme in termini di insolvenze seminate in giro e di procedure civilistiche o fallimentari, a volte create ad arte dai professionisti del buco e dello scoperto.
I piccoli e medi imprenditori che resistono si dividono in tre categorie:
a) quelli che si sono arricchiti quando ancora si poteva e sui cui metodi e la cui fortuna conviene in genere, se non in assoluto, stendere un velo pietoso, perché è inutile farsi del male a vicenda, soprattutto quando prove certe che garantiscano l’immunità da una denuncia per diffamazione non è che siano così facili da trovare;
b) quelli che non si sono arricchiti e, salvo rare eccezioni, non si arricchiranno mai, continuando vita natural durante a rimpiangere sospirosi la vita facile (almeno presunta) di professionisti e stipendiati di livello nemmeno così eccelso (laddove nelle altre nazioni di occidente il piccolo e meno piccolo imprenditore conserva ancora, in media, non si sa per quanto, un certo status sociale);
c) quelli che cercano ancora caparbiamente di arricchirsi utilizzando l’unica metodologia che può servire allo scopo e su cui conviene in genere, se non in assoluto, stendere un velo pietoso, perché è inutile farsi del male a vicenda, soprattutto quando prove certe che garantiscano l’immunità da una denuncia per diffamazione non è che siano così facili da trovare.
Senza pregiudizio alcuno verso quelli abili, fortunati e ineccepibili, che senz’altro esistono come minoranza, piccoli e medi imprenditori onesti (compresi commercianti e artigiani) e lavoratori precari o con un impiego continuamente in bilico costituiscono in prospettiva i nuovi ceti sottoproletari crescenti (fortemente disomogenei in quanto a provviste e riserve) a fronte di un ceto medio in contrazione di lavoratori, funzionari e professionisti abbastanza garantiti e di una nuova e vecchia aristocrazia di varia composizione.
L’aristocrazia controlla il sistema politico grazie alla forza del denaro e a una massa effettiva di voti che, nonostante larghe intese e poco canonici trasversalismi antimaggioritari, a malapena raggiunge i due quinti dei votanti totali (a prescindere che votino o meno), se quindi la ragione del non voto risiedesse in toto nella mancanza di alternative comprensibili a un sistema subito per inerzia e fatalismo, la democrazia si potrebbe considerare già estinta e un qualsiasi evento traumatico potrebbe proiettare nel caos la gestione politica del paese.
Meglio allora gli Stati Uniti? Dove le leggi facilitano talmente i detentori d’iniziativa e di capitale, soprattutto quelli predominanti, che avvocati di avventura, a caccia di class action, se sono abili e trovano la complicità benevola di giudici un po’ scavezzacollo, costituiscono l’unica salvezza dai soprusi legalmente ineccepibili. Così a volte, per puro eccesso di reazione e incrinature nei risvolti dell’individualismo estremo, si raggiungono limiti assurdi, come quando si costringe un costruttore a rifondere i danni morali e materiali a una signora che ha fatto esplodere il cagnolino nel microonde perché era bagnato e non voleva fargli prendere il raffreddore. Motivo della sentenza? Nel manuale di istruzioni non esisteva alcuna avvertenza in merito.
O è meglio l’Inghilterra? La cui principale voce di esportazione riguarda la merce ‘rischio’, ovverosia, in larga parte, la gestione della finanza derivata, un’attività in palese contraddizione con l’etica liberale che la medesima nazione ha concepito storicamente per prima intorno al principio base che il profitto si giustifica con il rischio.
Infatti, future, option, swapping & C. nascono come strumenti per la distribuzione e l’attenuazione probabilistica del rischio, quindi, de facto, il PIL inglese prospera su profitti e quindi su rischi agganciati alle sottoscrizioni di coloro che, in teoria, dovrebbero effettuarle soltanto per minimizzare i rischi e che, in pratica, a larga maggioranza, le effettuano invece a fini speculativi.
E’ molto divertente sottolineare (ma possibile che mi diverta solo io?) come, in modo del tutto analogo al clima che si respirava immediatamente prima della crisi dei mutui kung fu o ninja o banzai (che furono infilati di straforo in tutti i tipi di cartolarizzazioni possibili immaginabili, in modo che qualsiasi detentore di titoli, piccolo, grande e perfino immenso, conservasse soltanto una pallidissima nozione di quello che s’era messo ‘in pancia’), il senso di sicurezza del sistema finanziario internazionale poggia attualmente sull’immenso casinò dove si effettuano puntate sui contratti stabilizzatori e sugli azzardi anti fluttuazioni.
Ormai Las Vegas è il più pregnante simbolo della prudente e rigorosa probità internazionale, le sue insegne pirotecniche donano luce spirituale al Nuovo Ecumenismo.
Meglio la vecchia Europa? Sempre più fossilizzata su una solida e bolsa classe borghese molto elegante e discreta nel godere privilegi intoccabili di fronte a un ceto medio numericamente maggioritario che viene appiattito su condizioni di mediocrità, indigenza, grigiore, ma gradualmente e molto ipocritamente, perché possa addormentarsi sul cuscino delle magre riserve che si sgonfiano e anche perché qui, a differenza dei paesi anglosassoni, la sinistra è sinistra vera che ha molto a cuore l’uniformità tra gli sfruttati, nonostante quello che vanno a raccontare in giro i frottolieri qualunquisti o avventuristi o, come dicono ormai le anime più belle e raffinate, populisti.
Meglio i grandi paesi cosiddetti emergenti (in realtà ormai emersi e sommergenti), pervasi da una frenesia incontenibile da alveare o formicaio la quale, a parte il bilancio proteico, migliora il tenore medio di vita (ma forse lo peggiora) molto, ma molto più lentamente di quanto non devasti e inquini le risorse naturali?
Meglio un sistema completamente diverso? E come si realizzerebbe senza inventarsi metodologie radicalmente innovative delle modalità con cui concepire l’attività politica e istituzionale?
Meglio quindi, prima di tutto, progettare un sistema di produzione delle scelte politiche capace di sostituire a processi democratici in piena, irreversibile decadenza forme rivitalizzate di partecipazione?
Meglio stravolgere, su base rigorosamente scientifica e razionale, la cultura di base e le weltanschauung dominanti, fissando le condizioni e i limiti funzionali in base ai quali sarebbe ora di rinunciare all’euforica sicurezza del leader carismatico e riaffidarsi a una politica collegiale capace di alleanze, non con squadre che si disputano il torneo (il che per un arbitro appare decisamente paradossale), ma con un ceto intellettuale pur sempre contorto e cacadubbi, rinfrancato però da un accesso di spirito sportivo?
Già, ma anche ammettendo di trovare il bandolo, come si farebbe a convincere il mitico popolo (che di calcoli probabilistici non sa un accidente) e, soprattutto, la classe di burattinai che ne muove i fili (che valuta i rischi e troverà che le probabilità si rivoltano contro solo quando sarà troppo tardi per tutti)?
Boh! A ciascuno il suo: io non sono certo quello più accreditato per fornire una risposta
Il mondo dell’economia globalizzata è talmente assurdo, inverosimile, ciclopicamente grottesco che diventa interessante analizzare a che condizioni un qualsiasi rappresentante della specie umana vi possa aderire, non superficialmente, per ignoranza cronica o interesse costituito o per entrambi o per ineffabile, mistica spensieratezza, bensì in virtù o per colpa di una sorta di convinzione morale o di avallo intellettuale o di entrambi.
Qualcuno, per esempio, potrebbe credere, come il sottoscritto, in un determinismo assoluto, celato ovviamente, a differenza di quanto il maleducato sottoscritto impudicamente manifesta non rispettando gli obblighi del politicamente corretto, sotto uno spesso velo di acquiescenza pseudoreligiosa.
Nutrito di cultura soprattutto umanista e non considerando nemmeno ipotesi creative di tipo forzatamente scientifico e ingegneristico, a costui rimarrebbero aperte soltanto opzioni di rassegnazione teologica oppure di attivismo irriflessivo (così sottilmente lusingato da una scena così vasta, articolata e varia) che rappresentano due facce della stessa medaglia.
Altri, pur aderendo in apparenza a una visione scientifica, potrebbero optare per una versione estremista della dottrina, ovvero per quel tipo d’iperdeterminismo farneticante che crede in un indeterminismo assoluto della meccanica quantistica, assecondando il quale anche la labile zattera dell’analisi oggettiva e del conseguente progetto naufragherebbe (ma solo alla luce di una distorta visione superficiale) nell’oceano di una schizofrenia prescritta rigorosamente da Madre Natura.
Per fare emergere questo tipo di fatalisti dal loro bagno di allucinazioni intrise di paradossale speranza, basterebbe, se non ci si avvoltolassero troppo a loro agio, poche considerazioni: il probabilismo ontologico del micromondo cambia poco o nulla ai fini di una nozione complessiva della macchina cosmica e anche se ci si rifiutasse di riconoscere che il concetto di probabilità in fisica quantistica non può coincidere con quello in uso nel macromondo (dove nessun processo stocastico effettivo può avvenire in duplice o molteplice copia, per quanto porti un titolo nobiliare come ‘collasso della funzione d’onda’ invece che un nome comune come Arturo Cagaduro), la sostanziale coincidenza delle due visioni riemerge non appena ci si ricorda che agli automi probabilistici si possono assegnare esattamente le stesse categorie di compiti, né più e né meno, che possono effettuare gli automi deterministici.
Non si può inoltre escludere che un determinismo perfettamente sovrapponibile alla nozione più classica e tradizionale torni in esclusiva a impossessarsi del cosmo dopo che lo si sia idealmente suddiviso in cellette del diametro non più grande dello spazio minimale di Planck e scandito a intervalli non più lunghi del tempo ancora di Planck.
Cionondimeno, convinto da decenni di esoterismo sotto mentite spoglie e affascinato dall’ipotesi di un cosmo che, grazie agli aggiustamenti in incognito di una onnipotenza divina (operante, un colpetto di finta indeterminazione qui e un altro là, in modo da mantenere sulla giusta rotta il cosmico carrozzone) (incredibile quante fesserie riesca a inventarsi nel corso di una lunga carriera un autentico genio, figuratevi che cosa possono architettare le menti comuni!), con la subliminale, surrealistica fiducia di cui si nutre ogni liberista non appena abbandona la piazza del villaggio natio, l’irrazionale tecnocrate o aspirante tale potrebbe considerare fasulla la legge dell’entropia e quindi ritenere plausibile che il coccio planetario, una volta rotto, possa rimettersi in sesto grazie all’infinita saggezza di automatismi spontanei divinamente ispirati.
In dispute come quelle tra l’intelligente specialista Bohr e il geniale generalista Einstein, il tipo Bohr avrà sempre ragione e il tipo Einstein non avrà mai torto.
Un famoso scienziato disse che idee scientifiche buone, ma molto innovative, non si affermano per forza di persuasione, ma soltanto grazie al ricambio generazionale, ovvero perché i luminari che condizionano l’opinione maggioritaria degli specialisti muoiono e vengono sostituiti da altri di idee più aperte.
Secondo me, l’osservazione di Planck, che probabilmente possedeva al riguardo qualche esperienza diretta, illumina situazioni che vanno ben al di là dell’ambito in cui fu concepita, applicandosi altrettanto bene alle forme più generali del dibattito politico e culturale.
Un sistema di potere dominante, ripartito secondo blocchi d’interesse in conflitto tra di loro per questioni specifiche e congiunturali, non si apre mai a proposte che sovvertono la struttura esistente, a prescindere dall’esistenza di motivi oggettivi per farlo.
Piuttosto, ricompattandosi sotto l’egida di un comune interesse basilare, coagula tutto il consenso necessario e sufficiente a durare finché le fila dei sostenitori non si saranno assottigliate per l’azione fisiologica del corrente tasso di mortalità.
Nel frattempo, si dà tempo al tempo perché accada tutto l’accadibile e di tempo il tempo maligno se ne prende a iosa, soprattutto se la vita media si allunga.
In genere, prima che il cambio di mentalità consenta una trasformazione ordinata, ne capitano di tutti i colori.
E’ così che il mondo umano conserva il suo turbolentissimo fascino e il super programmatore Dio si diverte un saccone, se esiste.
In fondo, la curva che caratterizza prima la fase ascendente e poi quella discendente di una civiltà riflette con stucchevole fedeltà meccanismi all’ingrosso che da millenni a questa parte si ripetono con una monotonia disarmante, con pochissime variazioni marginali che risentono scarsamente delle forme di governo adottate.
In sintesi, a una prima fase in cui la percentuale della popolazione che raggiunge discrete posizioni di reddito e prestigio aumenta regolarmente e lievita il tenore medio della qualità della vita, subentra la fase di stallo e poi di declino in cui i privilegi delle varie aristocrazie si distaccano nettamente dalla maggioranza di un blocco sociale che viene compresso in una massa sempre più informe e indifferenziata.
A inaugurare e consolidare la seconda fase, interviene la convergenza strategica tra gli interessi elitari e quelli degli strati più indigenti (spesso rimpinguati con migrazioni o trasferimenti forzati di popolazioni spinte da pressioni demografiche, guerre e carestie), che non disdegnano, anzi, di ritrovarsi sempre più accomunati a coloro che in termini moderni potremmo definire il ceto medio.
Ovviamente senza l’iniziativa e la creatività di un ceto medio maggioritario, qualsiasi società, antica o moderna, comincia a ristagnare, come le acque di un fondale anossico, ma il processo non può arrestarsi finché la parte meno abbiente della popolazione che si gonfia in fretta, coadiuvata fin dal primo momento dalla ‘piccola borghesia’ più malandata o insicura, non comincia a risentire a sua volta di un peggioramento sensibile del proprio livello esistenziale, il che non è così facile se questo si ritrova già in prossimità della pura sopravvivenza. Inoltre vengono a mancare gli elementi di umiliazione che agiscono soprattutto nei confronti dei livelli prossimi e superiori, molto meno nei confronti di alte sfere che, attraverso i fumi della sottocultura, si ammantano del pathos della distanza e di surreali fascinazioni teologiche, oltre che di flussi caritatevoli che possono essere legittimamente incassati senza avvilimenti o remore, di solito nella forma classica del panem et circenses.
Quando l’accordo tra l’oligarchia e il popolo minuto si spezza per le incongruità distributive di una macchina economica che concentra i privilegi in alto e i disagi in basso, ormai è troppo tardi per evitare scoordinamenti tumultuosi e procedere a riforme in modo costruttivo e razionale.
Il nuovo assetto, che avrebbe potuto essere programmato con calma e per tempo, verrà estratto a sorte dalla macchina del caos.
Per quanto tempo ancora l’umanità potrà continuare in questo stucchevolissimo gioco?
Di sicuro, la presente civiltà non consente soluzioni valutabili secondo criteri storici tradizionali, non è più possibile alcuna ripresa di ceti maggioritari trainanti e quindi di una effettiva democrazia liberale, con tutte le sue ‘umane’, assennate, ingiustizie: i meccanismi di riequilibro e compensazione estesi a tutto il pianeta impongono, senza effettiva possibilità di scelta che non sia di isolamento e rottura autarchica, una soluzione, dal punto di vista economico, se non anche politico, sostanzialmente uniforme in tutte le nazioni, il che, se il livello di vita medio nel mondo occidentale fosse preso come parametro di riferimento, condurrebbe entro pochi anni o decenni a un sicuro, drammatico e completo collasso ambientale.
Secondo questa visione, che si può condividere o meno, ma la cui verità dipende o dipenderà prima o poi da motivi oggettivi, ontologici, assolutamente extra-ideologici, modelli almeno parzialmente autarchici potrebbero apparire molto più sanamente rivoluzionari o creativamente riformatori o comunque modellisticamente anticipatori del tradizionale ecumenismo progressista, fermo restando che ogni ideologia altro non è che la sublimazione concettuale di un contesto psicologico che affonda nell’apparato fisiologico di una persona e si dà il caso che esistano sociologi innamorati del frenetico brulichio delle baraccopoli, di solito esaminate dall’esterno, con la calda simpatia del naturalista che tiene il nasino prudentemente lontano dai rigagnoli che fungono da fognature a cielo aperto.
Avidità e panico, ingordigia e paura, euforia e depressione, si rivelano i poli fondamentali del comportamento tipico dell’homo oeconomicus, evidenziati con cruda essenzialità in quegli ambiti, come il monopolio o la speculazione finanziaria, in cui ogni altra componente antropologica si decanta facendo emergere uno scheletro astratto di azioni e di pulsioni elementari.
Con la stessa fondamentale e insanabile instabilità a cui si condannano lo spazio e il tempo veri, assoluti e matematici e a cui non può sottrarsi nemmeno l’universo relativistico senza il big bang (se vogliono riempirsi ovunque di qualcosa, costante cosmologica o meno), una società che, senza una rete di salvataggio, affida la sua prosperità alle invenzioni del capitale privato, non può contare su alcun tipo di equilibrio armonico se non per tempi limitati e fuggevoli: ecco un tipo di assunzione vera, assoluta e matematica.
Anche se lo stato di minima entropia non fosse ostacolato da interazioni che coinvolgono porzioni sempre più estese e influenti del consesso internazionale, le dinamiche interne di una nazione non consentirebbero di raggiungere alcun equilibrio immune dal disturbo incessante dei conflitti suscitati sotto la forza variabile di vincoli come la scarsità delle risorse, le incompatibilità legate alla divisione dei compiti e delle responsabilità, i conflitti generazionali eccetera.
E’ ovvio comunque che, come avviene per i sistemi complessi attraversati da flussi continui di energia e informazione, le interdipendenze globali accelerano enormemente le disomogeneità di reddito e di potere secondo sviluppi in cui i feedback negativi gradualmente si attenuano e l’aleatorietà comincia a decrescere in proporzione alla volontà attiva di nuclei dominanti che incontrano resistenze sempre più affievolite.
La globalizzazione è sia un catalizzatore che un rinforzo di tensioni che abbreviano la durata del modello di vecchia democrazia in due concomitanti e decisivi aspetti: favorendo le condensazioni gerarchiche e rendendo materialmente improponibili opzioni di benessere durevole e diffuso, almeno secondo gli standard in voga dalla seconda rivoluzione industriale di occidente.
Globalizzazione o no, in ogni società liberista o socialista, prima o poi, coaguli di ambizione o di difesa piloteranno centri di attrazione gravitazionale e ogni particella fluttuante subirà l’azione del risucchio in modo tale che il libero arbitrio ancora praticabile dipenderà dall’esistenza di un dualismo di concentrazioni.
Fuor di metafora, l’espressione dinamica dei principi di prevalenza animale, tradotta in sofisticati alibi e complesse strutturazioni di pressione politica ed economica, si troverà quanto prima davanti a un mondo di rigide difese precauzionali elevate a sistema di valori etici universali, finché inevitabilmente, o per squilibri prociclici, o per eccezionali traumi esterni o per il fisiologico decadere delle risorse sia intellettuali che fisiche, la circolazione materiale ed energetica si indebolisce e il motorone s’ingrippa.
E’ facile che prima del tracollo subentri una fase di fragili e ingannevoli intese, le quali, per quanto intrise di fantasioso romanticismo unificante (rorido di trappole emotive che abilmente ribaltano la sostanza difensiva dei principi etici elementari in strumenti di legittimazione teocratica dei capi), resteranno purtroppo illusorie sul lato assolutamente primario del ripristino di congrue e generali funzionalità dinamiche.
Questo sarà il periodo in cui le prestidigitazioni dei governanti Pangloss maschereranno l’implacabilità di un tracollo che potrebbe essere evitato soltanto dalla progettazione e attuazione di un assetto sociale adatto a funzionare in una condizione di stato stazionario.
Ecco che cosa ci dice la logica e la ragione a prescindere dall’entità imprevedibile dei tempi implicati in ogni fase.
Come ho già scandalosamente affermato, nella situazione attuale, in cui decisiva risulta ancora l’influenza di ebeti spensierati, giovani, meno giovani, anziani e molto anziani, prodotti da un trentennio, non di benessere costruito e allargato con un minimo di consapevolezza critica, ma di nevrotico e sgangherato baccanale, ritengo il catastrofismo, perfino raffazzonato, sensazionalistico e dilettantesco, preferibile a qualsiasi forma di ottimismo.
Non si tratta in effetti di gusti personali, che comunque contano per forza di cose, bensì di far valere semplicemente quel principio di precauzione che proprio in Italia, per anni, è stato applicato a vanvera e senza nessuna nozione sensata delle probabilità di rischio di volta in volta implicate.
Il principio in questo caso interviene a un livello più alto della contingenza specifica e s’impone per sollecitazioni culturali di cui purtroppo, in genere, difettano assai, sia le attuali concezioni politiche dominanti, sia coloro che insistono a credere nella democrazia non progettuale.
I rischi conseguono infatti da leggi attinenti a dinamiche di sistema da cui non si può prescindere soltanto perché sono antipatiche o non servono a fidelizzare il cliente elettore.
Per esempio, che una società planetaria fortemente connessa costituita da una collezione di nazioni indipendenti sia fortemente instabile deriva da nozioni universalmente valide a qualsiasi livello fenomenico: adottando come contesto fisico chimico esemplificativo un insieme di scomparti non in equilibrio che cominciano a comunicare tra di loro, in un contesto di forti trasferimenti di materia ed energia dall’esterno all’interno del complesso e da una cella all’altra, si dovrebbe fortemente sospettare (è detto in modo eufemistico) l’instaurarsi più o meno generalizzato di forme evolutive caotiche, ovvero deterministiche, ma imprevedibili.
E’ ovvio che il coagularsi delle varie unità in organismi associativi dotati di proprie retroazioni stabilizzanti incoraggerebbe i tassi di ordine e coesione, ma appare altrettanto ovvio che i meccanismi destabilizzanti sono molto più veloci di quanto non procedano le fusioni sotto un unico tetto amministrativo di genti con lingue e culture (e climi!) diversi.
Ma chi assicura poi che un complesso di 5 (numero a caso) comparti molto più instabili ed energetici sia più affidabile di 50 comparti più inerti? Dipende da coefficienti e interazioni specifiche, non da un banale conteggio aritmetico. E quanto a poter contare sull’efficienza di un unico governo mondiale, probabilmente ci tocca attendere le astronavi degli invasori spaziali o un modesto asteroide del diametro di pochi chilometri.
Ma i problemi sistemici non sono certo i soli, interverranno quanto prima questioni molto più gravi di tolleranza, capienza, resistenza, puri limiti fisici quantitativi di sostenibilità dell’ingombrante presenza umana, la cui problematica sovrabbondanza può essere immediatamente fotografata semplicemente facendo proiezioni da qui a un secolo nell’ipotesi che il tasso medio di sviluppo rimanga invariato.
Se, senza trovare soluzioni che, con la nostra corta vista attuale, sembrano quasi miracolose, il crollo dell’attuale modello organizzativo risulta certo e catastrofico da qui a un secolo e anche meno, siamo sicuri che le onde del rischio non si diffondano all'indietro fino a raggiungere anni molto più vicini a noi?
Forse non si dovrebbe essere ottimisti di trovare le soluzioni, forse si dovrebbe trovare le soluzioni e non un insieme di soluzioni parziali che possono collidere tra di loro senza che qualcuno possa neppure sospettare come e quanto, ma una soluzione modellistica globale di cui sarebbe bene che qualcuno offrisse al più presto un esempio.
Subito.
Forse.
Non le riforme di cui si parla tanto, dunque: un’alluvione è diversa dalla perdita di un tubo o di molti tubi.
Uno tsunami, poi….
La gente non capiva che ‘Il progetto Colib’ non era tenuto a certificare delle verità incontestabili, era sufficiente che ventilasse possibilità ed evenienze riguardo alle quali nessuno poteva garantire che non fossero probabili in un modo indiscutibilmente allarmante.
Di fatto, persone che si proponevano come salvatori della patria, maestri di moralità dotati di spiccate capacità oratorie, sedicenti esperti in settori ristretti già densi di oscurità insanabili, questioni irrisolte, ambiguità e conflitti (se presi isolatamente, figuriamoci in un contesto di collegamenti illimitati), tutta questa gente rassicurava dall’alto di un’ignoranza antisocratica che era parte fondante del loro successo, elargivano prediche e consigli ignorando la ristrettezza estrema, il puro pragmatismo d’interesse delle loro visioni, assumevano responsabilità e decisioni nella più totale labilità di spessore culturale, in un vuoto assoluto di consapevolezza razionale.
Nel caso lo scenario dipinto dal Progetto fosse improbabile, siccome non era possibile stabilire quanto, un’opzione progettuale analoga, se non coincidente, avrebbe dovuto essere collocata al più presto accanto alle comuni concezioni di politica tradizionale, almeno in linea teorica e come ipotesi di lavoro di commissioni appositamente indette.
Nel caso anche solo una parte dei pericoli prospettati fosse stata plausibile in un lasso di tempo adeguato (per esempio con probabilità del 5% entro un secolo), tale metodologia avrebbe dovuto sostituirsi quanto prima alle vecchie e consunte ritualità.
Perché non avveniva niente di tutto ciò? L’autore azzardava una propria risposta: per l’incapacità di qualsiasi compagine umana di assumere un controllo razionale del proprio destino, per l’appiattimento inesorabile di ogni collezione di individui pensanti su una popolazione gestita da una causalità biologica elementare. I capi, relativamente, ma anche e soprattutto chi avrebbe sofferto di più, si assuefacevano a una sociologia del destino interpretando il movimento automatico degli ingranaggi alla stregua di una libera emanazione di vitalità spirituale.
Il che poteva risultare perfino realistico, a patto di riconoscere che si trattava di due aspetti o interpretazioni dello stesso meccanismo complessivo, incontrollabile e micidiale a meno di non essere retto da una volontà benefica e provvidenziale.
In fondo alla propria ‘anima’, quello che il popolo italiano riusciva ad avvertire istintivamente si limitava alla constatazione obbiettiva della profonda giustizia del perdono cattolico: il male viene fatto da chi ha la forza di guadagnarci nei confronti di coloro che, se avessero la forza di opporvisi, lo commetterebbero a loro volta.
Le leggi di natura assolvono i primi, le leggi divine i secondi.
La razionalità progettuale consente forse una via di fuga, ma è faticosa, difficile, impegnativa già nell’ambito della vita individuale, è ostico e problematico azionarla senza un motivo di stringente interesse e questo può solo conseguire da una chiara e dettagliata anticipazione del risultato finale.
Ci si accostava, insomma, alla vexata quaestio dell’uovo e della gallina, almeno per quanto attiene al momento di avvio dell’impresa.
D’altra parte, se ci si riportava alle fasi iniziali dell’era industriale, si poteva supporre che analoghe forze d’inerzia avessero gravato sull’avvio del sistema che allora dominava ancora il mondo.
Inoltre l’enigma dell’uovo e della gallina, come l’esistenza o meno dell’anima, rappresenta un falso dilemma facilmente risolvibile e precisamente in questo modo: è nato prima l’antenato filetico della gallina.
Sussisteva quindi più di un motivo per coltivare una virulenta e contagiosa forma di elettrizzante ottimismo.
MISERIA O IMBECILLITA’ DEL ‘FIDUCISMO’
Aggiunto il 5 aprile 2014.
Potreste anche riuscirci, ma a che prezzo di nuovo diffuso stordimento? In cambio di quali abissi d’inanità delle loro vite di sguatteri del vostro paradiso al tramonto?
Lo spirito di Dart Fener evocato davanti al Consiglio di emergenza dei Cavalieri Jedi in un episodio cancellato della saga di Guerre Stellari
L’Italia a quei tempi si trovò paradossalmente a sfiorare una grande occasione: prima delle nazioni del G7/8 a fallire, avrebbe potuto rappresentare un esempio di come ristrutturarsi in una direzione effettivamente innovativa e salutare. Purtroppo, dal generale letargo si risvegliò all’improvviso questo giovane (relativamente) personaggio coraggioso, dinamico, brillante, che ‘sparigliò i giochi e inferse una sterzata’, accumulando in pochissimo tempo una serie impressionante di riforme.
Così, dopo essere stata per anni il fanalino di coda delle economie trainanti, il paese si ritrovò a essere anche il fanalino di coda della ristrutturazione post cataclismatica,
Henry Lack. L’ultimo secolo dell’era industriale.
La dichiarazione di Draghi divenne una specie di battuta eufemistica: attenti che la disoccupazione non diventi strutturale! Ma la disoccupazione era già strutturale, lo sapevano tutti, lui compreso.
Kurt Obholzer Panzerjeff. Attenzione ai lupi.
Così il 60% applaudì e lanciò in aria il cappello, ciò che accadeva in Italia in onore di ogni bravo imbonitore, come Ber-linguer o Ber-lusconi, che, santone immacolato o simpatica canaglia, sapesse secolarizzare la vocazione diffusa alla speranza evangelica.
Intanto però la rabbia degli esclusi dai festeggiamenti s’incancrenì in qualcosa di inesplorato e quasi mostruoso.
Bruno Stoccheri. La cura Draculiana (C’è vampiro e vampiro).
La proposta riguardava la somministrazione della morte felice a qualche miliardo di persone, volontari o estratti a sorte. La morte sarebbe intervenuta dopo una settimana di ininterrotta estasi da farmaci e altri trattamenti corporali, tempo che era prolungato di un centinaio di volte nella percezione soggettiva.
Contestualmente, veniva delineata una riorganizzazione generale, attuabile in tempi rapidi, in base alla quale i sopravvissuti avrebbero gestito un’agevole e rilassata economia di sussistenza in cui l’industrialismo si riduceva al minimo indispensabile.
Si sollevò un immenso scandalo e il Consiglio si smarcò, ma con il senno di poi appare l’unica soluzione allora proponibile oltre che una encomiabile opera di bene.
Henry Lack. L’ultimo secolo dell’era industriale.
Infine ammise di non poter escludere che tramite lui, il Determinismo, ovvero SPG, il Dio del Panteismo Scientifico, invece di lasciare spazio all’azione ragionante dell’uomo, intendesse arrogarsi un diritto esclusivo d’intervento nelle vicende umane.
In quest’ottica, ogni pazzoide che si fosse impossessato della corona e avesse gridato ‘Dio me l’ha data, guai a chi me la tocca’ avrebbe espresso, altrettanto bene di quanto non facesse la sua penna mirabile, la Sua volontà
Christopher Wilder. Benvenuti nella Parusia.
Miseria o imbecillità vale opulenza supersmart nella prospettiva bla bla bla, Russell Crowe e Pasqualino Dewey eccetera eccetera, quello che è sacro per voi potrebbe non esserlo per me e si dà perfino il caso che valga il viceversa and so on, soon, so on: ai nuovi graditi ospiti che non hanno seguito le puntate precedenti, per risolvere questo piccolo enigma inaugurale consiglio di scorrere fino all’inizio della successiva (in realtà anteriore) sezione di MISERIA O IMBECILLITA’, dove non saranno lesinate avvertenze intese a prevenire le formae mentis non adeguatamente impostate e neppure idonee a una sintonizzazione su certe frequenze anomale (soggetti largamente preponderanti nella casistica generale degli psichismi in atto) dall’allarme e dal disgusto per idee potenzialmente incompatibili e dannose. Mia intenzione, infatti, non è provocare (Perché insiste, allora, signore? Mah, figliuolo, che vuoi che ti dica, dovere di testimonianza, forse, o l’inesplicabile fascino dell’inutile e dell’assurdo, dell’art pour l’art. Di Lui scrisse una volta il Poeta: la Tua disumanità sistematica inquieta perché è così dolce. Vieni, preghiamo, con me non corri i pericoli che incombono negli oratori dei concorrenti), le note sarcastiche o grottesche mi sono imposte dalla teoria che l’uomo serio, profondo, consapevole della propria missione è un falsario che può indossare tali vesti soltanto sulla scena pubblica (altrimenti, né più né meno, sarebbe privo di vita interiore e capacità introspettive, il che è semplicemente impossibile, si può ammetterne una opportuna, professionalmente parlando, rarefazione, mai una riduzione a zero). Così io ritengo l’etica e la sacralità lo strumento principe dell’imbroglione politico e questo è quello che ritengo, è un fatto, ma mettendo le mani avanti e cercando di allontanare coloro che, per pura, squisita, delicatissima sensibilità d’animo e non per precisi e circostanziati interessi, potrebbero rimanere feriti da tali draconiane sentenze, voglio deliberatamente tenermi al largo dalle polemiche. Dissacrare, infatti, implica qualcosa di osceno: la vita ha bisogno del sacro, ho sempre pensato che niente aiuta a vivere come la mistificazione, il problema veramente cruciale riguarda la possibilità di un accordo tra il mito e l’intelligenza della realtà (intesa come sostanza divina indipendente ed estranea alle pretese di creazione magica dell’homo sapiens sapiens) e concerne inoltre l’adulterazione intollerabile e ripugnante che il mito subisce non appena entra nel circuito del consumo e dello sfruttamento sociale. Non ho ancora trovato una soluzione adeguata per tali questioni, anche se una strategia all’ingrosso, peraltro piuttosto banale, l’avrei individuata: molta arte e scienza e niente religione tradizionale, esattamente il contrario di quanto, grazie anche al ‘fiducismo’ e alle nuove teorie politiche fondate sul marketing e il gentile e florido apparire come specchio dell’anima, si sta realizzando sotto la regia e il comando del collettivismo economicista facente capo all’Internazionale Liberista.
Lungi da me, comunque, il pensiero che abbiamo a che fare con un torvo complotto di una ristretta oligarchia di geni del male, magari fosse così: è molto più facile che ci troviamo davanti un’oligarchia decadente, invecchiata (a prescindere dai dati anagrafici) e senza idee, che ripete schemi consunti e decotti soltanto perché non è capace di inventarne degli altri e non si accorge nemmeno delle leggi inesorabili che attendono al varco gli assetti che comportano sviluppi esponenziali
Forse, ‘ma anche’, come sostiene l’amico Fritz (che locuzione strana, devo informarmi sulla provenienza!), da un intento di risposta al quale questo ultimo scritto è nato per svilupparsi poi in un’escrescenza tumorale secondo la Sua volontà (ricordate che, come dirò in seguito e quindi ho già detto, io sono il Suo vero profeta (di Dio, non dell’amico Fritz), mentre Francesco è palesemente un impostore e un antipapa (la dimostrazione? Provate a chiedere al signore argentino quale comando, indicazione, consiglio ha ricevuto direttamente da lui e quando. Il suo dio fa il bel tenebroso? Gioca all’Enigmista Misterioso? Si diverte a imbrogliare le carte? Il Mio mi parla e interviene continuamente, anche in questo preciso istante, mentre scrivo la parola ‘parola’ e anche prima, mentre scrivevo ‘la’))… Che cavolo stavo dicendo? Ah, ecco, l’amico Fritz (che locuzione strana, devo informarmi sulla provenienza!), l’amico Fritz che diceva… che cosa diceva l’amico Fritz? Ho perso il filo. Comunque, ecco (vi è piaciuta la tecnica di raccordo?) lui sarebbe ‘intuitivo’ e io ‘colto’: quindi a lui il compito di scovare e far sbocciare il seme dell’idea e a me quello di innaffiarlo, accudirlo, sorvegliarne servilmente la crescita.
Lui è lo spirito pratico, attivo, volitivo e creativo, e io l’intellettuale azzeccagarbugli che deve essere redento dall’anarchia feticista della cultura fine a se stessa per poter sfruttare le sue doti da stakanovista accumulatore di nozioni altrui, letame utile a fecondare i giardinetti che sono appannaggio esclusivo degli uomini positivi e propositivi.
(Svegliati coglione! Il solco dei seni che sporgono dalle scollature (però, che effettiva delizia!) e un paio di occhioni sgranati: ecco che cosa feconda i giardinetti del vero cazzuto, altro che le paturnie dell’intellettuale! Oddio, come sei caduto in basso! Ma la finisci di rompere le palle? Quante volte ti ho detto che non devi immischiarti nella mia scrittura?)
E se invece costui (l’amico Fritz, non il cazzuto), come del resto (ritengo io) la stragrande maggioranza dei protagonisti della scena attuale (come gli stessi cazzuti), mentre pensa di essere una psiche, diciamo così, addobbata e attrezzata secondo le ultimissime mode, all’avanguardia della storia seppure nell’ambito di un proprio particolare mondo più o meno micro, si pavoneggiasse con baffi a manubrio, ghette, orologio da tasca con catenella che spunta dal taschino eccetera eccetera? (Per tutelarsi contro sempre incombenti stronzate modaiole, mi conviene esplicitare che la metafora non prevede eventi tuttavia possibili, come la rimessa in auge da parte di qualche raffinatissimo stilista dei tratti qui adibiti a parametri di vetustà: nel qual caso, sappi, o venerato portento dell’estetica più sublime, che ti chiederò i diritti per lo sfruttamento dell’idea, a meno che questa, per quell’immensa fertilità mitopoietica che attiene al presente stadio della civiltà industriale, non sia già fiorita spontaneamente insieme a milioni di nuove ricette e trovate pubblicitarie dell’antipapa Francesco e dei granduchi toscani)
Sicuro com’è di un’ottima assuefazione alla modernità del mondo produttivo, quanto della mia presente assoluta estraneità al medesimo contesto, immagino che rigetterà questa ipotesi con ironica sufficienza e può darsi che abbia ragione: dipende dalle imperscrutabili circostanze reali, ovvero se la civiltà industriale ha imboccato un cammino d’involuzione e di crisi inarrestabile, come sostengo io, oppure è pronta a dare un ennesimo colpo di ali per stabilizzarsi a una quota maggiore, come probabilmente ritiene lui.
(Può darsi che abbiamo ragione entrambi: se per esempio la civiltà industriale è destinata a franare, ma non prima che siano passati trent’anni, la ragione pratica consiglia di sbattersene le palle, la ragion teorica no)
Già lo immagino sogghignante mentre legge le ultime frasi, intriso delle secrezioni di quella grande ghiandola produttrice di buon senso in cui si è comunemente trasformata ogni singola macchina cerebrale: non appena si parla di tramonto definitivo di una civiltà, i meccanismi protettivi messi a punto dall’Evoluzione (che seleziona gli assortimenti di mentalità, inclinazioni, attitudini umane come i comportamenti di ogni altra specie) intervengono nel rassicurare i membri più tipici che si tratta di una possibilità ammessa teoricamente ma di fatto assai remota nel tempo e nello spazio.
Questo è quanto prevede l’ambigua e doppiogiochista Provvidenza Darwiniana, ma che cosa hanno da dirci procedure di accertamento razionali basate il più possibile su elementi concreti (ammesso che esistano)?
Vedete, cari signori, la differenza in fondo è tutta lì, riguarda l’accettazione o meno del modo di sentire, pensare e moraleggiare: se lo si assorbe supinamente, nelle sue linee importanti e fondamentali, dall’opinione più diffusa e vincente o si ambisce testarlo autonomamente e indipendentemente con gli strumenti che una società mette a disposizione dell’individuo, più o meno consciamente e di buon grado.
Io non sono colto, non mi interessa essere colto e apprezzato per la mia sapienza, non m’importa un fico secco farmi intellettualmente stimare se ciò comporta un’adesione acritica a certe regole culturali non scritte, ma assolutamente discriminatorie nei confronti di una vera libertà di opinione. Non m’importa neppure essere un ribelle o aspirare a una santità annunciatrice di una nuova era (la cui luminosità, per il primate umano, statisticamente parlando, dipenderà sempre e comunque dal livello gratificante e dal grado di omogeneità dei modi di produzione economica (per cui, limitatamente a questo aspetto basilare, Marx avrà sempre ragione e Gesù Cristo (personaggio simbolico cresciuto su pochi e oscuri dati anagrafici intorno allo scheletro di un fantomatico, nebulosissimo personaggio storico) torto marcio, come ben sapevano, prima ancora di Marx (sì, lo so, zoppica un pochino), tutti i padri fondatori del liberalismo, dottrina invisa alla Chiesa Cattolica Apostolica Romana molto più del marxismo)).
Rileggendo l’ultimo paragrafo, mi congratulo con me stesso: non c’è male: è da parecchio che ambivo scrivere una frase con tre coppie di parentesi nidificate (veramente sarebbero due): un altro traguardo in carriera: ora non mi resta che scrivere un periodo con cinque due punti di fila e morire contento.
Tornando, dopo questi virtuosismi intesi a conquistare l’ammirazione e la fiducia del lettore e a distogliere dalla questione cruciale che s’impernia su che cosa effettivamente mi interessi (dato che, né più e né meno di quello che accade a voi e a ogni altro essere umano (purtroppo possono leggermi soltanto esseri umani!), lo ignoro), alla domanda di che cosa dovremmo pensare sui tempi di scadenza delle attuali forme organizzative assunte dalla specie umana e sulla data di scadenza della specie stessa, la mia risposta è: non lo so di preciso, ovviamente, ma ci sono alcuni elementi su cui dovremmo riflettere, alcuni già riportati qui di seguito e/o prima.
L’umanità, per esempio, potrebbe sparire in pochi anni (anche meno di dieci) se si innestasse una degassazione esponenziale del metano, un potentissimo gas serra, contenuto nel permafrost soprattutto siberiano oppure, in forma idrata, in un particolare strato presente in ogni oceano: il riscaldamento globale provoca il processo e ne è provocato nell’ambito di uno sviluppo a rinforzo positivo che potrebbe superare in qualsiasi momento (anche ora), per vari imprevisti, la soglia di accelerazione esplosiva. Per quanto la comunità dei tecnici possa profondersi nel garantire la improbabilità di certi eventi, restano assodati gli enormi margini di incertezza relativi a tali improbabilità, per cui non si sa quanto sia improbabile che dette improbabilità siano probabili.
Ragionando più distesamente e più in generale, ma rispettando le dinamiche e le modalità con cui si esplicano gli eventi naturali (di cui l’umanità è solo una infima parte molto più subalterna e impotente di quanto suppone la sua immensa alterigia), servirà evidenziare come la società industriale stia superando in durata la resistenza di molteplici eventi sia ontogenetici che storici.
Ma come, obbietterà simpaticamente il delizioso lettore, grandi imperi del passato sono durati tre volte tanto e anche più, la stessa Chiesa Cattolica (ahimè, aggiungo io) c’è da due millenni, i dinosauri hanno dominato la terra per cento milioni di anni e via con una miriade di esempi diversi.
Vero, ma qualsiasi fenomeno deve essere misurato attraverso unità (di tempo, di spazio, di energia…) adeguate alla sua realtà altrimenti qualsiasi paragone risulta sviante e infondato: dobbiamo allora considerare quale rapporto possa rendere adeguatamente conto della situazione attuale in confronto ad altri contesti e per farlo non si può prescindere dal valutare la velocità evolutiva e il tasso di produzione dei cambiamenti a cui presentemente assistiamo.
Per paragonare il ritmo dell’attuale progresso (alias involuzione) sociale o culturale a quello di altre epoche e altri contesti possiamo utilizzare vari criteri quasi tutti in parte arbitrari e opinabili (la velocità di consumo di risorse naturali paragonata a quella della loro creazione originaria, un conteggio di unità omologhe o correlate che si accumulano nel tempo, l’andamento dei valori che misurano la complessità e la potenza di congegni elettro-meccanici o ritrovati tecnologici appartenenti a una medesima categoria…). I criteri, ripeto, possono essere diversi e opinabili, ma se le varie metodologie convergono su coefficienti in buon accordo tra di loro, l’indicazione che forniscono comincia a essere più di un indizio, anche se forse non è ancora una prova.
Ebbene, penso che sia difficile non convenire che la società moderna presenta un tasso innovativo che possiamo valutare nell’ordine di molte migliaia di volte più veloce rispetto alle società del passato e ai processi di sviluppo naturali. Continuando di questo passo (mantenendo questi livelli di progressione), un altro secolo corrisponderebbe a qualcosa come cento milioni di anni o giù di lì rispetto a qualsiasi sequenza conosciuta di avvenimenti epocali.
Il problema è che la società industriale non può rallentare, ci vuole crescita, crescita, crescita, (al posto di, ‘ma anche’ accanto a, rigore, rigore, rigore), secondo refrain e jingle scanditi che delizierebbero il più pirotecnico coreografo di Broadway, adattissimi a tirare fesso un popolo che già ci mette abbondantemente di suo, e quindi, se anche ciò che si è appena detto fosse valido soltanto al 10%, sarebbe sufficiente a smontare ipso facto qualsiasi ideologia, sempre e solo oligarchica (a prescindere da quanto sia condivisa) fondata sul fiducismo.
Fiducismo non è uguale a idiozia soltanto se ci si rifiuta deliberatamente e scientemente di ragionare confidando in un cosmo teologico retto dalla ‘logica’ provvidenziale’ di una potenza superiore, che sinceramente non ho mai capito perché dovrebbe amare così intensamente l’umanità (la Brambilla ci ha proprio ragione, urkavé se ce l’ha, molta gente sospetta di amare più gli animali degli uomini, ma è pronta a confessarlo soltanto in un’urna dove il Peppone di turno non la vede).
Non per caso le religioni sono tanto rispettate nel mondo moderno: le favole che raccontano sono consolatorie per il presente e si adattano magnificamente al medioevo prossimo venturo che, in base a opinioni analoghe alle mie, non potrà che arrivare a breve, a meno che l’umanità, il che è plausibilissimo, non si estingua prima.
Secondo la cognizione dei più scafati è vano e antidemocratico opporsi a visioni provvidenzialistiche che oltretutto scaldano il cuore della brava gente e rappresentano un comodo fulcro per le leve di una disciplina comunitaria di stampo vetero-istituzionale: la famosa arroganza dell’intellettuale, il cui rifiuto è stato recentemente un coadiutore efficace dell’astutissima cosmetica politica più persuasiva e charmant, è ormai ritenuta una tipica manifestazione della boria snobistica di chi non sarà mai in grado di intendere le vere necessità popolari. Ma è veramente così o anche qui si cela un opportunistico stravolgimento da pifferaio magico della realtà?
Scommetto, amati cicciolini, che, conoscendomi, conoscete anche la risposta: si tratta di un opportunistico stravolgimento da pifferaio magico della realtà!
Per di più mostruoso come ogni falsificazione intesa a nascondere pericoli capitali, che, qualora si manifestassero, comporterebbero conseguenze gravissime per tutta l’umanità. E non solo sul piano abbastanza ovvio di eventuali catastrofi naturali su cui si è detto o si dirà a sufficienza, anche per quanto concerne tutta una serie di tracolli sociologici ed economici che si stanno rischiando o evocando (se puoi controllare le masse perché invitarle a un banchetto così pregiudizievole della salute planetaria?) al solo fine di salvaguardare la predominanza di un novero piuttosto ristretto (in termini di numeri rappresentativi) di ceti e di poteri: morte dell’individuo non privilegiato, fine di una vera mobilità se non dall’alto verso il basso, servilismo indotto da un prosciugarsi lento ma inesorabile del mercato del lavoro, professioni sempre più specializzate e alienanti al di fuori di una egemone politica di gestione dei clan di sostegno e di facilitazione dello sfruttamento (chi ha un minimo di esperienza di vita aziendale sa che i propulsori effettivi del profitto riguardano i rapporti commerciali, di pubbliche relazioni e di manipolazione di maestranze e clientele, non la tecnica e l’innovazione che procedono quasi in automatico come conditio sine qua non di pura sopravvivenza), pressioni selettive che incoraggiano la meschinità, vite qualitativamente sempre più povere, noiose, routinizzate (se prive delle lucullianerie sibaritiche much expansive che addobbano la doppia vita dei ricchi), tutto ciò ovviamente in termini non generali e assoluti, ma di grande predominanza statistica.
Ovviamente tutto ciò è rimediabile, se lo è, in un solo modo, ovvero estendendo le facoltà di razionalizzazione diventate privilegio esclusivo del consorzio dei grossi organismi industriali e finanziari, con tutto il carico di egoistiche priorità che ne conseguono, alla società civile intesa come un unico organismo coordinato: non esiste altra soluzione per evitare l’avvento di una società neo aristocratica e teocratica, a parte, ripeto, estinzioni o ritorni allo stato bruto e tribale (e qui diletto lettore voglio farti una confessione: per quanto mi riguarda e consapevole che si tratta di una pura boutade paradossale da prendere con le pinze, tenderei a preferire lo stato tribale primitivo a una società gerarchica dell’etichetta e delle crinoline, ma si tratta ovviamente di gusti personali che qualsiasi cultore dell’immagine o venditore di stile respingerebbe con sovrano disgusto).
Che conseguenze dovremmo trarne ai fini di una definizione autentica della parola ‘democrazia’? Anzitutto una: nelle fasi di transizione, di decadenza o di crisi procedere a una netta revisione del concetto potrebbe essere un modo per salvaguardarlo, mentre rimanere fedele alle vecchie categorie, anziché rappresentare una garanzia, potrebbe denunciare il modo più insinuante e avvolgente per scivolare nell’autoritarismo.
Tutto dipende dall’analisi razionale che si fa e dalle conseguenze razionali che si traggano: in periodi cruciali le vecchie licenze sono sospese, ogni opinione perde neutralità, trasparenza, innocenza, la fede religiosa può benissimo rimanere un insindacabile optional individuale, ma l’assunzione sociologica delle implicazioni pratiche che essa comporta, se elevata a norma di comportamento civile e principio ispiratore trainante, rischia di deviare la percezione delle problematiche reali nel modo che più conviene ai manovratori della macchina politica e industriale.
Se c’è un Dio nel senso tradizionale e acritico del termine pericoli gravi non esisteranno mai (a meno che non sia Lui stesso il pericolo più grande e io non ho mai capito la blasfema sicumera di chi ritiene che non possa essere così) e la necessità di una riforma drastica sarà sempre di fatto accantonata, prima sul piano delle mentalità e poi, inevitabilmente, su quello dell’azione concreta.
In queste condizioni, infastidirsi perché l’intellettuale si comporta da arrogante, l’opinionista si tinge di sarcasmo, lo scienziato non si limita ad alzare la manina ubbidiente prima di parlare in mezzo a due santoni che ricevono almeno il doppio del suo gradimento, dovrebbe risultare perlomeno sospetto: ci sono comportamenti che la raccontano più lunga di qualsiasi manifesta professione di idee.
Ovviamente due sarcasmi possono scontrarsi, gli scienziati possono litigare, non importa, è il tentativo di razionalizzare che dovrebbe costituire oggi un discrimine tra un atteggiamento accettabile e una insulsaggine viscerale o astutamente programmatica, insieme all’opposizione recisa verso la fiera politica dell’imbonimento e del cretinismo etico-ideologico.
Non è assolutamente possibile, per esempio, che una persona di media intelligenza che abbia un minimo di cognizione intorno a problemi di ristrutturazione aziendale possa pensare seriamente che uno stato moderno sia riadattabile senza contraccolpi imprevedibili in pochissimi anni se non sulla scorta di un rigoroso e dettagliato piano di semplificazione e revisione radicali: quello che è invece possibile fare e probabilmente si sta facendo ovunque è allentare la catena dei controlli e accentuare l’aspetto dirigistico e autoritario, quindi oligarchico, delle istituzioni, una presa d’atto insomma della fine della democrazia partecipativa dal basso e una corsa deliberata a verticizzare e gerarchizzare.
Soluzioni di tale natura non sono illogiche e negative tout court, se teniamo conto dei rischi comunque presenti in ogni sommovimento radicale e alla possibilità sempre aperta di pilotare l’azione in modi gradualmente più accentuati e rispettosi del bene comune, ma come si fa a non captarne esalazioni sinistre e mefitiche in una Italia oppressa da mafie, corruzione, comitati occulti, nuclei spropositati di ricchezza famigliare, feudi e stati invasori incistati come focus tumorali?
Su, signori, andiamo, non prendiamoci in giro!
Non si tratta di un’opinione, si tratta, non solo di guardare, ma anche di vedere.
E allora chi è la vittima di un modo antidemocratico di agire: il suddito fideista che eleva fiducioso la sua preghiera o il razionalista che vede la spia del pericolo diventare sempre più rossa, ma deve soccombere alla ‘strategia della preghiera’? Avrà almeno il diritto di incazzarsi un pochino (solo un pochino), di detestare (ma cordialmente, solo cordialmente) le masse fiduciose e osannanti?
Può, certo che può, tanto è lui a rimetterci per primo.
Consapevole di ciò io mi incazzo (un pochino, solo un pochino (non è vero, bastardo, il tuo è purissimo odio! (Eh, che cosa? Ce qualcuno che ha detto qualcosa? Se sei ancora tu, me la paghi!))), ma cerco anche di divertirmi, pensate solo, se la cosa vi pare impossibile e perfino un po’ comica, alle noiosissime, morigerate cantilene che devono continuamente recitare le belle firme al servizio dei poteri che contano, le colonne portanti dei giornali seri o dei telegiornali un po’ meno seri (un bel mix di finta opposizione e di reale complementarietà strategica), ma popolati in compenso di piccoli angeli e piccoli eroi e di tutti i detti memorabili, uno al giorno come i fioretti dei bimbi buoni, dell’antipapa Francesco, infilati tra episodi di cronaca nera, di moda e di gossip, la pubblicità per il Capo e quella per i programmi della Rete, il tutto molto in fretta, quasi affannosamente, per lasciare un 5% di tempo alle notizie serie abilmente manipolate.
Meglio comunque dell’orrore di vedere l’uomo una volta imponente, carismatico, spregiatore, la perfetta epitome della mondanità soddisfatta di sé, raccogliersi in colloqui intimi con i taumaturghi specializzati nella cura delle anime, come la vamp tutta carnalità, compiacimento e spregiudicatezza che riassume saggezze ataviche ed effluvi spirituali non appena le rughe smorzano le sue facoltà di attrarre e manipolare: ah, potere immenso della flessibilità pragmatica e dell’opportunismo assistito dai fluidi fisiologici alla faccia di ogni oggettività.
Potremo mai, con questi chiari di luna, salvarci dalla dilagante anzianità?
Ah, potere immenso del cattolicesimo! Ogni suo illustre rappresentante può rivolgersi al peggiore mafioso e invitarlo a pentirsi sapendo che il suo appello giungerà probabilmente a buon fine: quale cattolicissimo mafioso non vorrebbe pentirsi prima di morire, anche se in genere, affetto da fiducismo, ritiene di avere tutto il tempo che serve?
Secondo me, quando i saggi usano il termine ‘populista,’ per un attimo (tra sé e sé) sospirano con nostalgia pensando alle boccaccesche saghe popolane affollate di fratoni che s’ingozzano, truffano e schiavazzano a man bassa, subito dopo però si ricompongono e sogghignano (tra sé e sé) pensando alle nostalgie pasoliniane e al destino che attende le masse mondiali uniformate sotto il tallone amabile, dorato e vellutato, delle nuove aristocrazie.
Hanno perfettamente ragione gli americani quando stroncano la carriera di un politico per qualche innocua e insignificante scappatella amorosa: nella situazione attuale, soltanto la totale abnegazione e l’eroismo inflessibile dei dirigenti (una chimera più bella delle olgettinerie delle nuove pasionarie), nulla di meno, potrebbero preservare un popolo dal declino.
Ebbene sì, esimi e affezionati lettori, espressamente e nonostante tutto ritengo che, per salvare la sostanza degli assetti democratici all’occidentale, occorrerebbe procedere al più presto a riforme radicali secondo modalità analoghe a quelle illustrate nel progetto Colib, che d’altra parte ambisce a una evocazione più metodologica che tematica, nel senso che la base di partenza potrebbe essere diversa ma si dovrà comunque esplicitarla quanto prima e progettarne la messa a punto sistematica (Bugiardo! Perché non ribadisci il tuo slogan geniale, quello che vai snocciolando in privato? Com’è che fa? Ah, sì: o Colib o Pomib! Geniale! Fanculo, ma chi sei?).
Invece, come detto, e proprio perché una qualche consapevolezza in quel senso si sta ormai diffondendo (risata del bastardo!), i vari capoccioni stanno agendo di concerto sotto mentite spoglie in regime di democrazia sospesa, puntando alla realizzazione di schemi oligarchici più simili a una repubblica aristocratica rinascimentale (non per caso il leader che tutto il mondo ci invidia viene da Firenze) che alla democrazia liberale (soggetto o complemento) che anticamente ci aveva promesso l’american way of life (complemento o soggetto, ma comunque, ormai, nulla più di un sogno).
Ovviamente, in Italia, queste cose si fanno, ma non si dicono, in Italia a chi scrive testi come il progetto Colib si concede per default il titolo di pazzoide scriteriato (che io mi assumo volentieri e a cui, come questi e altri numerosi incisi dimostrano, collaboro fattivamente: non vedo perché dovrei darmi la pena di schermirmi da un’accusa lanciata da gente che, dopo un adeguato cambio di prospettiva anche soltanto filosofica (e ancor più sul piano scientifico e sociologico), si potrebbe ipso facto giudicare a loro volta pazzoidi scriteriati), dopodiché, nelle ‘segrete stanze dei poteri’, si dà per scontato l'ineluttabile (il progetto Colib in fondo è una paradossale ed estrosa rassegna di verità assolutamente lapalissiane: per amore del popolo, l’executive deve conoscerle e nel contempo negarle) e si procede pragmaticamente a salvare il salvabile secondo gli unici vincoli (per ora) di concedere ai meno fortunati, sempre che la cosa sia ancora praticabile, possibilità di sopravvivenza appiattita sul lavoro precario e il servizio sociale (niente più individui effettivi, quindi, abolito ogni concetto personalistico di libertà a tutto tondo).
Una pacchia per le Chiese mondiali, che si stanno già leccando i baffoni alla Peppo al pensiero di quello che avverrà alle nazioni deboli non ancora uscite dalla crisi quando, tra qualche mese, il ciclo espansivo che negli ultimi anni ha beneficato le economie e gli strati sociali forti comincerà a contrarsi e a regredire, e dopo che l’associazione delle classi dirigenti mondiali, dominata da opportunisti, laici baciapile, ecumenici e illuminati, ha in via preventiva provveduto a sterilizzare e devitalizzare alla fonte e per tempo qualsiasi speranza di riforma ‘dal basso’.
Quest’ultima performance si presentava come una interessante sfida per gli incantatori professionisti del serpente plebe, un’impresa che poteva riuscire soltanto per il tramite di autentici leader democratici, ovvero gente che condivide e approva l’ignoranza di massa in quanto produttrice di autentica, essenziale vitalità elementare da gestire facendo leva su quella istintività addominale che al popolo, ovvero il pubblico sovrano, non manca mai: se si riesce a far comprare schifezze alla gente facendole pagare molto più caro di cose relativamente migliori, figuriamoci se non la si può indurre a mitizzare e considerare salvatori della patria, contro ogni evidenza empirica e razionale, anche i personaggi più improbabili: si dice infatti, e molti lo confermano, che alla gente piaccia amare e sperare molto più che spendere.
Senza contare che la gente, il popolo, sta diventando una minoranza facilmente maneggiabile, dato che, come in ogni società matura sulla via della decadenza, una quota considerevole di persone che ancora si illudono della possibilità di pensare con la propria testa, sovrastata dalla complessità del mondo e dai rischi personali crescenti, si limita sempre di più a un’arrendevolezza agnostica che cede facilmente al mero calcolo degli interessi e delle convenienze, una gestione efficace dei quali esige il giusto grado di finzione etica.
Così l’etica fasulla, nelle diverse forme che vanno dall’ignoranza viscerale al calcolo sofisticato, predomina in maniera schiacciante sulla stretta osservanza delle regole vigenti (su cui poi si basa concretamente ogni società) e sulla ricerca razionale e non autoritaria di nuovi assetti democratici.
I
l
cretinismo etico è la malattia senile del liberismo: debilita
le classi meno abbienti e rafforza particolari individui selezionati
per una funzione di guida. L’azione del virus è così
potente che il tipo di effetti da essi provocato sta inducendo una
vera e propria segregazione mutazionale che prelude all’insorgere
di due o più specie diverse. Gli effetti sono potenzialmente
esplosivi a causa di una sorta di micidiale contrappasso implicito
nella sindrome che si sta diffondendo: messo a punto nei laboratori
di polizia sociologica per ammortizzare le conseguenze sempre più
evidenti delle polarizzazioni eccessive di prerogative e di reddito,
il virus induce tensioni e spaccature dagli effetti iper-polarizzanti
nei campi e nelle tendenze più disparati.
Qualcuno sospetta che il vero obbiettivo della epidemia diffusa dai santi untori (convinti, in apparenza, che alle masse spetti un empito rigenerante di ubriacatura e trasporto spirituali mentre i condottieri devono obtorto collo sottostare al ferreo raziocinio del controllo economicista) tenda a instaurare condizioni pre-rivoluzionarie nel senso in cui questa definizione si applica alle situazioni storiche già note. Detto in soldoni, un qualsiasi evento traumatico (già messo in conto anche se rigorosamente sottaciuto) innesca una serie di disordini, poi l’anarchia prende il sopravvento, interviene allora un potere forte e s’inaugura una dittatura.
Ovviamente non sono i cattivi i veri responsabili di ciò (anche quando si chiamano Hitler o Stalin), ma l’endemica stupidità e cattiveria umane (stupidità e cattiveria sociali più che individuali, si tratta della solita storia dei moltiplicatori impliciti negli eventi concatenati, ne sanno ben qualcosa gli economisti).
Parentesi. Se cominciamo a ragionare in termini di massimi tiranni sanguinari, usando il criterio adottato per dirimere lo statuto morale della sperimentazione sugli animali, ovvero la mole di sofferenza intesa come devastazione della sensibilità di organismi dotati di struttura nervosa (come ha la facoltà di constatare facilmente ogni persona che non sia in malafede, anche il semplice ingabbiamento e la deprivazione della libertà provoca sconquassi tremendi in ogni essere biologico sufficientemente evoluto) un’analisi razionale potrebbe arrivare a risultati sorprendenti se solo disponesse degli elementi per procedere a un calcolo esatto.
Lo stesso concetto d’inferno subisce una radicale e impressionante trasmutazione alchemica se si entra nell’ottica, scientificamente ammissibile e anzi concettualmente plausibile secondo astratte simmetrie universali, di esistenze che si ripetono invariate all’infinito: all’inferno, in quel caso, ferme restando sterminate discriminazioni e classificazioni per grado e intensità, è condannato il soggetto di ogni vita in cui, detto grossolanamente, il dolore prevale quantitativamente sul piacere (ovviamente, questo metro non impedisce che un ragazzino ucciso brutalmente a nove anni possa trovarsi in paradiso e un uomo morto quasi centenario tra celebrazioni e onori essere invece un abitante dell’inferno).
Chiunque può intuire immediatamente perché qualsiasi tipo di potere oligarchico, a prescindere dalla casacca che indossa e dalle bandiere che sventola (viola, gialle, a pois) preferisca, a ogni buon conto, che si dia corso e abbrivio e spumeggiante pubblicità alla prospettiva di un paradiso ultraterreno. Analogamente, s’intuisce il grande richiamo nel mondo moderno di una dottrina che predica umiltà e rassegnazione non lesinando, quando può, solidi, monetizzabili favori di stampo settario e conventicolare: nelle società democratiche ‘opulente’ il pericolo principale non è la sofferenza fisica (il freddo, la fame, la violenza o la tortura), ma l’assenza di felicità, l’esclusione dal festino che le varie propagande tendono a mostrare come se fosse sempre a portata di mano, l’emarginazione del perdente, dello sconfitto, dello ‘sfigato’, una fenomenologia di cui la censura e autocensura ufficiali tendono a celare la vasta preponderanza.
Essere infelici, ma comunque non apparire perdenti, ecco la incessante fregatura comminata all’individuo dal falso individualismo liberista, che spiega tra l’altro la deriva intellettuale, apparentemente opposta, ma in realtà complice e complementare, del neo-collettivismo fideista.
Anche queste affermazioni le possiamo tranquillamente rubricare nella categoria delle lapalissianità che generano scandalo o disapprovazione veemente. Lo scandalo dovrebbe invece levarsi possente se ci dessimo la pena di meditare sull’enorme costo della razionalità nel contesto delle forme di convivenza organizzate: dovremmo pagare così profumatamente (nei vari sensi) le responsabilità dei capi se la loro opera suscitasse lo stesso tipo di entusiasmo e di gratitudine che suscitano i benefattori spirituali e i capi religiosi?
Potendo scegliere, a parità di stipendio (avete capito bene: a parità di stipendio) per che cosa opterebbe un uomo di discreta intelligenza o cultura: il posto da operaio o da dirigente (si suppone che gli si dia tempo di imparare ‘il mestiere’ e qualora non ne fosse capace, gli rimanga aperta la possibilità di lavorare da operaio), ammesso che l’attenta valutazione, il soppesamento puntuale e conseguente delle decisioni ricada nei puntigli e negli obblighi auto-imposti di qualsiasi essere umano? In una società ideale che riconoscesse i meriti reali e non ricambiasse con invidie, malevolenze e calunnie l’impegno di un comando oculato, fondato su moventi razionali e non sulle lusinghe e i sortilegi dell’immagine, il dirigente potrebbe essere pagato molto di meno ed essere enormemente più proficuo.
Certo, l’ho detto: in una società ideale, anche se la parità di stipendio è chiaramente un’esagerazione.
Al potere non conviene fondarsi sulle capacità critiche delle persone, il vero potere rifulge sempre e comunque per carisma implicito e diritto divino, soprattutto quando si basa sulle tecniche di abbindolamento psicologico.
Il primo sostegno del potere fine a se stesso, come si desume facilmente confrontando i meccanismi originari del liberalismo industriale con le scimmiottature in atto nelle imitazioni affette da demagogismo teocratico dei paesi non solo latini, è proprio quel disgusto della gerarchizzazione funzionale e razionale che impedisce di fatto qualsiasi soluzione alternativa allo status quo imperante.
Il ribellismo sessantottesco non era che il rovescio della medaglia fin troppo perfetto degli ieratici comitati del partito berlingueriano: entrambi prosperavano con i soldi del Kgb ed entrambi tolleravano le scorribande dei filibustieri economici piccoli e grandi in cambio della mezza e di alcuni feudi. Craxi e Berlusconi hanno rotto il gioco in nome dei filibustieri, la probità europeista ha messo il veto e ora ecco il popolo chiamato al fiducismo e riunito sotto le logge del potere riunificate dopo la disastrosa spartizione durata fino agli anni ottanta e poi continuata sotto le mentite spoglie di un dualismo stizzoso (che il re-presidente giustamente disprezza per la sua pleonastica artificialità), mentre la valvola di sfogo, un tempo concessa poco avvedutamente a frange anarchiche e libertarie, è ora affidata alla sacralità del finto pauperismo ecclesiastico che, come si deduce dalla frugalità delle sedi, delle vesti, dei riti, dei comportamenti e delle frequentazioni, disdegna il potere mondano in nome di un potere più eccelso.
I dirigenti costano anche perché a loro e a tutti coloro che applicano prerogative progettuali e razionali (ricercatori, tecnologi, imprenditori, personale qualificato) si deve, nonostante tutto e a prescindere da infinite malversazioni e devianze, l’ordine e la produttività delle moderne società avanzate. Basta guardare qualche puntata della serie ‘Com’è fatto’ trasmessa dal canale della rivista Focus per intuire quali siano le basi del benessere materiale di cui hanno goduto negli ultimi decenni le società industriali avanzate: una precisa, rigorosa, indefettibile efficienza procedurale, accuratamente selezionata in anni e anni di esperienze competitive e diventata gradualmente regola, abitudine, coerenza di routine.
L’opera meritevole e intensa dei razionalizzatori, quell’esigua percentuale di operatori economici, variamente coadiuvati od ostacolati dai gruppi di pressione sindacali e/o corporativi, che ha effettivamente promosso il progresso tecnico e materiale, è stata spesso denigrata o almeno mal compresa dalle cosiddette masse, apparentemente con grave disappunto dei poteri superiori (politici, finanziari, religiosi), in realtà, almeno in Italia, dietro suggerimento subliminale degli stessi, che, per conservare il livello più alto della piramide, necessitavano di quei sostegni ideologici, illusionistici, taumaturgici che affondano solidissime radici nel guazzabuglio delle mentalità e delle opinioni diffuse.
Questa è la realtà: tutte le iperboli sull’etica, la solidarietà, lo spirito di coesione, l’entusiasmo democratico, la passione civile sono chiacchiere camuffate da teorie universali quel tanto che basta a raggirare l’ignoranza diffusa: calati nel vivo del funzionamento quotidiano della macchina produttiva, non se ne vede traccia a meno che non si voglia spacciare per grandi concetti universali peculiarità, sfumature, finezze e complessità della psicologia umana per come si manifesta nelle relazioni interpersonali implicate dalla collaborazione lavorativa e in tutti quegli ambiti in cui amabilità e gentilezza, sempre desiderabili anche se mai prioritarie, si legano indissolubilmente alla manipolazione più sottile.
Una nazione etica è una nazione egemone o una nazione morta, quando una compagine procede in modo funzionale e armonico non sa che cosa farsene di una gratuita metafisica piovuta dall’alto e non radicata in uno stringente impegno materiale, un’etica astratta è sempre truffaldina e menzognera dato che in effetti prescinde da una visione d’insieme realistica, cioè da un quadro di riferimento globale veritiero (per quanto possono accertare le prerogative rigorosamente scientifiche dell’essere umano) e pertinente (ovvero legato a interessi cruciali e sensibili di tutti i soggetti, nessuno escluso, che vi partecipano).
Il fiducismo è una caratterizzazione della politica che tende a replicare le dinamiche motivazionali e i condizionamenti operanti propri dell’influenza teologica, sia sul fronte della domanda che dell’offerta. Lo stimolo psicologico di base che fonda il mercato della relativa ideologia sorge da un impulso psicologico diretto alla rassicurazione, fortificazione e conforto, quel tipo di predisposizioni e stimoli che il fornitore dominante, che si arroga diritti di rappresentanza divina o comunque strategica e fondamentale, asseconda chiedendo in cambio l’obbedienza e la disciplina di cui necessita per consolidare la propria concezione della pianificazione e dell’ordine.
In presenza di un progetto chiaro razionalmente compreso non c’è bisogno dell’ideologia della fiducia, che è invece la zattera di salvataggio del suddito che si abbranca fideisticamente alle proprie illusioni e del governante che non sa che pesci pigliare al di là del consolidamento di un potere che, surrettiziamente e indebitamente, giudica comunque un bene in sé e per sé.
Il fiducismo è l’anticamera della dittatura, come la storia delle rivoluzioni insegna: subentra quando tutto diventa confuso e difficile e il potere scarica sulla gente le proprie manchevolezze e inadempienze spesso ineluttabili, accusandola di accidia, scetticismo, disfattismo, freddezza e aridità.
Così, ancora una volta, ho il piacere di comunicare che oggigiorno la situazione si sta pacificando e ai piani alti l’accordo vige sovrano, con buona pace e ottundimento del cosiddetto popolo.
La selezione darwiniana ha debitamente affusolato gli strati apicali e irrobustito e allargato la base, in modo che la tecnologia innovativa e raffinata costituisca a sua volta un’aristocratica élite a disposizione di pochi clienti raffinati, mentre più giù l’impresa medio-piccola si trova ridotta a un puro tramite di quella macelleria sociale che, mentre vieppiù trovare una occupazione di qualsiasi genere diventa un invidiabile privilegio, si presenta come opera di commovente carità assolutamente più determinante di una innovazione produttiva che rientra ormai nel più corrivo anonimato, comunque in subordine a quello che passa il convento delle grandi multinazionali. Queste, a loro volta, cambiano le linee in catalogo e costringono al turn over per pure esigenze di fatturato, verificandosi sempre più spesso che le nuove edizioni dei vari prodotti risultano più appetibili delle precedenti soltanto per poche, particolarissime innovazioni (mirate perlopiù alle esigenze specifiche dei professionisti) mentre, per il pubblico medio, il grosso della proposta subentrante, lungi dal migliorare, spesso risulta inutilmente farraginoso.
E’ ovvio che, come corollario immediato di tutto ciò, assistiamo a un rimescolamento al vertice del sistema economico per cui il politico o il capo religioso non possono esimersi dal condividere il potere gestionale con soggetti di provenienza aziendale e questi, a loro volta, si svincolano sempre più da attitudini di stretta valenza funzionale per assumere modalità e linguaggi propri, non tanto del classico politico liberale, quanto di quei comitati di partito di cui rendono bene l’idea certe fotografie di tavoli congressuali riprese negli anni sessanta e settanta.
Per fortuna, sia detto con il massimo rispetto, donnone imperative e un po’ intimidenti come la Jotti Nilde (si scrive così?), moltiplicandosi, si sono, come dire… addolcite.
Poveri politici, di questo passo le multinazionali non avranno neppure più bisogno di ricorrere al portafoglio segreto o commissionare studi di settore, stesura di articoli o consulenze varie per ottenere l’ascolto delle proprie istanze, saranno sufficienti minacce velate o bisbigli negli orecchi dei manipolatori di indici e statistiche.
Il solo fatto che una serie come Scandal sia concepibile, esagerazioni (o attenuazioni?) a parte, la dice lunga sull’attuale stato delle democrazie: provate solo a pensare gli Spencer Tracy o i Gregory Peck dei bei tempi che interpretano ‘buoni’ di quella fatta. Per fortuna apprendiamo che anche i potenti hanno un cuore e soffrono per amore, il che basta a farli assolvere al cospetto della nostra sensibilità di esseri evoluti che sanno apprezzare la vera arte e il vero Armani.
A edificazione ed erudizione degli ignoranti, tengo a precisare, tra parentesi, che, nella serie Scandal, il primo consigliere di un simpatico e ‘umano’ ‘uomo più potente del mondo’, anch’esso molto simpatico e ‘umano’, oltre a svariate altre marachelle non proprio veniali, commissiona brogli elettorali e omicidi di giovani fanciulle, ma soltanto a fin di bene, essendo giustamente desideroso che la presidenza spetti ai buoni invece che ai cattivi.
A loro volta, i protagonisti della serie, simpatici e ‘umani’ prima di tutto, ‘ma anche’ abili, intelligenti, ingegnosi e coraggiosi, commettono non so quante decine di reati penali (ci vorrebbe un fine giurista per poter dire se sono centinaia), il pubblico li ama più che mai (altrimenti la serie non durava due puntate) e allora ditemi voi se Berlusconi non avrebbe tutto il diritto di prendersela con una magistratura italiana eccessivamente fiscale anche nel caso fosse stato condannato soltanto per un decimo dei reati da lui effettivamente commessi.
Poveri giustizialisti e legittimisti, ancora un po’ e saranno tutti ridotti all’esaurimento nervoso!
Olivia Pope (è giusto il nome, si scrive così?), la protagonista principale, è femmina, una sofisticata e sensibile creatura dotata di artigli formidabili (non vorrei però che si pensasse che vado avanti a parlare di Scandal perché è l’unica cosa che ho visto ultimamente o lo ritenga chissà quale capolavoro: vi insisto perché mi cade a fagiolo, tutto qui).
L’ho già detto a mia moglie: grazie a te e ai miei istinti fondamentali ho un alto concetto della donna in genere, ma, e qui mi addentro in valutazioni assolutamente opinabili e personali, questo mondo sembra studiato apposta per la vostra metà del cielo. In nessun’altra epoca della storia, per sopravvivere, si è dovuto far ricorso a tanta resistenza difensiva e quindi anche, giocoforza, aggressiva, mischiata a una plasticità emotiva spinta fino al sentimentalismo ipocrita. La donna può anche riuscirci senza perdere integrità, l’uomo, anticamente un bruto, guerriero e cacciatore, in confronto deve subire una trasformazione antropologica analoga a quella degli astronauti che riusciranno ad arrivare su Marte (se mai vi riusciranno). Non per niente gli uomini che si sono fatti da soli, quelli ‘venuti dalla gavetta’, tendono ad assumere certi tratti tipici del serial killer cerimoniale, per questo non mi scaldo più di tanto per abnormità come le quote rosa, non certo perché approvi gli stolidi e sessisti motivi ideologici che hanno di fatto promosso questa baggianata.
Bene, polemisti incalliti che avete resistito fin qui (ehi, dove siete? C’è rimasto qualcuno? Dove vi siete nascosti, birbanti…) adesso, per un po’, basta politica e costume e parliamo invece di scienza. So che questo vi farà storcere il naso e provocherà una fuga generale, ma la cosa non mi preoccupa poiché penso sinceramente che non possa fare alcuna differenza.
Vero? Perché non rispondete?
Si tratta comunque di una deviazione che ci riporterà tra breve sulla strada principale. Potete tornare quindi tra un po’, avete sentito?
Mah, non rispondono, chissà che cosa stanno facendo i monelli invece di imparare!
Comunque non potevo tacere quello che tra poco dirò, avrebbe dovuto costituire il nucleo della famosa risposta da cui inopinatamente si è levato tutto questo profluvio di parole e poi le scienze sperimentali e matematiche forniscono indicazioni meno aleatorie dell’economia e della politologia, utilizzabili comunque negli stessi ambiti se solo ci si ingegnasse di estenderne il messaggio oltre limiti specialistici che vengono mantenuti e considerati invalicabili soltanto per puro comodo e perché non si vogliono interferenze sgradite rispetto alla somministrazione sacramentale dei dogmi comunemente accettati.
Il fatto stesso che i grandi filoni innovativi della scienza del XX secolo siano sorti dalla formalizzazione del riconoscimento, accettazione e analisi delle conseguenze ineluttabili derivanti da particolari impossibilità cognitive (per la relatività generale un esempio è il principio di equivalenza, per la meccanica quantistica il principio di indeterminazione) costituisce una indicazione stringente di quella che è la nostra posizione nell’universo: una emergenza omogenea al tessuto onnipresente degli enti, una comune appartenenza al substrato materiale ed energetico ovunque pervasivo, tutt’altro dunque da una soggettività che osserva da uno status privilegiato o comunque di distacco e alterità: non sarebbe infatti possibile ricostruire un sistema organico e coerente partendo dagli aspetti sconosciuti di un’oggettività esterna (che in quanto ignota e indipendente ricadrebbe nell’imperscrutabilità più totale), mentre è senz’altro possibile concepire che una unità capace di autoreferenzialità e coscienza razionale, collegata a un sistema più vasto, possa rintracciare e analizzare gli aspetti di tale collegamento concettualizzando impedimenti legati a vincoli strutturali.
Una indicazione stringente o una vera e propria prova a favore di una sorta di panteismo scientifico? In realtà, quando si tratta di ragionamenti ‘in grande’ certe deduzioni logiche tendono a essere sottovalutate, come se fossero afflitte da insufficienza cronica rispetto alla forza richiesta dall’argomento. Ma è proprio così o semplicemente l’homo credens rifiuta di trovare probante quello che cozza contro istinti fondamentali e congenite aspirazioni che vuole mettere al sicuro in un’area intoccabile definitivamente avulsa dalla possibilità stessa di argomentare?
E’ difficile che nella vita quotidiana uno incontri induzioni o deduzioni più probanti di quelle usate dai filosofi ‘atei’ per mettere in dubbio l’esistenza di un Dio personale eppure è anche difficile trovare tesi sensate più vane e inefficaci.
Analogamente a come le istanze e le predilezioni religiose stroncano sul nascere le aspirazioni di una razionalità generale, il fiducismo tende a una immunizzazione popperiana che in realtà è la morte della politica come la si è intesa nell’ultimo secolo in occidente e quindi la fine concreta e tangibile della democrazia liberale.
Che poi sia l’unica spiaggia per evitare il tracollo è un altro discorso. E comunque: chi ha il diritto di decidere per un altro che sia effettivamente così? Chi possiede quel dono, quell’esclusiva di verità che costituiscono la sempre millantata e arbitraria ‘autorizzazione’ a fondare un potere teocratico attraverso una maggioranza relativa di votanti che rimane pur sempre una minoranza di pensanti?
Comunque il fiducismo o è pura tecnica illusionistica di potere o è tecnica dello struzzo. Se la situazione non è drammatica, non si vede la necessità di una chiamata alle armi con risvolti e implicazioni molto ambigui. Se la situazione è drammatica, ma non troppo, le classi dirigenti dovrebbero intelligentemente risolversi a una cessione, non delle briciole, ma di privilegi e prerogative sostanziali, non solo economiche, e ridistribuire la ricchezza in modo da preservare la pace sociale e la solidità delle istituzioni, attraverso azioni chiare e trasparenti e senza necessità di surrogati mitologici ed emotivi: questo da solo basterebbe a ricompattare la volontà e la fiducia della gente. Se la situazione è disperata, si impongono cure da cavallo e interventi drastici e urgentissimi (il progetto Colib? Epperchenò?).
Se effettivamente l’umanità potrebbe estinguersi entro una decina di anni (ma anche cento o duecento!) per la degassazione del pianeta o altri eventi provocati dal riscaldamento globale, l’intero sistema di produzione economica e di strutturazione delle società dovrebbe essere riprogettato in tempi rapidissimi, è assolutamente incongruo e ridicolo appellarsi a folle di neo stakanovisti che ogni mattina intraprendono l’attività lavorativa abbracciandosi entusiasti e cantando l’inno alla gioia. Nel medioevo in simili circostanze, reali o presunte, la gente formava processioni di gementi (la ‘g’ è giusta) che, invece di incitarsi con il training autogeno, si maceravano in digiuni e penitenze, invece di ballare si fustigavano: dubito che la teologia attuale sia alla fine più sensata di quella appartenente a un’epoca che in fondo non aveva altre scelte.
Tutte le forme generiche e moraleggianti di appello all’ottimismo e alla fiducia, di inviti alla solidarietà affettiva (se non è affettiva, la solidarietà rientra in calcoli e considerazioni tattiche), alla coesione scalmanata, calorosa, pimpante, risultano acrobazie o di patetico dilettantismo o di subdola ipocrisia in società complesse dominate da interdipendenze strutturali e capziosi, intricati grovigli di interesse.
Perché, per esempio, da ex sindaco di una grande città, togliere un potere a una provincia e affidarlo al sindaco di una grande città? Che cosa è intervenuto nella decisione che riguarda le esperienze e gli interessi personali del decisore? Che rapporto tra centri metropolitani e aree più periferiche, rurali e boschive, viene sottinteso? Quale politica del territorio ne risulta favorita? Il lavoro fatto in un posto costa meno quando è fatto in un altro? Un centro di coordinamento dotato del doppio dei nodi costa meno e funziona meglio di due indipendenti e collegati (molti tecnocrati puri e teorici della complessità avanzerebbero dubbi) o è solo questione di accentramento e maggiore arbitrio, di caduta dei vincoli?
Il fiducismo funziona soltanto come abile operazione di depistaggio e marketing elettorale al servizio di determinati poteri, altrimenti si rivela, nel migliore dei casi, un puro anacronismo. Un rullo compressore di riforme e la velocità a cui ruota non significano molto se si trascura un esame attento di quello che produce: il rullo deve viaggiare alla velocità che rende possibile tutte le indispensabili valutazioni del caso, oppure procedere al massimo, ma solo per realizzare un piano complesso e dettagliato redatto in via preventiva e a disposizione di tutti gli interessati.
Se queste condizioni non sono realizzate, non si stanno producendo riforme nel senso in cui le può intendere qualsiasi classica concezione democratica, bensì un processo di ristrutturazione attuato dal consiglio di amministrazione dell’azienda Italia con mezzi e finalità riservati alla discrezionalità dei padroni del vapore.
In una società industriale moderna, assistiamo al paradosso che, per il semplice motivo che funzionano, gli appelli etici sono falsi, altrimenti si ridimensionerebbero subito al livello di sfumatura stilistica, sarebbero sottoposti a interventi di verifica tali da renderli secondari.
Traetene voi le conseguenze per quanto riguarda le Chiese Istituzionali.
Ovviamente la condizione fondamentale perché una qualsiasi chiamata alle armi fiducistica funzioni è che, nonostante le apparenze e finzioni di ecumenicità, si rivolga in realtà a gruppi sociali circoscritti e selezionati, come avviene del resto per le strutture ecclesiastiche ufficiali che, nel momento stesso in cui diffondono messaggi di vasta portata comunitaria apparentemente aperti a tutti, fondano in realtà una ben precisa lobby diffusa, una classe, magari vasta, ma mai totalitaria di fruitori di vantaggi settari, in cui la tessera di appartenenza funge, non sempre come garanzia, ma come facilitazione almeno per l’ottenimento di determinati vantaggi (vedi per esempio, nella totale e scandalosa latitanza di servizi forniti dallo stato, la grande funzionalità dell’efficacissimo ufficio di collocamento rappresentato dalla rete di interessenze, complicità, sostegni legati al mondo dell’attivismo cattolico, protestante, mussulmano o ebreo.
Il successo del fiducismo, come di ogni discriminazione eticista di stampo più o meno teologico, si lega indissolubilmente a forme di condivisione, assistenza e mutuo soccorso all’interno di ben determinate sacche sociali, in genere quelle del privilegio e dei vantaggi acquisiti e quelle che possono contare sulle ricadute dei pacchetti incamerati per la gestione delle propaggini clientelari.
Ovviamente non si tratta qui, come potrebbe rimbeccare qualcuno, di vedere il male dappertutto, si tratta di non vedere il bene dove non può e non deve esserci. L’unico bene possibile in una società complessa si chiama funzionalità e il ritorno di benessere e qualità della vita che procura. Tutto il resto è fola.
Filosofi e scienziati degli ultimi secoli del millennio scorso ci hanno già detto tutto quello che era importante sapere: poco dei loro messaggi fondamentali sopravvive nella cultura attuale, che ha preferito concentrarsi su psicologismo e intimismo, da una parte, e sulla tecnocrazia (di cui la teocrazia è una branca rimessa in spolvero dalla sociologia politica in relazione alle tecniche di potere e al marketing ideologico).
Oggi si dà per scontato che la vittoria del liberalismo sul marxismo consolidatasi nel corso del secolo scorso rappresenti il trionfo della flessibilità e dello spirito umanitario sulla rigidità programmatica e l’autoritarismo centralistico, ma sono balle.
Il liberalismo ha vinto semplicemente perché si è dimostrato più spregiudicato e materialista del marxismo, più rigoroso e scientifico: le dinamiche e i conflitti di interesse che ha saputo correttamente individuare determinavano una forma disincantata di economicismo più aderente alla realtà di quanto non proponesse la metafisica marxiana e inoltre si serviva di una psicologia e una sociologia molto meno fantasiose e arbitrarie: nell’assegnare alla molla dell’ambizione e del guadagno tamponati da regole formali il vero principio regolatore del progresso umano il liberalismo predisponeva altresì una dottrina valida fino a certi livelli di crescita esponenziale della complessità e della polarizzazione di redditi e prerogative, superati i quali (più o meno nella fase che sta subentrando) la filosofia politica è tutta da rifare.
Esistono sostanzialmente due modi per affrontare la presente transizione di fase: riesaminare alla luce delle esperienze passate e del grado di evoluzione tecnologica raggiunto modelli di società progettuale una volta considerati utopici (progetto Colib e similari) oppure optare per l’usato sicuro e puntare a una riedizione di antichi modelli oligarchici assistiti dalla sapienza tecnocratica e da una nuova concezione del potere religioso complementare a quello statale: ovviamente la seconda opzione è quella più facile e immediata, soprattutto perché a decidere sono le élite e la consapevolezza culturale del fantomatico popolo, dopo anni e anni di abile (non dozzinale) rincretinimento televisivo e mediatico è ridotta ormai al lumicino.
Resta inteso che la definizione di popolo va intesa in modo che l’attribuzione a esso di un basso livello intellettuale non risulti insultante, ma circolare: qui per popolo s’intende infatti quella parte minoritaria (attualmente) del corpo sociale che, nell’ambito di un sistema elettorale che risulta ormai una sopravvivenza storica fatiscente e imbalsamata (insensibile a ogni riforma), decide della vittoria di una compagine o l’altra spostandosi qui e là in base a meccanismi istintivi e riflessi condizionati manovrabili secondo criteri di psicologia scientifica e perfino con i cagnolini.
Oggi la democrazia è morta: ecco un’altra verità lapalissiana considerata una tipica boutade del cosiddetto ‘populismo’. In realtà, per quanto mi riguarda, fermo restando che non ho mai capito veramente a che cosa si riferisca esattamente quella definizione, vale l’ineluttabile dimostrazione che l’apparente confutazione del concetto fornisce al concetto medesimo: la democrazia muore in corrispondenza alla morte del popolo come controparte legittima animata da pulsioni e interessi svincolati dal ‘dover essere’ comandato da interessi superiori (ma superiori a chi e per chi?), quando il popolo diventa perciò una brutta parola che acquista bagliori sinistri perché adombra naturali e fisiologiche aspirazioni materiali.
Secondo me il termine ‘populisti’ si attaglia benissimo a quei tecnocrati e a quegli intellettuali che concepiscono il popolo non alla luce dello spregiudicato realismo dei padri della dottrina liberale, ma secondo la concorrente concezione codina, romantica e anche socialista di una massa da plasmare secondo la santità di sacri principi ispiratori, si chiamino religione, europeismo, progresso o quant’altro.
Si dà infatti il caso, in base a inferenze semplici quanto indiscutibili, che o la democrazia indica una forma politica di un’organizzazione comunitaria che permette al popolo, ovvero alla maggioranza dei membri, di esprimere e far valere, di volta in volta e caso per caso, un parere condiviso oppure è un involucro svuotato di senso. Oggi, di fatto, non esiste né il popolo, ovvero la maggioranza dei ‘cittadini’ né, in senso tecnico, ed è quello che alla fine conta di più, il parere da esprimere: da un lato, infatti, la complessità delle interazioni planetarie e l’aggrovigliato accumulo di leggi, strutture, istanze, ordinamenti, interessi che mettono capo a riferimenti lontani tra di loro, eterogenei e spesso antitetici, rende qualsiasi opinione non supportata da studi lunghi e assidui (ma spesso nonostante questi) una pura estrazione a sorte da un calderone psicologico di sensazioni, pregiudizi, esperienze, dall’altro il rimescolamento totale delle carte all’interno dei partiti (la prima istituzione da abolire molto prima di province, senato o regioni) e la distribuzione statistica del corpo elettorale e non (leggi ‘incerti e astenuti’) implica che qualsiasi responso, non soltanto delle urne, ma anche e soprattutto dei sondaggi, è deciso dall’apporto di componenti irrazionali.
Attenzione: non sto dicendo che ogni espressione d’indirizzo è dominata da impulsi irriflessivi e viscerali, anche se comunque vi partecipa più l’interesse e l’emotività, che l’intelligenza. No: l’irrazionalità decide il prevalere di una scelta sull’altra, il che non sarebbe necessariamente un male se significasse poi effettivamente un verdetto di pura casualità tra orientamenti più o meno motivati, ma non avviene così: le componenti irrazionali sono pilotabili dalla scienza della persuasione e dell’imbonimento, quindi al servizio di quelli che una volta si definivano i persuasori occulti, gente che è ben difficile risulti ‘populista’, ma è facile e anzi assiomatico che si metta al servizio di lobby influenti e grossi interessi costituiti.
Parentesi. Non sarebbe il caso che le preferenze di voto si esprimessero in relazione alle masse demografiche e non ai votanti (ehi, direttore, mi stai ascoltando? Riadatta immediatamente i sondaggi del lunedì!), in modo che un partito che attualmente viene accreditato come titolare di un terzo dei voti ne risulti finalmente detenere poco più di un quinto come in effetti è? La vogliamo finire con il moralismo istituzionale per cui chi non esprime preferenze elettorali si auotocondanna alla morte civile? E’ la democrazia fasulla, come tutte le istituzioni truffaldine e ipocrite in qualsiasi epoca della storia, che sta condannando le idee e la cultura alla morte civile. Datemi un partito che presenti un progetto di società dettagliato tenendo conto degli equilibri ecologici planetari e delle criticità territoriali e ambientali più che delle esigenze delle curie e del made in Italy, una visione che privilegi una qualità della vita non desunta dalle riviste di gossip e dalle bibbie dell’edonismo consumistico (mamma mia, che brutta parola!), ed esaminerò se è il caso di votarlo o meno. Altrimenti, morto per morto, preferisco giacere elettoralmente esanime che andare a votare come uno zombi.
Parentesi nella parentesi: occorre valutare però se le tendenze urlatamente antipopuliste e tacitamente elitarie non stiano approfittando troppo dell’onestà di simili atteggiamenti, nell’ipotesi puramente scolastica che siano diffusi.
Chiusa parentesi.
Tre sono i capisaldi della persuasione occulta ovvero del marketing ideologico: l’illusione, ovviamente, ma soprattutto l’inversione e lo sfruttamento del complice irretito.
La prima illusione che occorre creare è quella dell’atteggiamento responsabile e incisivo di chi governa. Il modo più semplice, dato che il potere non è necessariamente imbroglio e bugia (che sono sempre strade assai infide, incerte, faticose, come la dittatura sanguinaria: se essa fosse più comoda del potere economico finanziario e dei supercomitati occulti, il mondo pullulerebbe di Hitler e di Stalin), è quello di impegnarsi in modo autentico e fattivo.
Ogni civiltà giunge comunque a un punto in cui tale atteggiamento diventa semplicemente impossibile perché auto-contraddittorio. L’esempio ce lo fornisce lo stato attuale dell’evoluzione planetaria: la specie uomo sta compromettendo tutti gli equilibri fino al punto di evocare un’altissima probabilità di catastrofe globale (il termine altissima presuppone ovviamente amore verso il prossimo inteso, non solo come manodopera sfruttabile, ma anche come posteri, un anziano notabile preoccupato soltanto della propria serena vecchiaia potrebbe giudicare i relativi valori non così preoccupanti). Responsabilità sarebbe allora, limitatamente a questo aspetto assolutamente primario, rivedere completamente gli assetti sociali e produttivi e il concetto stesso di benessere, il che comporterebbe tuttavia un’azione di riforma tanto radicale da essere giudicata ‘avventurista’, per usare un antico vocabolo che sostituiva il termine ‘populista’ quando la sinistra, anche quella ‘moderata’ (definizione usata, sempre in passato, come un insulto) non si mostrava così schifata dei popoli che si fanno i cazzi loro rifiutandosi di partecipare alla claque nello show business dei grandi ideali metastorici.
L’esemplificazione fornita è la più drastica, ma, se scorrete lungo le pagine del testo qui presentato, vi si accenna a criticità più vicino agli interessi comuni, come la sicurezza sociale e il lavoro, di cui comincia a essere lampante l’inconciliabilità rispetto a un’organizzazione globale sempre più oscura e aliena alle esigenze elementari della gente comune.
‘Responsabilità’ diventa così un termine ambiguo e improponibile, così come impegno democratico, per cui diventa indispensabile ai fini della ‘governance’, prima di tutto crearne l’illusione, ma in secondo luogo operare preventivamente quella inversione a 180 gradi che tramuta una responsabilità limitata a interessi ristretti, che è pura e semplice irresponsabilità verso interessi più allargati, in una responsabilità degli interessi ristretti che si sacrificano a quelli più allargati: per ottenere questo effetto scenico di alta prestidigitazione non basta agire sul fronte propositivo, ovvero del camuffamento dei mezzi e dei fini, ma disarmare alla fonte la legittimità delle richieste e fare apparire le istanze non più ricevibili come ‘irresponsabilmente’ (appunto!) eccessive e frutto di una peccaminosa forzatura della liceità politica e morale.
Semplici aspettative basilari del tutto normali fino a pochi anni prima diventano così avventuriste o populiste, il tutto senza che si sia fatto il minimo tentativo di sondare la possibilità di modelli alternativi che possano salvaguardare la realizzazione degli antichi diritti.
Le persone morali, i buoni e i giusti, rappresentano i reparti speciali, le teste di cuoio di una tale opera di trasformazione antropologica prima ancora che politica, irreggimentati dagli stati maggiori ecclesiastici: i più scaltri chiederanno un pagamento secolare, molti altri si accontenteranno di guadagnare punti per la vita ultraterrena (un uso perspicace delle favole serve meglio le esigenze di controllo e comando di scenari alternativi scientificamente plausibili, come la ripetizione in eterno, senza variazioni, delle singole esistenze).
Il ‘popolo’, che è buono e giusto quando si tratta di grandi e nobili concetti (Dio, l’umanità, la patria…), ma molto meno nell’esperienza spicciola quotidiana e quindi soggiace a un latente complesso di colpa rinfocolato dalle fabbriche di (furbissima) etica, (falsa) magnanimità e (farlocca) abnegazione che sono i prodotti più specifici della cultura istituzionale, risulta alla fine il migliore alleato di quei poteri che, in periodi di crisi, sappiano svolgere bene il proprio ruolo incantatore.
Un millenario retaggio storico d’invasioni e ‘mamma li turchi’ sembra spianare la via, in Italia, a simili giochetti o meglio giochettoni: a meno che non sia alla fame, il popolo italiano si agita soltanto dietro la regia dei potenti: fino agli anni ottanta del secolo scorso, per esempio, risultava pericoloso soltanto grazie ai soldi del Kgb. Per il resto raccoglie soltanto ciò che è elargito dall’alto: fino agli anni ottanta del secolo scorso e oltre, per esempio, si beava di quanto i commensali del luculliano banchetto che avrebbe dissanguato i conti nazionali lasciavano prudentemente cadere dal bordo del tavolo al fine di continuare a ingozzarsi indisturbati
Il concetto cardine di ogni società democratica moderna, fondamentale principio guida a prescindere dall’inevitabile frazione utopica che contiene, sto parlando del benessere e della libertà individuali ottenibili soltanto attraverso una rigorosa e coerente organizzazione economica e sociale, obbiettivo di una progettualità razionale, sembra curiosamente estraneo alla mentalità italiana intrisa di primario spirito cattolico. Diritti in cambio di funzionalità sembra una grossa bestemmia: senza grandi motivazioni ideali e i marpioni che se ne assumono la gestione e infine il monopolio non si va mai da nessuna parte.
Così, anche se mi appare incredibile (avendo cominciato con la fantascienza, sarebbe comunque bello chiudere così il cerchio tematico), non posso escludere che da un momento all’altro sorga o sia già sorto un leader che sfrutti strategicamente le tare nazionali e così facendo riesca a ingannare il Grande Fratello Internazionale, sia in grado quindi, seguendo un progetto segreto, di ribaltare la micidiale macchina polarizzante ingannando quelli che, tramite lui, ritengono di possederne l’esclusiva per la manutenzione e la revisione.
Diversamente, poiché in qualche modo, per continuare ad allietarti, devo divertirmi a mia volta e il vero divertimento è sempre un po’ infantile e imbarazzante, acconsenti o gentile lettore a uno sfogo innocente anche se un po’ volgaruccio (di cui mi scuso preventivamente in caso d’improbabili, fantascientifici abbagli): fanculo il leader carismatico, fanculo il fiducismo.
In culo, superculo, in culissimo!
Ma naturalmente crescita, crescita, crescita!
Ma anche rigore, rigore, rigore!
E il ritmo adatto per farci ballare.
MISERIA O IMBECILLITA’ DELL’ANTI – INTELLETTUALISMO ovvero NESSUNO PUO’ ILLUDERSI DI NON VIVERE IN UN LABIRINTO (Aggiunto nella prima decade di gennaio 2014)
Su richiesta e sollecitazione dei numerosissimi fan questa prolusione viene anteposta a MISERIA O IMBECILLITA’ DELL’ANTICATASTROFISMO (precedente in senso temporale) alla stregua di una serie (o meglio florilegio) di riflessioni e puntualizzazioni che definirei più che metatematiche, autoreferenziali.
Ma prima la solita piccola parentesi per avvisare i nuovi appassionati lettori che stanno entrando in una zona tematicamente e dialetticamente mirabile, ma infida e insidiosa (per più dettagliate avvertenze vedere l’inizio della prolusione seguente che vi indirizzerà a ulteriori successive avvertenze) e anche puntualizzare che ‘miseria e imbecillità’ può essere sostituito da ‘splendore e avvedutezza’ oppure ‘opulenza e illustrissimo acume’ oppure ‘dovizia e vivacità’ eccetera se passiamo da una prospettiva logica e oggettivista a una pragmatica e vitalista (vedi polemica Russell – Dewey e analoghi scontri gladiatori per cui Crowe sarebbe un ottimo interprete, avendo già impersonato figure di sottili intellettuali del calibro di Nash).
Riepilogo in pillole delle avvertenze: a) rifiuto totale dell’intoccabilità di qualsiasi presunzione sacrale e del rispetto automatico delle Istituzioni, anche e soprattutto per le concrete conseguenze politiche, sociali ed esistenziali che quelle comportano; b) scontata soggettività, indipendenza e fallibilità delle letture dei dati e delle analisi.
Nota incasinante 01.
Sono sempre io, il filosofo ignoto. Continuo imperterrito a svelarvi i segreti di Pulcinella dell’universo intero a difesa e sostegno di un assetto liberal – comunista che considero un’alternativa da specie intelligente al presente declino, ma mi rifiuto di assumere un’aria seria e compassata: quanto sono andato e andrò scrivendo appartiene infatti a un novero di concezioni che (non posso farci niente!) mi appare assolutamente impossibile che non siano avallate e sottoscritte da qualsiasi operatore culturale che usi strumenti logici e razionali e siccome, in modo logico e razionale, trovo assolutamente inconcepibile che un operatore culturale riesca a destreggiarsi senza usare la logica e la ragione, in base alla logica e alla ragione mi rimangono aperte soltanto due possibilità: a) io sono pazzo, e dunque tanto vale che mi sbizzarrisca e disfreni i miei vezzi istrionici in modo da poter addurre l’alibi di una vena paradossale e artistoide al fine di evitare l’internamento forzato quando la situazione accelererà verso il peggio; b) le verità della mente filosofica e i mal di pancia profetici non importano più a nessuno, conta soltanto il valore politico ed economico immediati e il carico di conforto o di illusione di quanto viene proposto, quel contrassegno promozionale, affettivo, socializzante che purtroppo al mio orecchio suona parecchio ruffiano, quindi tanto vale che la butti subito nel divertimento un po’ provocatorio, così mi guadagno la clemenza delle lobby terrorizzate dal mio genio (un possente marchingegno che aspira e convoglia una enorme massa di consensi popolari) e non faccio la figura dell’ingenuo presuntuoso che pensa di vendere oro e possiede solo chicchi di semplice, comunissima pirite (eh, sì, come molti di voi, anch’io sono un pavone dalla magnifica coda di paglia).
Potrei aggiungere che, senza l’accredito di alcuna autorità accademica, già soltanto a trattare un certo tipo di argomenti faccio la figura dello svitato, quindi… vedere il punto a)
Nota incasinante 02.
Smentendo in parte la nota 01 (che noia la coerenza logica e razionale!), riprendo il dualismo Russell – Dewey per ribadire che rifletteva correnti di pensiero per cui alcune cose, non tutte, che sono bianche per l’una possono essere nere per l’altra e viceversa, miseria e imbecillità per l’uno, diventa dovizia e vivacità per l’altro (e viceversa), per cui, rassegnandomi all’inesistenza o inattingibilità di qualsiasi autentico fondamento solido e imparziale in grado di sostanziare la perenne chiacchiera umana, potrei anche rischiare di assumere un tono serio e compunto e deliberatamente partigiano, ma dovrei poter contare su qualche motivazione diversa da quella del semplice divertimento. A ogni buon conto, ne approfitto per riprendere un po’ di contegno e passare alla
Lezione sintetica 01
Certi dualismi, come quelli tra oggettivismo ‘metafisico’ o pensiero debole, tra laicismo o religiosità, individualismo o collettivismo, federalismo o centralismo, condivisione o autoritarismo, intuito o pianificazione e così via, nella totalità del loro intrecciarsi e coesistere sinergicamente, come anche nel loro contraddirsi, confondersi, sfumare e trasformarsi, fondano la sostanza e i caratteri naturali di ogni sistema di pensieri e opinioni, il quale, almeno in linea di principio, potrebbe essere classificato proprio in base al collocarsi da una parte o dall’altra in tutte le varie opposizioni. E’ ovvio che il complesso di dualismi è molto vasto e ciascuno potrebbe essere sviluppato gerarchicamente in un albero binario di affinamenti praticamente illimitati, ma ciò che qui interessa e per cui non sono necessari ulteriori ragguagli tecnici riguarda la natura assolutamente trasversale di queste connotazioni rispetto alla iscrizione politica e ideologica di ogni membro della comunità.
Il fatto che individui dotati di uno spettro similare di preferenze dicotomiche votino in modo contrapposto o che rappresentanti nettamente divergenti nello spettro appartengano allo stesso partito la dice lunga sul terreno cedevole e sconnesso su cui è impiantata la democrazia: se non esiste la malta degli interessi comuni, ogni partito si sfalda, mentre una visione ideale e non affaristica della politica richiederebbe un radicale rimescolamento dei protagonisti e delle appartenenze.
Il sistema monolitico cinese potrebbe allora fornire la prova che la rappresentanza politica ha poco o nessun senso senza modelli e progetti di riferimento: venuta meno l’utopia egualitaria (è ovvio ormai che, se la società cinese si differenzia da una qualsiasi società occidentale, lo fa per una serie di eredità, tradizioni, incidenze che non hanno più nulla a che vedere con una contrapposizione tra capitalismo e socialismo), le lotte intestine tra le correnti del partito unico replicano la dialettica conflittuale dei diversi partiti più o meno con la stessa trasparenza ed efficacia, ma molto minor dispendio di fondi e di energie, oltreché di falsità e ipocrisia.
Lezione sintetica 02
La democrazia intesa come sistema rappresentativo elettorale si è guadagnata grandi meriti storici per l’opposizione alle teocrazie aristocratiche e alle criminali dittature neuropatiche del fascismo, dello stalinismo e similari. Oggi è una istituzione logora e fasulla. Il voto viene deposto nell’urna in uno stato di confusione e indecifrabilità completa riguardo alle effettive capacità, possibilità e intenzioni della categoria professionale che riceve le preferenze.
Di progetti coraggiosi, dettagliati, articolati e di largo respiro nemmeno l’ombra. Di deciso attacco alle storture, ai privilegi, agli evidenti difetti d’impostazione primaria, non se ne parla.
Nessuna idea su come salvare gli atti legislativi dalle spinte e controspinte di lobby e controlobby, di come mettere al riparo i principi di competizione economica da comitati di affari, corporazioni, consorterie, logge religiose e malavitose.
Le stesse parole d’ordine e gli stessi richiami all’opera risuonano a intervalli fissi dopo che non hanno portato a niente per interi decenni o hanno generato soltanto danni.
I popoli e quindi, su scala planetaria (fatte salve le immancabili differenziazioni etniche , storiche e geografiche), l’umanità, portano la responsabilità più grave di questa situazione, dato che sarebbe assurdo accusare i meccanismi evolutivi e la competizione darwiniana d’inefficienza. Se un popolo, in quanto arbitro ultimo del funzionamento o meno della democrazia, si fa mettere i piedi in testa e ingannare dal Gatto e dalla Volpe, i candidati alla titolarità di quei piedi e del ruolo da gatto o da volpe accorreranno numerosi per una legge elementare quanto tassativa.
Se un popolo e in senso lato l’umanità non riescono a controllare il proprio destino politico attraverso una struttura legale e amministrativa adeguata alle proprie esigenze ovvero alla qualità della vita dei tre quarti inferiori (più o meno) in termini di censo, la chiamata a correo e il vilipendio morale delle minoranze opulenti, siano grandi burocrati, ereditieri, finanzieri o imprenditori, è del tutto patetica o inconcludente: chiunque al loro posto si comporterebbe nello stesso modo.
Lezione sintetica 03
La delegittimazione oggettiva e razionale (non etica, intendiamoci bene) di una politica priva di progetto si lega al declino inesorabile del valore della comunicazione ridotta a mezzo di sfruttamento affaristico (tale è anche, ormai, qualsiasi intento, proselitismo o interesse partitico o religioso che non sia progettuale) o, nella migliore ipotesi, di puro intrattenimento privato. Anche quando il libero utente se ne appropria accogliendo l’invito dei più abili manipolatori del desiderio diffuso di condividere idee ed esperienze, rimane molto difficile per le caratteristiche proprie del mezzo (il medium è il messaggio!) eccedere i limiti della mera manifestazione antropologica o perfino tribale.
Esiste una dimostrazione ‘matematica’ (gedankenexperiment!) dell’inversione dei valori operata dall’attuale società dello spettacolo ed è quella che si ottiene immaginando che due matematici (senza virgolette) si affrontino in televisione discutendo sulle caratteristiche di un fantomatico teorema la cui verità comporterebbe conseguenze di primaria importanza anche nei confronti di coloro, ovvero la stragrande maggioranza degli spettatori, che non capiscono nulla degli aspetti tecnici di tutta la faccenda.
Chi padroneggiasse meglio la difficile materia al punto da ritenere inconfutabili le proprie conclusioni, che supponiamo già certificate da una comunità competente, ma ristretta, di colleghi, assumerebbe probabilmente l’area dell’arrogante e del dogmatico, mentre quello più incerto, ma per qualche motivo contrario al verdetto scientifico e neppure in possesso dei requisiti indispensabili per contestarlo o accettarlo a ragion veduta, non appena trovasse l’alleanza di un pubblico poco disposto ad accettare il monito di certe sgradevoli conseguenze e fosse appena un po’ abile a dissimulare le debolezze e ad avvalersi di argomenti speciosi, apparirebbe molto diplomatico, tollerante, flessibile, quindi, in quanto più umano e democratico, meritevole di miglior fede.
Lezione sintetica 04
In effetti, oggi, in video, quando il dito indica la luna quasi tutti gli utenti o naviganti o spettatori guardano il dito. Non si segue più di tanto le linee o il tenore di quanto viene affermato e argomentato, prima di tutto si pesa il prestigio e la dote di successi, poi si scruta più o meno consciamente la personalità e il volto dell’estensore, si controllano i suoi tic e le sue sudorazioni, si valuta la qualità estetica della presenza e dell’eloquio, se la voce è salda e bene impostata, lo sguardo non sfuggente, ci si interroga sugli scopi, sul cui prodest, su chi o che cosa sta dietro, si valuta se quanto viene detto può essere utile o meno a determinati sistemi di opinione, nodi d’interesse, compagini di rappresentanza, si spiano i contrassegni ideologici e i più diversi tratti identificativi.
Il giudizio conclusivo che ne emerge è in genere il contrario di quello che sarebbe utile: soccombe chi ha una percezione chiara delle problematiche in campo, ma, per l’impossibilità di approfondire e le chiusure mentali degli altri, non dispone degli strumenti di trasmissione adeguati, e soccombe anche colui che, percependo chiaramente la forza degli ostacoli e delle perplessità, non possiede l’arte diplomatica della dissimulazione e del taroccamento.
Tutto ciò è ampiamente risaputo dagli operatori, osservatori e analisti più attenti, i quali, in genere, mentre continuano a menare la tiritera della democrazia come metodo imperfetto quanto imprescindibile ed elevano retorici appelli alle virtù individuali e civili di coraggio, ottimismo, tenacia, perlopiù si dedicano professionalmente a elaborare trucchi psicologici e trappole estetiche e cognitive, optando di fatto per il dispotismo soffice e persuasivo di una miscela di tecnocrazia, teocrazia e aristocraticismo, esplosiva per il pianeta e per l’umanità.
Come si evidenzia subito e il titolo dichiara senza alcun pudore, mi preoccupo sempre meno di una leggibilità e godibilità vaste e popolari, nondimeno cercherò di essere il più possibile chiaro, spregiudicato ed esplicito nell’attaccare le mitologie culturali e i vizi di pensiero, spesso, se non sempre, deliberati, volontari, studiati e infine artefatti, di quelle élite a cui il presente prodotto deve forzatamente limitarsi con poche o nulle possibilità di captarne la riverita udienza.
Dette élite, infatti, troppo allargate, annacquate, disciolte e ormai inconsistenti (al punto che il concetto stesso è assai ambiguo e precario), volendo anche tacere le mie moltissime e palesissime indegnità, mentre in epoche gloriose (secoli e secoli fa) intortavano e vezzeggiavano e blandivano, in mezzo a tutta una fitta e variegata zoologia di corte, il pappagallo artista, la gattamorta filosofo, l’orsacchiotto musicista o il galletto scrittore, oggi si trastullano soltanto con la bestia più amabile, sorniona e malleabile che la storia umana abbia mai partorito, sto parlando del popolo sovrano.
Stranamente, si tratta di una possente, sterminata creatura quasi mitologica, dai confini non ben definiti, che potrebbe divorare l’intero corpo mandriano in un solo boccone, ma poi, dato tempo al tempo, morirebbe di fame, allora si contenta di lasciarsi pascere solo attraverso la perizia zootecnica dei pastori di Dio, la quale cosa ultima può servire a delucidare i miei biografi sul perché mi stia applicando da autodidatta agli studi sacerdotali.
Lezione sintetica 05
Più che di élite, si dovrebbe parlare di blocco dirigente, a sua volta assai stratificato e disomogeneo, con propaggini che sprofondano nel corpaccione obeso del cosiddetto popolo e vi succhiano linfa e nutrimenti instillandovi nel frattempo veleni più o meno soporiferi.
La vastità dell’identificazione con il blocco dirigente in termini percentuali (più o meno il 50%, ma in condizioni normali basta molto meno, se gli squilibri non sono eccessivi) determina il livello di resistenza e stabilità sociale.
All’élite, per continuare a usare il vocabolo più comodamente espressivo e sintetico, la scienza e la cultura convengono solo per gli aspetti pratici e operativi, mentre, tradotte in forme di hobby terapeutico, igiene mentale e orientamento filosofico di base, manifestano aspetti pericolosi e defatiganti che difficilmente si accordano oggi con le esigenze di carriera e il mantenimento di privilegi sempre più risicati e precari.
Si deve poi considerare che un popolo, per essere governabile a prescindere dagli strumenti usati, deve organizzarsi come una collezione di individui a pensiero condizionato e limitato, quindi non meri numeri sommabili gli uni agli altri (fino a comporre la massa critica esplosiva) e nemmeno individui pensanti tout court.
La religione costituisce ovviamente lo strumento principe per disporre le cose in modo che il singolo membro di una comunità, pur non sentendosi un numero, ma una persona, anche per un criterio di equilibrio interiore (la pace dell’anima) non pretenda eccessiva e superba autonomia.
Internet raccoglie tra l’altro i conturbanti canti di sirena di coloro che scoprono quanto può essere interessante e divertente l’informazione e la cultura, ma rappresenta anche un serbatoio in cui le dinamiche sociali affondano e si stemperano come nella camicia di raffreddamento del nocciolo di una centrale nucleare.
A ognuno i propri compiti e le proprie ambizioni, una società prospera, se prospera, anche grazie alle briciole e agli scampoli di ragione che ognuno raccatta qui e là e quando non si riesce a cantare nel coro o a sgambettare e ancheggiare nel balletto di fila si cerca di vendere particolarità e differenze contemperando lo spirito di novità con l’istinto di omologazione, secondo una regola d’oro o di rame o di legno del marketing più smaliziato e troione.
In un certo senso sto gettando la maschera e dichiarando l’intera operazione una sorta di paradossale acrobazia dialettica, non fine a se stessa, almeno così mi auguro, ma masochisticamente dispiegata nella causa persa di richiamare l’obbligo almeno teorico di una nuova oggettività, un tipo di realismo che purtroppo non può che risultare tanto più sconcertante, equivoco e problematico, quanto più si dimostra lampante, ineluttabile e perfino ovvio.
E pensare che la bozza di progetto è ancora lì, potreste anche accorrervi trafelati e abbracciarla piangenti trovandola magnifica e toccante, ma tant’è, è un fiore profumato in mezzo al deserto più torrido, non incontra, non ha mix appeal, per cui (sospirone) una voce divina mi comanda di continuare a ricamarci intorno in attesa di tempi migliori (dell’araba fenice che accetti d’incenerirsi planandoci sopra a gradi sessanta e poi risorga e riprenda a volare portando nel becco la mirabile corolla?).
E io ricamo perché non posso disobbedire (e chi può disobbedire al Determinismo? Un Dio onesto, leale, sincero, che non ti consente di sgarrare, mica come quell’altro che fa inorgoglire la miserabile schiatta con miraggi di libertà, poi mette in bella mostra l’albero delle mele che affida al finto rivale (avete mai sentito la storia del poliziotto buono e di quello cattivo? Non capisco perché non la sfruttano nei film!) e poi ti molla un sonoro calcione / urlandoti “Fuori, barbone!”)
Uso a obbedir tacendo, devo sottostare a un fiotto logorroico, un accesso di lambiccata facondia, una ulteriore impellenza erogativa che è molto meno pianificata e orchestrata di quello che appare, trattandosi perlopiù di scrittura d’impulso, di getto e, appunto, a comando, un patografismo (ué, se usate il termine, ricordate che l’ho inventato io… spero) che quando viene, viene, dura qualche ora o qualche giorno e dopo mi costringe alla noia infinita dei ritocchi, delle rifiniture, delle messe a punto.
E pensare (mi sembra di avere appena usato questa espressione per cui dovrò modificare il lancio del paragrafo) che Lui mi fa apparire il tutto come una sorta di paranoia autoinferta, mentre non sono che il suo pupazzo e il suo ventriloquo insieme.
Lezione sintetica 06
A grandi linee, il determinismo che capta se stesso ovvero l’universo che sviluppa al suo interno nuclei di coscienza, fedele e potente nei limiti del consentito, si basa su un modello di funzionamento sviluppato dall’intreccio di due strategie fondamentali: a) la legislazione di un insieme di principi basilari, semplici e tassativi; b) la combinatoria mobile di un insieme quantitativamente molto esteso di oggetti, relazioni, interazioni. Le leggi permettono al caos di strutturarsi e realizzare qualcosa di simile all’estrazione a sorte incessante dei singoli stati globali di un computer cosmico che calcola se stesso in analogia alla tabella di trasformazione che in un automa a stati finiti regola il passaggio da una configurazione interna all’altra: se si eccedono le capacità di calcolo del sistema - coscienza, al modulo individuale che funge da osservatore cosmico causalità e casualità appaiono collaborare, perfettamente sovrapposte e indistinguibili, condizione indispensabile all’illusione del libero arbitrio e dell’autonomia spirituale. Le regole costruttive, le norme statutarie, per così dire, di un universo che ammetta isole di autocoscienza, da quanto possiamo dedurre in base alla nostra posizione, comportano vincoli di complessità per cui viene sancito il divieto di certezze e risulta impossibile procedere oltre i riscontri statistici se non in limiti e condizioni molto particolari, variabili secondo il contesto. L’universo trascende se stesso nonché qualsiasi tipo di coscienza che in esso si genera ed è impossibile concepire razionalmente meccanismi attraverso cui una totalità possa decidere circa la propria evoluzione.
Il cappellino con la veletta e i fiorellini ve l’ho mostrato, adesso devo cominciare il compitino vero.
Non esiste un modo facile d’invertire un collasso traumatico che oltretutto risulta ancora ipotetico e che solo quando diventerà irrimediabile si rivelerà alla fine per quello che veramente è (se lo è).
Primo o poi lo sarà, ma quando?
Bisognerebbe intervenire per tempo, muovendosi in parte alla cieca, sopportando un deficit d’informazione insormontabile, ma chi ha il coraggio di rimettersi in gioco rinunciando ai propri attuali e relativi sicurezze e vantaggi senza quella visione chiara e definita che soltanto potrebbe derivare da una impossibile illuminazione divina?
Ciò gioca a favore di quella rinunciataria condiscendenza al declino in cui consiste ogni riformismo timido e marginale.
Sono stato troppo diretto, il passaggio è troppo brusco? Magari ci lavorerò in seguito, adesso continuiamo.
La fine delle illusioni è anche la fine dell’umanesimo, così come la fine dell’umanesimo (da non confondere con l’umanitarismo, che rimane comunque una scelta morale ambigua e controproducente se non è suffragata da alcune basilari avvertenze e cognizioni) è la fine delle illusioni: eh sì, l’uovo e la gallina, tanto per cambiare.
Secondo quello che definirei un mio fondamentale presupposto, in un mondo intricato e difficile, la semplicità di qualsiasi tipo assume le forme di un’oscura chimera, collude con l’allettamento e il raggiro demagogici, sconfina nel capzioso e interessato semplicismo.
Detto da me, può suonare opportunistico e giustificatorio, ma forse è semplicemente lapalissiano.
Intendo comunque, se non dimostrare, perlomeno instillare il sospetto che sotto il rifiuto dell’intellettualismo e del cerebralismo che pervade la spensieratezza di una millantata e posticcia civiltà del benessere si nasconda una insidiosa degenerazione antropologica incoraggiata dal nuovo tipo di dispotismo morbido e proteiforme che sta anestetizzando le società occidentali.
Quello che s’induce a rifiutare non è in realtà l’intellettualismo o il cerebralismo, ma l’uso di una intelligenza critica effettivamente corrosiva e le capacità analitiche che possono smascherare i condizionamenti e le autocensure attraverso cui le nuove oligarchie possono risparmiarsi i metodi repressivi più virulenti e brutali fingendo di gestire una forma autentica di democrazia partecipativa.
Questo modo di argomentare e in particolare il tipo di lessico usato può apparire assimilabile a un ribellismo anarcoide o a opzioni di politica sovversiva, ma in realtà nasconde una ben diversa impostazione di fondo, che definirei più che altro antropologica, morale e culturale.
Nota incasinante 03
I miei interessi operativi, uscito dall’orizzonte delle possibilità ogni esercizio scientifico o matematico, vertono attualmente e forse ormai definitivamente sulla produzione simbolica e filosofica, gratuite in ogni senso. Sono un monaco al quale interessano solo la verità e le litanie con cui il pastore errante manda serenate d’amore alla Luna cercando di richiamarne l’attenzione. Dovrebbe esserci una struttura ecclesiastica o civile che finanzia la mia vocazione, ma appartengo a una religione che attualmente, oltre a me, conta un numero di adepti pari a zero, il che (ma verificherò!) mi impedisce di accedere all’otto per mille.
Mi struggo dalla rabbia (ahimè, non sono mai stato un fraticello estaticamente serafico!) a pensare che entità angeliche come i numeri (avete mai pensato che un libro alla fine non è altro che un numero? Che proprietà deve avere un numero per corrispondere a un libro geniale? E se il libro è mediocre, che tipo di correlazioni matematiche decadono per prime?) contano veramente tanto solo come misura della stupidità.
Forse l’ultima frase non la dovevo scrivere, è presuntuosa e ingiusta, più avanti la cancellerò sicuramente.
Comunque sia, non sono il sistema politico e i particolari assetti di finta democrazia velatamente e furbescamente autoritaria a suscitarmi una particolare e decisa avversione, non le ingiustizie che da sempre e quasi automaticamente si legano al predominio di un gruppo, minoritario o anche maggioritario, su un altro in qualsiasi tipo di società: è la gigantesca ipocrisia e malafede che insiste in una falsificazione sistematica dei fatti, quando le semplici condizioni di esistenza di qualsiasi metodo razionale richiedono di fissare pochi capisaldi che sono sistematicamente ignorati o fraintesi oppure ben conosciuti e taciuti.
E allora ecco alcune domande.
Si può parlare a nome del popolo e nel frattempo considerarlo a torto o a ragione una collezione di individui sempre più risucchiati dalle incombenze spicciole e sempre meno presenti dal punto di vista di una effettiva consapevolezza culturale?
Possono società evolute come quelle attuali oscurare e misconoscere verità filosofiche elementari e incoraggiare e addirittura assolutizzare una ignoranza di massa fondata sulla baraonda e il cicaleccio mediatico?
Può una democrazia fondarsi sulla quasi assoluta mancanza di cognizioni di causa intorno alla natura del mondo fisico, biologico, mentale, esaltando la vitalità fasulla della convenzionalità ritualistica che traspare dalle credenze più diffuse, non solo religiose, e dallo squallido spettacolo inscenato dalla maggioranza dei media?
Si può blaterare di diritti, doveri, empatia, solidarietà, altruismo e compagnia bella promuovendo nel frattempo una immagine caricaturale e pretenziosa dell’umanità che prescinde completamente dai contraccolpi tremendi che l’ambiente planetario sta subendo e dai rischi a quelli connessi?
Può una qualsiasi etica, per quanto minimale, fondarsi su quel tipo insidioso di mistificazione che, capitalizzando a fini ideologici una complessità che cresce vertiginosamente sia a livello gnoseologico (sviluppo delle conoscenze) che organizzativo (proliferazione dei nodi strutturali), disdegna sempre più qualsiasi tentativo di sintesi e controllo delle conoscenze obbiettive, accetta la babele dei linguaggi e intanto sostituisce a una disorientata e perfino allucinata volontà comune i diktat teocratici e le formule imperative che s’insinuano nelle pieghe e nei dettagli di una quotidianità che più viene esaltata, più diventa eterodiretta e condizionata dall’alto?
Nota incasinante 04
Una volta, i protagonisti dominanti della pubblicità appartenevano a gente comune circondata da quegli spaziosi, fulgidi orizzonti di libertà e felicità di cui il prodotto appena acquistato condensava un talismano simbolico, nunzio, se non proprio di promozione immediata, almeno di ottimo, ottimissimo auspicio.
Oggi gli spot, che balenano dagli schermi metafore interpretative e illuminazioni freudiane della realtà sociale, sono popolati da semidei (automobili, tecnologia, moda, cosmetici) oppure da eroici guerrieri che resistono alle avversità in futuristici caos formato Mad Max o Blade Runner.
L’immagine del guerriero, esplicita o subliminale, evidentemente non è più considerata una induzione metonimica pericolosa, indice che le cosiddette masse non vengono ritenute in grado di suscitare movimenti bellicosi di qualsiasi genere (più avanti deluciderò meglio la mia visione del pacifismo attuale e della comunanza tra i popoli).
E qui nasce un altro problema: il mondo sta passando sotto il controllo di quelli che definirei i ‘vincenti ignoranti’: persone forti, vivaci, iperattive, con grande intelligenza istintiva e ‘due palle grosse così’ che, studi ufficiali a parte ma sovente compresi, non hanno mai letto un libro per intero in vita loro e per un’ottima ragione: li avrebbe danneggiati anziché favorirli. Persone del genere esercitano una formidabile influenza da idiot savant, agguerrite come sono nel proprio campo particolare e nella società in genere (dove fanno valere il proprio particolare successo), ma con certe ‘membra cerebrali’ completamente esili e perfino rachitiche, per il semplice motivo che non le hanno mai allenate.
Se si parla di ossa e di muscoli, tutti convengono spontaneamente sulla necessità di un tirocinio ginnico che li mantenga tonici, parlando di processi psicologici e mentali, invece, si ritiene generalmente sufficiente il normale uso quotidiano.
E’ incredibile con quanta facilità le persone rinunciano al potere della mente e rimangono invece tenacemente aggrappate a quello del ruolo, del danaro, delle pubbliche relazioni, della particolare etica comunitaria a cui aderiscono (ce ne sono di diverse e spesso contrastanti, a volte antitetiche nonostante un’apparente conformità di linguaggio) e che si astengono dal sondare con metodi di verifica individuale accontentandosi dell’autorità dovuta al numero, alla convenzione, allo spirito di appartenenza.
E’ autentica democrazia efficace quella di esseri che pensano solo attraverso il filtro degli interessi, del censo, del ruolo, dell’ambiente che li ha educati e li sostiene, della fede inalata in giovane età o comunque in situazioni di dipendenza?
Lezione sintetica 07
Il relativismo gnoseologico si evolve naturalmente o nel fideismo o nel tatticismo, che per molti rimangono sinonimi. Un modo di asserire che cerca di avvicinarsi a una verità oggettiva e indipendente si carica dell’onere della prova e quindi si consegna spontaneamente e onestamente nelle mani dei verificatori. Invece, le formulazioni che programmaticamente si arrendono alla metamorfica e caotica realtà, mentre fingono modestia e rassegnazione, per non cadere nell’arbitrio totale devono rivendicare un valore pragmatico, ma non esiste pragmatismo al di fuori di una cornice ideologica molto precisa e stringente.
Assumendo la posizione di un relativismo assoluto, per cui ogni pretesa di scientificità è condannata a risolversi in una pura illusione (tesi che, come minimo, trova un limite e un rigetto nei fatti incontrovertibili della tecnologia), ogni argomentare si presenta sotto mentite spoglie, avanza camuffato da agnello possibilista e accomodante, ma rivela prima o poi gli artigli e le fauci del leone politico.
Ovvio , signori, lo so anch’io, sto parlando di situazioni umane connaturate alla semplice esistenza di qualsiasi tipo di struttura sociale, pervasive, proliferanti e inevitabili, ma il mio sospetto è che in certe nazioni in crisi tra cui l’Italia di oggi, la chiusura totale di angoli della personalità che tendono a rimanere in parte aperti e ricettivi e la misura quantitativa di tali fenomeni stia superando o abbia già superato i livelli di guardia.
Come sempre, si tratta di percentuali, fisiologiche o patologiche, ordinarie o allarmanti.
Possedere un indocile spirito di accertamento e di verifica rappresenta spesso un handicap e non un ausilio all’interno del normale trambusto operativo e sotto l’occhio vigile di gerarchie, spesso interiorizzate, che curano soprattutto, non necessariamente a torto, la fedeltà ordinata e l’inquadramento secondo modelli ufficiali.
Ed è sempre la stessa menata: se spingi appena un po’ più a fondo lo scandaglio, se eccedi nel frugare e nell’ispezionare chino sulla lente, se non ti accontenti delle fandonie ufficiali che la gente si racconta per grattarsi vicendevolmente il copino e scambiarsi le fusa, ti aspetta già bell’e pronta la patente di esibizionista frustrato, te la prendi e non te la levi più di dosso, perché hai contravvenuto al comandamento che ammonisce: primo non disturbare i meccanismi della socialità autorizzata. A quel punto, ti rimane una sola alternativa: o consegnare le scuse ufficiali magari con qualche artificio diplomatico o diventare animale da spettacolo, che morde e fustiga ammiccando e divertendo, quindi offrendo al potere un servizio più gradito della resa con consegna delle armi: contribuisce infatti alla sterilizzazione completa e all’addomesticamento delle idee attirate dalle terre selvagge a una visitatissima gabbia per bestie esotiche e feroci. Ve lo immaginate oggi un rivoluzionario che incita le folle con le stesse parole, le stesse immagini, lo stesso moralismo assennato del comico satirico che va in prima serata e dei milioni e milioni di fustigatori che sparano su internet le loro invettive e ricevono il plauso sincero e divertito di sconosciuti che non hanno mai visto? E chi sarebbero poi le truppe? Quegli stessi fustigatori che gongolano per come hanno scaricato bene la loro rabbia?
Almeno il comico può contarsi e ricontarsi i suoi cospicui introiti.
Nota incasinante 05
Provate poi a sguinzagliare come rivoluzionari incazzati sulle piazze della riscossa i giovani esploratori delle web comunity che possono ridurre il mondo alle dimensioni di una schermata e imperarci dall’alto della propria perspicace e sedentaria intelligenza, veloce come la luce o quasi nel raccattare dovunque per il mondo storie interessanti e coinvolgenti.
Le rivendicazioni veementi sono roba antica, vecchi appannaggi di studenti spaesati e avviliti che bazzicavano per disperazione quelle mostruose concentrazioni di frasi fatte e di tedio rugginoso che erano ai bei tempi i comitati politici e le riunioni dei collettivi. C’è qualche nostalgico dell’autentica socialità che ha l’ardire di sostenere che la concreta interazione umana, rapporti sessuali a parte, contiene più vitalità e intelligenza dell’universo virtuale? Se c’è, lo invidio, deve essere un membro del Mensa club (ma questi geni sono poi veramente così interessanti?) Uno che si coinvolge in argomenti non banali e aspira ad approfondirli, con un po’ di quella voglia e pazienza che a me manca trova interlocutori adeguati al computer, ma provate a cercarli nella vita comune se non nutrite un particolare interesse per il papa e la gastronomia, l’accoppiata assolutamente vincente.
E siccome alla fine io sempre lì vado a parare (potreste capire meglio, più avanti, il perché di certi collegamenti) vi dirò francamente qual è la mia teoria circa l’abnorme diffusione delle pratiche religiose nel mondo moderno: a dispetto dell’enorme quantità d’ingegno devoluta in campi settoriali specifici e nei duri cimenti individuali, le società umane, appena esorbitano dalla dimensione di un’azienda e si allontanano dalla pratica politica e giurisprudenziale di routine, si riconoscono inconsciamente impotenti e quindi non trovano di meglio che affidarsi al volere di Dio, cioè abbandonarsi fiduciose nelle braccia del Determinismo.
Sì, perché (e dagli!) dovete sapere (o cazzo, ma ormai l’hanno capito! Eh, no, cazzo! Cominciano a leggere da qui, mica dalla prolusione successiva! Chi? Boh!) che l’unica nozione non totalmente illogica e indeterminata di Dio coincide con la nozione classica, riveduta e corretta alla luce delle più recenti scoperte scientifiche, di Determinismo, asserzione che tutte le persone istruite e abituate a ragionare intuiscono con facilità, anche se si astengono per una varietà di motivi dal puntualizzare quello di cui vi fornirò tra poco una dimostrazione, semplice e inconfutabile quanto assolutamente inutile.
Incidentalmente vale la pena di osservare come, di pari passo a un raffinamento progressivo del concetto, proprio le formulazioni scientifiche avanzate che permettono di costruirsi una cognizione molto più sofisticata (che cancella le caricature precedenti) di ciò che, in termini antichi, potremmo coloritamente chiamare Fato sono state fraintese e addotte a pretesto (da una pubblicistica desiosa di vasti consensi umanistici) per contestare il concetto stesso e aprire praterie di plausibilità alle correnti spiritualiste.
Forti equivoci ha pure ingenerato un uso specializzato del termine ‘probabilistico’ come sinonimo di ‘non deterministico’, accezioni che sono corrette in ambiti tecnici specifici, ma che non hanno niente a che vedere con termini filosofici più generali attinenti alla causalità scientifica.
Lezione sintetica 08
Lo stesso fenomeno della singola coscienza può essere attualizzato e tematizzato soltanto al di fuori del flusso funzionale, nella sua enigmatica qualità di epifenomeno soggetto, in ambito umano, a una ri-creazione anche linguistica e culturale. Alla mente appare strano dipendere interamente da un substrato di oggettività corporale su cui non può influire, ma accade proprio perché, in un certo senso metaforico, è stata costretta a uscire dal mondo per percepirsi come controparte dello stesso atto evocativo.
La coscienza funzionale, calata nell’operatività fisiologica, si lega agli stati emotivi, a sensazioni e avvertimenti come fame o dolore, ed è la coscienza zoologica che lo spiritualismo giudica non problematica e che in realtà è problematica esattamente come la coscienza superiore in un’accezione gerarchica – funzionale del termine.
Problematizzando la coscienza puramente animale salterebbe tutto il sistema delle religioni, le quali devono dunque procedere a una ‘riduzione’ del regno vivente.
Riduzionista (in un senso polemico, più che filosoficamente appropriato) è la religione, non la scienza.
Lezione sintetica 09
Analogamente a come, già da millenni, la quantizzazione della materia e forse anche un qualche primordiale, oscuro principio d’indeterminazione avrebbero potuto imporsi come necessità consequenziali sancite dai paradossi di Zenone (tradotti magari nell’intuizione della problematicità sia di numeri finiti che di numeri infiniti applicati alla misura dei fenomeni), l’identificazione tra Dio e Determinismo poteva benissimo imporsi fin dai primordi di ogni civiltà e non restare limitata alla sapienza greca. Si è preferito invece porre l’universo nelle mani di potenze esterne all’universo medesimo e tali da poterne decidere le sorti come se si trattasse di un loro giocattolo, soprattutto perché occorreva subordinare il pensiero logico e scientifico alle farneticazioni sacrali e alle credulità superstiziose imposte dagli interessi dominanti, spesso in conflitto tra di loro.
La meccanica quantistica è ontologicamente probabilista, ma il mondo che descrive è assolutamente deterministico (altrimenti sarebbe il mondo incantato delle fiabe). Una possibile conciliazione delle due prospettive è offerta dalla concezione di Bohm (da non confondere con Bohr), che merita la stessa considerazione di ogni altra interpretazione avanzata finora, compresa quella ortodossa di Copenhagen (cosiddetta).
Del resto Bohr (da non confondere con Bohm) era determinista come Bohm (da non confondere con Bohr).
A prescindere dalle tesi sposate, ogni offesa del senso comune deriva dal volersi attenere a un realismo, descritto da un’algebra logica classica, per cui vale, per esempio, il principio di località, mentre i fenomeni quantistici obbediscono a un altro tipo di logica.
Determinismo e località non sono sposati: se lo erano, hanno divorziato.
Evidentemente una visione scientifica unitaria mostrerà pecche e incompletezze finché non riuscirà a saldare i due punti di vista, ma si può già escludere al 100% l’esistenza di contraddizioni insanabili nelle cui pieghe possa insinuarsi qualsiasi tipo di intervento magico o divino (che poi sono la stessa cosa).
Non posso insistere su questi tecnicismi, intorno ai quali, tra l’altro, non sussistono accordi univoci tra gli addetti ai lavori, sia perché non mi rivolgo a cultori della scienza in particolare, sia perché dovrei andarmi a rivedere una marea di testi che ho letto in passato e oggi ho in buona parte dimenticato (mi paga lei, signore? Come dice? Non è una maniera seria di argomentare? E chissenefrega! I concetti sostanziali che ne dedussi erano quelli e sono abbastanza sicuro che valgano tuttora, mi dia pure del cretino se vuole e se ne vada da un’altra parte).
Ehi, cari sciocconi dei miei fan club, non adombratevi, sto già rivedendo le mie vecchie sottolineature e, se mi viene qualche nuova idea, ve lo annuncerò con i dovuti squilli di tromba e il commovente entusiasmo del dilettante assoluto.
Nota incasinante o lezione sintetica 10
Ricordo che (ma devo verificare) dal mio bazzicare in qualità di zuzzurellone culturale in mezzo a queste esotiche faccende trassi a suo tempo l’impressione di una grande enfasi pulviscolare non so quanto sollevata ad arte da questa o quella parrocchia.
Una volta stabilito il fatto abbastanza ovvio dell’impossibilità di raggiungere determinati gradi di precisione nell’accertamento dei fenomeni (facendo parte del mondo, non possiamo adottare strumenti ultramondani per indagare il mondo), con la mia tipica rozzezza eretica e facilona ritengo certe stranezze del tutto inevitabili e appunto naturali.
Anche la questione se la probabilità sia ontologica o cognitiva mi sembra (e qui probabilmente mi sputtano, ma in ogni modo, per i miei fini, cambia poco) enormemente sopravvalutata: che differenza c’è se la ruota dell’estrazione sta continuamente girando o resta ferma con esposta un pallina provvisoria, se comunque poi, alla prima interazione, dovrà ricominciare a girare estraendo una nuova pallina? Che cosa determina in effetti la violazione della disuguaglianza di Bell?
Veramente strano è che la Natura non ci abbia posto un divieto assoluto, ma ci abbia consentito l’accesso attraverso particolari artifici.
Il teorema KAM, quello sì è stupefacente, nel suo legare la stabilità del sistema solare a numeri con decimali infiniti, ma sembra che qualche problema in merito sia emerso.
Nel passare dal microcosmo al macrocosmo, dagli apparenti paradossi dell’indeterminazione quantistica alla finta perspicuità del vecchio determinismo classico, cambia la categoria logica e la tipologia di simmetrie funzionali che coinvolgono il tempo: l’una dipende dall’altra e/o viceversa? E come e dove avviene il passaggio?
Forse è solo per ignoranza o per smemoratezza che, nelle mie ricognizioni a volo di uccello (molto alto e veloce) delle varie teorie di grande unificazione, mi sembra di non aver mai incontrato un esplicito riconoscimento di un fatto epistemologico così basilare.
Di certo, sarà già stato abbondantemente rimarcato, mi stupisce comunque che non si parta proprio da lì nel cercare una strategia di approccio e invece si sia proceduto da idee particolari senz’altro ingegnose, ma, come dire… poco einsteinianamente euristiche, come le stringhe multidimensionali.
Ripeto: probabilmente si tratta di ignoranza o smemoratezza di cui mi assumo tutte le colpe.
Quanto al rapporto tra intelligenza e intellettualismo, ritengo che non esiste intelligenza che non sia in qualche misura ‘intellettualistica’ (nel senso di virtuosistica, compiaciuta, un po’ esibizionista) nel proprio campo specifico (ricordo che il termine ‘intelligenza’ va relativizzato a uno specifico campo di azione, che esistono tante ‘intelligenze’ quanto sono le diverse attitudini umane e che l’intelligenza che qui si sta cercando di esercitare è di un tipo che potremmo definire ‘analitico in modo basale, preliminare, autoreferenziale, panoramico, interdisciplinare e via di questo passo’, ovvero, detto con un termine più sintetico e generico, filosofico.
Proprio l’intelligenza filosofica, in nome di una più rassicurante e ossequiosa specializzazione, è stata soggetta al maggiore ostracismo da parte dell’opinione pubblica corrente e non a caso: proprio l’intelligenza filosofica, infatti, può agire da trait d’union tra le tante diverse intelligenze (si potrebbe anzi adottare questa sua prerogativa a titolo di definizione non esclusiva) e in quanto tale può rappresentare un autentico pericolo per le nozioni e i modi di pensare più funzionali all’ortodossia imperante; questo avviene in effetti se riesce a dimostrare (fatto che rimarrà sempre in qualche misura opinabile se non trova qualche saldatura con la conoscenza scientifica e la logica matematica) che gli assetti operanti mostrano vasti segni di logoramento e stanno imboccando vie molto pericolose a prescindere da ideologie, interessi, emozioni.
Ovviamente il grado di questa pericolosità potrebbe essere valutato dall’osservatore contingente solo in termini di probabilità e i valori sufficientemente precisi o comunque bene approssimati di fatto non può conoscerli ancora nessuno, per cui non sapendo nemmeno, con l’auspicabile sicurezza, se la probabilità di una catastrofe globale entro i prossimi cento anni (per andare al punto nel modo più diretto e grossolano possibile) sia (tanto per dare un’idea) meno dell’uno per cento o superiore al 10 per cento, diverse linee di azione, anche opposte tra loro, rientrano in criteri di congruità razionale.
Perfino il completo immobilismo può contare su qualche punto a suo favore per il semplice motivo che, in quest’ordine di questioni, riforme all’acqua di rose non servono a un bel cavolo di niente, mentre interventi radicali comportano una componente di rischi sistemici e opzioni peggiorative che rimane inevitabilmente più elevata di quello che sarebbe desiderabile.
Però, al riguardo, sussiste una ulteriore questione che non si può fare a meno di considerare e che introduco con la seguente domanda : chi decide se, per risolvere i problemi di un sistema politico in crisi, bastano marginali ritocchi o necessitano drastiche ristrutturazioni?
Risposta ovvia e incontestabile (che vale anche in caso di rivoluzioni sociali dopo che i nuovi direttivi si siano insediati senza aver ricevuto in via preliminare e tassativa mandati specifici dalla volontà popolare): quelli che il sistema ha premiato e sta premiando.
Ecco, in sintesi, una causa tutt’altro che secondaria dei ritardi che, aggirando le più drammatiche urgenze, subisce qualsiasi tipo d’intervento anche in caso di palesi segnali di allarme.
Soluzioni pratiche e fattive a questo tipo di problematiche non esistono, potete tranquillamente mettervi il cuore in pace, esiste però un generale atteggiamento filosofico (appunto!) che ci potrebbe aiutare e che in sostanza potremmo suddividere in due istanze fondamentali: l’assunzione del giusto modo di pensare, il solo esistente, quello basato sulla metafisica della realtà, uno e, due, una volontà di progetto drasticamente innovativo da elaborarsi in via preventiva o almeno come dotazione di riserva in caso di avvento di disgraziate evenienze che, alle scadenze prefissate, di certo manifesteranno accelerazioni improvvise assolutamente sorprendenti e imprevedibili.
Questo pessimismo vi disturba? Peggio o meglio per voi, signori. Avrei voluto limitarmi al ‘peggio’, ma devo confessare che, se non vi discostate molto dalla mia età, ritengo la probabilità di vedere cose veramente brutte alta, ma inferiore al 50%, per cui, prosit, e godetevi il vostro ottimismo. Vi pregherei soltanto di non spacciarlo come un valore etico sovraindividuale soprattutto nei confronti dei più giovani, perché tale non è e non sarà mai. La pretesa di elevare lo statuto di tanto benefico coadiuvante della singola vitalità, di questo massaggio mentale del competitore economico, a bene pubblico da incoraggiare e diffondere è assolutamente stramba e fuori luogo, se non francamente dannosa.
L’ottimismo di una compagine sociale ha senso in assenza totale di conflitti, quindi, se qualcuno ritiene che, nonostante un 100% di smentite da parte dei riscontri storici effettivi, una tale società sia meno utopistica del progetto Colib, si accomodi sul palcoscenico, si dimeni nelle giuste pantomime e cerchi, da nobile benefattore qual è, di disegnare un sorriso invariabile e plebiscitario sulle bocche della gente, altrimenti concedetemi di subodorare che, perlomeno in un plausibilissimo futuro di penuria delle risorse basilari, le ragioni di ottimismo di un gruppo debbano automaticamente tradursi in motivi di pessimismo per un altro, cosicché forse è meglio dimenticarsi l’alternativa e puntare su categorie che possano fungere meglio da catalizzatori di decisioni possibilmente più razionali e meno emotive.
Nota incasinante o lezione sintetica 11
L’attribuzione di una qualità fissa e predeterminata (morale, estetica, ‘umana’ o semplicemente pragmatica, dinamica, produttiva) ad atteggiamenti e inclinazioni che traduciamo in termini come ‘ottimismo’ e ‘pessimismo’ denuncia in genere tendenziose lacune di pensiero e categorie di giudizio puramente arbitrarie. Mantenendo ferma e inalterata la natura del riferimento, i termini stessi sfumano l’uno nell’altro o in una nebbia ambigua in dipendenza degli scopi, pregiudizi o interessi di chi emana la definizione.
Un discorso analogo si può applicare alle caratteristiche di ‘simpatico’ e ‘antipatico’: non si può prescindere dal contesto nell’applicare la definizione e spesso l’antipatico è semplicemente colui che cerca di apportare modifiche a un ambiente che favorisce attitudini e impostazioni che considera dannose o per le quali, semplicemente, non dimostra alcun talento o vocazione capaci di sostenerlo nella competizione che sempre, in un modo o nell’altro e sovente sotto mentite spoglie, si instaura tra esseri umani che interagiscono condividendo un medesimo spazio sociale.
Queste assiomatiche banalità si ignorano per il motivo elementare che l’opinione comune e l’ ‘idem sentire’ vengono sempre scritti e diretti dai vincitori prima di tutto economici, i quali finiscono per avvalorare tipi psicologici che mostrano un dinamismo da droga psicotropa.
A molti questa pretesa di trascendere il punto di vista localizzato e parziale per accedere a una visione complessiva e oggettiva apparirà immediatamente sospetto, addirittura una forma sleale di dogmatismo mascherato da presunzione scientifica e in effetti ciò a cui aspiro è un nuovo tipo di metafisica: quella fondata su una concezione della realtà negando la quale diventa letteralmente impossibile pensare e argomentare in modo non solo logico, ma anche etico, rivelando così come l’intera dialettica civile sia in effetti fondata sulle sabbie mobili del non senso come anche sul cemento armato dell’arbitrio istituzionale dei gruppi di pressione dominanti.
Metafisica, ho detto? Certo! Tutto quello che pensiamo e sentiamo è una forma di metafisica, anche le teorie neopositiviste si sono rivelate metafisiche, presupponevano fatti e costrutti non provati al 100% o non provati del tutto. Il punto fondamentale però non è quello della prova assoluta e dell’empirismo inattaccabile (se lo fosse dovremmo buttare a mare tutta la scienza esistente): il punto fondamentale è il principio di non contraddizione.
Incredibile come questa distinzione semplice, elementare, sia stata dimenticata o trascurata dalla maggior parte delle teste fini pensanti che hanno fatto moda e opinione negli ultimi decenni
La chiave di volta del sistema delle verità, come c’insegnano cardinali, papi e rabbini, è Dio, senza il quale esistono solo favole e fantasie. Niente, nessuna cellula, nessun sistema nervoso, nessuno strumento o macchinario funziona se non si accordano al volere di Dio. Per cui vale il contrario: se un macchinario (la cosa più semplice tra quelle portate a esempio) funziona, significa che si accorda con il volere di Dio.
Quindi (domanda cruciale): quali strumenti abbiamo per decifrare la natura di Dio? Risposta ovvia: esaminare le condizioni che permettono a un macchinario di funzionare.
Di che tipo di condizioni funzionali e di analisi esplorativa in grado di fornircene un resoconto adeguato stiamo dunque parlando? Sempre più ovvio: stiamo parlando di fenomeni e problematiche che richiedono una conoscenza scientifica.
E chi lo dice che non ce ne sono altri?, obbiettano ora cardinali, imam e rabbini, che già si fregavano le mani preparandosi a mandarmi sms di congratulazioni e che ora si sentono spiazzati e addirittura traditi e anche piuttosto incazzati.
Io lo dico, per il momento, dato che questo testo è mio. Come faccio a dirlo? In base al principio di non contraddizione: se ce ne fossero altri, potrebbero appartenere a un mondo parallelo privo di contatti e interferenze reciproche con il nostro, altrimenti tutto quello che sentiamo e il modo con cui lo organizziamo sarebbe concettualmente illusorio e arbitrario, una fantasmagoria pura e semplice appartenente a un universo magico di cui non possiamo sapere alcunché, neppure attraverso rivelazioni che richiedono un sistema linguistico che a questo punto risulterebbe inaffidabile e incongruo.
E’ talmente radicata questa cognizione, perfino nel comune credente che, se a un certo punto un papa annunciasse ai fedeli che finalmente Dio si è deciso a rivelarglisi personalmente e gli ha parlato a tu per tu, genererebbe una tale diffidenza e sospetto da perdere ogni credibilità.
Lezione sintetica 12
Il concetto della volontà di Dio è un evidente non senso: che cosa determina Dio a volere quello che vuole? Ovviamente Egli stesso. E che cosa significa per una coscienza che trascende ogni cosa e non subisce alcuna influenza decidere di volere qualcosa? Niente che, sotto qualunque rispetto (etico, fisico, metafisico…) sia, non tanto comprensibile, quanto semplicemente concepibile e formulabile se non con il linguaggio della favolistica assoluta, rimpinzata di tutti i manicheismi propedeutici al lieto fine obbligatorio. Dio o è totalmente incomprensibile e imperscrutabile, quindi assolutamente enigmatico e quindi angosciante (Meister Eckhart, Kierkegaard) o coincide con la globalità deterministica, la cui nozione, per quanto, in qualche misura oscura e mai completamente risolta, neppure sul piano logico puro, rimane l’unico strumento interpretativo di cui disponiamo, a prescindere dalla sua utilità evoluzionistica e di rinforzo individuale, caratteristiche la cui efficacia può essere valutata soltanto in rapporto alle mutevoli situazioni ambientali.
Lezione sintetica 13
L’incomprensione è la base di qualsiasi fede, la comprensione basta a se stessa. Ma dove non c’è comprensione, come può esserci consenso, com’è possibile che due fedeli possano realmente assicurarsi di credere in qualcosa che è incomprensibile per definizione, quindi irrazionale, quindi non verbalizzabile? Occorre fidarsi di una sorta di istinto profondo, qualcosa di connaturato e intuitivo, un contrassegno dell’anima che è un sintomo di elezione. Già, ma se io non aderisco a quel tipo specifico di fede, non credo neppure nell’unzione mistica, nel contrassegno divino, quindi non posso esimermi dal formulare il problema in termini o d’istinto animale o di caratteristica etnico – culturale o di brama settaria di affiliarsi, identificarsi, distinguersi per contrapposizione. Ogni religione finisce inevitabilmente in una contrapposizione politica o razziale. Non c’è scampo. L’aspetto qui effettivamente cruciale riguarda però il blocco preliminare da parte dell’impostazione fideista di qualsiasi via progettuale di riforma della società.
L’unica vera realtà è, come tra poco preciseremo meglio, il Dio che parla attraverso la scienza, ovvero il Determinismo, nel quale non possiamo confidare fiduciosi, ma armonizzarci intellettualmente o con il quale possiamo cercare di interagire attraverso un progetto di qualsiasi tipo che ovviamente è già previsto o non previsto da sempre.
Dal punto di vista di Dio non fa differenza, da quello della nostra metafisica sì.
Una metafisica che si rispetti deve cercare di decifrare la natura di Dio e agire progettualmente di conseguenza: questo è un atto veramente religioso, pio, eticamente corretto ed è poi quello che ognuno di noi, nel suo piccolo, realizza giorno dopo giorno quando si tratta di affrontare i problemi della sopravvivenza o anche quelli dell’autorealizzazione e della felicità, se uno è fortunato.
Chissà perché ce ne dimentichiamo quando dal piccolo passiamo al grande e distogliamo lo sguardo dalla dura o morbida quotidianità per scrutare i più vasti orizzonti della politica e della religione.
L’unica apparenza di libero arbitrio a cui si possa attribuire un minimo di plausibilità implica l’applicazione di un calcolo razionale, altrimenti, ogni altro tipo di scelta non motivata, dipenderebbe da una natura psichica che, per quanto si possa chiamarla ‘spirito’ o ‘anima’, obbliga in modo deterministico a una scelta anziché un’altra. Ovviamente, dato che la razionalità pura non esiste che in esercizi molto settoriali, il ‘libero arbitrio’ ineluttabile è rarissimo, mentre diffusissimo è il determinismo ‘spirituale’.
Chi sono io per pretendere di dire certe cose senza cadere nel ludibrio o almeno nel ridicolo? Assolutamente nessuno, non è infatti il mio ‘io’ quello che conta, ma la realtà, la logica, il ragionamento che attraverso di me, come tramite molti altri, si esprime, considerando i quali potete tranquillamente prescindere dall’entità della persona (che alla fine, in questo come in tutti gli altri casi, non è che un fenomeno accidentale, un sintomo, un infimo nodo problematico, un riflesso automatico nello sconfinato e immane stormire di cause ed eventi che, in un insieme arduamente concettualizzabile, costituisce l’unico substrato inconfutabile e oggettivo che può sostanziare di significato il termine ‘Dio’).
Io non conto niente, se anche fossi qualcosa di ripugnante e mostruoso, un serial killer che sta scrivendo davanti a un corpo incatenato e sofferente, ciò non cambierebbe in niente il valore o la pochezza di quanto è qui riportato.
Quanta gigantesca idiozia si nasconde nell’idolatria dei singoli esseri umani, si chiamino Gesù Cristo o Fidel Castro. Ogni ‘grande personaggio’ è un monumento eretto alla presunzione della propria singola natura ‘spirituale’, il lasciapassare con cui ci si assolve da tutte le storture, incongruenze e deformità che costituiscono le scenografie e le location di ogni specifica esistenza materiale: ogni assetto ambientale e strutturale potrebbe essere molto meglio di quello che è, ma lo spirito umano ne esce sempre indenne e immacolato, lo spirito umano è superiore a tutto. Come mai? Semplice: mente, dissimula, mistifica.
Nota incasinante o lezione sintetica 14
Se esiste una linea del tempo ‘multiversale’ che progredisce all’infinito senza mai ritornare su se stessa, la probabilità zero di una specifica individualità, ma non delle sue infinite copie ‘aliene’, potrebbe significare l’assoluta illusorietà dell’identità personale nel suo ripetersi uguale senza rimanere se stessa.
D’altra parte, se ogni singolo universo è completamento isolato da tutti gli altri, se non comunica e non subisce influenze provenienti dall’esterno della propria complessione, due diversi universi identici darebbero vita a identiche singolarità animali. Queste, potendo apparire contemporaneamente, non sarebbero sovrapponibili.
Il concetto di contemporaneità potrebbe però essere privo di senso e allora quelle singolarità potrebbero anche essere equivalenti in tutto e per tutto, nel qual caso non esisterebbero infiniti copie di ogni essere vivente, bensì infinite vite ripetute dello stesso essere, qualcosa di analogo alle ipotesi di Everett di una multiforcazione continua e infinita degli universi fisici, tra cui ogni coscienza si troverebbe sballottata senza rendersene conto.
Ipotizzando che si possa parlare di identità cerebrale traslabile su differenti percorsi di vita (ma sinceramente nutro parecchi dubbi in proposito) ogni pianta o animale potrebbe vivere in eterno espletando ogni combinazione possibile di accadimenti reali, dalla morte in prossimità della nascita fino a un’estrema longevità più o meno soddisfacente e gioiosa.
Ognuna delle precedenti affermazioni, come altre dello stesso tenore disseminate nella presente concione, suona molto stravagante (e lo è), ma può aspirare a livelli di verosimiglianza oggettuale superiori a qualsiasi enunciato religioso. Per quanto non dimostrata né osservata, non si può in effetti escludere né una futura dimostrazione fisico-teorica né la possibilità di un qualche riscontro sperimentale per via ovviamente indiretta. Non si può parimenti escludere che una divinità di qualsiasi tipo ci si manifesti in modo trasparente e irrefutabile sollevando il velo di Maya che fino a quel momento ha nascosto l’autentica realtà, invitandoci (ma con quale linguaggio?), con le buone, ma anche (perché no a questo punto?) con le cattive a prendere atto che tutto quello che abbiamo vissuto fino a quel momento non conta niente e che ora le regole del gioco sono completamente diverse.
In quel caso, come potremmo rimanere ‘noi stessi’ in presenza di uno stravolgimento totale del nostro ambiente interno ed esterno e delle nostre percezioni rimane un mistero insondabile.
Prendete il problema della sofferenza animale. Vi si discute da decine di anni dopo averlo ignorato o sottaciuto per millenni e lo si affronta senza aver prima esplicitato le premesse e gli scopi che informano il discorso: pratici o solo etici. Per taluni, e non sono pochi, i due termini coincidono, per cui li si potrebbe assolvere se solo si prendessero la briga di dichiararlo e giustificarlo apertamente e in via preliminare. Pratico significa che ci si considera portatori di specifiche esigenze e interessi (nel caso in oggetto quelli della specie umana) e quindi si deve valutare ogni istanza per come risulta congrua e produttiva rispetto al loro assolvimento. Etico significa che ci si deve riferire a una superiore armonia oggettivamente configurabile, per quanto difficilmente perseguibile, il cui scopo è produrre il massimo bene possibile per tutti.
Ebbene: indipendentemente da un groviglio inestricabile e illimitabile di contingenze fattuali ed eventi particolari, come si può considerare etico qualcosa che prescinde da una valutazione concreta e puntuale del volume di dolore prodotto?
E’ etico produrre il fenomeno inconfutabile, anche se non puntualizzabile in tutti gli aspetti qualitativi e quantitativi per la differenza dei sistemi nervosi, di milioni di animali che soffrono per salvare poche migliaia di vite umane? Ovviamente no: il dolore è dolore a prescindere dalla configurazione del sistema nervoso che lo ospita (l’evento dolorifico s’iscrive in una strategia preservativa di allarme in base alla quale dobbiamo verosimilmente pensare che le caratteristiche fondamentali rimangano identiche risalendo i gradini della scala zoologica almeno da un certo piano in su).
Il segnale lancinante che scuote e prostra un nucleo cerebrale esiste in esso come esiste in ognuno di noi: nel caso se ne produca di più di quanto se ne allevia, compiamo un atto eticamente riprovevole e brutale, per giustificarlo dobbiamo ricorrere a pragmatismi e spregiudicatezze partigiani che l’antropofilia e l’utilitarismo delle religioni faranno di tutto per nobilitare, riuscendovi con grande sollievo di tutti, a parte la solita querimoniosità da guastafeste patentati di qualche ‘intellettuale’.
Per questo, da ‘intellettuale’ interessatamente e pragmaticamente riprovevole, l’etica religiosa, salvo particolari eccezioni, mi manda spesso e volentieri in bestia: perché è politica, materialistica, funzionale, ma non può ammetterlo (rovinerebbe il tipo particolare di gioco sociologico che pompa e sostiene), quindi diventa tendenziosa, fasulla e ipocrita, ma solo, state tranquilli, per i rompicoglioni più cavillosi e cerebraloidi.
Io, è perfino inutile e tedioso ribadirlo, sono anzitutto un rompicoglioni nato, non ci posso fare niente, se non lamentarmi per essere un rompicoglioni fallito a causa delle molte, complicate timidezze che affliggono la mia natura e ne inficiano il gioioso dispiegarsi, remore connesse a necessità di approfondimento meditativo che diffondono dubbi e reprimono l’aggressività.
Sono purtroppo un rompicoglioni filosofico, una razza in via di estinzione per la caccia spietata che subisce a opera dei veri intelligenti, ovvero quelli che si attengono scrupolosamente e avvedutamente al rispetto dell’umanità (a parte un obbligatorio disprezzo verso certi rappresentanti fallimentari) e quindi seguono pedissequamente le regole fissate dalla società corrente (dove i diversi poteri di volta in volta inastano vessilli diversi conservando una riconoscibilissima ‘aria di famiglia’)
Ma forse la questione va diversamente illuminata. Il vero rompicoglioni filosofico, a differenza del rompicoglioni estetico o artistico, a cui sono concesse più ampie licenzie, non può accontentarsi di scorribande polemiche condotte con l’arma dell’astuzia sofistica e sulla spinta di un personalismo colorito, necessita invece di un autentico afflato religioso (il termine va inteso, kierkegaardianamente, nei termini di stimoli e vocazioni puramente individuali, dimenticando quindi qualsiasi riferimento istituzionale e gli ambiti che su tali aspirazioni non sufficientemente elaborate costruiscono le basi di un predominio plebiscitario e un successo soprattutto affaristico).
La vera religione del mondo moderno infatti è la scienza, come tutti i pensatori più significativi tra metà ottocento e metà novecento (i cui messaggi più pregnanti sono oggi generalmente dimenticati o fraintesi) hanno più o meno esplicitamente dichiarato o sottinteso.
E la vera religione o in gran parte si ammanta di un’aura monacale o diventa pura petizione di principio ispirata soltanto dall’istinto di conservazione.
La vera religione arriva prima o poi al mutismo, all’ineffabilità, all’indicibilità e lì si ferma o procede limitandosi a parlare all’interno di regole chiare, esplicite e stringenti.
La morale senza regole non serve a nulla, forse è perfino più dannosa che utile.
Lezione sintetica 15
La gente (che è tanto meno religiosa quanto più osservante dei riti e dei dogmi dell’ufficialità confessionale) vuole che si discuta e si argomenti proprio su ciò di cui non solo è inutile, ma anche dannoso e scorretto dialogare: su tutto l’ambito fenomenologico del sentimento e della sensualità.
Parlarne per avallare e avvalorare l’una o l’altra temperie rappresenta un’esibizione di puro razzismo culturale. Lo si può intuire chiaramente considerando i gusti sessuali delle varie persone, concentrandosi su quelli particolari e inconsueti non per una moralistica caccia alle streghe, ma semplicemente perché permettono grazie alle coloriture forti di fissare meglio le idee.
Lì vediamo, alla stregua di una semplice e irrefutabile realtà di fatto, che quello che eccita terribilmente qualcuno al punto che costui non ne può fare a meno, disgusta profondamente qualche altro e non sto parlando di censure e pregiudizi culturali e morali, ma semplicemente di reazioni fisiologiche ed epidermiche istintive.
Proprio dove il divieto wittgensteiniano dovrebbe sussistere come norma cristallina di educazione civica e igiene intellettuale (ponendo limiti invalicabili che, lungi dall’inibire, sarebbero al contrario propedeutici a un disinvolto e spassionato esercizio privato, alla libera messa in atto delle proprie tendenze non invasive) la ruffiana e sbavante foia collettiva richiede a viva voce la messa in scena continua e la imbonitrice esibizione fieristica di quelle materie intrattabili che garantiscono l’attenzione pagante (in un modo o nell’altro) di spettatori che sopravvalutano sempre i caratteri eterei e spiritualizzanti della propria emotività.
L’esempio addotto poco fa (scelto per la sensoriale immediatezza dell’impatto) potrebbe trarre in inganno: tutta la lezione non si riferisce in particolare alla mercificazione del sesso, piuttosto a qualcosa di molto più grave: la mercificazione del sentimento e della religiosità.
Il carattere religioso (e anche etico) della scienza difficilmente sopravvive oltre le fasi pionieristiche della creazione dei fondamenti: infatti, nella pratica effettiva, al cultore ufficialmente incaricato vengono richiesti gradi talmente spinti di specializzazione tecnica che ben difficilmente lo spirito di conoscenza e la visione d’insieme sopravvive ai virtuosismi e alle ricercatezze della pratica professionale.
Così accade, per esempio, di trovare campioni della ricerca sofisticata seriamente convinti della natura spirituale dell’essere umano o che, peggio ancora, agnosticamente, ritengono la questione scientificamente non dirimibile.
In effetti, come già accennato, nessuno può escludere l’esistenza dell’anima immortale e la presenza del Dio personale presupposto in modo oscuro e indecifrabile dalle credenze tradizionali, a patto però che una tale ammissione si accompagni a un iperspiritualismo negazionista basato sul rifiuto di qualsiasi realtà alla stregua di una mera illusione, un credo allucinatorio da santone fantasy, un ascetico rifiuto della falsità e della sporcizia mondane, niente a che vedere, quindi, con lo scaltro utilizzo delle idealità e dei dogmi manipolato dalle gerarchie clericali e dai collegati strati amministrativi a fini d’integralismo politico.
La ragione è semplice, quanto inconfutabile: o tutto avviene secondo la regia di leggi o principi scientifici, secondo la medesima logica razionale che ha modificato radicalmente l’ambiente antropologico fino alla creazione recente delle fantasmagorie mediatiche la cui virtualità sta surclassando ogni più diretto approccio alle fenomenologie del mondo percettibile, o tutto è autocreazione e quindi magia: non c’è nessuna possibilità infatti di concepire una qualsiasi versione del libero arbitrio e di un’autentica libertà senza invocare un’assurda, più che enigmatica, facoltà di determinazione del sé. Questa determinazione di sé può avvenire solo in due modi: motu proprio (autocreazione appunto) o Motu Dei (determinismo, che tale rimane, qualunque sfumatura linguistica si voglia poi aggiungere al termine).
Se vogliamo ragionare è così, altrimenti pomì.
Non c’è scampo, con buona pace di tutti gli epistemologi ‘non sgraditi’ a santa romana chiesa cattolica e apostolica.
Molta confusione hanno generato in merito certe versioni di una genericissima e inderogabile ‘teoria dei sistemi’ circolate nel secondo dopoguerra come conciliazione apparente dell’individualismo esistenzialista e dell’oggettivismo neopositivista (non che le due scuole, che poi si dividevano ciascuna in decine di altre, non fossero compatibili nella loro diversità di riferimenti e di scopi, semplicemente il tipo di conciliazione non quagliava e non quaglia): sto parlando di quei vari punti di vista ‘emergentisti’ che, appellandosi di volta in volta a distorsioni e persino caricature della complesse ed enigmatiche formulazioni della scienza di avanguardia, in primis la meccanica quantistica, hanno interpretato le strutturazioni gerarchiche particolarmente evidenti nel regno biologico, ma riscontrabili già sul piano della fisica di base, facendo appello a insorgenze di autonomia indebitamente svincolate dai livelli inferiori al punto da assegnarvi, ogni volta che sembrava bello o utile, una specie di assolutismo incantato.
Ma anche qui, scegliendo l’esempio più ovvio e immediato, delle due l’una: o qualsiasi stato psichico dell’animale deriva da una modificazione del substrato nervoso o può scindersi completamente da quello e autodeterminarsi in un completo arbitrio creativo che non dipende da alcuna causa ‘materiale’ scientificamente indagabile (conosciuta o no) e quindi è causa di sé.
Se qualcosa di esistente non è scientificamente indagabile per nostri limiti intrinseci (inadeguatezza degli organi percettivi, ridotta capacità di memoria e velocità di CPU del nostro cervello (equivalenti analogici di)), deve comunque accordarsi perfettamente alle leggi dell’universo fisico che abbiamo scoperto secondo principi e automatismi omogenei, altrimenti o non può interagire e quindi essere rivelato, equivalendo al puro e semplice nulla, o è qualcosa di incommensurabilmente superiore che in qualsiasi momento può dare seguito a un vero atto di magia quindi generare eventi completamenti assurdi. Da un singolo assurdo consegue qualsiasi cosa e in particolare l’assoluta arbitrarietà dell’atto di autodeterminazione, il solo che può fondare le dottrine monoteiste della religiosità tradizionale.
Paradossalmente, l’essere causa di sé o è qualcosa di assolutamente incomprensibile e quindi hanno pienamente ragione il santone fantasy e il mistico irrazionale (da cui si deve perlomeno pretendere che si comportino in modo stravagante, bislacco e irragionevole anche nella gestione dei propri affari e delle proprie sostanze, altrimenti, ahi, ahi, qualcosa non torna) o corrisponde al massimo e più ferreo determinismo, in quanto tutto a quel punto si sviluppa e si modula secondo i dettami di una natura prefissata e immutabile, una forma o l’altra di teoria calvinista della predestinazione.
L’analisi sociologica di Weber trova pieno riscontro in una epistemologia basale: non si può cambiare ‘proficuamente’ il mondo senza possederne una conoscenza perlomeno istintiva e le religioni cristiane riformate come del resto le metafisiche orientali sul tipo del taoismo o del buddismo sono parafrasi semplificate e simboliste della realtà, non stravolgimenti favolistici come il cristianesimo originario continuato nel cattolicesimo: riescono così a compenetrare l’etica civile della modernità industriale senza confliggervi o indebolirla, fermo restando che il realismo, la complessità e l’articolazione delle storie individuali costituiscono una varietà di eccezioni che non obbediscono supinamente al bilancio statistico finale e spesso non consentono una lettura univoca.
Lezione sintetica 16
Il cattolicesimo, per funzionare, deve obnubilare le premesse metafisiche di base e rivolgersi alla concretezza dell’essere biologico (da qui svariati idilli e abbracci con certe forme di esistenzialismo più o meno marxisteggiante), deve privilegiare le ‘opere’ e la collaborazione affettiva e dialogante, diventando in effetti una antireligione ispirata a un umanitarismo materialista che prima o poi le alte gerarchie devono contrastare o correggere, in un gioco ambiguo e complicato che propizia comunque una penetrazione trasversale, politicamente remunerativa, nelle varie stratificazioni sociali. E’ un gioco sostanzialmente impermeabile a qualsiasi tipo di critica razionale, per cui non pensate che io abbia mai pensato di riuscire a interferire con qualcosa di più che un disturbo passeggero o un vago e quasi complice prurito.
Ogni generalizzazione è indebita solo finché non parla il linguaggio della matematica ovvero della statistica.
Ovviamente, prima d’invocare una forma o l’altra di ‘assolutismo scientifico’ occorre capire bene che tipo di descrizione del mondo ci fornisce la scienza e afferrarne a pieno la complessa problematicità.
Intanto bisognerebbe capire che il progresso delle conoscenze oggettive è sconfessione soltanto di quelle apparenti conoscenze che tali in effetti non erano.
Einstein non sconfessa Newton, intervenendo quando l’originaria teoria della gravitazione perde validità in particolari situazioni lontane dall’esperienza comune, tanto è vero che le missioni lunari Apollo si basavano sostanzialmente sulle equazioni della gravitazione classica che, essendo più semplici, consentivano comunque approssimazioni adeguate agli specifici scopi.
La relatività generale introduce una rivoluzione concettuale e culturale che va molto aldilà dell’utilizzo strumentale delle formule, ma il fatto che una soluzione antica e relativamente rozza conservi tuttora una sua consistenza operativa dimostra la validità di un metodo nonostante la limitazione e superficialità delle osservazioni a cui ha dovuto forzatamente attenersi. La contraddizione non risiede nel metodo scientifico, bensì in quei critici (derivati da kuhn, Fejerabend, Lakatos) che ne contestano le potenzialità ontologiche perché rinnova e stravolge continuamente i cosiddetti paradigmi generali, il che non dovrebbe preoccupare minimamente coloro che a tali paradigmi attribuiscono poco o nullo valore di conoscenza reale del mondo e che quindi dovrebbero concentrarsi su quella resistente efficacia delle teorie che è poi sufficiente, secondo me, a smontare le loro obbiezioni.
Se una teoria continua a funzionare in contesti limitati, ma poi richiede una ristrutturazione profonda quando si cerca di farla corrispondere a una visione più vasta e approfondita della realtà cosmica, ciò non significa che la scienza fallisca nel riprodurre meccanismi oggettivi, bensì che tali meccanismi si organizzano in una complessità sistemica (un complesso di complessità) che mette a dura prova le capacità di un osservatore umano dedito a costruirne una immagine fedele senza probabilmente disporre di tutte le abilità e gli strumenti utili o magari indispensabili.
L’uomo è un prodotto dell’evoluzione e in questa luce è costruito per affermarsi sul pianeta terra, non per decifrare integralmente i misteri del cosmo, la cui accessibilità è, gnoseologicamente parlando, un prodigioso e senz’altro significativo ‘effetto collaterale’, una iper-dotazione forse inevitabile una volta superate determinate soglie.
Di sicuro non si vincono le sfide mettendo all’opera per modellizzare la realtà circostante attrezzi arbitrari e soggettivi, definizioni che invece si attagliano ad altri tipi di approccio anche se a questi partecipa un altissimo numero di persone ‘non pensanti’ che aderiscono visceralmente o in un senso pragmatico-antropologico al ‘gioco’ (nel senso degli strutturalisti e di Wittgenstein) delle proprie credenze.
E come potrebbe filare tutto liscio, facile, tranquillo nel nostro desiderio di risolvere ogni mistero passato, presente e futuro? Come potremmo non scaturire da qualcosa di enigmatico, vasto, intricato oltre la nostra immaginazione più spinta?
C’è qualcuno che ancora non ha capito perché molti scienziati ortodossi, rispettabili, popolari non si sbilanciano più di tanto nel porre divisioni nette tra spiritualismo magico e determinismo scientifico? Ve lo dico io: perché l’ipotesi del determinismo, ridimensionando a priori ogni aspirazione a una sapienza esaustiva e completa, depotenzia il prestigio sociale della scienza molto più che quello delle religioni (che sostanzialmente si basano sull’ignoranza oppure (calvinismo, taoismo eccetera) su bignamini e vademecum liofilizzati utili a una ricognizione veloce e a grandi linee del cosmo): ecco la base della grande alleanza tra religioni e scienza per bene, è un vero peccato che non sia sottoscritta anche dalla Natura!
Esiste una robusta spiegazione scientifica e filosofica della straordinaria resistenza dello spiritualismo (è inutile aggiungere magico, ogni spiritualismo è pura opzione di stregoneria bianca o nera) a tutte le controprove fornite empiricamente (non filosoficamente!) dal mondo moderno (le creazioni virtuali dell’elettronica, lo stravolgimento della coscienza per l’ingestione di microgrammi di certe sostanze, infiniti resoconti psichiatrici, chirurgici, neuro-patologici, l’osservazione attenta del comportamento animale eccetera), eccola: il determinismo non solo non corrisponde alla prevedibilità del mondo, il determinismo implica l’imprevedibilità del mondo.
Il determinismo è non laplaciano ed è forse grazie anche al semplicismo di scienziati come Laplace o Skinner che le religioni hanno potuto regnare incontrastate come fabbriche di senso presso le più svariate opinioni pubbliche.
La non località della meccanica quantistica e la dimostrata sussistenza anche in quell’ambito delle leggi caotiche (che in sostanza implicano la possibilità di una dilatazione senza limite di differenze piccole a piacere) prospettano un universo che trascende qualsiasi porzione limitata di realtà e del resto, nella sezione successiva, sarà fornita una versione macroscopica di tale ‘complessività’ che si sovrappone alle interdipendenze quantistiche e vi coesiste in un intreccio immane e sorprendente.
Potremmo definire questa una ulteriore relativizzazione ‘copernicana’ della posizione dell’uomo nell’universo, ma non chiedetemi se sia la terza o la decima o la ventesima dalla pubblicazione del ‘De rivolutionibus orbium coelestium’.
Ritirandoci velocemente dall’incommensurabilità cosmica al bugigattolo di una scatola cranica, è bene fare mente locale al funzionamento del cervello e ai suoi misteri per mettere le mani avanti e disinnescare in anticipo qualsiasi lancio di agenzia che in futuro titolasse qualcosa come: ECCO COME LO SPIRITO AGISCE SUI NEURONI!
E’ possibile e plausibile che la fisiologia cerebrale non si esaurisca nei circuiti elettrici delle cellule, che all’interno della sostanza grigia o bianca si creino induzioni elettromagnetiche, fenomeni di campo o chissà quale diavoleria in grado addirittura di sovrintendere in una posizione gerarchicamente superiore (nella corretta accezione emergentista) al funzionamento dell’organo. Cambierebbe qualcosa in aggiunta o detrazione alla visione del determinismo che sto definendo? Ovviamente no, se valutiamo correttamente la natura dei sistemi e delle strutture che la scienza indaga.
Nota incasinante o lezione sintetica 17
Il perbenismo di destra sposa la visione ecclesiastica tradizionale, quello di sinistra anche, mutata mutandis, ma, almeno in Italia, dove ha preferito condizionare e infeudare il mondo culturale disinteressandosi alquanto dei volgari contesti economici, interamente devoluti alle lobby ‘amiche’, industriali o sindacali, si è dilettato nello storpiare e fraintendere concezioni di prim’ordine, come quelle connesse alle (apparenti) paradossalità quantistiche (esperimento ideale di Einsten, Podolsky, Rosen, gatto di Schroedinger eccetera), l’olismo sistemico e le specificità termodinamiche della biologia (il neodarwinismo e la teoria sintetica dell’evoluzione, la sociobiologia, l’ordine mediante fluttuazioni di Prigogine eccetera), il tutto alla luce di un’antropomorfizzazione globale dell’universo e della natura planetaria, che è sempre apparsa una linea di pensiero molto fine e molto trendy, molto esprit de finesse, molto o tutto libertà e positività.
Oggi, al di là delle intenzioni, tutto ciò è molto nazi e basta, a giudicare proprio dall’immensa mole di sofferenza animale provocata senza alcuna contropartita (anzi!) di felicità umana quantitativamente paragonabile e dalla tendenziosità di un ‘ottimismo’ che suona ormai a mo’ di fregatura a uso e consumo dei pochi che abbindolano i molti, molti dei quali non possono chiedere di meglio che ricevere in dono la forma più a buon mercato, meno faticosa e rischiosa, di ‘speranza’.
Ripeto ancora una volta: non c’è scampo (tecnico – filosofico) a una scelta radicale tra spiritualismo e determinismo scientifico. Avete capito bene? Non c’è scampo. Devo ripeterlo ancora? Non c’è scampo, se non vogliamo considerare tale quello di recintare un’area e considerarla sacra, apponendo sul cancello la formula di un divieto tassativo: QUI NON SI RAGIONA, SI OBBEDISCE!
Che poi è quello che fanno effettivamente tutte le Chiese.
Devo confessarlo: detesto l’umanitarismo ideologico di chi, destinato ad assumere ruoli di preminenza e prestigio all’interno dei consessi umani, confonde i valori morali e gli interessi pragmatici con la massima scioltezza e disinvoltura e in più, trovato un modo pubblico di assestare regole e imperativi (che, non si capisce mai con quanta buona fede, ritiene giusti e inderogabili) accordandoli con il sistema di impulsi emotivi ed esigenze di base che informano la sua vita individuale, pretende d’imporre gli stessi tipi di compromessi e mediazioni esistenziali a qualsiasi individuo gli capiti sotto tiro.
La cecità programmatica di chi rifiuta di ammettere qualsiasi legame tra visioni del mondo e tornaconti privati o di gruppo mi ha sempre lasciato esterrefatto: per me significa che, in ambito sociale, fare del bene o del male dipenderà sempre dalle variabili ambientali, dalle eredità storiche, dalle inclinazioni caratteriali e quindi, implicitamente, dal caso.
Si parla in proposito di miracoli della bontà e della misericordia umane, ma, chi lo fa, in genere si riferisce a contesti, per esempio innumerevoli scenari bellici che hanno coinvolto civili inermi e sbandati, in cui la bestialità umana dilaga in maniera esagerata e quasi surreale: la benevolenza sorprende perché la brutalità viene data per scontata.
E’ ovvio che la persona benestante che si ritiene al sicuro e voglia assicurarsene inclini a comportamenti accomodanti e generosi, ma, secondo il mio scandaloso parere, ci sono innumerevoli episodi nella vita di tutti i giorni che dovrebbero far tintinnare un campanello di allarme, per esempio (vista di sfuggita poco fa) una graziosa, elegante, telegenica conduttrice televisiva che, durante l’ennesima programma che esalta le patrie virtù gastronomiche, si aggira, amabile e sorridente, tra carcasse di animali appesi ai ganci.
Non mi frega niente di moraleggiare o contrapporre una concezione etica a un’altra, semplicemente mi spaventa e mi disgusta l’accoppiata sempre più vincente di ipocrisia e assenza totale di spirito critico e acume analitico e interpretativo.
C’è qualcuno che pensa davvero che una devozione sia, in sé e per sé, migliore di un’altra? La fede religiosa di un ceto abbiente migliore della fede stalinista di un burocrate russo degli anni trenta?
Dipende dal grado di assolutezza, ma, anche e soprattutto, dalle decisioni del capo religioso o del dittatore, che possono determinare il grado di asprezza della scena sociale ed esserne nel contempo determinate.
A proposito, chi vaneggia dell’intima e indomabile aspirazione religiosa radicalmente connessa allo spirito umano in quanto tale, dovrebbe meditare sulla velocità di attenuazione dei comportamenti religiosi subito dopo la rivoluzioni francese o comunista. Solo repressione? Perché allora i costumi hanno in seguito mostrato una reazione anelastica, ovvero, dopo la rapida contrazione, cessati i divieti, si è riscontrata una ripresa molto lenta e non si è raggiunto se non tardivamente lo stesso grado di adesioni?
Ovviamente non contesto il diritto del singolo a credere quello che vuole, contesto l’influenza pianificata e insistente del clericalismo sul governo politico della nazione italiana e, più specificamente, lamento la impossibilità di un progetto sistematico di riforma radicale in presenza del condizionamento pesante di una struttura ecclesiastica che, a parte l’ovvia incompatibilità di una concezione idealistica rispetto a un disegno scientifico di ambiente artificiale, riterrà sempre la propria organizzazione teocratica e la metodologia dogmatico-autoritaria superiori a ogni altro tipo di procedura gestionale del destino comune.
Naturalmente, esistono numerose altre forze, gruppi, ceti, lobby potenzialmente ostili a qualunque ricostruzione sistematica della struttura sociale e, in generale, a forme di convivenza e cooperazione economica drasticamente innovative senza essere confessionali, ma il contrasto di un organismo religioso così pervadente ed esteso come la chiesa romana minaccia di chiudere la partita in anticipo.
Non sono d’altra parte così integralista a mia volta dal ritenere senz’altro una sciagura capitale la mancata realizzazione di un modello (uno o l’altro) che potrebbe manifestare, qualora messo a punto a dovere, una allettante funzionalità teorica, ma poi rivelarsi deficitario o deludente, per le più diverse ragioni, al momento della realizzazione pratica.
Ogni progetto serio e complesso è una sfida rischiosa.
Quello che mi sembra opinabile è la tracotanza di gente che respinge di principio qualsiasi tentativo sul fronte utopistico-progettuale e poi continua a menarla sulla grandezza dell’ingegno umano.
Grande è la natura, non l’uomo. Tutto ciò che si può scoprire e realizzare sarà scoperto e realizzato, il processo della conoscenza cresce esponenzialmente grazie all’apporto e al coordinamento di milioni di persone che ogni giorno indagano, studiano, sperimentano in campi sempre più specialistici raccogliendo il testimone degli sforzi precedenti e passandolo al corridore successivo, mostrando acume e tenacia, ma usufruendo anche, ovviamente, dei doni del caso. Con meccanismi analoghi, ove si sostituisca al lavoro cosciente la sperimentazione ‘dal vivo’ di mutazioni aleatorie operata su tempi molto più lunghi (chiedo venia per l’eccessiva semplificazione metaforica) la natura è passata in qualche centinaio di milioni di anni dal microrganismo unicellulare alle più diverse forme di mammifero.
Ringraziamo la ricchezza della natura e non gloriamoci troppo: avremmo diritto veramente di essere orgogliosi se sapessimo organizzarci forme societarie in grado di dare una decisa impennata alla quantità di felicità generale non solo umana e sapessimo rendere la Terra un paradiso per tutti i viventi.
Diversamente, ripeto, non gloriamoci troppo, che cosa c’è di nobile a rinunciare ad assumere un controllo stretto delle nostre esistenze in comune perché sospettiamo che alla fine combineremmo soltanto disastri?
Che cosa c’è di nobile, bello ed eroico nell’affidarci ‘anima e corpo’ al volere di Dio che alla fine, come ribadiremo in seguito fino alla nausea e abbiamo già dimostrato qui, altro non è che il Determinismo?
Su ragazzi, non scherziamo, ognuno, dotato d’intelligenza media e con le giuste premesse, le giuste spinte, la giusta fortuna, le giuste motivazioni e la giusta volontà di sfacchinare può diventare un genio nel proprio campo e spingere avanti il relativo livello di capacità e conoscenze acquisite, ma quanti sanno organizzare la propria vita in modo da essere effettivamente e non fintamente felici per una frazione non trascurabile di tempo?
Siamo gli zimbelli della Natura e del Determinismo, ogni cosa è studiata come una trappola elegante che alletta i vincitori e ne infirma il dominio, perché la regola aurea esalta il cambiamento, non la fissità (perfino le caratteristiche della curva gaussiana di cui parleremo in seguito possono essere viste come un mirabile artificio inteso a destabilizzare strategicamente l’ambiente al pari di qualsiasi catastrofe naturale), predilige la corsa incessante verso la barriera dove scattano i limiti di soglia e all’improvviso s’inaugura quella transizione di fase che, in tempi rapidissimi e sotto gli occhi allibiti dei ‘conquistatori del mondo’, annulla la validità di prerogative e licenze, ribalta preminenze e gerarchie, sconvolge e trasfigura la totalità dei riferimenti, sostituisce arredamenti e fondali intorno agli attori ammutoliti che vengono invitati a sgombrare.
La sostanza del vero atto creativo di Dio si ritrova esaminando schematicamente i processi attraverso cui si è generata la varietà delle forme viventi: casualità delle mutazioni, collaudo individuale (fitness) o statistico (genetica delle popolazioni), conservazione e trasmissione dei caratteri, alterazione periodica delle condizioni di contorno che presiedono alle fasi di collaudo, approvazione, rimaneggiamento o revoca delle combinazioni geniche lungo gli abissi del tempo geologico.
Se l’ambiente planetario fosse stabile, l’umanità, nonostante il contributo di leggi naturali e l’insorgenza di meccanismi che tendono a favorire le strutturazioni complesse, non sarebbe mai apparsa.
Se l’umanità non stabilizza il suo ambiente, l’umanità scompare e scompare tanto più in fretta quanto più sollecita i mutamenti.
L’umanità rischia di caratterizzarsi soprattutto attraverso il bluff che tenta con se stessa, un auto – bluff, brilla per il talento e l’acume lucidato dal marketing di quel 10 o 20% (ma forse esagero) che dispone della possibilità di esercitare un lavoro interessante e creativo e intanto, con l’altro 80 o 90%, affonda con tutto il carico di motivazioni isteriche e artificiali attraverso cui cerca di mantenersi viva e in forma.
Anch’io forse aderirei più volentieri allo spiritualismo che allo scientismo. Ma non posso farlo senza mettermi in contraddizione perpetua con le più elementari condizioni di esistenza non solo della singola persona umana, ma di una qualsiasi creatura vivente, dovrei rinunciare a pensare, ragionare, analizzare, oppure inventarmi un mucchio di sciocchezze come quelle sfornate quotidianamente dai ‘pensatori’ religiosi o idealisti, che prosperano grazie al valore terapeutico, intriso di astuzie placebiche e ipnotismi da guru, di massaggi e ginnastiche che favoriscono il rilassamento mentale.
E non riesco a essere ipocrita. Se fossi un ardente attivista no profit o un missionario pieno di sollecitudine (figura che non riuscirei mai a rappresentare, sia chiaro, non voglio spacciarmi per quello che non sono, lo spirito filantropico non mi appartiene, il che è di sicuro un difetto), se fossi comunque un filantropo per sentimento non riuscirei, nonostante la sincerità dell’impulso, a non interrogarmi circa la reale collocazione funzionale e sistemica del mio ruolo all’interno di una società competitiva che avvantaggia enormemente i capitali e i privilegi già esistenti e sottrae un’enorme quantità di senso e valore alla maggior parte dei singoli componenti, al punto che la rassegnazione, l’acquiescenza, il conformismo e squallidi modelli culturali diventano una triste e diffusa necessità.
Anche qui non c’è scampo: al di fuori dell’intervento utopistico – progettuale, i miglioristi, anche quelli armati di ottime intenzioni, rimangono vittime più o meno complici o almeno consenzienti del proprio ruolo sociale, molto difficilmente possono prescindere dal prestigio e dall’importanza che attingono per contrasto da un ambiente negativo, anche perché si crea il paradosso di una dipendenza e reciprocità per cui il consenso che viene attribuito ai rappresentanti del bene si connette in modo direttamente proporzionale alla forza assediante del male e la tolleranza verso il male cresce insieme al numero delle piccole isole di bene.
Tutto ciò è logico e realista prima di essere radicale o marxista.
Qui però bisogna intendersi molto, ma molto bene: qualsiasi opzione utopistico – progettuale (che poi è una locuzione che uso come sinonimo di metafisico in senso scientifico (vedi sopra la giustificazione del termine ‘metafisico’) comporta, come già detto, ammesso, convenuto o acclarato, rischi di esecuzione e incomprimibili percentuali di pericolosità aleatoria, ciò che potrebbe giustificare quel sostanziale immobilismo che persegue dall’attenersi ai moduli di organizzazione corrente.
Esiste però un criterio dirimente che si colloca su un piano di validità e importanza molto superiori quando si tratta di arbitrare razionalmente le scelte della partita: se l’efficacia distributiva del benessere sociale, il volume dei vantaggi non giudicato in assoluto, ma anche e soprattutto in rapporto al volume di unità riceventi (servono ovviamente parametri e norme adeguati), stia aumentando o calando e, qualora sia in calo, se dipende dal restringersi delle risorse o dalle sperequazioni eccessive o da entrambi questi elementi.
Per restringersi (o incrementarsi) delle risorse alludiamo a quella dinamica tipica delle società industriali avanzate per cui il raffinarsi del progresso tecnico e dell’efficienza produttiva lotta contro gli effetti opposti generati dal diradarsi dei beni primari per lo sfruttamento intensivo, gli abusi, le ingiustizie, le malversazioni, gli sprechi). Un esempio tipico e immediato ruota intorno al sempre maggiore dispendio che comporta rispetto al passato l’acquisizione di nuove risorse energetiche paragonato alla crescente efficienza dei dispositivi (reti distributive, macchinari, processi industriali) che se ne servono.
Se il risultato netto, come io sospetto e come deve essere provato in un senso o nell’altro (e l’onere della prova spetta moralmente ai ceti dirigenti (che si caricheranno del crimine contro l’umanità di eventuali deliberate menzogne), non ai critici intellettuali che hanno tutto il diritto in una società sana di sollevare dubbi e perplessità) è vicino al culmine di un analogo di curva di Hubbert, ovvero sta raggiungendo un massimo o lo ha già raggiunto per poi declinare, la rinuncia a una riforma che ristrutturi drasticamente gli assetti esistenti può significare soltanto quanto segue: il mantenimento dello status quo serve alle attuali élite per consolidare le proprie posizioni e anzi trarre il massimo vantaggio strategico in vista di un confronto drammatico con istanze popolari che prima o poi diverranno drammaticamente insostenibili.
In questo contesto, la funzione conservatrice delle varie Chiese sarebbe evidentissima: educare la gente a una rassegnazione, un dolente realismo, una sottomissione strutturale, un umore insomma di conformismo e di rispetto verso le istituzioni al potere che tornerà utile per aumentare il livello di sopportazione in vista dei tempi bui che non tarderanno ad arrivare.
In quest’ottica, è ingiusto giudicare l’anticlericalismo come un rigurgito di ribellismo ottocentesco, di individualismo spocchioso e aristocratico, si tratta di un doveroso atto di denuncia, soprattutto in presenza della legge di un unico e vero Dio (indovinate chi è) e comunque vadano poi a finire le cose o piuttosto indipendentemente da quando vadano a finire le cose (dato che l’estinzione, prima o poi, in un modo o nell’altro, dell’umanità, almeno nelle sue attuali forme, non è opinione, ma certezza).
Alla luce di queste considerazioni, la coda di paglia dei moralisti e dei cultori del bene spontaneo e naturale è scontata e io non ho voglia di perdermi in un labirinto di puntualizzazioni e distinzioni per discernere errori voluti o in buona fede, soltanto gli spiritualisti annettono rilevanza alla purezza d’intenti quando conta solo, non tanto i risultati, che dipendono dalla imperscrutabilità di Dio (ricordate l’equazione determinismo = imprevedibilità), bensì la correttezza dell’analisi e della visione (senza la quale non riesco proprio a capire di quale tipo di correttezza o giustizia o etica, assoluta e relativa, stiamo parlando).
Così, almeno, finché si tratta di atti di responsabilità collettiva e decisioni pubbliche, non di gesti dell’esistenza individuale.
La gente infatti tende a confondere le rispettive sfere e a giudicare ogni distinzione al riguardo come foriera di ambiguità e corruzione, annettendovi la responsabilità di quell’inaccettabile astuzia che va sotto il nome di ‘doppia morale’.
Invece anche qui vale l’esatto contrario della cognizione comune, la doppia morale nasce dalla confusione tra agone pubblico e agone privato, non dalla loro netta demarcazione.
Al livello più banale della questione, si constata che, se uno adottasse gli stessi criteri quando è investito di una condotta istituzionale rispetto a quando esercita più ristrette prerogative esistenziali, dovrebbe privilegiare il proprio ambito famigliare e le proprie conoscenze in entrambe le occasioni.
Su un piano più generale ed elevato, il bilanciamento tra partecipazione emotiva e valutazione critica oggettiva non può essere uguale nei rispettivi contesti, pena palesi assurdità che non vale neppure la pena di elencare.
Il punto vero, al di là di una serie di rilievi ovvi e scontati, è che lo spiritualismo afferma in effetti che l’etica risponde a qualcosa di eterno e immutabile, non va declinata secondo il luogo, il momento e la funzione, non necessita quindi dell’intervento inderogabile dell’analisi e della ragione se non vuole consistere soltanto nell’armamentario cosmetico con cui ci si abbellisce un’anima inesistente celando appetiti e interessi, esattamente come con un abito elegante fatto su misura si corregge i difetti del corpo.
Ma il problema è sussistito invariato per tutti i millenni della storia scritta: lo scandalo sociale (già di per sé l’unico e vero scandalo, a prescindere da tanti drammi e brutture) nasce da quella vera e propria forma di razzismo viscerale che è il conformismo, un’eredità animale che l’umanità non aveva il diritto di conservare nella propria qualità di specie sovrana del pianeta.
D’altra parte, non vedendo che la caratteristica specifica della propria differenza biologica non risiede nel sentimento (bellissimo retaggio delle specie ‘inferiori’), ma nel pensiero razionale, la frittata è presto fatta.
E noi Italiani, alla faccia di tutte le nostre virtù culinarie, la cuciniamo molto peggio degli altri.
MISERIA O IMBECILLITA’ DELL’ANTICATASTROFISMO
Questa prolusione viene anteposta alla fase più specificamente progettuale per cercare di irrobustire lo spessore scientifico e filosofico delle motivazioni da cui procede tutta l’iniziativa: è infatti ovvio che non si definirebbe urbanamente condivisibile il proporre soluzioni drastiche se la situazione generale non premesse già il dito sui tasti e le suonerie di svariati allarmi e fosse possibile analizzarla fiduciosi nella caritatevole assistenza di una normalità che si ritiene possa continuare a scorrere inalterata sine die rispettando inveterate, sonnacchiose abitudini. A differenza dei fiduciosi integrati, gli allarmati apocalittici devono possedere qualche solida e ragionevole argomentazione per osare di interferire villanamente con il sonno delle maggioranze che non sono proprio silenziose, ma almeno russano in modo elegante ed educato.
Mi propongo pertanto in questa sezione (che potrà essere evitata da coloro a cui un eccesso di tecnicismo risulta indigesto o che magari si corrodono nella sfrenata cupidigia di ricevere il dono di sapienza riposto nelle mie specifiche e geniali proposte) di spiegare al devoto pubblico perché, a mio clamoroso parere, al punto in cui noi individui tutti, insieme a quella strana cosa nomata ‘umanità’, siamo giunti, poche cose denotino scarsa lungimiranza e preoccupante assenza di acume interpretativo (eufemismo per una parola usata nel titolo) quanto l’anticatastrofismo.
Nel seguito ci dilungheremo, secondo quello che è nostro reiterato vizio e costume, in un codazzo di lambiccamenti filosofici che faranno da corte chiacchierina e voluttuosa a un regale incedere di pochi, essenziali, irrefutabili capisaldi scientifici, ma prima consentitemi una terapia d’urto dialettica che consentirà di avvisare il malcapitato lettore in modo che costui possa scientemente decidere se darsi seduta stante alla fuga o sottoporsi a un tirocinio di immagini e concetti da cui potrebbe uscire malconcio (e, visto che siamo in tema di avvertenze, rimando alle sezioni successive e soprattutto al ‘Prologo’ che segue il ‘Piano Generale’ chi vuole ottenere subito delucidazioni sul velenoso clima culturale che si respira in questo documento).
Con assoluta franchezza, vi dirò, amici lettori (e poi blaterano che in quanto a diplomazia e pubbliche relazioni sono una frana!), che, al di là di tanti bla bla, su cui non smetterò comunque di incaponirmi, l’anticatastrofismo infrange semplicemente il criterio della verità scientifica. Nei prossimi secoli o al massimo nel prossimo millennio, la civiltà umana dovrà verosimilmente affrontare vicissitudini tali che sarà una buona notizia se uscirà decimata, ma ancora viva. Questo significa che, parametrata in base alla gravità dei pericoli, la probabilità di un avvenire massicciamente insidioso è altissima anche per i prossimi decenni. Oggi uscireste di casa se il vostro grillo parlante custode, che funge anche da indovino e profeta personale, con la sua vocetta stridula e fastidiosa che sopportate solo perché vi mette al riparo da voi stessi, vi avvertisse che, facendolo, incorrereste in una probabilità del 5% di venire schiacciati da un veicolo impazzito? Sembra un sofisma di cattivo gusto, ma una probabilità simile, tempo un secolo, viene attribuita a scenari apocalittici nientemeno che dall’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) e inserita come se niente fosse, con grande nonchalance, in articoli di persone serissime e impegnatissime, che sono quindi tutto il contrario di me.
(Ne approfitto per rendere merito a quei ricercatori dell’IPCC che, recentemente, stigmatizzando in e-mail scherzose la tendenziosità interpretativa di taluni destinatari dei rapporti, hanno evidenziato, senza che fosse questo il loro scopo, la clamorosa manipolazione che subisce quotidianamente il sistema mondiale dell’informazione. Ne è nato infatti un tipo di scandalo generale che nessuno dei maggiori organi si è invece sognato di sollevare in merito a certe rivelazioni effettivamente scandalose diramate da Wikileaks. Come dire: si sa che, in giro per il mondo, comandano dei farabutti patentati e speriamo che i nostri siano abbastanza abili e scafati da difenderci dagli altri, ma queste piattole di intellettualoidi che ci fanno le pulci e ci mettono il bastone tra le ruote devono assolutamente rigare diritto)
Le conclusioni inquietanti, mega attentati terroristici a parte, che esulano dal tipo di oggettività che al momento ci proponiamo di scandagliare, derivano da tre ordini di considerazioni: uno si riferisce alle decine e forse centinaia di abnormi calamità geofisiche (terremoti, eruzioni vulcaniche, caduta di asteroidi…), già avvenute in passato, il cui ritmo è stimato secondo intervalli di lunghezza press’a poco uguale al periodo intercorso dall’ultima sopravvenienza. Ogni singolo fenomeno potrebbe accadere domani come tra molte migliaia di anni o anche non presentarsi mai più, resta il fatto che, per la maggior parte, la probabilità cresce nel tempo con l’accumulo delle tensioni e inoltre la molteplicità delle combinazioni determina effetti statistici che traggono in inganno la mente umana, come quando si tratta di stimare, in base al semplice intuito, in quante delle partite disputate in un campionato di calcio si ritrovano in campo giocatori nati lo stesso giorno.
Una seconda fonte di rilievi, meno pressante, ma più enigmatica, concerne un tipo di ciclicità più vaste e regolari, connesse all’inesorabilità di eventi astronomici (inversione del campo magnetico terrestre, lampi di radiazioni e brillamenti solari, fluttuazioni dell’orbita e dell’asse…).
La terza e ultima categoria attiene alla modifica degli habitat e agli squilibri globali (scomparsa dei ghiacciai, sollevamento dei mari, sconvolgimento delle correnti aeree e oceaniche…) indotti dall’azione sconsiderata della nostra specie, la cui influenza supera ormai quella di qualsiasi altro fattore ordinario presente sulla superficie del pianeta, esclusi quindi gli eventi estremi o capitali già elencati: l’instabilità generata va a interferire con dinamiche complesse e interazioni non lineari il cui esito preciso rimane fuori dalla portata di qualsiasi previsione sensata e non può essere ipotizzato neppure qualitativamente per la sproporzione, propria del genere di causalità implicate, tra le condizioni d’innesco e le conseguenze finali.
Forse, per fugare un falso senso di sicurezza che, come ogni palliativo, procura effetti epidermici di sollievo momentaneo che nascondono un pericoloso abbassamento della guardia, varrebbe la pena di considerare se la storiografia assegna un peso adeguato al condizionamento degli eventi naturali nella vicenda umana.
Il mito sumerico del Diluvio Universale e quello egizio di Atlantide, per citare soltanto l’etnografia più nota in occidente, ci fanno intuire l’importanza degli sconvolgimenti nel mondo primitivo e proto-storico, alle cui devastazioni ambientali si riconnette un altro mito supercanonico, quello della cacciata dall’eden, fossilizzato nella drastica diminuzione di statura che si desume dalle ossa di antiche sepolture dopo il passaggio a un’organizzazione statale fondata sull’agricoltura, l’allevamento e l’artigianato: una radiografia, spettrale in tutti i sensi, che documenta lo scadimento di stoffa esistenziale conseguente alla fatidica immissione in una o l’altra delle grandi correnti ‘progressiste e civilizzatrici’.
Come in passato, anche oggi è la fiction ad annettersi ed esorcizzare la natura metastorica dei disastri, mentre molti studiosi non prendono nemmeno in considerazione l’ipotesi che, senza la piccola era glaciale dal 1300 al 1850 circa, gli strascichi soprattutto culturali del terremoto di Lisbona o l’eruzione del Laki o del Tambora o altro la civiltà attuale potrebbe essere molto diversa da quello che è.
Quindi i più ritengono erroneamente che cinquemila anni senza scossoni o disturbi, a parte quelli ascrivibili alle frenesie guerrafondaie o alla demenza in gran parte imputabile al pool genico troppo ristretto a cui attingevano le aristocrazie, costituiscano un’adeguata promessa d’imperturbabilità futura e così si tralascia di trasporre al presente gli effetti di devastazioni accadute in territori ancora disabitati o quasi al momento in cui avvennero.
Invece il punto da tenere ben presente, all’interno di un più generale intrico di interazioni e concomitanze, verte proprio sulla dinamica del pericolo, che non si limita agli effetti disastrosi in sé, ma, soprattutto quando questi si estendono su scala planetaria, come accade per le gigantesche eruzioni vulcaniche, comporta ripercussioni sul tenore della convivenza umana, inclusi sicuri conflitti tra popolazioni che vivono in stato di sovraffollamento e artificiosità su territori profondamente stressati, una bellicosità esasperata dalla drammatica interruzione, poi brusco capovolgimento, del progresso materiale. Non dimentichiamo, tra l’altro, che la sostituzione dell’aggressività economica al confronto militare, la corsa alla speculazione e alla conquista tramite il capitale finanziario che si è spesso sostituita, senza abolirla, alla forza muscolare delle armi, l’ambiguo e precario sistema di accordi e compromessi sostanzialmente propiziato dalla solidarietà internazionale dei ceti prosperosi (proprietari di tutto il mondo, unitevi!), tutto ciò franerebbe come un castello di sabbia in presenza di tracolli improvvisi e marcati della produzione agricola e industriale. Pressati dal disagio incontenibile delle masse allevate a panem et circenses, le classi egemoni sarebbero obbligate ad abbandonare il pacifismo di convenienza e rimettere in auge la millenaria opzione della guerra.
E’ incontrovertibile, ovvio, lapalissiano che esistano costruzioni politiche e assetti sociali che, per quanto relativamente funzionali e propulsivi in regime di ordinaria amministrazione, risultano pericolosamente fragili e perfino esplosivi in condizioni di forte tensione per motivi trascendenti e incontrollabili. Lo strapotere della finanza, per esempio, agevola senz’altro le interessenze di strutture che, per la propria stabilità e dinamicità, contano sul potenziale creativo delle oligarchie poco o tanto illuminate, ma, palesi iniquità a parte, si trasformerebbe in un reattore nucleare impazzito nel caso di catastrofi la cui probabilità non è bassa come sembra (evito per delicatezza di produrre esempi). Lo stesso dicasi per la megalomania edilizia che sta coinvolgendo in deliri di nazionalismo faraonico soprattutto le nazioni emergenti, dove il coraggio e la straordinaria abilità del personale qualificato vengono adibiti a sogni di potenza che (è la solita vecchia storia di tutti i grandi capolavori dell’architettura) si riflettono negativamente o punto sulla qualità media delle singole esistenze e, se anche vellicano la vanità di certe minoranze fortunate, intimidiscono l’individuo comune facendolo sentire piccino almeno quanto gli appare enorme l’ideologia di chi ha commissionato gli sfarzi senza avere mai avvitato un bullone. Benché l’istinto turistico-religioso del benpensante continui a respingere tali argomentazioni come malate di fiacco egualitarismo, io considero il rattrappimento delle coscienze attraverso il ricatto del gigantismo epico un veleno mortale per ogni democrazia, il prodromo della sua messa in scacco automatica.
Al contrario, uno stato sovvenzionale intelligente, in grado di promuovere una democrazia autentica (quella che, se non fosse una chimera, si baserebbe su una morale da uomini liberi e non su una mentalità da subalterni e da malleabilissimi sudditi) predisporrebbe strutture, come una industria del cibo artificiale, del vestiario e del rifugio essenziale (da progettare secondo una visione concreta, ‘ravvicinata’ ed ecologica di un’azione umana da alleviare ed essenzializzare al di là di tante maligne o maldestre fanfaronate metafisiche) e altri liberatori interventi capillari che, adeguatamente concepiti e difesi, reggerebbero bene all’urto di alcune categorie di disastri e potrebbero essere usati per produrre merci e servizi da scambiare con materie prime o altri beni e aiuti da aree geografiche diversamente colpite. Quindi, quello che in un primo tempo sarebbe concepito come principio di libertà, sia dell’individuo (inteso concretamente e psicologicamente, non come il ‘corpo sacro’ del materialismo clericale) che di una struttura economica indipendente (che, non più cavalcata da quell’eunuco obeso e parassita che è lo stato attuale, potrebbe meglio irradiare effetti collaterali positivi, restando effettivamente vigilata per quelli negativi), alla fine si rivelerebbe una scelta strategica essenziale addirittura per la sopravvivenza della specie.
Questo assaggio o antipasto dovrebbe essere sufficiente a perorare la necessità di una rivoluzione drastica degli attuali modelli di convivenza e renderci sospettosi e refrattari verso un andazzo, tuttora galoppante, che aumentando la vulnerabilità generale, spande sinistri annunci di sventura proprio mentre si erge battagliero sul suo destriero schiumante.
Detto l’essenziale, ora mi sbizzarrirò su questioni che, al confronto, possiamo considerare amene.
Le mie cognizioni matematiche, non proprio banalissime, anche se mai assunte a granitica saldezza professionale, si sono purtroppo arrugginite nel tempo, per cui mi tocca cercare espedienti euristici per raggiungere gli indispensabili livelli di rigore (che potrei miseramente fallire, per cui verificate, gente, verificate e calcolate).
Assumendo una curva a campana interpolata mettendo in ordinata i numeri trovati su una riga n (n molto grande) di un triangolo di Tartaglia (o di Ruffini o di tutti e due (attribuzione nazionalistica)) e in ascissa i relativi indici, immaginando di spostare la curva di una unità a destra sul grafico, i valori x che rimangono sotto la curva a destra del nuovo punto centrale corrispondono a valori di y che rispetto ai precedenti (quelli denotati dalla curva prima dello spostamento) risultano incrementati per un fattore moltiplicativo che, procedendo dall’estremità destra verso il centro ed escludendo il primo, scende progressivamente da n a 1 ((n – k) / (k + 1) , con k che va da 0 a n / 2).
Passando a una distribuzione normale qualsiasi (curva di Gauss o di Poisson o di entrambi i validi contendenti) cambia la varianza della distribuzione e quindi la cosiddetta deviazione standard (effetti sulla ripidezza e distensione delle linee) ma non viene intaccato il riscontro fondamentale, quello importante ai fini di questa discussione, ovvero che la frequenza dei valori a destra della media si dilata nella coda maggiormente che nella zona intorno alla media, quindi, se quanto stiamo esaminando si riferisse alla tabulazione di risultati sperimentali, una modifica verso l’alto nella misurazione dei punti centrali comporterebbe, nel caso di una distribuzione statistica che rispecchia il comportamento di una classe vastissima di eventi naturali, una maggiore incidenza dei casi estremi pericolosi registrati in precedenza rispetto ai tipi più abituali.
Ovviamente, sul lato opposto, avviene il contrario, ma quando un indicatore importante si destabilizza crescendo (o diminuendo) in una certa direzione, è solo quella che interessa (che si proceda verso destra o sinistra non importa).
Ciò illumina circa i rischi connessi a qualsiasi tipo di instabilità: i pericoli maggiori non derivano dallo spostamento che interessa i valori centrali (per esempio può sembrare in sé irrilevante se la temperatura media del pianeta sale di un grado), ma dal comportamento di uno degli estremi, il problema concerne cioè il verificarsi delle circostanze più abnormi da un lato della sequenza: in primo luogo, potrebbero superare limiti di tollerabilità per i quali non importa quanto spesso si presenta il temuto eccesso, ma se si presenta e basta (una sola evenienza, infatti, potrebbe arrecare danni irreparabili), inoltre, s’incrementa la frequenza relativa, nella successione completa dei vari avvenimenti, di tutte le anomalie già registrate in passato.
Dunque, ricapitolando, lo spostamento di una gauss-poissoniana relativa a fenomeni climatici (per esempio la temperatura) è doppiamente preoccupante: innanzi tutto perché può fare apparire eventi di portata incalcolabile prima sconosciuti o rarissimi, in secondo luogo, perché dà il via a un aumento più che proporzionale di tutti i fenomeni violenti, che si aggiunge a un accumulo rilevante anche in zone intermedie per la cui azione potrebbero innescarsi, a causa della ripetizione, processi caratterizzati da reazioni a catena e cicli di riverbero e autorinforzo a crescita esponenziale.
Chi, di primo acchito, non ha compreso il ragionamento, è meglio che se lo studi o se lo faccia spiegare, poiché le problematiche implicate sono assai spinose e rilevanti.
Osserviamo, di passaggio, che l’andamento delle variazioni incrementali delle frequenze a seconda della varianza interna di sistema potrebbe spiegare certe improvvise discontinuità che, verificandosi in condizioni sia sperimentali che naturali, impediscono qualsiasi tipo di previsione sicura, per esempio nel caso di terremoti o eruzioni vulcaniche. Pensiamo anche alla frequenza e all’entità delle frane in mucchietti di sabbia riforniti sistematicamente, a intervalli fissi, un granello per volta, che è un tipico esperimento pionieristico progettato per verificare gli assunti della criticità autorganizzata: le osservazioni, anche qualitativamente, differiscono per mucchietti piccoli o grandi analogamente a quello che avviene in dipendenza dell’entità numerica di gruppi sociali di cui si studiano le scelte individuali di collaborazione o defezione collegate alla distribuzione di costi e benefici.
L’allargamento alle più diverse tematiche è facoltativo, ma nella maggio parte dei casi abbastanza fondato. Di sicuro, non è ozioso nemmeno qui, dato che può servire a instillare una percezione istintiva di relazioni latenti e intricate tra dinamiche naturali e dinamiche connesse alle società umane: prima ci si rende conto che ogni instabilità è preoccupante in sé e per sé, soprattutto quando si ignorano le interazioni reciproche, e prima c’è la speranza che ci si faccia carico seriamente dei problemi. Se, a prescindere da colpe e intenzioni dei diretti interessati, alcuni studiosi hanno mai sviluppato ipotesi, apparentemente credibili e perfino intelligenti, eppure dannosissime per gli effetti procurati, conferirei senz’altro la palma ai patiti dell’omeostasi quasi metafisica, come i propugnatori del pianeta vivente di nome Gaia o i teorici dell’anticaos, ovvero di un principio fisico non ancora scoperto, che nei confronti della termodinamica statistica si comporterebbe un po’ al contrario di come l’energia oscura si comporta in rapporto all’espansione dell’universo, ovvero come un freno o addirittura una inversione di marcia dell’entropia.
In realtà, per spiegare la creazione di ordine in sistemi complessi come gli organismi viventi non è necessario invocare alcun tipo provvidenziale di legge misteriosa propiziata da una superiore e divina saggezza del cosmo, come anche il principio antropico forte, tanto indebito ed eccessivo quanto quello debole è sottile e illuminante: l’impossibilità del disordine come proprietà olistica di una varietà di correlazioni è ben dimostrata da moltissime branche della ricerca matematica pura, tra cui, prima di tutto, l’algida e distaccata regina indiscussa, la teoria dei numeri (dove la potenza di creare relazioni di simmetria e ordinamenti strutturali tra i numeri è infinita almeno quanto gli stessi numeri interi (non so se sia infinita quanto i numeri reali), quindi non può essere afferrata per intero da alcun campionamento finito), poi l’informatica delle reti neurali e degli automi cellulari, la combinatoria di Ramsey, la dinamica dei sistemi caotici e tanto altro ancora, in un certo senso tutta la matematica nessuna branca esclusa.
Purtroppo la fisica e la biologia che, grazie anche alla forza di cotanto armamento, possono spiegare l’insorgenza automatica di complessioni organicamente correlate, devono purtroppo quantificare anche la bolletta dell’inesorabile e intransigente costo energetico relativo alla loro conservazione, tassa che interessa tutti i costrutti appena smettono di fluttuare sopra i campi elisi del mentalismo puro per calarsi nella brutale materialità di un mondo poco gaio. Inoltre permane un vincolo insopprimibile, da cui non è possibile esimersi con licenze, sconti e altri favoritismi (a cui avremmo pure il diritto di ambire in quanto specie prediletta dal Signore e chissà perché ci vengono negati), tra la velocità di creazione del disordine sparso intorno all’obbediente e disciplinato sistema e la potenza impiegata per strutturare e mantenere strutturato il sistema medesimo.
E’ ovvio che, in termini strettamente fisico chimici, il disordine in oggetto potrebbe tradursi in effetti tutt’altro che negativi, almeno nell’immediato, è il caso, per esempio, della trasformazione da parte di piante e microrganismi dei legami molecolari di rocce che, sulla superficie della Terra, si trovano in stato metastabile, non ancora riequilibrati alle attuali condizioni di temperatura e pressione. Inoltre vigono circuiti capillari e incessanti di riciclo. Qui però stiamo parlando della Natura: passando al mondo umano, la musica cambia, sia per la sostanziale oscurità e intrattabilità delle dinamiche sottese, che per l’azione depistante di interessi economici che hanno quasi sempre buon gioco nel rendere la situazione ambigua e indecifrabile. Non sono certo in grado di produrre un esauriente studio analitico e stilare una mappa precisa di quell’alone entropico che comunque indubitabilmente sussiste e si sviluppa, ma la situazione generale sta degenerando più di quello che traspare dai notiziari e la sensazione che si trae dalle aree che circondano le grandi metropoli dei paesi emergenti e non solo, anche e soprattutto quelle i cui palazzi centrali concorrono per i record mondiali di altezza, non è certo tranquillizzante.
E quindi adesso, da vero virtuoso della prestidigitazione retorica (scusino i lettori seri le gigionerie e gli arlecchinismi da intellettuale depravato, ma un po’ devo divertirmi altrimenti è difficile trovare una motivazione per un lavoro che nessuno paga (come dice, lei, signorina della terza fila (mamma mia che sventola e come mi mangia con gli occhi!!): perché insisto? Non mi faccia ripetere la paroletta (in termini grammaticali stretti non è neppure tale) che già ebbi modo di esibire: Boh! Ecco, me l’ha tirata fuori dai denti: contenta? Boh, boh e boh!!! Il che poi ha una sua pertinenza, in quanto non sarà una risata a seppellirci, ma un grosso, grossissimo ‘Boh’, come si è cercato di spiegare finora o sarà forse spiegato nel seguito…
E comunque, siore e siori, è meglio vestire spontaneamente gli stracci del pagliaccio (oh, un comunissimo clown, dato che qualcosa come un fool shakespeariano mi sembrerebbe già un pretendere troppo) che farsi imbrattare di ideale vernice sgargiante gli abiti impeccabili del pontificatore serioso che si presta a massaggiare con una spalmatura di brividi i gaudenti integrati: la maggior parte di quelli, infatti, nonostante ce la mettano tutta, non riesce a istupidirsi più di un certo livello e il realismo scientifico è una ginnastica che, presa alle giuste dosi, corrobora e snellisce e addirittura abbassa la pressione. Dopotutto, non è neppure spiacevole pensare che, appena ce la saremo scampata, tornerà il tempo del Diluvio Universale. In effetti, stiamo parlando di cose più vaste di una semplice vita, qualcosa che sprofonda oltre gli orizzonti di una serena vecchiaia e anche della vita dei nostri congiunti più giovani.
Sicuro?
Non logico e nemmeno giuridico.
Ma, sbavando velenosamente a denti digrignati, mi tocca ammettere che hanno ragione: cazzo, se ce l’hanno! Prima di tutto moltissimi non curano i destini del mondo secolare perché credono nella vita eterna, il che è plausibilissimo: è difficile ipotizzare razionalmente che qualsiasi cosa accada una volta soltanto invece di ripetersi all’infinito, avrebbe una probabilità zero di accadere e quindi non potrebbe accadere (?). Inoltre Godel (il cui fantasma appare ora per la seconda volta e riapparirà in seguito) dimostrò matematicamente, servendosi delle equazioni della relatività generale, che un universo con linee degli eventi circolari (in cui si cammina nel futuro e ci si ritrova nel passato come alla fine di un giro del mondo temporale) è fisicamente concepibile, non viola alcuna legge fisica, peccato che richieda concentrazioni di energia incredibile, almeno quanta se ne può pigiare a malapena in un singolo universo, nel senso che, una volta costruito il motore di curvatura, rimarrebbero solo piste vuote e nessun cavallo o bolide da farci correre sopra. Tutto ok, allora: basta passare al multiverso ed ecco che, nell’eternità, il chiudersi delle linee degli eventi diventa non solo possibile, ma molto plausibile.
Sì, beh, forse, se non ho sbagliato niente, c’è sempre di mezzo ‘sto cavolo d’indeterminazione quantistica (anche se più avanti la sistemo come si deve), e inoltre un fottio di cose oscure e non verificabili.
A sentire Brian Green (‘La realtà nascosta’), il massimo esperto in materia, almeno a livello divulgativo, lo scenario da me ipotizzato non trova molto appoggio nella comunità scientifica (per dirla franca, non lo considerano nemmeno, forse perché accederebbe con virulenza competitiva alle aree di scambio culturale dominate dalle religioni, volatilizzando eventuali finanziamenti), ma io mi permetto di osservare, da fantasioso e dilettantesco outsider a cui piace giocare con l’universo come un bambinone ritardato, che, se le linee degli eventi non si chiudono in un gomitolo parmenideo incommensurabilmente grandioso, che esiste immobile e autosufficiente una volta per tutte ed è pervaso qui e là dalle vibrazioni infinitesime delle singole vite simili a puntiformi accensioni luminose (sissssignori, lo avete capito benisssssimo: è Dio!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!), diventa difficile spiegare come tutto possa rinnovarsi incessantemente senza esaurire la carica. Inoltre, nessuna delle nove versioni di multiversi ‘canonici’ risolve il problema della probabilità zero: la ripetizione ‘in parallelo’ dei fatti non annulla l’unicità del singolo evento identificato dall’insieme delle sue variabili comprese le coordinate nel senso della geometria differenziale (non punti assoluti, ma elementi di una metrica tensoriale), quadri o pluridimensionali che siano, all’interno di un sistema di pertinenza globale dalla cui influenza non si possa prescindere. Possiamo intuire la ‘complessività’ dei fenomeni alla luce degli effetti che lontanissime esplosioni (o implosioni) stellari, risalenti addirittura, alcune, ai primordi dell’universo, provocano nell’ambito della struttura microscopica di qualsiasi aggregato materiale presente nella nostra realtà quotidiana, per esempio, anche in questo preciso istante, quel bicchiere d’acqua sul tavolo o il nodulo del cervello che ne permette la ricezione sensoriale.
E ricordate sempre, non dimenticatevene mai, la farfalla di Lorenz.
La mia impressione è che l’aggiunta di nuove dimensioni caratteristica delle varie proposte di teorie unificate complichi, dissimuli, ma alla fine non aiuti a risolvere già su piano semplicemente logico il problema dell’infinità e della compresenza del tutto. Anche se non sono sufficientemente ferrato in materia per poterlo sostenere a spada tratta, descrivere i fatti astronomici attraverso approcci come quello della teorie delle stringhe mi appare un po’ come spiegare il comportamento di un computer fissando ogni suo stato in una enorme matrice di cifre binarie per poi collegare queste matrici in sequenze. Collocandosi a un piano troppo basso nella scala dei livelli di emergenza che fissano in relativa autonomia le connessione specifiche dei descrittori concettuali e in particolare non contribuendo minimamente a risolvere quell’enigma fondamentale del mondo fisico e/o mentale che concerne la nozione del tempo, non stupisce che le teorie di grande unificazione stentino ad architettare una qualsiasi prova sperimentale pro o contro.
Ovviamente, se ogni singolo universo fosse perfettamente impermeabilizzato, il discorso finirebbe qui, il multiverso risulterebbe scientifico (e quindi anche filosofico) come un asino con le ali. Lo spaziotempo sembra perfettamente piatto e quindi la morte termica, salvo berlusconiane sorprese (l’energia oscura che si carica fino al parossismo di una nuova esplosione?), assicurata. Il discorso della probabilità non avrebbe senso per la sperequazione immane tra l’inizio (il biggo bango) e la fine (la buddhistica pace del nulla), delineante una progressività storica all’insegna di una scansione limitata dall’alfa e dall’omega, un episodio complessivamente irrelato ed enigmatico che nessuno saprebbe come ricollegare ad alcunché di globalmente più organico. Se tuttavia, per qualche ignota transizione connessa alla natura quantistica del vuoto o qualche altra sublime birbonata, tutta la materia a un certo punto riprendesse a contrarsi per dirigersi di bel nuovo verso un punto singolare, la ripetizione ciclica degli eventi dipenderebbe dalla possibilità o meno di descrivere l’universo oscillante attraverso traiettorie circolari di tipo godeliano.
Detto questo, vediamo un po’: se la globalità dell’esistente (concetto che potrebbe essere proibito dallo stesso tipo di inammissibilità che ha compensato, piuttosto artificialmente, la caduta del logicismo di Frege e che quindi utilizzo con riserva) assume a ogni nuovo istante una configurazione mai assunta in passato (concetto che, se il multiverso è infinito, potrebbe perdere completamente di senso già alla luce di una definizione cantoriana di insieme infinito come quello che può essere messo in corrispondenza biunivoca con ciascuna delle sue parti (infinite)), ogni suo stato a probabilità nulla potrebbe essere visto come esistente solo in modo fantasmatico, una sorta d’illusione perenne alla luce della quale tutto ciò che esiste lo fa a condizioni metaforicamente simili a quelle secondo cui il principio d’indeterminazione ammette l’apparizione dal nulla di particelle virtuali. Sto facendo della metafisica, è chiaro, usando un linguaggio oscuro (eccheccavolo, mi sto allargando, e allora? C’è forse una comunità che mi stipendia e quindi ha diritto di sindacare ogni cosa che dico? No e non posso nemmeno aspirare a un milionesimo del successo di Moccia, che si occupa di cose immensamente più interessanti, non è nemmeno concepibile che siano pubblicati certi minestroni non digeribili dal gusto corrente, quindi, come diceva l’Aldo P. al Bar del Ciambellino, lasciatemi divertire, soprattutto voi, xxxxxxxxxxxxxxxx (oooops, questo mi è scappato e quindi lo cancello!)), ma forse potrebbe trattarsi di metafisica di buona qualità in grado di suscitare qualche intuizione più propriamente scientifica. Del resto, se due successivi stati identici del Tutto, ammesso che siano concepibili, non immettono in una ciclicità infinita, significa che le leggi cambiano nel tempo. Già, il tempo! Se l’orologio scorre all’infinito senza mai arrestarsi e tornare indietro, tutte le infinite copie di noi stessi che non cesseranno mai di ripresentarsi saranno semplicemente degli estranei uguali a noi. Se il tempo, come sembrerebbe affermare la relatività generale, è una variabile indipendente, un coefficiente attivo e cruciale a tutti gli effetti (che, rispetto a ognuna delle dimensioni spaziali, contribuisce ai rapporti di distanza con il segno cambiato) e non la semplice direzione in su e in giù dell’entropia, ogni evento che si presenta in tempi diversi è diverso da tutti gli altri e, analogamente, il tipo di leggi presenti in un momento x potrebbero essere interpretate come un elemento decisivo all’interno del ‘principio di identificazione’ delle componenti di sistema.
Non so perché, ma a me l’esistenza stessa delle leggi cosmiche mi sembra intuitivamente incompatibile con un universo aperto (ci può essere una dimostrazione per il sì o per il no o per il ‘non c’entra un fico secco’?).
Significa che le leggi, in una ipotetica visione cosmica plenaria (a uno sguardo divino), si rivelerebbero pura illusione se non fossero capaci di organizzare qualcosa di costante, fisso, duraturo? Può darsi, anche se il termine stesso ‘illusione’ sarebbe tra i primi a perdere senso, tutto in effetti perderebbe senso e non si potrebbe parlare di alcunché, nemmeno in modo approssimativo o fantasioso (le trovate della fiction, come le religioni, sono possibili se e solo se esiste una realtà con cui confrontarsi e da cui scegliere, trasfigurare, abolire).
Questa illusione / non illusione rivaluterebbe l’idea tradizionale di Dio? Ma neanche per sogno (o forse solo nei sogni)! Dio come viene inteso dalle ortodossie confessionali cozza, non solo contro la logica e i principi stessi della ragione, ma contro tutti i più elementari concetti di giustizia ed equità, a meno che non sia un buontempone che si diverte ad assistere alle nostre sceneggiate e poi ci premia tutti per quanto siamo stati spassosi (e perché invece non ci punisce o ci annulla?). Ogni fedele commette il blasfemo peccato di orgoglio di poter ambire a condizionarne ‘le inclinazioni e il comportamento’ cicero pro domo sua e lo fa senza nessuna luciferina intrapresa, senza prometeica rischiosità e grandezza, semplicemente nascondendosi nel gregge e confidando nella forza del numero, come se miliardi di umani che belano insieme contassero qualcosa davanti al concetto stesso di Dio: soltanto una colpa corale al posto di una colpa singola. E pazienza (e anzi ben venga, sarebbe un peccato di arbitrio migliore di qualsiasi virtù), se l’umanità fosse un toccasana per il pianeta, il giardiniere dell’eden, ma non è così, non è proprio così e le religioni sono corresponsabili primari di tale situazione degradante.
Se non siete d’accordo, continuate a occuparvi della vostra animuccia e a fregarvene di quello che Dio ha creato, senza cercare d’interpretarlo con gli strumenti che egli stesso ci ha dato (l’osservazione, la logica, la ragione), ne sarà di sicuro contentissimo: sulla Terra ha creato tutto soltanto per amore nostro e non vede l’ora che ce lo siamo divorato dalla prima all’ultima briciola. Ah già, dimenticavo l’amore, quel sentimento che quando viene rivolto a tutti non esiste veramente per nessuno.
E’ possibilissimo che il nostro cervello non sia costruito per risolvere questo tipo di problemi e quindi non possa farlo né ora né mai. La questione si chiuderebbe quindi così. Le religioni istituzionali coprono allora il mercato di una richiesta istintiva che, altrettanto istintivamente, ognuno di noi sa che non può essere soddisfatta; l’impossibilità, vera o presunta, autorizza la sostituzione di ogni proposta razionalmente dignitosa con convenzioni socialmente strutturate, schemi d’interazione comunicativa e politica che confluiscono in una costruzione gerarchica di regole astratte che trasgrediscono solo apparentemente il divieto wittgensteiniano di cui parleremo tra poco, in realtà corrispondono pienamente alla nozione di ‘gioco’ introdotta dal filosofo austriaco. Per intenderne il significato, ovviamente, dobbiamo oltrepassare gli orizzonti della logica formale e approdare a concetti di struttura antropologicamente intesa (Levy Strauss eccetera), ma ci autorizza il ‘gioco’ stesso di Witt, l’ambiguità del suo ‘mostrare’ attraverso un discorso programmaticamente scarno fino all’anoressia e aridamente tecnico. Beninteso la violazione è solo apparente perché nessuno di quelli che credono veramente che le regole del gioco religioso siano assolute, eterne, incorruttibili, come esige l’impulso emotivo che fonda il commercio sul lato della richiesta, contribuisce effettivamente alla creazione, conservazione e modifica delle regole medesime, ovvero configura l’offerta.
Ovviamente tutta quanta la faccenda manda in visibilio i sinistri machiavellici di casa nostra, condizionati da più di un millennio di storia patria a temere il caos dell’anarchia sopra ogni altra cosa, dispostissimi quindi a calarsi i mutandoni e offrire le delicate terga sgusciate a ogni sorta di potere forte, purché (condizione prendere o lasciare) forbito e bizantino nei pensieri, sobrio e controllato nell’atteggiarsi, politicamente integerrimo e quindi in grado di valutare correttamente il meccanismo delle tensioni e l’autentico bilanciamento delle forze in campo. I presupposti scientifici e oggettivi che informavano il marxismo originario, tuttora validi e condivisibili al di là di errori di utilizzo e difetti previsionali (non dimentichiamo poi che la scienza ottocentesca si trovava in una condizione primitiva o addirittura infantile rispetto a quella attuale, che tuttavia s’istupidisce non appena progetta di disfarsi della filosofia), li ritroviamo interamente tradotti in termini di spregiudicatezza sociologica e ragionieristica realpolitik. Via Machiavelli, del resto, che altro pensatore ci resta? Benché, a ben guardare, il machiavellismo, quasi sempre addolcito in mazarinismo (alla francese) da istrionici marpioni, risulta iniquamente antistorico in una situazione dove le baronie non si combattono strenuamente per l’indipendenza del proprio piccolo feudo, agitando le onde di un marasma in cui piccoli e grandi stentano a nuotare, ma obbediscono rispettose alla regia internazionale del Supercapitalismo finanziario che tiene saldamente in pugno i coglioni della gente e li strizza ogni volta che gli torna comodo o gli dà piacere.
Per farsi un’idea di come funziona il mistico bestione conviene dare una scorsa veloce alle regole di quest’altro gioco, gerarchicamente superiore al gioco religioso, e vedere come si traducono in grandi messe nere officiate nelle cattedrali economiche dell’AVCF (Assoluta Verità della Contabilità Falsificata). Abbiamo due tipi di nazioni: i PDCO, Paesi Decotti del Capitalismo Originario che presentano SDG (Situazione Debitoria Generale, debito pubblico più debito privato) simili tra di loro e ovunque, se contabilizzate senza trucchi o malversazioni, disastrose, in sostanza a causa di un concetto antico di democrazia intesa come sistema controllato o almeno influenzato dalle masse che aspirano al benessere, ma anche e forse soprattutto per le regalie e le sanatorie devolute alla grande economia privata che si pappa i guadagni nei tempi delle vacche grasse e tende una mano elemosinante in quelli delle vacche magre; e le NEAC (Nuove Economie Ambiguamente Colonizzate) che vantano una SDG ottimale o comunque più che accettabile grazie soprattutto alla concentrazione autoritaria dei capitali e a un livello medio di vita inferiore a quello dei più scansafatiche dei disoccupati di occidente. Orbene, i PDCO si dividono in forti, intermedi o deboli in dipendenza soprattutto della presenza o assenza dei seguenti fattori: possesso diretto o indiretto di materie prime e fonti energetiche, cospicua presenza di multinazionali legate strategicamente al governo centrale e di grandi imprese esportatrici, un sistema dei finanziamenti e del credito in grado d’influenzare il mercato internazionale dei capitali. Attraverso le proprie imprese e le proprie banche i PDCO forti attirano capitali dalle fasce alte degli altri PDCO, che abbandonano di fatto ‘la patria’, e dalle strutture apicali dei NEAC, riuscendo così a pagare interessi sul debito pubblico innaturalmente bassi rispetto a quelli che i PDCO deboli devono versare nonostante una SDG sostanzialmente simile. I PDCO forti restituiscono il favore ai traditori dei PDCO, nominandoli propri vassalli, e ai NEAC, facendo affluire investimenti che eseguono più che volentieri dato i costi di manodopera e infrastrutture ancora convenienti rispetto a quelli riscontrabili nei PDCO. I PDCO deboli vengono munti inesorabilmente e il processo continuerà finché non saranno espropriati da ogni struttura potenzialmente concorrenziale rispetto a quelle dei PDCO e dei NEAC più forti e finché i costi interni non saranno paragonabili a quelli di un NEAC allo stadio iniziale o quasi. Nel frattempo i NEAC che non rispetteranno le consegne, a meno che non dispongano di materie prime d’importanza cruciale, potranno essere prosciugati da un mese con l’altro (restando quindi costantemente ricattabili), mentre i NEAC più forti potranno gradualmente equipararsi ai PDCO più forti, incontrandosi a mezza strada per quanto riguarda i costi di produzione interna e la qualità media di vita degli strati numericamente più rilevanti. Nel frattempo i grandi ricchi, concentrati nei vari consigli di amministrazione o negli organi di collegamento alla gestione politica e burocratica, saranno diventati una specie di Comitato Imperiale che assume tutte le decisioni di effettiva importanza planetaria comandando a bacchetta i parlamenti degli affiliati e dei vassalli. Tutto ciò a meno di collassi del sistema per crisi esogene o endogene oppure (risata) di decisioni intelligenti e coraggiose da parte dei NEAC e dei PDCO più deboli, che sono improbabilissime, se non ci si libera dal controllo dei vassalli e degli affiliati di cui sopra, quindi sono improbabilissime e basta.
Peccato che non si possa assegnare a singole figure il merito per la creazione del mega apparato : meriterebbero senz’altro il Nobel della Pece (pardon, della Pace) e la pece, cioè no, la pace, più solida e duratura, quella che ai veri potenti conviene più della guerra.
Era una parentesi e la chiudo, riallacciandomi al discorso precedente.
A ogni buon conto, la mia è l’unica presunzione d’immortalità che non si possa scientificamente escludere: vi sta bene così? Non è scienza, ma, a differenza della versione di vita eterna tradizionale, non è neppure antiscienza. Quindi, cicciolini miei, colui che se ne sbatte delle sorti del pianeta perché conta di fare a tempo a vivere in bellezza non è che abbia poi tutti i torti: se i suoi piani riescono con la ciambella, si garantisce una possibile o ipotetica eternità di goduria e saranno quelli dopo di lui a sobbarcarsi una possibile o ipotetica eternità di vita grama.
Come dice, signore? Non sono molti, anche tra quelli che ci appaiono come privilegiati, che farebbero i salti di gioia a rivivere tale e quale la vita che hanno vissuto finora? Eh, ma siete proprio incontentabili, voi borghesucci o borghesoni, o la felicità eterna o niente e pur di ravvivare l’ipotesi del portento vi rassegnate a concedere una contropartita di pene e castighi illimitati, tanto a voi non toccherà, siete troppo onesti e sinceri e autentici e pieni di buona volontà, mica come certi stronzi che conoscete e non vale neppure la pena di nominare. Eppure, in fondo, se ci rifletteste seriamente, si tratterebbe comunque di appartenere o no al novero degli eletti e così è meglio abituarsi a pensare che gli eletti, se il concetto deve mantenere un suo peso, siano molto meno numerosi delle anime del purgatorio e dei dannati insieme. Prima o poi dovrà capacitarsene anche lei, caro signore. O la infastidisce e perfino la spaventa che, messa così, tutta quanta la strana ed enigmatica faccenda si fa eticamente spinosa, dato che gli effetti di ogni piccolo sopruso si dilatano all’infinito? Si rassicuri, rimarrà comunque un terno all’otto, una serie di giocate sulla ruota della fortuna, pensi a Montaigne quando parla delle migliaia tra falconieri e femmine dell’harem che alla fine, invece di allietare, frastornano e disgustano. L’importante è godere, non possedere, soggiunge.
Certo, era molto più riposante, ce ne si poteva lavare meglio le mani, se interveniva la giustizia divina a sistemare tutto quanto, ma non le sembra che, in quella sceneggiatura, si concedono troppe cambiali in bianco a una volontà imperscrutabile, in un assurdo e gretto azzardo pascaliano (il minimo che si dovrebbe richiedere a un dio serio e rispettabile è che prenda a calci nel culo i furbacchioni sorridenti che gli si presenteranno davanti per riscuotere la vincita della scommessa) che solo la nostra spensierata illusione tramuta in un ‘gioco’ (ancora e sempre Witt) piuttosto balzano e gratuito, fino al punto di apparire un po’… come dire… stupidino? Perché non donarci la felicità e basta, senza tante inutili storie? Voglio proprio vederla una persona felice e cattiva, Hannibal Lecter a parte! Scusate, ma a me le risposte che gli insigni teologi forniscono a questo tipo di questioni mi appaiono monumenti perenni in onore della stupidità umana. In confronto, mi sembrano più logici e realistici, oltre che esteticamente più godibili, nonché imitati e riadattati in carne e ossa nelle più diverse messinscene dei tanti contesti umani passati, presenti e futuri, gli dei dell’olimpo greco e le loro disfide da ereditieri perditempo e viziati, tutta la bella mitologia infiorettata di diritti divini allo stupro, di trucchetti sleali per favorire in battaglia il proprio campione preferito ai danni di quello dell’antipatico rivale.
Ambrosia per bardi, menestrelli e poeti, certo, ma non il massimo per la governabilità di una nazione. In effetti la grande pensata di Amenofi IV e degli ebrei divisi in clan e tribù tendeva proprio ad abolire l’anarchia delle fazioni e i nefasti effetti della conflittualità, caldeggiando un governo celeste delle larghe intese che fosse in grado di rinsaldare la massa di un popolo sotto la guida di un leader potente e indiscusso, un monarca assoluto che sbaragliasse i pantheon di facinorosi gozzovigliatori che seminavano zizzania in mezzo alle compagini nemiche. La superiorità ‘morale’ del mono rispetto al poli (teismo) risiede interamente in questa rutilante perla di saggezza politologica raccolta oggi, al massimo grado di politezza, dal moderno statalismo vaticanante e presidenzialista.
Comunque sia, nel caso di vite ripetute all’infinito, se vogliamo analizzare la faccenda fino in fondo al barile, correrebbe l’obbligo, mi corregga se sbaglio, di progettare un sistema sociale che si preoccupi di alzare effettivamente il livello qualitativo medio della vita comune attenuando le difficoltà, le umiliazioni, i disagi legati alle sperequazioni eccessive. Come minimo, si dovrebbe rivedere tutto il capitolo che riguarda l’eutanasia e l’accanimento terapeutico, ma una revisione conseguente dell’etica sociale imporrebbe molto di più.
Il progetto Colib? Caro signore, non faccia troppo l’ironico. Lo so che, per tipi come lei, potrebbe apparire un incubo, anziché un sogno. Non per niente ho tirato fuori il concetto di media statistica. E poi dovrebbero intervenire l’istruzione, la disintossicazione dalla sottocultura, il decondizionamento contro le sirene dell’edonismo deteriore, anche se non dovrei dirlo: rischio di contraddirmi e di evocare i corsi accelerati di Pol Pot
In ogni modo, ci ho provato. Quello o un altro, forse è ora che più di uno si cimenti a richiamare nelle teste della gente (che già ci hanno sbattuto contro una volta, ma ormai quell’esperienza è muta, non significa niente) l’idea del progetto politico. Troppo facile supporre che tutto ciò che ci ha somministrato il Caso Storico vada bene così com’è. Va bene così perché i ceti superiori hanno in mano tutti gli assi e tutti i jolly e perché si sa che quelli inferiori, quando comandano, più che casino non fanno, ma almeno non fingete di non sapere che la società nel suo complesso potrebbe fare molto meglio, nell’attuale stato di tecnologie e conoscenze, di quello che mai riuscirà a realizzare l’ordinaria politica ‘rappresentativa’ nelle sue varianti più o meno autoritarie.
Anche a me tremano i polsi pensando alle complicazioni organizzative, funzionali e strutturali di una società moderna, alla necessità delle priorità gerarchiche, ai vincoli posti dall’acquisizione di competenze specifiche molto approfondite. Però ho anche appreso come certi modelli e impostazioni molto generali, schemi complessivi tanto alti in grado da condizionare tutti gli altri, sopportano deficit gestionali, crisi sistemiche e inadempienze diffuse molto meglio di altri.
E poi, last but not least, si tratta di credere o non credere alle catastrofi.
Che cosa stavo dicendo? …e la potenza impiegata nel sistema medesimo. Se allora noi consideriamo il risultato di un calcolo analitico, accreditato presso studiosi seri che di sicuro non se lo sono inventato per gioco, il quale ci comunica che il volume di energia e materia mobilitato nell’unità di tempo dall’intero consesso umano si può equiparare a quello sviluppato dall’insieme di tutte le altre specie viventi (di cui sembra che divoriamo quasi un buon 50% della produzione cumulata) forse non è il caso di continuare indisturbati a sognare.
Supponiamo che, per uno strano evento incomprensibile, da un certo momento x in poi, l’efficienza media degli apparati fotosintetici che si pongono all’inizio della catena alimentare cominci a deteriorarsi: potremmo tranquillamente escludere che, all’equilibrio complessivo delle forme vitali presenti sul pianeta, il fenomeno comporti solo problemi e complicazioni marginali, niente di non rimediabile con l’ottimismo e la buona volontà, o sarebbe più ragionevole (non azzardato, allarmista e inutilmente ansiogeno, signori, solo modestamente ragionevole) mettere in conto seri problemi di sopravvivenza generale e perfino qualche sospetto (non azzardato, allarmista e inutilmente ansiogeno) di una possibile, imminente estinzione di massa? (E’ una domanda retorica!)
Adesso, cari cicciolini (spero che l’appellativo non vi dispiaccia, dopotutto quando la mitica Ilona sedeva in Parlamento si poteva generosamente pensare che i radical chic si dedicassero a espandere la joie de vivre, non a predicare e raccomandare il tedio moralistico come fanno oggi), procediamo di un passo ed evidenziamo una seconda valutazione quantitativa dotata di altrettanta corposa valenza, anche questa da verificare, ma non trovata in discarica o in qualche luogo di pubblica decenza: la resa delle fonti energetiche, intesa come rapporto tra l’energia che sviluppano e l’energia necessaria alla loro produzione è calato da 100 a 10 in qualche decina di anni, ovvero, più o meno, dal secondo dopoguerra a oggi.
Forse, qui, la vera calamità, più che nel dato in sé, consiste in questo: tutti coloro a cui ho prospettato la cosa, non mi hanno risposto: impossibile, il dato è sbagliato! Si sono espressi come a dire: e allora, che problema c’è?
Il dato mi sembra affidabile, almeno come proiezione del futuro prossimo venturo (in rapporto al quale tenderei addirittura a scendere sotto il 10, anche se è un valore che si adegua bene alla base del nostro sistema numerico), ma in ogni modo è terrificante che la gente non lo associ, non tanto alla crisi economica (che, francamente, non mi atterrisce, la considero anzi l’unica possibilità di avviare riforme veramente incisive e salutari (che invece saranno frenate da un ridicolo e ovviamente mal distribuito + 0,5% di PIL, all’apparire miracoloso del quale le sanguisughe egemoni grideranno ai quattro venti: la crisi è finita! La crisi è finita!)), quanto alla produzione di disordine, ovvero deforestazione, erosione dei suoli, esaurimento e contaminazione delle acque sotterranee (la cui espulsione come quella del petrolio determina instabilità e subsidenze), prosciugamento e inquinamento dei bacini fluvio-glaciali, impoverimento e insozzamento di mari e oceani, assottigliamento delle coltri glaciali, abbattimento della diversità biologica, emissione e spargimento di veleni, aerosol e gas serra, livellamento delle varie esistenze e culture in una varietà sterile e confusionaria eccetera
Mi si consenta infatti di sottolineare che, a parità di potenza attiva in un sistema, più la macchina energetica è inefficiente e più diffonde entropia e quindi caos intorno a nuclei fortemente strutturati il cui mantenimento è sempre più costoso (di solito tanto per chi ci abita vicino o in mezzo con poca voce in capitolo, meno per i titolari di vario genere e grado).
Anche qui, il concetto d’inefficienza termodinamica, me ne accorgo da solo, non asseconda pienamente l’utilizzo che ne ho appena fatto, ma il risultato netto tende a coincidere e poi il ragionamento raggiunge una migliore sovrapposizione con il significato fisico se si pensa ai vari tentativi in atto di sostituire la fonte più efficiente di tutte, ovvero quel petrolio di buona qualità che si trova già oltre il picco di Hubbert.
Precisato questo, sottolineo che si sta trattando di leggi di natura che non si possono evadere come gli obblighi civili di un’autentica democrazia.
E a proposito della biodiversità e della deviazione della fiumana evoluzionistica per l’interposizione del nostro scoppiettante culone, non resisto, anche se dovrei, a dimostrarvi scientificamente come potremmo tutti essere divorati da un Moloch oppure dalla Grande Meretrice di Babilonia.
Allora signori, ecco qua: abbiamo due fenomeni concomitanti e cioè la frammentazione degli habitat naturali non antropizzati e l’interconnessione planetaria degli ambienti antropici. L’una, la frammentazione, favorisce l’insorgenza di mutanti che si arrampicano fino al livello di specie insorgente, l’altra, la globalizzazione, mentre blocca l’azione dei fattori evolutivi e favorisce la conversione su un modello di esemplare umano per definire il quale, non volendo rischiare denunce per vilipendio dell’umanità e quindi della religione, vi rimanderei al simpatico filmetto intitolato Idiocracy, spiana reti velocissime alla circolazione di agenti infestanti di vari ordine e grado.
Quindi, quegli esperimenti evolutivi che per la specie umana stanno addormentandosi nell’aurea mediocritas, continuano fervorosi nelle piccole nicchie che sopravvivono quasi incontaminate, in seno alle quali, con un po’ di fantasia, si può metaforicamente immaginare una Natura che, più torva di Catilina mentre è sferzato dalla favella di Cicero, trama nell’ombra e medita vendetta (improvvida fabulazione, in verità la Natura con la enne maiuscola di noi se ne fa un baffo, si prende tutto il tempo che vuole, per Lei non siamo neppure un bruscolino).
Ovviamente non penso che ne scaturirà un Godzilla o un King kong che all’improvviso escono dalle paludi o dalla foresta e cominciano ad accartocciare gli aeroplani come lattine della Red Bull che hanno messo le ali. Ce ne accorgeremmo prima, magari dopo che qualche documentarista avrà compiuto lo scoop della sua vita filmando se stesso che finisce in pasto a qualche precursore ancora gestibile. No, penso piuttosto a un’accoppiata simbiotica vincente che scorrazza per le vie mobili, intricate e infinite quasi come quelle del Signore attraverso cui una minaccia può velocemente diramarsi travestita da benedizione. Per esempio un simpatico animaletto disneyano, un piccolo roditore reso vispo, intelligentissimo e iperattivo da un virus o batterio micidiale di cui è il portatore sano (è possibilissimo, alcuni di questi marchingegni modificano perfino le preferenze sessuali dell’ospite se gli torna comodo): Gog e Magog inviati per l’ira del Signore, stufo del fatto che tutti i grandi sacerdoti si occupino di Internet o di banche prima di pensare a Lui.
E intanto, nell’attesa del monstrum così salutare per la vita selvaggia tenuta in gabbia dagli homo, la popolazione umana cresce e si moltiplica e si avvia a varcare nei prossimi decenni, salvo cataclismi, guerre, carestie o appunto il Moloch suddetto, l’elegante e ormai quasi fatidica soglia dei dieci (dieci miliardi, sembra), raddoppiando quindi rispetto ai dati del 1990 (milione più, milione meno). Un raddoppio che non sembra preoccupare molto i diretti interessati, non so se perché la fisionomia psichica del delinquente è molto più diffusa di quello che si pensi (sembra che il quorum specifico di chi ha tendenze a delinquere non risieda in una particolare distorsione della componente intellettiva, affettiva o emotiva, bensì in una caratteristica che non so se definire eidetico-percettiva o gestaltico-sensoriale o come vattelapesca (vattelapesca?) volete, in definitiva nella capacità di vivere in un presente assoluto che indebolisce o sottostima qualsiasi tipo di anticipazione e aspettativa relativa al futuro, ricordatemi di riprendere l’argomento più in là) oppure perché la sequenza 2, 4, 6, 8 è ignota alla maggior parte delle persone, che non vi associa il significato di fattori moltiplicativi interconnessi, di cui il primo si riferisce alla popolazione, il secondo alla produzione agricola, il terzo a quella energetica, il quarto al prodotto lordo globale.
Come si farà a sostenere queste cifre con un’efficienza dinamica in calo? Mah! Un metodo ve lo posso anticipare senza tema di voler per forza apparire profetico, infatti è già stato attivato e sta funzionando a dovere secondo gli intendimenti del CAI (Commissione Anonima Internazionale). Consiste nel ridurre i coefficienti incrementativi di quella frazione che comporterebbe un effettivo miglioramento per i tre quarti inferiori della piramide sociale (così da 4, 6, 8 si passa, che so, a 3, 4, 5, sto buttando lì a caso). Non si prevedono decrementi della popolazione poiché, a parte casi molto particolari, è difficile incontrare, geograficamente e storicamente, salite del PIL non generate in sinergia con aumenti della popolazione.
Per fortuna, gli executive sapienti ci informano che fonti energetiche e materie prime sulla Terra si trovano in misura praticamente illimitata: pazienza se per venirne in possesso la miserabile schiatta umana dovrà pedalare sempre più vorticosamente quasi montasse un velocipede che si sta avvicinando alla velocità della luce (per raggiungere la quale, come ci insegna un senatore a vita, occorre una energia infinita e quindi, procedendo, dovremo disfarci dei pesi a cominciare dagli abiti fino alle mutande e dopo anche degli organi animali nel deporre i quali cominceremo generalmente dalla testa, per poi passare al cuore, indi gli organi sessuali e solo da ultimo la pancia, fino a rimanere pura anima nuda di materia come foto grandi o piccoli, in confronto ai quali anche i santoni più procaci si vergogneranno di essere racchi come veline qualsiasi): in ogni modo non pedalano mica loro, i geni coccolati dalle oligarchie, altrove definiti tecnocrati bingo bongo (ero ancora infatuato del Milan e di Gattuso), i quali continueranno a indossare la giacca di Armani nei ranghi inferiori e il pullover del mercatino ai massimi vertici.
A proposito di senatori a vita e cariche affini, apro una parentesi: sapete se il buon Amato (nomen omen), figura di cui, da reprobo, faccio fatica a vedere le qualità sovrumane di semidio mezzo terreno e mezzo celeste (che le sue prebende invece garantiscono con il beneplacito dei costituzionalisti di cui (guarda i casi della vita!) va a rimpinguare le fila), aggiunge un altro emolumento a quelli che già detiene?
Occorrerà alla fine che questa ambigua e ondivaga pseudo-democrazia, per il suo proprio bene, getti la maschera e proclami apertamente, una volta per tutte, che un uomo che guadagna cinquanta, cento o anche mille volte più di un altro appartiene a una stirpe superiore, è ben degno di godere i cospicui benefici materiali in quanto insignito di qualità umane che lo iscrivono tra i membri di una razza decisamente superiore. L’alternativa qual è? Permettere all’egualitarismo ipocrita di disconoscere le sentenze dell’economia come espressione esplicita del volere divino, di offendere la verità rivelata dei sani principi di concorrenza impliciti nella razionalità dei mercati? Disconoscendo, magari, l’efficacia della libertà economica come giudice insindacabile dell’etica e dei valori! Il classismo, in fondo, non è razzismo, se anche lo fosse, sarebbe razzismo buono, quello veramente becero si chiama xenofobia, che nasce dalla paura per un competitore forte che viene da lontano, quindi denuncia mancanza di nerbo e avvilimento di quel carattere nazionale che accoglie e utilizza. Il massimo della sfinitezza e della debosciaggine si è toccato con mano quando un manipolo di giovinastri deformi e foruncolosi ha osato stigmatizzare il corpo da dio greco di quel fustacchione di Boateng soltanto perché è nero e quindi il titolare non ha bisogno di affaticarsi per calibrare la giusta abbronzatura. Invidia maligna dei reietti! Bene ha fatto il nostro miliardario a scioperare e la magistratura a indagare. E’ profondamente ingiusto nei confronti dei campioni del razzismo sano e vigoroso (su amici, ripensandoci, pensate davvero che il razzismo non imperi sovrano, in tutte le direzioni, anche nei rapporti individuali all’interno di una nazione geneticamente stabile? Forse che i vari caratteri fisici e soprattutto psichici si distribuiscono uniformemente nei vari ruoli, mansioni, appannaggi?) limitarsi a conferire onori materialistici e venali, per quanto esorbitanti. Di fronte alle timidezze e vigliaccherie della nostra epoca, come rifulge quella in cui il nobile portava le stigmate del superuomo e tale restava anche se squattrinato. Amato meriterebbe almeno una baronia o un marchesato (guardate Craxi, che miserabile feccia umana, al confronto) e invece Sua Maestà deve limitarsi a farlo sgobbare nonostante la veneranda età al posto dei giovani debosciati che di lavorare proprio non se ne parla, si rifiutano anche a pagarli il giusto, perfino il 10% in più dello stipendio di un alto burocrate, che già non è male, anche se lo spirito di servizio che viene richiesto è, a dir poco, immane (e non parliamo poi dell’intelligenza mega galattica che ci vuole per decidere di volta in volta chi si può anche scontentare e chi assolutamente no) prova ne è che i parenti di premier e ministri se ne stanno alla larga. Poi ci si domanda perché Berlusconi, nonostante qualche indubitabile magagna (non mi riferisco alle sue vicissitudini giudiziarie, figuriamoci, piuttosto a certi suoi vezzi demagogici, certe sue indocilità verso i sommi vertici gerarchici e i potentati internazionali) piaceva alla classe dei notabili! Quello sì era un uomo, altro che le mezze seghe del dico e non dico. Che piglio, che coraggiosa e vitale spudoratezza nel difendere le prerogative del censo e i diritti / doveri del tycoon di essere principe e condottiero: quante pagnotte devono ancora mangiare i nuovi manager ‘democratici’ prima di raggiungere tanta sicurezza e determinazione. Mi immagino già i tentennamenti, le inutili crisi di coscienza, i dubbi amletici verso l’incontestabile dogma che sancisce il prevalere sopra ogni cosa degli interessi di casta, come se un gruppo privilegiato potesse contravvenire alla propria natura: un singolo potrebbe farlo, un tiranno isolato o anche una oligarchia ristretta dove ciascuno ci mette la faccia, mai un parlamento liberamente eletto. Il massimo che potranno fare queste camolette ‘democratiche’ è confondere le acque con cosucce di poco conto, come i matrimoni gay o il diritto all’eutanasia e alla morte felice, rischiando topiche pazzesche come lo scontentare la lobby ecclesiastica (che sarà il secondo potere dopo che quello legislativo, esecutivo e giudiziario si saranno uniti in un’orgia) e dare alla cittadinanza la falsa impressione che la vita in sé non sia un valore supremo, talmente grande e incommensurabile che basta a se stesso e supera ogni dolore. E invece è proprio così: sei vivo, detieni il 99% della posta, che te ne fai della qualità e del benessere, che al massimo coprono l’altro 1%.? Per quelli abbiamo davanti una eternità. Considerazioni e onori? Sai che barba quando se li scambiano come regali di Natale, una faticosa manfrina imposta dall’etichetta di corte! Bastano e avanzano i riti funebri e la tomba, che oltretutto rappresentano un bel business, anche per la chiesa che incassa l’offerta per il biglietto d’ingresso in paradiso.
Chiusa parentesi.
Meno male (si riprende il discorso prima della parentesi) che, mentre i razionalisti di giorno in giorno diventano sempre più scettici, almeno per i baciapile o aspiranti tali e tutti gli ottimisti di complemento, dotati di un formidabile fiuto per la vera intelligenza (che opera, per esempio, quando si annuncia alle grandi folle che gli uomini devono vivere in pace e tutti devono essere buoni), va di moda confidare nella generosità divina ed esercitarvi le arti della captatio benevolentiae: conforta assai che, secondo loro, il potere salvifico e invincibile della scienza opererà attraverso le mirabolanti scoperte dell’ultimo minuto, quelle che un Dio birbante e simpaticone partorisce nel cervello dei prescelti come una immacolata concezione.
Parentesi. Meglio non pensare però alla fusione nucleare, almeno non alla versione che prevede un confinamento magnetico: i segnali diramati al di là dell’atmosfera sarebbero talmente potenti che comincerebbe a diventare inquietante, qualora quella fosse la soluzione migliore in assoluto, la domanda sul perché, anche dopo decenni di attività del progetto Seti, dallo spazio esterno non riceviamo alcun indizio di civiltà tecnologiche evolute. Al riguardo, qualcuno dovrà pure tentare un primo riepilogo che segni qualche punto fermo su tutta la faccenda: segnali troppo deboli? Puro e semplice ‘miracolo scientifico’ della vita in quanto tale o perlomeno di quella ‘intelligente’? Durata molto limitata delle civiltà evolute che si estinguono rapidamente? Dateci almeno una stima approssimativa delle varie probabilità, il pubblico ha diritto di sapere! Non è giusto tacere gli enigmi e strimpellare solo i successi, si concedono troppi vizi all’opinione pubblica, la si abitua a pretendere troppo. C’è il rischio che credano veramente, per esempio, che le missioni Apollo furono una passeggiata invece che un azzardo che il nostro astro preferito, in qualsiasi momento, avrebbe potuto rendere mortale risvegliandosi all’improvviso. Poi ci si lamenta se la gente disdegna i progetti veramente seri! Chiusa parentesi.
Ah no, niente caricature! Il freddo e subdolo riduzionista deve temere ben altri che i partecipanti al festival della letizia cristiana. Il mondo pullula di menti sottilissime e probe che sanno come disarmare gli intellettuali pazzi e nichilisti impegnati a seminare ovunque disperazione e terrore. Gente, questi veri saggi, che maneggia con grande destrezza gli strumenti più acuminati della summa scientifica, il teorema di Godel, per esempio (ve l’ho detto che ricompariva), o il principio di indeterminazione (ve l’ho detto che l’avrei sistemato!) e tutto lo sbugiardamento del determinismo che insegnano i Santi Padri Quantistici intervistati dagli ecologisti buoni del Gambero Rosso e delle Edizioni Paoline (io sono un ecologista cattivo).
Non sia mai che la Scienza insegni veramente qualcosa a parte inventare Twitter o Facebook per diffondere più velocemente le buone novelle, alleggerire il costo del personale o far vincere la Ferrari una volta tanto. A che pro sobbarcarsi le fatiche di Sisifo, se il signor Godel ha già sancito che la ragione umana è condannata all’impotentia coeundi?
In verità, l’uomo di fede (laica o religiosa) che scomoda Godel o la teoria dei quanti per rinverdire le glorie di Messer Sentimento (che di solito si conduce da gentile e aggraziato principe nella sfera privata e da ambiguo e perfido signorino nell’agone pubblico, dove si trasforma in azzimato portaborse e galoppino adulatore), mi fa un tantino pena per la fatica inutile a cui si è sobbarcato lui: gli bastava riferirsi a Zenone.
Non solo bastava, conveniva molto di più, infatti Godel è un bersaglio sbagliato, il suo teorema vale ‘solo’ per l’infinito matematico, non si applica ad alcuna complessione finita, riguardo alla quale possiamo emettere qualsiasi giudizio certi che, in linea di principio, difficoltà tecniche permettendo, potrà essere confutato o accettato per vero. Mentre Heisenberg e soci sostengono il determinismo, tra poco vedremo come.
Zenone invece colpisce qualsiasi cosa appena fa il verso di muoversi.
Infatti, tralasciando irrilevanti sottigliezze, dopo due millenni e mezzo restiamo ancora impantanati in antichi paradossi filosofici come quelli sollevati dal pupillo di Parmenide, per risolvere i quali non abbiamo trovato di meglio che appellarci al principio epistemologico, derivato in buona sostanza dalla meccanica quantistica, secondo cui ciò che non si può osservare e comprendere non può e non deve rappresentare oggetto d’interesse, quindi, ‘di fatto’, non esiste.
A conclusioni simili non c’è scampo e vi si perviene passando dagli approcci logico-matematici più diversi, come l’analisi non standard o le revisioni dell’insiemistica cantoriana, nessuno dei quali procede di un passo oltre l’ingegnosa, ma sofistica distinzione aristotelica tra infinito attuale e infinito potenziale.
Se ci si fermava alle critiche di Don Berkeley e alla sua inorridita catalogazione del punto geometrico e dell’infinitesimo come zombi che non si riescono ad ammazzare neppure sparandogli in testa, si risparmiava un sacco di tempo e fatica. A me quella saga dello horror matematico piace moltissimo, la condivido appieno, infatti rivela che qualsiasi branca della fisica classica non può dirsi meno problematica della meccanica quantistica, anzi, la famosa indeterminazione, in quest’ottica, finisce per risolvere le difficoltà generali. Se infatti la continuità in atto della materia e dello spazio ci procura tanti grattacapi, dovremmo felicitarci nell’apprendere che, quando arriva il momento di affrontare la grana fine del cosmo, tutto si dissolve in una equazione d’onda dal comportamento matematicamente impeccabile e in una sovrapposizione di movimento e corpo, di onda e particella che vi ubbidisce aggirando le critiche di Zenone e compagnia intorno alla divisibilità illimitata. Si tratta di una fusione di concetti, pienamente comprensibile solo attraverso il formalismo matematico, in connessione con l’equivalenza di materia ed energia della relatività ristretta e in analogia con quanto avviene per lo spaziotempo della relatività generale. Non è assolutamente rilevante che le entità che se ne ricavano contravvengano al senso comune, anche il punto senza dimensioni di cui si compongono le rette euclidee lo fa eppure gli architetti continuano a progettare, qualsiasi percezione di qualsiasi specie diversa dalla nostra lo fa eppure funziona bene così. E, inoltre, senso comune di chi? Di Sofonisba o di Zenone?
Il Determinismo non ne esce affatto malconcio, in realtà vale l’esatto contrario: tutte le strategie escogitate da Cartesio in poi, passando per Kant, al fine di assegnare la realtà in sé al misterioso regno dell’inconoscibile e quindi esaltare il mentale e lo psicologico come fulcro autentico della sostanza universale (la cui unica legge fondante sarebbe una legge ‘morale’, un ‘imperativo categorico’) fanno acqua da tutte le parti, funzionano soltanto se ci si impegna a far finta di cercare quello che si è artificialmente e surrettiziamente introdotto fin dal principio.
Come l’apparato percettivo di un animale semplifica e trasfigura il mondo con modalità e fini legati indissolubilmente a tattiche di sopravvivenza, così la conoscenza umana, se vuole capire qualcosa delle varie realtà, deve configurare gli oggetti indagati secondo schemi vincolati da limiti insopprimibili: è banale come il fatto che un pallottoliere, un regolo e un computer calcolano in maniera diversa. Il percepire in quanto tale è sempre, in qualche misura, riadattare e perfino ricreare. Un potente pregiudizio culturale attribuisce ai cervelli più sofisticati potenzialità di trasfigurazione molto più elaborate rispetto a quelli semplici, ma quasi di sicuro vige l’esatto contrario: l’apparato nervoso può mantenersi fedele nella riproduzione dei nessi strutturali della realtà soltanto accrescendo la propria complessità. Il problema vero risiede nell’incompatibilità e incomunicabilità tra approcci diversi (umanistico e scientifico) a contesti diversi (società umana e natura) e nel capire quale tipo di impostazioni e sintesi superiori possa risolvere l’impasse.
L’animale sopravvive e il cervello sviluppa la conoscenza perché il ‘rispecchiamento’ è magari rozzo, ma pertinente ed efficace, in un modo o nell’altro si accorda al movimento esteriore. Come? Il processo in dettaglio non lo conosciamo e quasi con certezza non lo conosceremo mai semplicemente perché è troppo complicato, anche se il termine non calza a pennello, si tratta infatti di una superiore potenza di calcolo della Natura inconfutabile quanto misteriosa, messa in atto, per esempio, quando una sequenza di aminoacidi assume istantaneamente ed esattamente la forma tridimensionale idonea alle funzioni a cui la proteina deve assolvere. Chiunque con un minimo di sale in zucca capisce che, privi di quella superiore efficacia (già rimaniamo prostrati e annichiliti davanti al problema del commesso viaggiatore!), sarebbe ben strano non incontrare difficoltà insormontabili quando affrontiamo il dilemma del funzionamento dei nostri stessi apparati percettivi e intellettivi. Se non avvenisse, dovremmo senz’altro concludere di aver diretto lo sguardo in una direzione sbagliata per cercare una semplicità illusoria che ci sollucheri, una lusinga nascosta che ci seduca con il conforto di una fede, tranquillizzante quanto elementare e sbrigativa.
Alla coscienza vitale, dalla più oscura ed embrionale a quella più evoluta, il mistero dell’universo può schiudersi solo nei modi della simulazione computazionale, di un raddoppiamento analogico variamente semplificato.
Appena a tali simulazioni chiediamo di emettere responsi fondamentali, svincolati da esigenze pratiche e utilitaristiche, esse acquisiscono tutto l’ambiguo e ineffabile mutismo del simbolo e del responso oracolare.
Ciò conferma la sentenza ormai definitiva già pronunciata da un filosofo quasi inesistente, autore di un superbo rito auto-sacrificale, una emblematica ‘non redenzione’ cristologico-nicciana: parlo di Wittgenstein, il grande banalizzatore, che comunque non si è limitato ad affermare che si deve tacere quello di cui non si può parlare, bensì ha scritto a lettere di fuoco, indelebili, anche se stranamente sbiadite, che si deve tacere quello di cui la nostra emotività profonda riterrebbe veramente importante parlare.
Se si tralasciano le difficoltà tecniche per estrarne il nocciolo culturale, qualsiasi teoria importante, in fondo, come il darwinismo o la relatività, altro non è che una grande e potente banalizzazione, un bagno di umiltà esplicativa che ci fa inchinare, rassegnati e ricettivi, davanti all’ontologia del mondo.
E’ una nota di rassegnazione dolente, di stoica presa d’atto nonostante un’inclinazione contraria, che distingue il nostro amato Ludwig dall’ortodossia neopositivista e dai trionfalismi laplassiani delle mezze maniche che a quei tempi cavalcavano le mode accademiche. E’ il suo non allinearsi alla faciloneria che superava i problemi cancellando pezzi interi di realtà incontestabile, quelli su cui cominciava già a mettere le bandierine, in attesa del recupero elettorale, il revisionismo fideistico.
Per una impossibilità che si collega al modo di essere della psiche umana nel mondo e che ci appare come un difetto consustanziale, un peccato originale insito nelle strutture linguistiche e nei principi di corrispondenza semantica che non possiamo fare a meno di usare, perché altri non esistono o comunque non sono conosciuti, si può soltanto ‘mostrare’ il messaggio per mezzo del comportamento quotidiano o, in ambito culturale, attraverso l’arte, la rappresentazione scenica, la musica o la letteratura: per il resto, se si tratta di costruire qualcosa e non di gonfiare l’audience dei talk show, rimane solo la strada di progetti tecnici e ingegneristici, a prescindere che, a quella dispotica sincerità, si preferisca perlopiù, nella pratica corrente, mentire o accedere a opzioni incerte ed ermafrodite fondate su giochi regolamentati da mosse e vincoli perlopiù ballerini e metamorfici.
Banale al quadrato è poi la tetragona verità che ne deriva come conseguenza ineluttabile: politici, intellettuali e maestri di vita che non si attengono alla regola di non esprimere a parole i valori profondi, partecipando (al massimo!) al gioco della convenzione dopo aver esplicitato le regole o proposto modelli da imitare, ci raccontano soltanto corbellerie e commettono infamie dialettiche e non solo.
La dimostrazione interviene puntualmente nel caso di eventi tragici che superano determinati limiti quantitativi. Innanzitutto assistiamo al delirio che presiede alla regolazione del lutto nazionale tramite la rotazione della manopola sul livello di cordoglio deciso dai massimi organi istituzionali. Evidentemente ci sono delle regole che prima o poi qualcuno dovrà incaricarsi di rubricare. Esempio: quali soggetti meritano di più? Vale più il dolore degli interessati o il peso simbolico, connesso di solito alla funzione di servizio nei confronti dello stato oppure al messaggio che s’intende diffondere nella comunità oppure alla connessione con tematiche di rilevanza, anche polemica, particolare? E poi: fissata la categoria dei soggetti funestati e l’ambito della loro valenza, qual è il numero varcato il quale scatta il clima di tragedia obbligata a cui nessuno può negarsi pena l’ostracismo morale (quello che sto cercando di guadagnare con il sudore della fronte sapendo bene che è già scontata e definitiva la condanna del silenzio)? Uno non è sufficiente, dieci dipende, cento è quasi sicuro. E se, subito dopo che ne sono morti cento, ne muoiono dieci, diventeranno morti di serie b? E se ne muoiono centomila nella guerra civile di un paese confinante e contemporaneamente mille in casa nostra, come ci regoliamo per non apparire troppo nazionalisti o partigiani?
Ma, al di là della contabilità da prefiche e becchini istituzionali, la cosa più vomitevole in questo tipo di disgraziate faccende, consiste proprio nel capovolgimento totale della sostanza etica che avviene quando i maggiori responsabili del fattaccio, ovvero tutti quegli apparati che avrebbero voce in capitolo per qualsiasi tipo di provvedimento in grado di modificare le probabilità degli eventi tragici (che comunque potranno avvenire a prescindere, per cui anche il più idiota dovrebbe capire che successo e fortuna vanno sempre a braccetto e che quindi è sempre bene raffreddare i caldi istinti sensuali del fustigatore morale), traggono un palese beneficio politico dal potersi presentare in prima fila esibendo le movenze melodrammatiche della persona sconvolta e disperata. Addolorato veramente, tra costoro, è chi ne ricava un danno d’immagine e di carriera, mentre colui a cui l’evento consentirà vantaggi e promozioni, oppure l’uscita da una scomoda posizione da cui l’attenzione immediatamente decade, state tranquilli che se ne ricorderà con piacere. Sia detto a prescindere dalla reazione emotiva immediata e sincera che, come persona, ciascuno può provare o meno: riguarda la sua sfera privata, dove il sentimento vale per quello che è e va rispettato. Il ludibrio e la schifosa, vile strumentalità a cui è difficile e pericoloso sottrarsi interviene non appena si passa il confine tra la sensibilità individuale e la sfera pubblica, quella linea oltre la quale anche la materia più delicata si tramuta in residuo fecale se non vengono rispettati i limiti comunicativi imposti dalla decenza deontologica e intellettuale. E certi tipi di mentalità più di altri impediscono di rispettare quei limiti, chiamano anatemi proprio sulle persone più leali e corrette.
Ci sono decine di situazione ultranote passibili di sviluppi drammatici, si conoscono perfettamente e si tacciono. Quando accade il disastro, scattano le urla da prefiche e la ricerca delle responsabilità. E la responsabilità del silenzio? Perché non si denuncia prima e dopo non ci si limita a piangere in silenzio concentrandosi su antefatti, colpe effettive, conseguenze e rimedi? Io lo so: perché non è così che, nel prototipo e antesignano dei paesi cattolici, dove vige il culto dell’illusione e il disprezzo della scienza, ci si guadagna il consenso. Quando l’illusione s’infrange contro la dura realtà, interviene un sentimento di colpa, il dubbio di una punizione: lieviti e spezie per tutto un vasto repertorio di sottili condizionamenti sociologici.
Naturalmente, si tratta di un’interpretazione che molti avranno difficoltà a condividere, ma mi ci sono dilungato proprio per sottolineare le profonde discrepanze che possono sussistere intorno alla natura autentica della moralità e soprattutto come queste dipendano in fondo da un’ontologia e da una filosofia del linguaggio.
E’ inesorabile e irrimediabile il fraintendimento di questa posizione da parte dei platonici nemici del Determinismo, sovrana tautologia che non dovrebbe venire ridotta al rango di entità che si possa amare o detestare, ma elevata a divina presenza, connessa indissolubilmente alla razionalità in quanto tale, di cui bisogna prendere atto, punto e basta, esattamente come saremmo costretti a fare nei confronti di Dio, se esistesse. E Dio esiste, in effetti: Dio è il Determinismo.
Esiste un solo filosofo, tra i classici, che ha veramente compreso tutta la faccenda denunciando l’impostura ipocrita di chi, per quieto vivere, preferisce salvaguardare la propria falsa coscienza sottraendosi a una doverosa critica dell’effettività imperante: infatti è il più bistrattato e frainteso di tutti, si chiama Niccius (non vorrete, dato che lo devo nominare ancora, che ogni volta faccia mente locale a ‘no’ in russo, ‘zs’ e ‘che’), il losco, pericoloso, innominabile Federicus Niccius. Incidentalmente ha anche compreso tutto di Cristo e della Chiesa cristiana, ascrivendoli a mondi completamente diversi e antitetici.
Oserei perfino affermare che, su un piano accademico, niente denuncia la subdola influenza manipolatrice della falsa cultura ingaggiata politicamente dai minculpop dei grandi interessi organizzati quanto il fraintendimento di grandi intellettuali come Niccius e Godel. Certo, per Niccius c’è il problema di qualche coloritura stilistica di troppo, la rottura di palle di un’insistenza eccessiva sulla nobiltà del vero filosofo (che però si connette a un decoro indispensabile affinché la libertà non diventi, come invece regolarmente accade, una dittatura delle maggioranze che castrano e violentano se stesse sotto l’indisturbata regia di certe minoranze), della sorella effettivamente nazista (con cui intratteneva rapporti ambigui e burrascosi) e della pazzia finale che in alcuni momenti può avergli fatto perdere il controllo, ma, per entrambi i personaggi citati, i motivi del fraintendimento sono dominati da un pregiudiziale e tendenzioso proposito di deviare e storpiare le sottigliezze dei rispettivi messaggi.
Un vero cristiano moderno, non il conformista opportunista che cavalca l’onda e sarebbe mussulmano in Arabia, indù in India e confuciano in Cina dovrebbe lasciar perdere Bibbia e Vangelo (che, a parte interessanti dettagli storico-umanistici, su un moderno senso religioso della vita dicono poco e in maniera troppo indiretta) e ispirarsi invece alle sezioni 32 - 36 dell’Anticristo, più i brani che riguardano il buddhismo. Il senso vero della Cristologia è tutto lì, mirabilmente descritto in uno stile d’incredibile potenza e concisione. E Niccius ha pure intuito il carattere religioso della scienza in quanto investigatrice di un universo in atto da cui non si può prescindere: il grande sì alla vita, l’ ‘orsù da capo’ di Zarathustra, l’amor fati, l’eterno ritorno rappresentano la sostanza di uno spirito veramente religioso depurata da tutti gli infantilismi consolatori e le trappole psicologiche su cui si esercita il soffocante abbraccio utilitaristico del potere istituzionale, laico o religioso.
Determinismo e Dio rappresentano una identica realtà: Dio è semplicemente il destino fantasiosamente personificato e rivestito delle nostre speranze, è emotivamente più desiderabile se lo si concepisce (come alla fine fanno tutti, perfino io, in momenti irriflessivi) in empatia con la propria costituzione profonda (ammesso e non concesso che il soggetto stesso la conosca, sarebbe meglio dire ‘con l’illusione o la momentanea apparenza della propria costituzione’), ma potrebbe rappresentare una calamità sconfinata qualora gli si assegnino criteri di giudizio in base ai quali la nostra natura effettiva risulterebbe invisa e censurabile. La religione ufficiale disdegna il problema (lo sfrutta anzi come germe di un condizionamento sottile) o ritiene qualcosa del genere impossibile (per la bontà del Creatore, solo un esempio tra i tanti di aggancio alla propria coda o di bootstrap alla barone di Munchausen), infatti disconosce le differenze inconciliabili e radicali e così facendo nega, almeno teoricamente, le basi stesse della vita. In effetti esistono tanti Dio quante sono le persone umane, ma un solo Determinismo, e il cattolicesimo tiene salda la presa sui sudditi (molto più che sui fedeli) perché, a differenza di altre religioni più rigide, si presta molto a dissimulare o tollerare la cosa.
Niccius, che i tedeschi li conosceva bene, ha anche colto il senso profondo della riforma luterana, quello che Weber avrà solo da recuperare e riadattare in senso sociologico. Anche se qui, a ben guardare, Niccius è ingiusto verso il fratone di Wittenberg, in quanto lo accusa di aver frainteso la chiesa rinascimentale, ma in effetti il buon Martino non l’aveva fraintesa affatto, si era semplicemente accorto che si trattava di qualcosa di laico e libertino (o liberista?) che di religioso non conservava alcunché. Federico, che, quasi inconsciamente, considerava la laicità il prologo della vera religione, sembra pretendere da Martino un identico riconoscimento, ma Martino non poteva ambire alla santità razionalista di un Erasmo da Rotterdam: era semplicemente un ecclesiastico tradizionalista che sognava l’austerità dei Padri.
Del resto Niccius se ne rende rapidamente conto e di fatto accusa tutta la filosofia tedesca da Lutero in poi (Schopenhauer a parte, ma incluso) di accodarsi alla mentalità del prete che convince e ammassa le pecorelle perché ciò è cosa buona e giusta e salutare, anche se, dopo averle riunite, non sa assolutamente dove condurre il benedetto gregge. Non è compito suo, ma di chi gli paga lo stipendio e gli garantisce il prestigio sociale, oltre che di Dio, naturalmente, ovvero (ma questo lui non lo sa) del Determinismo.
E come potrebbe farlo, in effetti, senza indossare gli occhiali dell’euristica kantiana, ovvero le protesi da cyborg della razionalità? Ma è kant stesso, il canonico dissimulato, l’arciprete sotto mentite spoglie che funge da quinta colonna dello spiritualismo, ad assolverlo pregiudizialmente concedendogli ogni licenziosità intellettuale e lo fa rovesciando sul più bello la frittata di tutte le nostre facoltà, spiattellandola sul tagliere della sua dottrina morale: ed eccoci tutti cotti a puntino e pronti a essere divorati dall’apparato teocratico più idoneo e consensuale che l’assolutismo economicista avrebbe mai potuto desiderare e sognare, ciò che ancora oggi, ripuliti gli eccessi del kaiser e seguenti, permette alla signora Merkel, grazie ai panzer delle mega aziende, di surclassare Reagan e la Thatcher nella proclamazione del dogma liberista.
Tutto, ripeto, per il colossale equivoco costruito da Kant, dopo il buon lavoro sull’epistemologia scientifica, per i suoi maledetti istinti da prete esecrati da Federico, quella devastante illusione dello spiritualismo in tutte le sue svariate forme di presupporre che i filtri dei vari a priori, che, come detto, costituiscono le colonne d’Ercole di ogni percezione animale su qualsiasi gradino della scala zoologica, si dileguino progressivamente procedendo dalla conoscenza teoretica all’esperienza psicologica e sociologica.
In realtà, nel passaggio, i filtri e le mediazioni, non solo non si dileguano come avrebbe voluto l’epistemologo trasformatosi in maga Maghella: si rafforzano e si moltiplicano in un gioco di rimandi speculari, mentre quello che in realtà scompare è proprio il concetto di essere in sé e subito dopo, il che è molto peggio, la nozione più comprensiva e cruciale di una realtà esterna governata da leggi e statuti di cui possiamo servirci soltanto obbedendovi, come sostenne Bacone Francesco.
E adesso, bambini, concentratevi bene e rispondete alla seguente domanda: facendo sparire la realtà e lasciando in piedi soltanto una ridda di fantasmi psichici, chi governerà meglio l’esercito di spettri che si aggirano per il mondo, lo spirito risorto del faraone o l’archeologo eroe? Indiana Jones o Peppa Pig (metteteci voi il nome del personaggio interpretato da Brendam Fraser, io non ho voglia di cercarlo) possono anche farla franca nei film, ma noi viviamo in una cronaca non sempre nera, ma comunque molto fuligginosa.
Se si arretra ancora di più fino a sprofondare nelle pulsioni inconsce e istintive, come fa Schopenhauer anticipando Freud, non si sposta la sostanza del problema, come ancora e sempre Niccius intuì, poiché, semplicemente e definitivamente, non esiste alcun passaggio dalla funzionalità all’essenza che la psiche umana possa attraversare.
La metafora del faraone non era chiara? Parafrasi dozzinale: più la cultura di un popolo è nebulosa e idealistica, più il potere riesce a farlo fesso con facilità.
Ma se a comandare non è un Dio Padre che s’intenerisce davanti a cuccioli che, a differenza di orango e scimpanzé, gli assomigliano moltissimo, bensì il Determinismo, a che serve lottare? Se non dobbiamo migliorare la media in pagella, chi ci darà la promozione? Tanto vale vivere alla giornata. Così, inquieti e annoiati, resistiamo un po’ (divinizzando nel frattempo, per ingannare il tempo e sfogare gli istinti, la Dea Ragione o il Partito), poi, quando non ne possiamo più, dapprima ridipingiamo sull’implacabile divinità greca la fisionomia di un giudice integerrimo, poi, se le strategie di controllo dell’epoca lo permettono, addolciamo il piglio severo: ne scaturisce un bel faccione simpatico alla Jerry Scotti (oppure tra giudice e entertainer potremmo fare la media e verrebbe fuori, più o meno, un Paolo Mieli).
Proprio questo è il modo più sbagliato di vedere le cose.
E’ arrivato così il momento di esplicitare certe conclusioni abbastanza tragiche quanto inevitabili: una scemenza dietro l’altra, l’umanità sta sbagliando tutto, ma proprio tutto, si sta rendendo invisa a Dio: al vero Dio, cioè al Determinismo. Il luteranesimo e la sua variante più rigida, il calvinismo, si sono dimostrati superiori rispetto al cattolicesimo nella fase di costruzione della società industriale moderna, questo perché la coscienza resa attiva, vigile e soprattutto laboriosa a furia di scrutare e cercare di dirigere, pilotandoli, i sintomi della predestinazione, contribuiva alle indispensabili esigenze di probità e funzionalità sociali all’interno di processi che richiedevano la dinamica propulsiva dell’iniziativa individuale. Si sta parlando di risultati netti complessivi, ovviamente, in cui intervengono molte mediazioni statistiche. Oggi serve a tutti qualcosa di simile (un senso della predestinazione privo delle comode scappatoie rappresentate dall’idolatria del pentimento e del perdono), ma in uno scenario completamente diverso, in cui proprio un’acritica e iperattiva intraprendenza umana potrebbe rappresentare una sorta di male assoluto. Dio vuole un altro tipo di coscienza, altri modelli individuali, in parte più liberi o meglio flessibili per la necessità di affrontare rischi maggiori, e in parte più consapevolmente remissivi, per non pesare su un ambiente verso cui ci stiamo dimostrando agenti di una pandemia che si può controllare soltanto auto-limitandoci.
La coscienza di Dio, ovvero quei nuclei del sistema globale dotati di consapevolezza mentale e capacità analitica (piccoli sottosistemi estremamente complessi in grado di simulare parti della immensa matrice in cui sono immersi) segnala un pericolo e quindi emana un avviso inteso a sollecitare una risposta urgente. Se la risposta si trova o non si trova, se migliora le cose o le peggiora, dipenderà dallo svolgersi di ciò che chiamiamo genericamente fatti: l’uomo, al suo massimo livello, può solo indagare, pensare e agire, il resto non importa. Per darsi una scossa, sollevarsi il morale, somministrarsi una terapia psicologica, può fare indossare al destino la maschera più sorridente e piaciona che riesce a concepire: ad alcuni apparirà di una dolcezza toccante, altri penseranno a un clown che intrattiene il pubblico di un circo come me, conta solo che tali strategie e comportamenti lo indirizzino verso le scelte adeguate.
Se una ideologia o un complesso di credenze lo condannano all’inazione o al rifiuto di decisioni troppo drastiche, significa che non fa differenza se vince il pessimismo estremo (agire non serve, si rischia soltanto di peggiorare le cose) o l’ottimismo a oltranza (si confida in Dio, ovvero nel Determinismo). In tutti gli altri casi, ovvero in presenza di un atteggiamento più neutro e spassionato, per non vivere come puri animali irriflessivi (senza l’onestà, l’istinto armonico, la naturalezza empatica dell’animale) venendo meno ai compiti e ai doveri imposti dall’evoluzione cosmica (perché ci ha fatto diventare coscienti, per non capire un cazzo?), occorre procedere a un’analisi della situazione e dei rimedi il più possibile scientifica e oggettiva. Rifiutarsi di condurla è già di per sé una scelta: santa, se Dio è il papà saggio e compiacente che si è sempre desiderato, perversa, se Dio è quello che la semplice logica c’impone di supporre, ovvero (eh, sì, scusate, mi ripeto, ma i principi primi fondamentali non si ribattono mai abbastanza) il Determinismo.
Nazista non è affatto Niccius solo perché ha capito praticamente tutto, traducendolo in stilemi poetico-filosofici di lettura non sempre facile anche se sempre molto cristallina: peggio che nazista (almeno quelli, sartrianamente parlando, si sporcavano le mani, ma comunque nell’orizzonte dell’effettività e non della moralità e per esigenze d’iperbole scenica) è il notabile o il politicante che mente sapendo di mentire, strappa la sua fetta di paradiso e se la gode (forse) in eterno, lasciando nella cacca (forse) eterna concittadini e posteri che non dispongono delle leve del potere anche perché, prima o poi, non esisteranno più (le leve), mentre idioti o illuminati dal Signore (Niccius e Dostojevskij dimostrano che le due figure possono coincidere), gli ultimi che forse sono veramente i primi, si fanno cullare voluttuosamente dalle onde del destino.
Nazisti, santi o… delinquenti? Non vi avevo chiesto di ricordarmi di riprendere il discorso sulle caratteristiche delinquenziali dell’umanità? Di voi, simpatici cicciolini, non posso mai fidarmi! Se non mi ricordavo io, ve ne sareste andati senza una idea precisa, che pure vanta una certa utilità. Forse: non sono sicuro. Avete notato quanto sono pochi gli esempi, i resoconti, gli aneddoti che ci appaiono veramente significativi, quasi sempre gli stessi che, stranamente, agli altri dicono poco o nulla? La storia dei primi esploratori del Rio delle Amazzoni, per esempio: costruivano, smontavano, trasportavano e ricostruivano grossi navigli, ma, nella foresta più lussuriosa del pianeta, sarebbero morti di fame se, con le buone o con le cattive, non avessero ottenuto il cibo dagli indigeni. Che c’entra, sbotterete voi, dovrebbe comunicarmi qualcosa d’importante? Ecco, che vi dicevo? Ora invece, tornando a bomba, vi relaziono su un esperimento, non so quanto politicamente corretto (spero poco) che vidi in televisione molti anni fa e in cui in sostanza si somministrava una scarica elettrica dolorosa a persone che di sicuro se lo meritavano (lo sperimentatore non sapeva perché era giusto trasmettergliela, ma essi sicuramente sì). Va be’, per farla breve, le scariche giungevano a intervalli variabili e nell’intervallo in cui al penitente si concedevano pause non so quanto meritate, un monitoraggio degli indicatori fisiologici registrava lo stato di tensione di chi restava comunque in attesa del peggio. Ebbene, sembra che (sono cauto perché non ho più trovato riscontro altrove di tale illuminante ragguaglio) ci fossero evidenze statistiche significative secondo le quali coloro che potevano vantare dei precedenti penali manifestavano una tranquillità molto maggiore dei soggetti dalla fedina pulita e dal comportamento integerrimo, a parte qualche multa per divieto di sosta per cui scagli il sasso chi è senza peccato. Ecco, parlando di tendenze delinquenziali diffuse alludevo a quell’ineffabile tendenza a conservarsi in uno stato di imperturbabilità nonostante la miriade di pericoli incombenti.
Sempre che non si tratti di fatalismo (io non posso farci niente e chi ci potrebbe fare è meglio che lasci perdere perché di sicuro penserà solo a se stesso e per me non farà che peggiorare le cose) o altrimenti di pura e semplice ignoranza.
E se provassimo con un progetto?
Neanche a farlo apposta me ne è capitato uno per le mani, prezzo modico, successo assicurato.
PROGETTO COLIB
Oggetto e descrizione:
Tentativo di avviare, razionalmente e non ideologicamente o messianicamente, uno sforzo collegiale e interdisciplinare alla ricerca di un nuovo progetto di organizzazione socio-economica e politica.
Vi si argomenta, ribaltando la cognizione comune, che la società occidentale liberista si sta trasformando in un collettivismo impoverente, autoritario, dogmatico, aristocratico-oligarchico e che una programmazione centralizzata e statalista rappresenta l’unica possibilità di un recupero in senso liberale.
Si sottintende che, a prescindere dalla realizzabilità effettiva (per cui, in ultima analisi, ci si appella alla superiore potenza dei fatti sui giudizi), deve considerarsi nevralgica una pura e semplice dimostrazione di esistenza relativa a un modello di struttura pubblica che, senza deprimere il livello medio di qualità della vita, elimini interamente le sofferenze dovute alla miseria e alla precarietà.
Se ciò contribuisse soltanto a sollevare dai mali sociali le cortine fumogene del fariseismo più capzioso, gli aulici e pomposi depistaggi e tutte quelle trombonate salva decenza che trasformano banali errori, colossali idiozie e voluttuosi peccati in ineffabili fragranze di aromi etici, umanitari, religiosi, poco o tanto renderebbe meno nebuloso e malfermo il cammino di qualunque riforma coraggiosa.
Già il sospetto che si possano concepire in modo realistico società molto migliori di quelle confezionate dal ‘libero arbitrio’ dei falsi buoni e dei falsi giusti, potrebbe rappresentare per i nostalgici dell’indipendenza di giudizio (di destra o di sinistra) un correttivo salutare rispetto allo sciocchezzaio telegenico e alla deriva dogmatica comandati dall’Internazionale Liberista.
D’altro canto, si dà per scontato che un destrorso tipico, prima di ogni adeguata riflessione, proverà più diniego per gli elementi genericamente di sinistra che apprezzamento per quelli di destra e così, fatte le debite inversioni, per il sinistrorso ‘medio’: consegue da quelle distorsioni cognitive già messe abbondantemente in evidenza da psicologi sociali, analisti delle scelte d’investimento e sperimentatori della teoria dei giochi.
Si considera altrettanto prevedibile che quanto segue sarà rubricato dagli utopisti canonici come ‘antiutopia’ o utopia negativa: i mangioni, compagnoni e chiacchieroni, che screziano la superficie colorata e chiassosa di ogni società, quella muffa sognante, spesso antagonista e contestataria, che ha bisogno per crescere di un grado minimo di opulenza capitalistica e prospera soltanto insieme a essa, si ritrarranno sdegnati davanti alla prospettiva di un cibo artificiale e al disincanto verso le energie rinnovabili, nonostante che tutto ciò si origini da un’autentica e avveduta preoccupazione nei confronti degli equilibri ambientali. Invece di fare pressione perché i vari stati sovrani si impossessino di OGM e tecniche staminali per escluderne la speculazione privata e adibirli a possenti armi contro l’indigenza, costoro si lamentano perché una ulteriore macchiolina, che appare gigante solo all’edonismo ferito, insidia le purezze solo presunte di quelle che, nessuna esclusa, sono già spurie ed eteroclite esistenze artefatte. Gli stessi ecologisti di sinistra si sono sempre definiti ‘angurie’: verdi fuori e rossi dentro. Per loro, come per i cattolici, Dio e la natura cominciano e finiscono dove comincia e finisce l’umanità e si vedrà chi o che cosa, da tale visione meschina e rattrappita, riceverà i danni peggiori. Con la loro miopia e le loro lenti opache e deformi, rischiano di fare più danni dei tecnocrati dell’oligarchia, che almeno vedono chiaro tutto quello (poco) che vogliono vedere.
Si auspica poi, con molti dubbi, che un seguace della vera etica liberale ben tollererebbe qualche brivido per una ipotetica minaccia al proprio tornaconto (raccapriccio mitigabile dalla possibilità di prevedere svariate partite d’indennizzo), pur di tornare a respirare un po’ di sana filosofia all’antica nella migliore tradizione di occidente.
Post scriptum (for dummies): la vera etica liberale non consiste nel permettere a ciascuno di pensare e dire quello che vuole, anche le cose più strambe e infondate, tanto poi decide il potere dei gruppi egemoni e chissenefrega; ricerca invece criteri universali e regole oggettive che, fatta salva l’intelaiatura delle costrizioni pubbliche inderogabili, consentano a ogni individuo di preservare una sfera esclusiva e privata (e sottolineo entrambi gli aggettivi) dove egli possa dire, fare e pensare tutto (ma proprio tutto) il possibile, senza che nessuno (e dico nessuno) venga a rompergli i coglioni. I signori dello slow food come tutti i sofisticati esteti della gastronomia, della moda, del design, rinunciano all’esenzione dalla critica di cui dovrebbe godere ogni gusto personale nel momento in cui propalano la falsificazione ideologica della possibilità di una dilatazione capillare e sistemica di stili e modelli di vita che già ora sono e sempre più diventeranno elitari: poco male finché non ci si oppone proditoriamente a quei ritrovati che invece prospettano, su larga scala, l’unico tipo di soluzione futuribile.
Di questo passo, la libertà, gonfiata da estrogeni, comincia ad assumere caratteri anomali, si atteggia nelle forme più strane, qualche massimo poeta finirà per definirla con termini bizzarri come ‘partecipazione’, che non capisco che cosa sia, anche se intuisco qualcosa di ‘positivo’, un’allusione alla circostanza che, come il caffè chiosato criticamente da Manfredi, la libertà è un piacere e se non è buona che piacere è?
Ovviamente, la vera etica liberale, a seconda dei soggetti, del periodo storico, delle disponibilità effettive e di altri disparati elementi, al fine di un proficuo perseguimento dei suoi scopi, può confidare negli automatismi calati in un complesso frammentario di unità interagenti oppure in un centralismo tecnocratico sorretto da regole e volontà opportune o in entrambi. Ogni abbinamento rigido e definitivo tra vera etica liberale ed economia di mercato risulta puramente indebito, casuale, arbitrario.
Risulterà infine lampante, spero, anche se qui gli equivoci incombono numerosi, che la partita non s’incentra su uno scontro tra mentalità, inclinazioni, ideali, (nevroticamente innescato, nel caso specifico, da una parte debole il cui dovere, sia quel che sia, di testimonianza verrebbe comunque imputato a orgoglio di frustrazione): no, la posta è molto, molto più cruciale e coinvolge scelte strategiche fondamentali, come, per esempio, se affidarsi al metodo della ricerca consapevole e progettuale, elaborata in una comunità cooperante, oppure rassegnarsi ai chimismi di una massificazione governata dai plagi incantatori dei maestri di comunicazione delle élite e delle contro-élite, se tornare a una mentalità di esplorazione e di frontiera depurata da ogni sfruttamento coloniale oppure rassegnarsi ai recinti elettrificati e spinati dei centri residenziali circondati da favelas dove santoni e papi fungono da cerino o da pompiere, a seconda delle varie convenienze.
Piano generale
Dopo alcune avvertenze e premesse che intendono delineare le generalità del quadro culturale in cui si colloca la presente iniziativa, si passa alla stesura delle proposte di dettaglio, le quali intendono costituire le fondamenta, passibili di revisioni e interventi ristrutturativi, da cui procedere per avviare l’edificazione teorica.
E’ ovvio che una eventuale collaborazione futura potrà instaurarsi soltanto tra coloro che abbiano manifestato una comune accettazione, almeno in linea di massima, dei punti esplicitati.
Alle specifiche di modello, seguirà un excursus intorno alle motivazioni e agli scopi dell’iniziativa: le note e un’appendice dove vengono esposti precisazioni e commenti intorno all’attuale congiuntura politico-economica.
Prologo
Chi scrive (sulla cui identità mi esprimerò più avanti), anche per ragioni anagrafiche si muove in un clima intellettuale che risente d’influenze apparentemente contraddittorie come il marxismo originario, il liberalismo scientifico, l’esistenzialismo ateo e il positivismo logico.
Già questa semplice enumerazione denota la consonanza con un tipo di atteggiamento critico che non è mai stato tanto minoritario come lo è oggi.
Le mie ascendenze di pensiero non accettano lo scudo preventivo del sacro o l’obbligo di ammettere per principio, salvo inoppugnabili prove a favore che le fattispecie ovviamente non consentono, un accordo stretto tra parole, comportamenti, valori e intenzioni.
Soprattutto quando il giudizio concerne poteri in grado di condizionare, in mezzo a una infinità di altre cose, anche la mia vita personale e quella di chi mi sta caro.
La politica è il regno elettivo dell’ambiguità e della polisemia e scindere la sfera religiosa e assiologica da quella politica richiede un ‘a priori’ che io, a priori, rifiuto.
Ritengo espressamente che, senza questo tipo di spregiudicatezza e disponibilità a mettere in discussione qualsiasi assetto consolidato e autorità costituita, ogni presunta riforma si declassa al rango di opinabile ritocco.
Per altro verso, le concezioni che saranno esplicitate nel corso del presente testo rappresentano analisi di parte, quindi fallibili, davanti a ciascuna delle quali deve intendersi un ‘secondo me’.
Molte persone di indole sinceramente religiosa o umanitaria potrebbero sentirsi irritate da alcune delle tesi esposte, analogamente a quello che accade spesso a me nei confronti della filosofia implicita e non dichiarata che pervade la maggior parte della pubblicistica attuale.
Si prega pertanto coloro che non si riconoscono nelle premesse onestamente esplicitate di soprassedere e occuparsi subito di altro, oppure di assumere ogni affermazione in via documentale, senza farsi coinvolgere più di quello che è utile.
La calma è dei forti e poche categorie sociali mi appaiono più forti di quella assistita e tutelata da un vero e proprio stato teocratico sovvenzionato da tutti.
Si potevano evitare certe accentuazioni sarcastiche? Sì, ma mi sarei divertito di meno e non avrei prodotto un buon servizio propedeutico: non vedo infatti quale autentico affidamento si potrà mai fondare sull’incisività riformatrice di anime apparentemente belle che si spaventano alla prima asprezza polemica.
Che cosa significa COLIB?
Il nome si basa su una banale contrazione di ‘comunismo liberale’.
Il termine ‘comunismo’ è evocato, non in senso proprio e tecnicamente ineccepibile (del resto, quale sia questo senso compiuto non lo sa nessuno con la dovuta precisione), ma con l’intento esplicito di predisporre il lettore a tesi di natura radicale.
La proprietà privata non rientra certo tra i miti negativi o le idiosincrasie ossessive del presente discorso: nel progetto potrà essere tranquillamente contemplata fino a determinati limiti o del tutto, dopo una sforbiciata iniziale o la rinuncia a certe prerogative, dipenderà dalle risorse disponibili per mandare a buon fine il quadro complessivamente delineato, nell’ambito di un novero di coefficienti di cui apparirà sempre più chiaro il significato.
L’aggettivo ‘liberale’ riflette invece le mie tendenze personali, ma è bene chiarire subito che non lo recepisco nel modo in cui, almeno in tempi recenti e limitandosi al suolo italiano, viene correntemente inteso o interpretato.
Ritengo infatti che il concetto di libertà non possa essere circoscritto all’azione puramente economica e che anzi non debba minimamente implicarsi in quell’ordine di vedute, dato che la sfera delle necessità pratiche è, quasi per definizione, l’ambito delle schiavitù inevitabili: coinvolgervi falsi segnali di ottimismo tendenzioso denuncia gli allettamenti e le promesse del plagio autoritario, quel ‘dover essere’ dell’etica illiberale (appunto) tanto dura e implacabile nella parte inferiore della piramide, quanto flessibile e addirittura volatile avvicinandosi alla cima.
La libertà si misura nella cerchia individuale, punto, esiste finché si lasciano spazi di mobilità, indipendenza, autodeterminazione al singolo corpo e alla singola coscienza: se per ottenerli occorre sbarrare delle aree di circolazione pubblica, l’importante è che avvenga secondo l’unica autorità assoluta che riconosco, ovvero la ragione umana.
Lo so che molti riterranno questa ultimissima dichiarazione assai deludente, ma vorrei far notare che fu, è e sempre sarà il presupposto di una capacità scientifica di conoscenza l’unico baluardo contro il predominio teocratico e l’arbitrio di quelli che fabbricano i criteri di valore e li millantano come legge universale, non esiste nessun altro principio su cui basare il confronto delle idee: se non è efficace, dipende dal fatto semplicissimo che in una società non si confrontano idee (se non in misura marginale), ma soprattutto interessi (sempre molto abili, almeno quelli maggiori, nella gestione tattica dei sentimenti).
LE LINEE PROGETTUALI
Il progetto COLIB verte su una radicale riforma dell’assetto socio-economico basata sui seguenti punti:
Istituzione di un vitalizio di cittadinanza coperto da:
Nazionalizzazione dell’intero sistema bancario e finanziario, da ricondurre a enti di esclusivo diritto pubblico.
Introduzione di una tassa patrimoniale ridistributiva.
Recupero del prestito di ultima istanza ovvero della possibilità di emettere moneta.
Ristrutturazione del debito.
Revisione del Concordato e recupero di sovranità patrimoniale nei confronti dell’extra territorialità ecclesiastica.
Utili per attività dello stato imprenditore come in seguito specificate.
Riconduzione alle casse dello stato di ogni tipo di fondo pensionistico e, più in generale, abbattimento del welfare previdenziale, infortunistico e pensionistico.
Riconduzione alle casse dello stato di buona parte dei danni e del fatturato risalenti ad atti malavitosi, secondo modalità in seguito specificate.
Incremento dei flussi contributivi per riattivazione delle dinamiche sociali (vedi poi).
L’abbattimento del welfare assistenziale è a sua volta compensato da:
Sistema sanitario completamente pubblico e gratuito
Una sorta di investimento a punti dell’impegno soggettivo da realizzare sulla base di prestazioni di lavoro volontario a favore delle iniziative statali come in seguito specificate (il meccanismo è introdotto ai fini di un trattamento integrativo discrezionale che, per gli aventi merito, dilati il vitalizio con il progredire dell’età)
Gli effetti anti concorrenziali, di moral hazard e rilassamento dei costumi introdotti dal reddito di cittadinanza e dalla invadenza statale verrebbero compensati da:
Smantellamento completo della vigente legislazione del lavoro nel senso di una liberalizzazione totale che equipara la prestazione di opera individuale a una iniziativa imprenditoriale gestibile nella forma contrattuale di scritture private eventualmente redatte secondo canoni e normative da registrare e sorvegliare giuridicamente.
Snellimento drastico della burocrazia attinente all’esercizio della libera impresa, considerata attività meritoria e lodevole purché non comprometta gli interessi fondamentali della collettività e dello stato nel senso che questo documento delinea.
Sistema fiscale fondato sullo scarico di ogni singola spesa, il che, insieme alla sicurezza di un reddito fisso garantito, abbatterebbe la propensione al risparmio fluidificando e dinamizzando le risorse in senso propulsivo. Gli effetti dimagranti per le entrate statali sarebbero compensati, oltre che dall’incremento degli imponibili conseguenti alla rinnovata spinta economica, da eventuali calibrazioni di imposte (tipo IVA) modulate su ogni specifico bene traslato anche nell’ottica di una razionalizzazione del consumo
Lista (provvisoria, generica e indicativa) delle attività d’impresa da organizzare in regime di monopolio statale in aggiunta a tutto quello che attiene alla Sanità, alla Finanza e alle normali attività di controllo, formazione e salvaguardia (istruzione, polizia, magistratura, trasporti, difesa del territorio eccetera)
Il senso fondamentale di questa sezione, al di là dei singoli dettagli che a qualcuno potrebbero apparire (erroneamente, secondo me) un po’ goffi e ingenui, verte sull’assunzione da parte della macchina statale di compiti e obbiettivi che attualmente (molto maldestramente, secondo me) sono delegati in gran parte a iniziative cooperativistiche o a cosiddette organizzazioni no profit, molto meno cristalline nella struttura, nella funzionalità e negli intenti di quello che sarebbe auspicabile (non tutte, ovviamente).
Per esempio, non si capisce che tipo di ‘nessun profitto’ sia quello che riguarda i conti delle società, ma non i corrispettivi degli operatori, tanto più in una situazione in cui, se i titolari di moltissime piccole aziende assumessero se stessi come semplice quadro aziendale (neppure un dirigente di basso livello, quindi), il bilancio chiuderebbe in rosso.
L’involucro di moltissime imprese no profit consente svariate forme di esenzione fiscale e inoltre esse si connettono spesso all’apparato di uno stato sovrano esterno, i cui interessi sono considerati non concorrenziali rispetto allo stato sovrano ospite soltanto da fautori sulla cui buona fede si è costretti a giurare alla cieca, senza elementi per escludere (eufemismo) che traggano vantaggi dalla sovrapposizione e dai poco trasparenti vicariati.
Questo stato produce assistenza e opere caritatevoli come la criminalità organizzata produce soprusi e rapine: alla stessa stregua, cioè, di un’attività imprenditoriale che genera succosi profitti, gli stessi che, nelle intenzioni del presente documento, si intenderebbe rifondere allo stato nell’interesse dei suoi singoli membri.
Sussiste comunque una importantissima differenza di concetto nelle funzioni sovvenzionali che il progetto Colib vorrebbe delineare, se paragonate alle opere caritatevoli dei veri o presunti volontariati: le funzioni devono essere qui intese secondo modalità sistematiche e risolutive capaci di abolire una volta per tutte gli stati di precarietà attraverso l’arruolamento dinamico, intelligente e consapevole del membro consenziente della comunità, il quale riceve non una umiliante elemosina, ma l’opportunità costantemente e attivamente aperta di devolvere le proprie capacità e attitudini in una operazione effettivamente liberatoria ed emancipante: lo stato garantisce insomma al cittadino che costui possa impegnarsi e ottenere una sopravvivenza agevole e dignitosa, esercitando su di lui soltanto le costrizioni che servono a preservare, per altro verso, una quantità adeguata di esistenza rilassata e indipendente.
Attività che producono merci e strumenti di base con l’intento di abbassare notevolmente il costo della vita minimale, rendendola il più possibile comoda e confortevole, anche se priva di lussi superflui.
Produzione di energia anche da fonti innovative.
Produzione, gestione e allocazione di nuclei abitativi essenziali, concepiti secondo criteri di avanguardia.
Gestione di centri ricreativi e soggiorni turistici.
Produzione di veicoli economici a basso consumo.
Produzione e gestione di una rete di trasporti ad altissima velocità (per merci e persone) che colleghi aree selvagge (il cui significato apparirà chiaro più avanti) e che si avvalga delle energie rinnovabili nel modo più robusto e meno aleatorio possibile (vedere discussione in appendice).
Produzione massiva e standardizzata di cibi concentrati e salubri dotati del massimo potere nutrizionale. (Parentesi maliziosa: una migliore gestione delle piacevolezze della vita (sport, erotismo, cultura, la cui valorizzazione meriterebbe la messa a punto, che per ora tralasciamo, di interventi destinati a favorire, non ridicoli prestigi di tipo nazionalistico, campanilistico o di blasone, ma la concreta fruizione personale) ridimensionerebbe l’importanza di passioni culinarie che, come già dicevano gli antichi greci, elevano il morale, ma mortificano i corpi).
Produzione massiva e standardizzata di vestiario pratico ed elementare, contraddistinto da un’alta efficienza grazie ai migliori accorgimenti tecnologici, le cui possibilità potrebbero essere visitate anche nell’ottica di un minor dispendio energetico, sia sul fronte del caldo che del freddo, e di una trasformazione e rarefazione di sistemi di lavaggio che puntino ad attenuare il pericolosissimo inquinamento da detersivi. (Parentesi maliziosa: una giusta valorizzazione degli elementi erotici e sentimentali unita a un ridimensionamento degli aspetti gerarchici nello scambio comunicativo ridurrebbe di molto l’importanza estetica dell’abito).
E’ bene focalizzarsi sulla questione del monopolio pubblico nella produzione di cibo nutrizionale a spettro esaustivo e bilanciato per capirne a fondo le implicazioni strategiche. Non si tratta semplicemente di trasformare dei beni agricoli in derrate commestibili secondo uno schema tradizionale, ma di adibire a materia prima una vastissima varietà di materiale biologico, coltivato o soltanto raccolto, di qualità sia buona che scadente, per estrarne sistematicamente e intensivamente l’intero campionario dei complessi molecolari indispensabili a un adeguato mantenimento fisiologico del corpo umano: in questo modo si dovrebbe poter incrementare enormemente il potenziale di sfruttamento delle risorse naturali, non aumentando e anzi diminuendo la pressione sull’ambiente, sottraendo una parte del territorio all’agricoltura e all’allevamento (che rappresentano fonti di inquinamento molto più insidiose di quello che si pensa) per restituirlo a uno stato selvaggio o semi – selvaggio tutelato, ma liberamente percorribile.
Queste aree selvagge potrebbero essere valutate anche dal punto di vista di una nuova filosofia abitativa. Molti potrebbero scegliere di risiedervi stabilmente in nuclei edilizi opportunamente calati e integrati nel territorio e di esercitare funzioni di raccolta della materia prima impiegata per la produzione alimentare e l’utilizzo energetico degli scarti, al cui trasporto tornerebbero utili i collegamenti veloci, aerei o su rotaia, già messi in elenco e adibiti anche, ovviamente, per i rifornimenti.
Questo gruppo di persone, da investire anche di compiti analoghi a quelli delle guardie forestali (a cui si potrebbe aggiungere mansioni di operatore turistico), con responsabilità diretta, almeno da parte di alcuni, sulla gestione ambientale, si gioverebbe di una sorta di ritorno allo stato primitivo del cacciatore-raccoglitore, giudicato dagli antropologi, laddove le rispettive figure entrano o entravano in contatto (si tratta ormai di zone rarissime), più appagante della condizione di agricoltore.
De gustibus non est disputandum, ma è scientificamente provato dalla psicologia sperimentale che il contatto con la natura conferisce generalmente effetti benefici agli esseri umani e consente di raggiungere elevati livelli di benessere interiore a fronte di uno spreco limitato di ausili esteriori, quindi massimi benefici ai minimi costi.
Tornando alle modalità produttive, una primitiva orda di chef tra i più raffinati potrebbe essere adibita a reparti speciali incaricati di valorizzare i prodotti al cospetto di vari palati.
Non si vuole minimizzare i problemi tecnici e implementativi da risolvere in direzione dei risultati così prospettati, ma dovrebbe trattarsi di livelli organizzativi e d’investimento nettamente inferiori rispetto a impegni tecnologici già realizzati attraverso azioni pubbliche coordinate (acceleratori di particelle, centri aerospaziali ecc.), mentre la posta in gioco, al confronto, riguarderebbe un tornaconto molto più concreto e cruciale (anche se meno avventuroso e affascinante), ovvero la risoluzione pressoché definitiva della carenza alimentare planetaria.
Tutto il modello, del resto, una volta attivato, costituirebbe una esemplificazione pratica di come risolvere i problemi strutturali di tutti i paesi poveri, i quali, invece di consentire l’emigrazione, che in genere è messa in atto dagli individui più intraprendenti e coraggiosi, dovrebbero senz’altro richiamare le forze interne a un analogo impegno di ristrutturazione sostenuto dalla comunità internazionale, ponendo fine alla caduta in sequenza delle tessere del domino.
E’ plausibile e pressoché scontato che il vitalizio garantito, a cui ciascuno sarà libero di rinunciare, in tutto o in parte, con una decisione rivedibile e mai definitiva (immediatamente riattivata in caso di precarietà o di malattia) implichi una cessione obbligatoria di lavoro nelle varie attività.
Ovviamente sono da prevedere accorgimenti draconiani per rintuzzare furbi e profittatori.
Nel progetto si dovrà imprimere a lettere di fuoco che, nel rispetto di un ferreo codice di disciplina, non saranno tollerate licenze, capricci, astuzie e anarchie, ma vi si dovrà pure ribadire il principio che ogni congegno produttivo è concepito come qualcosa inteso a promuovere e non ad avvilire il benessere individuale, prevedendo modalità per tradurre i progressi tecnici e organizzativi in concomitanti ricadute a pioggia.
Tuttavia, è bene intendersi senza ambiguità sul concetto di benessere: esso esula totalmente da una visuale edonistica ed esclude gli orizzonti del lusso e del superfluo; per benessere s’intende la garanzia e facilità comunitariamente organizzata di accedere alle fonti di reddito indispensabile e quindi alla possibilità di usufruire con ragionevole larghezza di ricreazioni, per così dire, ‘spirituali’: la triade sport, sesso, cultura e tutti gli affinamenti ‘gratuiti’ che la vitalità individuale saprà ricamarci sopra (amore, arte, ricerca, socialità). Le prerogative del materialismo raffinato, i lussi ricercati, i passatempi costosi andranno demandati, per chi sarà abbastanza abile o fortunato, al mondo dell’iniziativa privata, che lo stato limiterà e controllerà soltanto per quanto attiene alla salute e all’imperturbabilità dei beni pubblici e del patrimonio naturale. La regolazione del passaggio da un campo all’altro o la partecipazione attiva in entrambi in base a una libera scelta del singolo richiedono certamente una particolare attenzione.
In fondo, il succo di ogni utopia sociale non costruita sulle nuvole consiste semplicemente in questo: rendere ogni cittadino azionista e contitolare della propria città a un livello base che già consenta, salvo manchevolezze e difetti vistosi, un vantaggio e un usufrutto stabile, legando ogni successivo avanzamento a contributi profusi in buona armonia ed equanime proporzione rispetto ai conseguenti vantaggi.
C’è qualcuno che pensa di ottenere qualcosa del genere senza un progetto adeguato?
Attività e provvedimenti che consentono allo stato di riassorbire i proventi e le evasioni fiscali riconducibili al business della criminalità organizzata:
Smaltimento e riciclo rifiuti
Case di tolleranza pubbliche
Depenalizzazione e liberalizzazione, ovviamente sotto selezione e attento controllo, del commercio e consumo di droghe.
Si dovrà investire particolare attenzione affinché il libero consumo di droga non comporti, aggravando la salute media della gente, costi medicali (che comunque esistono tuttora, mentre i guadagni sono incamerati altrove) paragonabili o addirittura maggiori degli introiti, ricreando l’incongruenza che attualmente comporta il monopolio dei tabacchi: già una fesseria in sé e per sé, esso induce infatti insorgenze tumorali che pesano sulla sanità pubblica.
Probabilmente si dovrà operare su due concomitanti linee di azione: l’estirpazione radicale delle droghe pesanti e l’introduzione di particolari droghe leggere, non più dannose dell’abuso corrente di alcool.
Il discorso è delicato, ma lo si introduce sulla base della considerazione ampiamente condivisa, anche se frenata da una varietà di remore, che ogni tipo di proibizionismo nei riguardi di richieste diffuse e indomabili comporta, tutto compreso, svantaggi nettamente superiori ai vantaggi.
Note tecniche
Per ogni specifico punto in elenco si presuppone un’effettiva implementazione delle prassi gestionali che vi attengono e quindi i dettagli di sistema vanno considerati secondo il duplice risguardo sia della preliminare semplificazione o facilitazione operativa, sia degli appigli, mezzi e supporti che forniscono sul fronte delle procedure tecniche e costruttive, nonché di disbrigo, controllo e sorveglianza.
Per una valutazione puntuale e spassionata delle innovazioni proposte non si può ovviamente trascurare le sinergie e gli effetti combinati che coinvolgono e legano insieme i singoli interventi.
Il tutto si regge se e solo se, alla qualità più specificamente politica delle varie decisioni e costruzioni, si annette la giusta e sostanziosa componente di intelligenza tecnica e funzionale, abbandonando quella cronica e diffusa ingenuità culturale per cui contano principalmente le doti ‘umane’ e ideali, mentre quelle amministrative seguiranno come le intendenze napoleoniche.
Niente di più insulso: la libera dialettica umana, le qualità personali e intellettuali, le categorie dei giudizi e dei valori non determinano gli assetti sociali più di quanto ne siano determinati all’interno di un groviglio problematico cosparso di insidie e trappole letali, alcune imprevedibilmente automatiche, altre maneggiabili da chi il potere già lo detiene: tali nozioni costituiscono il nocciolo tuttora valido e inconfutabile del marxismo e l’insegnamento basilare della scienza e della filosofia moderne.
Si tenga d’altra parte per fisso e assodato che il discorso progettuale prescinde da qualsiasi velleità d’intervento nei confronti delle vigenti caratteristiche antropologiche, sgombra il tavolo, dunque, da qualsiasi presunta riforma dello ‘spirito umano’: ogni considerazione relativa, anche quelle scettiche o sedicenti realistiche non devono semplicemente aver luogo.
Per passare a una esemplificazione che ben riflette l’auspicato assorbimento della moralità (in senso lato) nella prassi, si consideri la questione dell’evasione fiscale, politologico scaricabarile per antonomasia, comodo passaggio attraverso cui la responsabilità passa dai governanti ai governati: la nazionalizzazione del sistema bancario congiunta allo scarico fiscale di ogni transazione potrebbe risolvere il problema, se si collega il tutto attraverso un uso sapiente della moneta elettronica e dell’informatizzazione.
Probabilmente ne soffrirebbe, almeno in parte, un bene o male inteso senso della privacy.
Comunque si impostino le questioni, non è possibile evitare, prima o poi, scelte, priorità e tagli di nodi gordiani.
Note generali
Un discorso a parte e un particolare impegno collaterale è richiesto ovviamente dal generale adeguamento delle prerogative e responsabilità gerarchiche, dalla suddivisione delle competenze amministrative (gradi di federalismo) e dagli schemi sanzionatori predisposti a tutela del funzionamento del sistema.
E’ ovvio che qui si gioca gran parte della partita come è altrettanto ovvio che in questa sede la questione può essere solamente citata senza ulteriori approfondimenti.
Ogni singolo punto, del resto, nonché ogni aggiunta, correzione o precisazione qualificanti, richiede certamente lunghe e puntuali analisi collegiali e interdisciplinari che in nessun caso e in nessun momento dovranno perdere di vista l’armonia del quadro di insieme.
Le idee esposte in estrema sintesi equivalgono, se ci si può esprimere metaforicamente, al primo abbozzo di un’equazione generale di cui è nota, almeno a grandi linee, la forma analitica, ma non il valore di coefficienti per i quali, attraverso un coordinamento tecnico e politico, si dovranno ricercare le varie combinazioni ottimali.
Il valore da assegnare ai coefficienti, per esempio l’entità e la diversificazione del reddito di cittadinanza o le aliquote d’imposizione fiscale, costituirebbero il centro strategico e la preoccupazione focale di una decisione politica restituita a quella concretezza senza la quale il concetto stesso di democrazia si devitalizza e perde significato, i valori etici grondano ipocrisia e si riducono alla classica foglia di fico dilatata secondo le esigenze del potere.
Una combinazione ottimale o meno di opzioni parametriche e il tipo di modulazione generale all’interno del progetto decidono il successo o il fallimento del sistema.
Che il sistema proposto sia questo o un altro, forse è ora di comprendere che solo la progettazione e la ricostruzione della società secondo un modello consapevolmente e scientemente studiato può riattivare l’essenza stessa di una moralità e una razionalità che altrimenti si riducono a caratteristiche etologiche geneticamente determinate e sottoposte comunque, nel banale intrecciarsi degli incontri / scontri, alla casualità degli eventi e agli arbitri di un destino che nessun Dio personale controlla.
APPENDICE
Avvertenza
Lettura non facile e neanche ‘simpatica’. Si consiglia di lasciar perdere chi, a prescindere dalla condivisione o dal rifiuto, non dispone di tempo, voglia o pazienza sufficienti a costruire la comprensione frase dopo frase.
Premessa esterna (metatematica)
L’estensore della presente non ha bisogno di presentarsi (volendo, potrà essere individuato visionando i dati pubblici relativi alla registrazione del sito): trattasi infatti di autentico nessuno, stagionatissimo eppure senza titoli, incarichi e perfino successi di tipo accademico o professionale, quindi soggetto a quell’impossibilità di essere preso sul serio, sia che lo meriti oppure no, derivante, in ogni tempo e luogo, dal principio di autorità, quel sistema di certificati e autorizzazioni implicite che è sì connesso all’esistenza stessa degli assetti sociali e delle culture comunitarie, che si esaspera però fino alla teologia solo durante i periodi di inconfutabile immaturità o decadenza, a completo uso e consumo, in quel caso, delle diverse e variegate gerontocrazie iperclassiste.
Oggi come oggi (ma, forse (credo) in ogni tempo e luogo), un’assoluta libertà di pensiero (che può tranquillamente apparire un male, anziché un bene, secondo talune categorie di valori intellettuali e morali) richiede un affrancamento altrettanto assoluto dai coinvolgimenti implicati nel successo sociale.
L’essere, socialmente e professionalmente parlando, un bicchiere vuoto comporta un ulteriore, non indifferente vantaggio: la licenza di rinunciare a quella compunta, condiscendente e ovviamente falsa umiltà che, come è noto, contraddistingue meglio di ogni altro tratto gli spiriti veramente magnanimi e sapienti.
Oggi, chi comanda, se solo dispone di sufficiente intelligenza e cultura (come avviene per la maggior parte), sa di sapere e capire molto poco rispetto al necessario.
E’ inoltre perfettamente consapevole che l’intelligenza tecnica di cui avrebbe bisogno, ancorché irraggiungibile, ostacolerebbe fino al pregiudizio totale l’intelligenza sociale che la politica esige, ovvero quella predisposizione ai rapporti (e alle manipolazioni) inter-personali la cui scioltezza richiede lo scarico preliminare di ogni cumulo speculativo e teorico, risultando del tutto incompatibile con quello sprofondamento meditativo che comporta inevitabilmente la pura e semplice applicazione di sé nel risolvere problemi complessi.
Il vero uomo di potere di tali incompatibilità non solo non si preoccupa: giudica quelle carenze sul piano meramente intellettivo un segno in più di una sorta di investitura divina, un autorevole scherzo della sorte che è l’unico carisma che abbia conservato un proprio enigmatico e irriducibile fascino.
Il disprezzo tout court della filosofia e della cultura in genere, accompagnato dalla retrocessione della scienza a mero strumento utilitaristico, vengono poi trasmessi al pubblico sovrano attraverso quell’abile raggiro in cui è maestro chi sa trapiantare le idee nel cervello degli altri illudendoli che il tutto vi si generi autonomamente.
In realtà, riguardo al pensiero dei cosiddetti esperti qualsiasi popolo sano conserva rispetto e timore, ma tale atteggiamento viene allevato dal potere soltanto verso le specializzazioni da professionisti dei vari emissari e incaricati ufficiali, mentre ogni più generale predisposizione alla critica e all’approfondimento metodico viene scoraggiata sotto la qualifica di inutile e pericolosa.
La faccenda presenta aspetti a dir poco paradossali, che scorgiamo non appena ci si concentra sulle fasi di sviluppo di una civiltà qualunque: essa in genere manifesta una sorprendente apertura e tolleranza alla dispersione critica nei momenti in cui sarebbe meglio concentrarsi sulla costruzione di contrafforti solidi e promettenti, mentre si chiude in rabbiosa diffidenza alle contestazioni radicali e alle fertili eresie proprio nel momento in cui il marciume delle fondamenta e l’instabilità degli assi portanti richiederebbero interventi drastici che riesaminino dalla radice tutta quanta la struttura.
Come quei virus micidiali che attaccano il sistema immunitario dell’ospite, la decadenza provoca, tra altre amenità, un pessimo livello di scolarizzazione, il colonialismo confessionale, il genocidio delle intelligenze perpetrato dalla volgarità abile e azzimata delle televisioni nazional-popolari: come quella di un virus la strategia della decadenza s’incentra sulla replica illimitata di se stessa.
La diabolica pericolosità della situazione si può bene esemplificare prendendo spunto dal recente viaggio di papa Francesco a Lampedusa.
Il clamoroso battage pubblicitario e il sostegno mediatico forniti a un episodio giocato sul doppio registro della teatralità e magniloquenza gestuale (la corona di fiori deposta sul mare) e del balenante monito epigrammatico (‘la globalizzazione dell’indifferenza’) di sicuro conferma pleonasticamente una metodica e invincibile abilità propagandistica sorretta da quell’assoluto trasformismo politico culminato nella trovata oggettivamente geniale dei due papi.
Uno, quello rigoroso e dogmatico, che raccoglie i consensi dalla parte destra dello schieramento elettorale, figura accantonato in considerazione del riflusso anti-germanico e dell’uggia in cui è tenuta l’austerità, ma rimane vivo e presente perché non si sa mai, intanto l’altro, il ‘frate’ ecumenico dei paesi emergenti, è incaricato di pilotare con modi e toni opportunamente di sinistra il vento riformista sollevato dalla fase più turbolenta e socialmente insidiosa della gravissima crisi sistemica.
Chi ritiene che l’utilizzo di tale potenza d’immagine volga sempre e comunque al bene se ne compiace fino alla commozione, ma che ci si trovi davanti a problematiche molto più spinose di quello che si è abituati a pensare lo dimostra proprio il caso specifico.
Il messaggio sembra improntato al solito appello alla fratellanza tra i popoli e alla solidarietà verso gli sventurati, ma il momento, il contesto geopolitico e la forza particolare con cui viene lanciato fa sospettare che siamo entrati in una zona grigia dove l’imperativo etico comincia a confliggere con il fondamentale diritto di una nazione di scegliere autonomamente il proprio destino.
Sospetto che, come negli anni dello stragismo, della P2 e della P38, l’impero americano, neppure contrastato da quello sovietico (ma forse è meglio così), ci assegna una missione: non più confermare il ruolo di portaerei simbolica dell’intera penisola nelle acque al confine tra mondi, bensì fungere da scolmatore di quelle tensioni mediorientali che l’avidità di petrolio dell’occidente ha predisposto (trasformando un magico mondo desertico in un sovraffollato supermercato di chincaglierie in mezzo a una natura ostile) e che gli indizi di esaurimento delle riserve seguiti alle prime mosse veramente efficaci in direzione di fonti alternative (lo sfruttamento inquinante e a resa relativamente bassa di sabbie e scisti bituminosi) stanno trasformando in una polveriera di inimmaginabile estensione.
In cambio Zio Sam promuoverà investimenti (che problema c’è, pensate solo a quanto può scendere il costo minimale del lavoro con tanta manodopera in più) e consiglierà ai suoi generali finanzieri di far risalire qualche quotazione azionaria.
Chi scrive è pienamente consapevole che la presente iniziativa potrà avvalersi di un minimo di considerazione soltanto acquisendo il supporto e la sponsorizzazione di personaggi e ambienti dotati di sufficienti credenziali, la maggior parte dei quali, se non tutti, troveranno più conveniente ignorare o ridicolizzare, che impegnarsi ed esporsi verso una proposta assurda in quanto denuncia l’assurdo di una sacralità in azione, ossia dell’inconcepibilità della politica come oggetto di ricerca ponderata e interdisciplinare, analogamente a quello che già avviene, con ottimi risultati, sul fronte artistico (esempio: camere di scrittura degli sceneggiatori televisivi statunitensi) o della comunicazione avanzata (esempio: progetto Linux).
A prescindere dalle difficoltà del reperimento, eventuali sostenitori dovrebbero inventarsi uno sproposito di influenze e carismi, di equilibrio e perspicacia comunicativa, per trasmettere senza snaturarla la sostanza di un messaggio che, nato e progredito come gioco intellettuale, tramutato in scommessa più che seria (a mio modesto e partigiano avviso), si è già, purtroppo, verificato risultare poco o niente commestibile alla cosiddetta gente comune, vale a dire all’insieme di coloro che i più forbiti interpreti e intercettori di consenso definiscono ‘pubblico sovrano’, destinatario meno bieco e dannoso (nonostante tutto!) e più credibile (provvisoriamente) rispetto ad altre entità collettive tra cui il ‘popolo rivoluzionario’.
Non sembrerà forse capzioso o sofistico porsi allora la seguente domanda: la presente uscita rappresenta una provocazione, apertamente o ambiguamente intesa a mettere in gioco spunti ideali di qualche pertinenza e rilievo, oppure consiste in quello che dice di essere: un vero e proprio invito a dibattere e costruire almeno sulla carta quello che si prospetta (magari solo come dotazione di riserva per una eventuale crisi futura che approfitti di un eccezionale convegno di cigni neri)?
Non saprei stabilirlo in modo univoco e assoluto: penso che si debba inventare alla svelta qualcosa se non si vuole compromettere definitivamente il futuro dei figli, ma è difficile ingaggiarsi in imprese meritevoli o solo ambiziose senza alcun tipo di fede, idealità od ottimismo e, nel caso specifico, la fiducia eccetera che serve implica una fede nell’umanità, prototipo di quella religiosa, che, francamente, non possiedo.
D’altra parte, chi ne dispone nella giusta abbondanza difficilmente ritiene la via progettuale quella più indicata a risolvere i problemi della convivenza politica e sociale e preferisce affidarsi all’evolversi naturale della vicenda storica nel suo vario e spontaneo estrinsecarsi giorno dopo giorno, nell’incessante e ‘democratico’ confronto di istanze e aspirazioni (le virgolette indicano, più che un sarcastico distacco, la illimitata declinabilità semantica del termine), presupponendo una regia benevola del destino e un immancabile lieto fine.
Il pessimismo, infatti, risiede già nel giudicare incerta la partita.
Un bel rebus, comunque la si pensi: gli umanitari, che avrebbero la voglia e l’entusiasmo per imprese collegiali di grande portata, pensano che una soluzione comunque verrà trovata e sarà la migliore possibile, al di là di ogni impegno rigidamente programmatico, che considerano addirittura asfittico e limitativo, mentre lo scettico razionale, che, antipatia a parte, in genere possiede le qualità per appassionarsi alla necessaria precisione di cesello, ritiene che, per quanto il singolo individuo o un consesso ristretto, opportunamente motivati, possano raggiungere risultati eccezionali secondo propri esclusivi traguardi e caratteristiche (esistono diversi tipi di intelligenza, tutti validi e relativi, anche se scarsamente confrontabili tra di loro, il che è un guaio), l’umanità, prove storiche alla mano, sarà inesorabilmente condannata a un grado medio di stupidità del cui eccesso faranno costantemente le spese, oltre che se stessa (nel senso della qualità di vita media individuale), le altre specie animali e il pianeta come complesso ecologico.
E’ quasi assiomatico che, ad avvantaggiarsi e, alla fine, monopolizzare il campo, spuntino i vecchi o giovani campioni di scaltro realismo, i marpioni maneggioni, i virtuosi nel pettinarsi e profumarsi il pelo sullo stomaco, gli allibratori che aggiustano le quote delle scommesse sulle debolezze umane.
In proposito è bene precisare che la stupidità a cui alludevo deriva da moltiplicatori, insiti nei meccanismi sociali, che in larga misura prescindono dalle abilità dei singoli; inoltre, tecnicamente parlando, è propriamente tale soltanto in parte, mentre molte illogicità e incongruenze si devono agli azzardi temerari e ai calcoli sbagliati di chi, per una comprensibile e diffusa ambizione che s’intreccia al tessuto stesso della vita e alla natura degli istinti, gioca continuamente contro le probabilità per ottenere un posto nei banchetti che contano, per tracciare un cerchio Mediolanum intorno al suo minuscolo spicchio di sole e paradiso.
Un’altra spiegazione dell’eccesso di idiozia che mina alla base i tipi fondamentali di organizzazione sociale si può forse ricollegare a una sorta di paradosso generazionale per cui il cammino verso gli assetti futuri andrebbe sempre orientato tenendo presente soprattutto le esigenze in prospettiva delle nuove generazioni, ma a una corretta messa a punto della visuale si oppongono due fattori decisivi: la detenzione del potere da parte prevalentemente degli anziani e l’ignoranza, la mancanza di esperienza e l’insufficiente allenamento all’analisi che affligge i giovani, i quali mostrano oltretutto forti inclinazioni a favore di scelte esistenziali per definire le quali, invecchiando, essi stessi troveranno azzeccata l’elegante definizione di ‘cazzate’.
Inoltre, se consideriamo come, in modo perfettamente antisimmetrico e contrario alla cognizione comune, in un’ottica meramente statistica, dal riflesso psicologico difensivo e dal rinforzo selettivo in gran parte innato che attribuiscono una particolare benevolenza all’occhio di Dio fissato sulla propria persona, derivano non tanto l’autocensura morale e i relativi scrupoli, quanto l’errore di prospettiva che fa assumere al singolo un atteggiamento perlopiù intraprendente ed egoista, deduciamo che la religione istituzionale, anche dopo correttivi di tipo luterano o buddista, risulta un formidabile strumento di imbrigliamento e sfaldamento di quella particolare forma di potere, fondamento sine qua non di ogni vera democrazia, che consegue dalla semplice pressione della massa numerica: è ovvio che, se la forza del numero influisce molto poco sulla qualità delle scelte, richiede una forte ipoteca sul potenziale di generosità dei capi il solo presupporre che un benessere diffuso, a parità di fonti di sfruttamento lontane e invisibili, possa contare per affermarsi sul mero calcolo delle probabilità, soprattutto se non si basa su un’adeguata trasparenza legislativa.
La famosa definizione del primo comunismo, la religione come oppio dei popoli, benché mossa da premesse e valutazioni sbagliate, riceve pertanto una decisiva conferma sulla scorta di una semplice constatazione naturalistica intorno alle peculiarità del comportamento umano.
Ovviamente, dirigenti d’impresa e alte gerarchie burocratiche e clericali che si rispettino sanno gestire al meglio la situazione e forse riuscirebbero perfino a modellizzarla con strumenti matematici, per poi usare le formule in un progetto strategico analogo a quello con cui il grande speculatore cerca di sfruttare la statistica psicologica per contrastare e mandare in buca il cosiddetto parco buoi.
Se non è ancora avvenuto, ciò riguarda le difficoltà operative più che le buone intenzioni, visti i numerosi indizi che rivelano come, almeno in Italia, il Breviarium di Mazzarino, o un suo adattamento moderno in chiave scientifica, siano molto studiati anche da personalità di primissimo piano, non solo politici, ma anche e soprattutto funzionari, prelati, impresari, quadri aziendali.
Se c’è infatti qualcosa di classificabile, schematizzabile, standardizzabile nel comportamento umano, esso riguarda proprio sogni, fantasie, aspirazioni, deliri incentrati sulle pretese di unicità, originalità e ineffabile, sorgiva, imprevedibile spontaneità che ogni individuo è portato ad attribuire a se stesso.
Ognuno è innamorato senza speranza di se stesso, recitava con il dovuto sussiego un tale (o un suo alter ego) che adesso non ricordo.
Sciamani e rabdomanti del marketing nonché i vari eccitatori professionisti di ‘stimoli motivazionali’ per i più disparati scopi ed esigenze, sanno bene come sfruttare la situazione e tradurre in catene fai da te l’effervescente creatività delle singole cavie.
E così, mentre la progettualità rimane il fondamento della società gerarchica, chi ama, corrisposto, le masse, si preoccupa di preservarle da tale faticosa prosaicità, riservando loro una quintessenza impregnata di idealità ed etica passione: spirito rivoluzionario e attivismo umanitario rappresentano infatti il corrispettivo speculare, in campo antagonista, ma non solo, delle tecniche commerciali tanto apprezzate dagli economisti ortodossi.
Probabilmente, comunque si rigiri la vexata quaestio (e sotto sotto proprio su ciò si basa la giustificazione segreta mediante la quale anche il più onesto dei ‘democratici’ oligarchi assolve se stesso) una democrazia cova ordinariamente molta più stupidità di qualsiasi dittatura, almeno finché si privilegia la pura razionalità sopra ogni altro avviso: per il progettista sociale si rivela quindi una sfida formidabile coniugare libertà e intelligenza.
Qualcuno riterrà senz’altro che certe drastiche affermazioni disseminate nella presente concione, come la cronica irrazionalità dei comportamenti umani o la futilità e inconsistenza dell’attuale concetto di democrazia paghino dazio a una certa qual presuntuosa gratuità e dilettantistica irruenza.
Non credo. La democrazia non produce effetti davvero incisivi sulla qualità della vita poiché nessuno, dall’ignorante più grezzo ai più esperti specialisti delle classi dirigenti, si rende conto ormai di che cosa stia pensando e parlando quando tratta categorie fondamentali attinenti alla decisione politica ed economica.
Anche chi assume incarichi e responsabilità che riguardano la vita di tutti, conosce molto nebulosamente ciò che dovrebbe sapere esattamente e a menadito: per esempio, in che cosa consiste o dovrebbe consistere il valore dell’unità monetaria o come andrebbero selezionati i criteri per giudicare la funzione mediatrice, regolatrice e di servizio della macchina pubblica amministrativa.
Se si chiede di rendercene conto a economisti e politologi, tutti, pur con diverse accentuazioni e diversi gradi di consapevolezza, concordano che attiene al libero confronto democratico mettere in contatto e cercare di appianare le divergenze che sussistono tra i vari attori sociali, cercando nel frattempo di arrivare pragmaticamente alle necessarie chiarificazioni.
Però, così dicendo, confermano che: a) non disponiamo di strumenti teorici atti a distinguere adeguatamente tra le disparità di opinione, quelle d’interesse e tutti i casi intermedi; b) accettiamo come fatalità , non un dialogo tra sordi o tra gruppi reciprocamente stranieri che non conoscono la lingua degli altri, molto peggio: un dialogo tra chiacchieroni che si illudono di comprendere quello che dice l’altro, ma in realtà non si intendono perché attribuiscono valori e significati diversi a tutti i termini fondamentali, maneggiando i quali si può solo sperare che almeno si affidino all’euristica del ‘prova, correggi e ripeti’; c) non siamo assolutamente in grado di distinguere se i capisaldi del sistema socio-economico in cui viviamo o sopravviviamo derivano da profonde necessità logiche e antropologiche oppure da mere accidentalità storiche accettate per convenienza, pigrizia mentale o scettico realismo: d) non sappiamo giudicare con sufficiente sicurezza quali elementi si armonizzano tra di loro e quali rimangono reciprocamente contraddittori o addirittura auto-contraddittori; e) non disponiamo sostanzialmente di argomenti per opporci alla politica del fatto compiuto, che rappresenta l’esemplificazione epico-pratica di proverbi della saggezza popolare come ‘piove sempre sul bagnato’ o ‘il potere logora chi non ce l’ha’; f) ci precludiamo l’unica possibilità, a tiro lungo, di effettuare delle libere scelte e di inscenare una recita credibile del cosiddetto libero arbitrio: sto parlando dell’elaborazione logica e razionale di presupposti utili a pervenire a una conclusione, laddove tutto il resto, che ci si riferisca alla psiche umana o al mondo delle ‘cose’ o a entrambi, ai valori eterni come ai conati elementari, rappresenta soltanto una infima parte dei calcoli combinati di sistemi ‘competitivamente’ sballottati dai risucchi di vari attrattori, all’interno di quel sistema di sistemi che coincide con la comune nozione di ‘Dio’.
Si potrebbe continuare fino alla zeta e oltre, ma per ora può bastare, ci si è già spinti abbastanza avanti da suscitare la reazione sdegnata di chi, avendo appreso i rudimenti e l’abc dell’economia politica, è pronto a mettere in campo le varie teorie che, partendo dalle società tribali fondate sul baratto e ricostruendo il faticoso travaglio storico dell’uomo attraverso le forme progressive della complessità culturale e materiale, legano, sempre per esempio, la quantità incrementale di moneta al volume di merci aggiuntive prodotte e alla velocità degli scambi o altro, come anche il ruolo dei vari contratti sociali tra gli attori economici e lo stato di diritto, improntati sui servizi di sorveglianza, mediazione, coordinamento e tutela: la polizia come difesa comune contro i malfattori, la giustizia come organo dirimente le liti altrimenti insanabili, il fisco come riscossione del pagamento dei vari servizi, la religione come approvazione vidimata e bollata ab aeterno di tutto il minestrone eccetera eccetera eccetera.
Grazie tante! Il problema, anche sottacendo per amore di carità i gravi disaccordi che sussistono già intorno ai principi primi, è di capire se i vari concetti conservano ancora un senso e in che misura si mantengono integri e non sono stati smembrati e snaturati da stratificazioni, implosioni. esplosioni e grovigli direttamente proporzionali all’escursione tecnologica e alla dilatazione degli orizzonti geografici nei quali si manifesta l’insieme delle interazioni causali.
E’ relativamente facile risalire agli albori della storia umana e ricostruire partendo ab ovo l’instaurarsi degli schemi di base di una società articolata, il difficile è capire se i concetti portanti mantengono una costanza di senso e d’integrità nel continuo evolversi metamorfico di tante variabili e in particolare dei bisogni, dei poteri, degli interessi.
Volete una domanda specifica che aiuti a uscire dal vago rivelando nel contempo gli attuali difetti della disciplina teorica davanti a un sistema del mondo che è andato fuori controllo?
Ecco qua, molto semplicemente: in che modo e fino a che punto la proliferazione tumorale del ceto finanziario influenza il reale significato pratico e operativo del termine ‘moneta’?
La domanda può essere posta in una forma più generale: in che modo la proliferazione tumorale di un ceto amministrativo e/o lobbistico (una burocrazia di controllo, un organismo corporativo o sindacale, una classe ricca e intrigante di produttori…) influenza, non tanto i valori, ma la specificità non solo concettuale, ma anche (mi si consenta il termine) ontologica dei fattori fondamentali con cui interagisce (giustizia retributiva e fiscale, distribuzione ottimale delle risorse, congruità nel trattamento delle merci e del lavoro ecc.)?
E’ ovvio che questi problemi nascono con il nascere stesso dell’umanità, si tratta però di capire se e quanto la globalizzazione li ha resi o li rende o li renderà letali.
E allora? Secondo il mio modestissimo parere o si riavvolge il film e si ricomincia a girare dal momento in cui si è andati in confusione per una sceneggiatura raffazzonata e lacunosa o affidiamoci alla benevolenza di Dio (vedi sopra la definizione).
Non avrebbe alcun senso rifare il malfatto senza recuperare razionalmente il senso primordiale dei valori sociali ed economici, senza abolire quindi le complicazioni e intermediazioni inutili e dannose.
Questo processo indispensabile di semplificazione e ripulitura in genere si trova rubricato sotto la generica definizione di utopia, che è il classico termine dispregiativo con cui gli strati dominanti, le organizzazioni di maschi (e femmine) alfa, intendono salvaguardare il caos darwiniano solo in apparenza ordinato in cui sguazzano, preoccupati che assecondi determinati caratteri antropologici e agevoli le peculiarità selettivamente favorevoli di cui dispongono.
Queste sono abbastanza casuali e storicamente determinate, come insegna la storia specifica di ogni paese, ma si avvalgono della possibilità di costruire e controllare l’ambiente artificiale che li favorisce con una efficienza assolutamente sconosciuta in natura, il che aiuta a spiegare, di striscio, l’assurda e altezzosa prosopopea anti-naturalistica che contraddistingue di solito le ipocrite e paludate culture ufficiali e istituzionali.
Il caos incipiente, che ribolle sotto la superficie, può scimmiottare l’ordine solo avvalendosi di espedienti strutturali legati a polarizzazioni della compagine sociale fondate su codici ideologici e prescrizioni rituali sufficientemente rigidi e formali, esattamente come avveniva nelle società aristocratiche succedute all’organizzazione feudale, le quali, in odore di crisi e possibile definitiva caduta delle società liberali e soprattutto in assenza di modelli alternativi di riferimento, diffondono tuttora un irresistibile fascino attrattivo.
Il popolo di sudditi che lecca voluttuoso spuntoni e durezze spalmate di caramellosi imbonimenti fieristico-tecnologici rischia di tagliarsi la lingua e probabilmente lo sa, ma come si fa a resistere?
E se non basta la droga del soave rimbecillimento, ecco pronte le armi anti-utopiche predisposte pensando alla pericolosa spocchia dei colti intelligentoni, che, qualora volessero scapestratamente indulgere a qualche velleità genuinamente riformista, se la dovranno vedere con i veri sapienti, i quali si riconoscono per l’unica caratteristica universalmente apprezzata ancorché non si sappia esattamente che cosa sia: il buon senso!
Costoro, senza alzare il ditino (perché sono sobri e addirittura ubriacati di sobrietà), ci insegnano che ogni desiderio smodato di congruenza razionale e tutte le fantasticherie che favoleggiano di un livello troppo elevato, non di felicità (alla cui esistenza credono ormai solamente i cattolici, non subito però, sempre un po’ più avanti di adesso), ma di serenità (che osano perfino anteporre, come consiglio di saggezza, a una esagitata euforia da marionette), si traducono in catastrofi umanitarie che grondano sangue e liquami.
Allo scopo tengono molto a convincerci che gente come Stalin si proponesse, in qualità di obbiettivo primario per la realizzazione del super ego e di ambizioso percorso individuale di carriera, la costruzione di una società perfetta, di un mirabile eden artificiale e niente affatto, mai, per nessun motivo, una egocentrica grandeur nazionalistica come avrebbero potuto intenderla un Mitterand o un Reagan e potrebbe tuttora intenderla, anche se, al confronto, con strumenti scordati da orchestrina della festa rionale, il trio Berlusconi, Letta, Napolitano.
Per i dotti in arruolamento e gli intellettuali ‘organici’, anche dopo ogni tipo di mutata mutandis, Lenin e Trotzkij furono qualcosa di metafisicamente e ontologicamente incommensurabile rispetto a ingegnosi e combattivi capetti come Grillo o Renzi, vivevano sogni titanici da esaltati che tuttavia, lo dobbiamo riconoscere, salvaguardano dal sospetto che la storia non sia il regno shakespeariano della tragedia e dell’epica, ma, secondo la visuale di un blasfemo attualismo analogo a quello geologico, il prosaico snocciolarsi di una cronaca la cui normalità, regolarmente, scappa di mano a chi sarebbe burocraticamente deputato alla moderazione e al controllo.
Tutto quanto detto fin qui vale a prescindere dai dettagli delle proposte avanzate nella sezione più tecnica e coinvolge invece quello che ne rappresenta forse la pregnanza maggiore, ovvero l’indicazione e la perorazione di un metodo.
Sulle questioni più specifiche, può essere utile, preliminarmente, evidenziare come, al di là dei gusti e delle tendenze personali, sussiste qui una importante presunzione di fondo, ovvero la certezza che gli obbiettivi strutturali e funzionali ipotizzati nascano da un processo di conformazione ineluttabile alle tendenze del globalismo in atto: punto distintivo e qualificante risulta allora il tentativo, più o meno disperato, di sottrarne la direzione all’egemonia degli interessi elitari dominanti (che usano le chiese come lenitivo e lubrificante), per conferire le priorità di scelta e di gestione a una rinnovata autorità pubblica e statale, condizionata ad agire per la massimizzazione del bene comune.
E’ facile che qui, come un riflesso condizionato, si levi proditoriamente lo scatto dello scetticismo più sardonico. In realtà, per controllare il rigurgito, basterebbe far mente locale alle economie belliche e riflettere su come, in condizioni fortemente sollecitate dall’esterno, sotto la tensione di un eccezionale sforzo collettivo, più volte, storicamente, il tessuto industriale di una nazione si sia trasformato e potenziato radicalmente, in tempi molto brevi, all’insegna dello statalismo più stretto e rigoroso.
Una multinazionale, in ogni suo reparto, funziona senz’altro meglio di qualsiasi macchinario politico-amministrativo, ma chi, tra quelli in grado di rendersene conto, accetterebbe di farsi esautorare dai propri ‘democratici’ diritti di cittadino a vantaggio della tecnocrazia privata (a parte quelli che ne beneficiano)?
Analisi della situazione corrente
Liberalismo e stato sociale hanno potuto armonizzarsi, se poi l’hanno fatto, durante un periodo molto ristretto della storia umana, giunto ormai vicino alla scadenza praticamente in ogni parte del globo.
I motivi sono diversi e intrecciati. Semplificando, potremmo privilegiarne cinque, ovvero a) l’invecchiamento delle popolazioni e l’alterazione degli equilibri anagrafici (per i progressi della medicina, la crescente urbanizzazione, le modifiche dei costumi, i nuovi assetti economici e altro), b) una competitività a livello internazionale che avvantaggia le nazioni meno rispettose dei diritti basilari, c) la concentrazione inevitabile delle risorse di capitale in nodi di potere privilegiati ed elitari in grado di guidare la politica sociale secondo specifici ed esclusivi interessi, d) la svalutazione del lavoro umano poco qualificato, indotta dai progressi tecnologici, che tende a esasperarsi in direzione di una richiesta sempre più esigua di personale sempre più specializzato, e) la fine di privilegi epocali decretata dall’inesorabile tendenza al rialzo del prezzo delle risorse di base dovuta all’abbandono forzato dei rapporti coloniali più smaccati e all’esaurimento dei giacimenti più agevoli e fruttiferi.
Liberismo e socialismo autoritario, con l’alibi della crisi e anche per l’assenza di una qualunque vera proposta innovatrice, si stanno spartendo le spoglie di istituti democratici ormai moribondi, naturalmente soccombenti, a prescindere da malevolenze e complotti, di fronte alle difficoltà gestionali dell’economia globalizzata e al potenziamento degli automatismi di tipo darwiniano che, già a livelli più ristretti, presiedono alla distribuzione delle fasce di reddito.
Chi invoca larghe intese, sia nella forma di una superiore saggezza e lungimiranza dei tecnici, che sotto le coperture di un ecumenismo più o meno clericale, tanto più conservatore quanto più pauperista e terzomondista, come anche riesumando vecchi schemi di compartecipazione movimentista e assembleare, coltiva soltanto illusioni.
I diversi interessi e le visioni che aiutano a materializzarli, di solito travestendoli e abbellendoli, si vanno divaricando oltre il punto di non ritorno e gli equilibri sociali che si prospettano assumono connotati sempre meno consociativi e sempre più conflittuali, prefigurando una cronicità problematica di incompatibilità e malcontento.
L’unico fattore effettivamente terapeutico comporterebbe, nella migliore tradizione occidentale, ciò che ormai rappresenta un’autentica e clamorosa utopia irrealizzabile, ovvero la possibilità di una vita mediamente interessante e godibile nell’ambito della prosperità crescente assicurata da un progresso economico ininterrotto. Anche se non declinassero ulteriormente, cosa assai difficile, le non stratosferiche e ora perfino sospirate percentuali massime d’incremento del PIL viste negli ultimi anni presso i nuclei storici della civiltà industriale, per le disomogeneità sempre più nette di prerogative e opportunità, tendono rapidamente ad assumere valori negativi scendendo nella scala sociale e i numeri più sostanziosi riscontrabili nei paesi emergenti si diluiscono drasticamente per le stesse ragioni e per la pochezza della base di partenza, da cui non ci si risolleva senza scotti pesanti di instabilità, imperscrutabilità, insicurezza e non naturalezza delle condizioni.
Proprio la fatidica incapacità delle varie dirigenze di assicurare benessere ha costituito un paradossale vantaggio strategico a favore dei grandi potentati finanziari e industriali, che hanno sfruttato tipologie di riflessi psicologici riconducibili a una sorta di sindrome di Stoccolma.
Usufruendo di un clima di terrorismo psicologico e agitando spauracchi riempiti di invettive rigoristiche, gonfiati dalla compiacenza della stampa di regime (tutti i giornali i cui azionisti di controllo rappresentano interessi industriali e finanziari convergenti) e dalla connivenza delle banche centrali (istituti di enorme importanza pubblica incredibilmente omologati, anche con trucchi, espedienti o banali meccanismi di forza maggiore, a enti in larga parte sottoposti a controllo privato), le grandi famiglie apolidi si stanno letteralmente spartendo la ciccia del mondo.
Non dimentichiamo mai, neppure per un momento, che l’attuale è un’epoca incredibilmente propizia a coloro che detengono strapoteri e privilegi vari: a differenza di un passato dove lo strumento bellico e l’uso della violenza costituivano prima o poi opzioni obbligate, con tutto quello che comportavano di azzardo e di sventura, oggi la sapiente manipolazione degli strumenti di condizionamento tecnologico e l’assoluta mancanza di trasparenza dei comportamenti umani che consegue dalla pura e semplice complessità, l’enorme dislivello, insomma, tra chi le complicazioni le manovra e chi le subisce, offrono al consolidamento dei poteri vie molto più confortevoli e sicure.
Profondamente machiavellica (locuzione che intende esprimere i sensi tanto di uno spietato egoismo, quanto di una sottilissima spregiudicatezza intellettuale) risulta infatti l’attuale strategia monetaria intesa a favorire i piani alti dell’economia e il complesso delle élite in genere a discapito della crescita economica diffusa.
Alla faccia delle scontatissime e inevitabili critiche di pragmatica, non comporta alcuna dietrologia complottistica individuarvi un piano coordinato in modo articolato e stringente secondo una visione planetaria intrisa di cinico realismo: non si tratta di pessimismo apocalittico, potrebbe invece consistere in qualcosa di addirittura opposto, una illusione ottimistica che non permette di credere che tanta eterogenesi dei fini consegua da una incapacità altrettanto vasta, profonda, articolata (ma questa seconda tesi la scarterei, almeno per quanto riguarda i potentati supremi che fanno capo all’impero americano e ad aziende il cui bilancio è paragonabile a quello di una nazione nemmeno tanto piccola).
Allo stato attuale, presa visione, cioè, dell’attuale livello raggiunto dalle possibilità e disponibilità tecniche e materiali, le risorse energetiche e minerarie, gli equilibri ecologici e ambientali e tutta la congruità, governabilità e stabilità dei vari assetti non reggerebbero a lungo il volume di aspettative, tenori di vita e consumi collegabili a un’espansione o forse addirittura al semplice mantenimento di una classe media mondiale e allora si procede a quelle massificazioni e proletarizzazioni su larga scala che fungono anche da calmieri dell’inflazione e compressori del costo del lavoro.
Le riserve accumulate più la impaurita acquiescenza delle anacronistiche compagini sindacali più la foia o l’ipocrita rassegnazione delle dirigenze di sinistra che si consolano assaporando le compatte legioni di adepti futuri rendono l’operazione (per il momento) sociologicamente innocua e priva di intoppi marxiani.
Nella catena di montaggio del sistema finanziario internazionale, la stampa delle banconote reali viene automaticamente e anzi preventivamente tradotta in valuta fittizia da immettere nella colossale fantasmagoria dei Derivati & C., generando quindi, non una liquidità diffusa e una circolazione effettiva di moneta nella maggior parte del complesso produttivo, bensì, al contrario, un drenaggio di risorse da un certo cabotaggio in giù, esaltando nel contempo le obbligazioni e le più diverse accessibilità al credito da parte delle grandi corporation, che partecipano invece al festino orgiastico internazionale.
L’effetto deformante e destabilizzante sulla struttura economica del mondo indotto dall’azione monetaria delle banche centrali balza agli occhi di chiunque non indossi occhiali, magari griffati in modo che valgano il decuplo, che montano fette di salame griffate anche loro. Fed, Boe e tutte le altre in coda pompano energia, non nel cuore di un complesso produttivo che diffonde beni tangibili e benessere materiale, ma nell’intercapedine avvolgente e soffocante di un sistema finanziario che crea le cosiddette bolle, ovvero valori arbitrari e fasulli di titoli astratti collegati gli uni agli altri da legami imperscrutabili, a cui poi si deve impedire di precipitare solo per non coinvolgere nel crollo l’immenso e surreale baraccone e lo si fa stampando altra moneta fittizia. Le quotazioni, esposte bene in vista sulla bancarella planetaria gestita dagli alieni mercanti illusionisti, richiedono l’immissione continua di una liquidità che alla fine non è vero e proprio denaro, bensì qualcosa che nessuno conosce esattamente che cosa sia, anche perché dopo le iniezioni anabolizzanti e le manipolazioni genetiche di effetti leva, cartolarizzazioni e altre ingegnose diavolerie, ciò che nasce nella normalità (che cos’è?) diventa quanto prima un orrido mostro mutante: la galleria degli orrori diventa quindi un uroboro a circolazione continua, non può fermarsi e quindi deve assorbire costantemente risorse propulsive per alimentare i propri frenetici giri.
L’assurdità è talmente evidente che, nel caso, da parte dei massimi poteri, fosse involontaria, sarebbe spiegabile soltanto invocando una teratogenesi ancora più abnorme e calamitosa, ovvero il fatto che là (ai massimi poteri) arriverebbero soltanto i cretini.
In realtà non lo ritengo possibile e lo affermo sinceramente.
Pertanto il satanico marchingegno è scientemente studiato e la ragione è quella che si è detta: salassare il ceto medio e favorire la concentrazione strategica dei capitali, non per una smodata avidità da tiranno pazzo, ma per un disegno tecnocratico razionalmente fondato.
Un meccanismo tanto semplice e potente, gestito da una ferrea oligarchia impermeabile ai capricci democratici, è difficile che si guasti prima di aver prodotto i propri (secondo i punti di vista) mirabili o disastrosi effetti finali.
Purtroppo o per fortuna la natura insegna che un’abbondanza di fitness può tramutarsi nell’esatto opposto non appena cambiano le situazioni ambientali.
Più ci si specializza e più si è vulnerabili ai mutamenti.
Tra i tanti tipi di minacce possibili, il più rischioso non raccoglie in genere alcuna considerazione da parte di politici ed economisti.
Alludo a una categoria di fenomeni, quelli catastrofici, che una errata cognizione dell’attualismo tacita e trascura alla stregua di eccezioni teoricamente irrilevanti, quando invece contraddistinguono un modo di presentarsi della normalità: si tratta infatti di eccessi che punteggiano regolarmente, con il ritmo indotto da una più bassa, ma abbastanza stabile, probabilità, le sequenze degli eventi comuni.
La visione tradizionale secondo cui a qualsiasi azienda conviene sempre rafforzare la compagine degli acquirenti e quindi lo spessore economico del tessuto sociale, per cui il libero gioco della concorrenza alla fine non può volontariamente perseguire l’impoverimento dei più, non vale in uno scenario planetario dove l’abbattimento dei costi generali e le sinergie su larga scala entrerebbero in conflitto con un’esplosione incontrollata dei potenziali acquirenti, che, oltre a tempeste inflattive e instabilità sistemiche, implicherebbe i rischi ulteriori di stimolare la nascita e la crescita continue di concorrenti agguerriti e gli insaziabili appetiti delle più diverse piramidi burocratiche.
Conti alla mano, risulta molto più conveniente tentare di rafforzare pochi mercati affidabili e collaborativi e abbattere tutti gli altri in modo che l’indigenza diffusa contribuisca alla massa ‘defluente’ di popolazioni disposte a vendere al ribasso la merce lavoro in parallelo con la lievitazione dei costi minimali di altre zone in cui la consapevolezza crescente comincia a compromettere la qualità e la convenienza delle prestazioni.
Se poi, insieme alla fatica dei propri figli, una nazione in difficoltà è costretta a svendere anche i gioielli di famiglia, è altro grasso che cola nelle fauci di quegli ‘alleati’ che controllano o almeno condizionano pesantemente il mercato internazionale dei capitali.
Anche il più ottimista, conformista e benpensante sarebbe raggiunto da qualche refolo di dubbio se si sforzasse di acquisire un quadro vivido e realistico di come enormi fortune denominate in titoli lievitano vertiginosamente in tempi molto esigui, di come poi possano tramutarsi in valuta ordinaria solo generando scossoni di mercato il cui risultato netto finale decreta l’impoverimento delle masse di sprovveduti a fronte di un consolidarsi dei grandi registi demiurgici (ovviamente coordinati tra loro e impegnati ad accentuare ogni possibile asimmetria informativa), i quali si arricchiscono senza generare alcun tipo di merce o servizio, a parte l’allevamento e la cura dei patrimoni esistenti.
Grazie a tali accumuli concentrati, una parte dei quali si genera in seguito ai versamenti contributivi di lavoratori il cui futuro pensionistico appare di giorno in giorno sempre più incerto, si tirano i fili delle aziende ordinarie, si aprono e chiudono i passaggi e i corridoi negli allevamenti della forza lavoro, si comprano i favori dei più uguali tra gli uguali.
Le crisi periodiche che così si prenotano (in genere avvengono allorché anche qualche grande demiurgo ci lascia le penne) non costituiscono alcuna controindicazione, anzi: rappresentano una profilassi ecologica, salvaguardano la crema della crema dall’infezione dei parvenu più sprovveduti e invariabilmente, grazie alle garanzie espresse dal famoso jingle ‘too big to fail’ e dalla altrettanto famosa socializzazione delle perdite (e privatizzazione dei profitti) approfondiscono il solco tra il volgo e l’aristocrazia.
Vale inoltre la formula complementare ‘too small, you fail’, per l’interpretazione della quale si dovrà ponderare la continua risalita della ‘soglia di piccolezza’ per la contorta macchinosità delle dinamiche concorrenziali scatenate dall’allargamento dei mercati e dall’internazionalizzazione dei soggetti in competizione, meccanismi di precarietà che coinvolgono nell’appesantimento e indecifrabilità dei rischi anche la gestione dei prestiti bancari, con le conseguenze facilmente immaginabili riguardo alle scelte d’investimento e alla destinazione dei flussi finanziari.
Il concetto stesso d’impresa e iniziativa economica si trova così inesorabilmente distorto e adulterato, almeno se si considerano le fasce basse e le partenze da zero, escludendo di fatto dall’economia di mercato i soggetti che già non vi partecipino in una posizione di solido vantaggio, riducendo il contributo delle forze potenzialmente più vive a una cessione mascherata, sottopagata e non tutelata di puro impegno manuale e intellettuale, in un contesto che di libero e liberale non conserva alcunché e sopravvive sotto un’architettura di astrattismi svuotati di vita e sostanza al di fuori dei vampireschi appetiti dei meno.
Costruire una impresa da zero, come le statistiche dimostrano, equivale ormai a un’avventura più rischiosa del gioco d’azzardo, scientificamente sconsigliabile, riservata quindi a pirati e avventurieri che possono contare su un vivace talento d’intrallazzatore e mestatore nel torbido e/o accumulatore e manipolatore di ‘amicizie’ pregiate e/o manovratore di fondi comunitari, procedure concorsuali e scappatoie giudiziarie.
Un’alternativa a deroghe facilitanti e sospette deregulation sul fronte della correttezza professionale e civile a volte esiste, ma comporta un tipo di dedizione assoluta del corpo e dello spirito che fa tornare in mente quel vecchio topos sessantottino rappresentato dall’‘uomo a una dimensione’ del filosofo Marcuse. Rispetto a gradi diversi di licenze o derive delinquenziali favorite dall’imprimatur dell’imprenditorialità, potrebbe sembrare un’opzione auspicabile, ma, se devo essere sincero, pensando a un ceto nevroticamente rampante e ambiguamente prosperoso di personalità quasi monomaniache per non dire robotiche, alla diffidenza, per non dire ostilità, di geni iper-specialistici verso concetti come cultura generale, qualità della vita, rispetto dell’ambiente, beh, qualche dubbio mi viene.
Fortunatamente, lo spinoso discorso non vale per le isole felici da cui il fortunato creatore offre gli agghindati frutti del suo ingegno versatile alle entusiaste delibazioni dei facoltosi cultori di un’estetica svuotata di ogni contenuto a parte quello di una convenzionale, araldica eleganza: i territori concessi in licenza feudale dal mecenatismo edonistico dei ricchi o aspiranti tali, dove aleggia la squisitezza dell’agro-alimentare unico ed esclusivo, le inventive raffinatezze di stilisti e designer, il concepimento pensoso di eventi e spettacoli per mediatori, lobbisti, cortigiani e altri signori e signore in metaforiche crinoline, tutte manifestazioni che non vorremmo dover ascrivere, non per i fatti in sé, ma per l’iperbolizzazione strillata che se ne fa, a una specie di decadenza crepuscolare da basso, bassissimo impero.
Il celebre e sempre in qualche misura mitico computer dei Mercati, gli automatismi classici ipotizzati da Walras e compagni (invocati da tutti, anni fa, dopo debiti adeguamenti e distinzioni, anche dalle sinistre più o meno keynesiane, come vero fondamento della superiorità delle democrazie occidentali rispetto al dispotismo ‘idraulico’ orientale), si verifica essere appannaggio ormai degli elaboratori elettronici manovrati dalle grandi istituzioni pubbliche e private, le quali usufruiscono di vantaggi e risultati, non grazie a una superiore lungimiranza o alla sfera di cristallo della fata Melusina, bensì in proporzione alla potenza di fuoco di cui dispongono, ovvero facendo finta di indovinare le mosse che hanno deciso di compiere insieme ai sodali.
I mega-computer (che magari diventeranno quantistici (o lo sono già?) in assoluta segretezza, permettendo così ai massimi gnomi di scardinare all’insaputa di tutti gli attuali sistemi di cifratura) lavorano a pieno ritmo per assestare o deviare i decimali dei vari tassi, parametri, indici e perfino di quei valori statistici che dovrebbero costituire insindacabili sentenze ex post, il tutto come meglio aggrada all’arbitrio dei vari interessi specifici, in una disfida (o, peggio ancora, una combine dissimulata) che sarebbe molto meglio affidare alle sentenze di una serie di cervelli centrali, uno per nazione: se non altro, otterremmo il vantaggio che ogni parlamento degno del nome dovrebbe per forza occuparsi, a quel punto, di cose importanti e concrete insieme, senza poter fingere ancora che i tecnicismi che ormai decidono tutto operino su suo mandato e sotto il suo comando, ma nel limite del possibile, inseguendo solo la verità e il bene comune.
Venendo appunto alle tristezze della politica, se pensiamo alla potenza e razionalità operative di interessi focalizzati e settoriali gestiti da gerarchie indiscutibili, se commisuriamo la mobilità e flessibilità di strutture multinazionali dotate altresì di opzioni ricattatorie e corrompenti e poi paragoniamo tutto ciò al provincialismo degli ambigui rappresentanti di episodiche istanze locali su cui si allungano le ombre e i tentacoli dell’interdipendenza planetaria, si comprende come il predominio economico condizioni fino al monopolio le mosse dei pubblici poteri.
La soluzione proposta parte allora da alcune semplicissime consequenzialità logiche, universalmente valide e contraddette solo per fede o malafede.
Ne evidenziamo un paio rimandandone altre a una elencazione successiva.
Concezioni antitetiche e incompatibili al punto da non poter funzionare neppure in fasi temporali di egemonia alterna, se tuttavia, per le differenziazioni e stratificazioni che esistono e sempre esisteranno (in quanto prodotti incoercibili delle varietà culturali e dei dinamismi umani), presentano entrambi i caratteri della verità parziale e della ineluttabilità ristretta, devono poter coesistere in ambiti sociali compresenti e, in linea di principio, indipendenti, nel senso che collaborino finché possono, ma, soprattutto, non si ostacolino a vicenda.
Se la complessità del mondo svuota la politica al punto che l’impotenza diventa un pericoloso ricetto d’inganno, ipocrisia e gestione truffaldina di clientele e favoritismi, occorre mutare radicalmente i paradigmi della decisionalità, prefigurando le scelte all’interno di un modello sociale che, una volta stabilito, reclamerebbe con chiarezza e rigore interventi che non si applichino più ad assetti strutturali dipendenti da meccanismi troppo vasti e incontrollabili, bensì, proprio grazie a una sistematica ricostruzione preventiva, si concretizzino nello stabilire espressamente e inequivocabilmente il valore di pochi essenziali parametri.
Per la prima volta nella storia umana, senza ricorrere a miti rivoluzionari ancora più moribondi delle finte democrazie, si comincerebbe così a conferire qualche elemento di sostanzialità a esercizi di ginnastica elettorale affetti finora da un formalismo inguaribile: l’elettore azionerebbe infatti il proprio diritto conoscendo in modo circostanziato e dettagliato e non solo ipoteticamente, troppo vagamente e soprattutto ingannevolmente, come è avvenuto di fatto finora, l’effetto che otterrebbe qualora la parte prescelta risultasse vincente.
Statalizzazione delle finanze, deducibilità completa e moneta elettronica dovrebbero consentire altresì una rivoluzione del sistema fiscale basata sul prelievo automatico e diretto, con il risultato non certo indifferente né secondario di ridimensionare drasticamente il complesso dei potentati burocratici.
Quello d’impedire il consolidamento e la successiva proliferazione di uno strato di funzionari che finisce per accaparrarsi prerogative sempre più favorevoli arrogandosi di fatto un volume spropositato e indebito di arbitri e d’influenze rappresenta uno degli impegni e obbiettivi più sfidanti per qualsiasi progetto che intenda allargare in modo utile e produttivo il peso della macchina statale nell’organizzazione sociale ed economica.
Di fatto qualsiasi accentuazione in senso socialista attuata da società storiche reali ha spostato semplicemente i vantaggi da un tipo di oligarchia basata sull’impresa privata a una élite ideologico-burocratica, che in periodi critici acquista chance se favorisce la rottura di quegli impliciti accordi di spartizione su cui, almeno nelle fasi involutive, si fondano le società basate sul ‘libero mercato’ (virgolette sia scettiche che semantiche): purtroppo l’inconveniente che vi si è connesso, giudicato per molti anni preponderante sul vantaggio suddetto, si è manifestato come indebolimento e devitalizzazione delle forze produttive.
Comunque sia, per valutare appieno la gravità dell’attuale stato di connivenza, è opportuno tenere d’occhio il sistema della sanità assistenziale, dove spesso si è fatto irrompere una iniziativa privata parassitaria almeno quanto il funzionariato politico (basti pensare a contratti che in sostanza riconoscono una percentuale di profitto quasi automatica), senza intaccare per niente il ruolo dei controllori, i quali anzi si sono irrobustiti in tutti i sensi proprio con la scusa di sorvegliare l’impresa privata affinché svolga correttamente il proprio compito: il risultato più che prevedibile, scaturito dalla somma di profitti garantiti e costi aggiuntivi di controllo, ha comportato l’esplosione fisiologica dei costi anche a prescindere dall’incremento di ovvi e inevitabili episodi corruttivi.
Se indaghiamo a fondo le dinamiche delle azioni, reazioni e interazioni che interessano il rapporto tra ceto pubblico amministrativo e rischio privato d’impresa ci possiamo rendere conto di un interessantissimo rovesciamento di posizioni intervenuto negli ultimi decenni tra ideologia di destra e ideologia di sinistra, fenomeno che ha completamente snaturato e confuso le rispettive posizioni: ammettendo e infine sottoscrivendo il modello del libero mercato e plaudendo di conseguenza alla spartizione dei poteri e alle necessità di intese trasversali, la sinistra si schiera dalla parte di un laissez faire realistico, mentre la destra, optando per un purismo della mano invisibile e una mitologica deregulation, convola a nozze sempre più strette e amorevoli con un utopistico puritanesimo di principio.
Ciò spiegherebbe, di passaggio, la curiosa incongruenza delle rispettive costellazioni etiche di riferimento se commisurate alle posizioni tradizionali che le rispettive compagini dovrebbero assumere: la destra permissiva, poco liberale e molto liberista, dovrebbe proclamare valori fluidi e pragmatici compatibili con i dinamismi che sostiene (invece, a parte la necessità di tutelare Berlusconi e i suoi pari, si arrocca su un sostegno acritico e bilioso, denso d’inspiegabile acquiescenza e simpatia, verso l’autorità metafisica e il dogmatismo confessionale); la sinistra dovrebbe sostenere quel moralismo rigido e quell’idealismo statico che, mediato dallo scientismo, sosterrebbero la ricerca di un modello dirigista e centralistico della società (e invece opta prevalentemente per un personalismo esistenzialista perfino un po’ anarchico che stravede acriticamente, sempre in linea di principio, s’intende, per qualsiasi libertà e minoranza).
E’ ovvio che, anche da un punto vista puramente sociologico e morale, la politica è caduta in un clamoroso misunderstanding in cui, mentre l’elettore passivo rivela la propria inconsistente natura robotica, l’elettore perspicace o solo genuinamente interessato fa molta fatica a raccapezzarsi ed è comprensibilmente tentato dall’astensione o dal voto anti-sistema.
Una possibile spiegazione tuttavia esiste, anche piuttosto semplice: in venti anni o giù di lì l’emiciclo di Montecitorio ha ruotato di novanta gradi.
Considerazioni di logica strutturale
Qualsiasi concezione economica, per quanto abilmente elaborata, non può contravvenire quei portati scientifici di validità assiomatica universale che potremmo, non solo analogicamente, collegare al secondo principio della termodinamica (non si può creare lavoro dal nulla) e all’impossibilità del moto perpetuo non rifornito costantemente di energia.
Tradotto in soldoni: non si può consumare dei beni se prima qualcuno non li produce, per cui, se singolarmente avviene che qualcuno consumi una mole di merci o servizi, senza averne contribuito a sviluppare a sua volta uno stock che vi si possa equiparare in un rapporto di scambio, ciò va imputato a mere distorsioni statistiche e ingiustizie distributive, evocando quindi una situazione di privilegio, eventualmente attenuata o anche giustificata, da sfasamenti e diacronie (produzioni in tempi diversi o vantaggi ereditati).
In quest’ottica, in regime di scarsità generalizzata, perfino usufruire anche saltuariamente della carità, se si gode di integrità fisica, non minata da deficit irreparabili, rappresenterebbe la spia di una disfunzione problematica, che potrebbe giustificarsi unicamente come risultanza di una cessione di un sovrappiù realizzato da produttori, oltre che generosi, particolarmente abili ed efficaci. Dovrebbe risultare, al contrario, fortemente anomala, incongrua e sospetta, economicamente parlando, una distribuzione gratuita affidata a organizzazioni preposte allo scopo specifico, enti che non producono nulla.
Da dove deriva l’eccedenza? Quali sono le fonti strutturali di quella abbondanza? Perché la società non è costruita in modo da assorbire il momento solidale all’interno di un più generale impianto produttivo e distributivo? Che cosa nasconde una concezione della carità come apofisi straordinaria del governo e perché non viene gestita in proprio dal governo medesimo? Come possono giustificarsi la carità e la solidarietà in una società basata sulla concorrenza degli agenti economici, dove si pensa, cioè, che il massimo grado di razionalità e di benessere derivi, per la parte maggiore, dalle leggi automatiche che regolano la combinazione delle libere forze in gioco? Non denuncia tutto ciò una falla nel sistema? Se la generosità è un elemento così appagante da costituire di per se stessa un obbiettivo meritevole in sé e per sé, non dovremmo pensare che, simmetricamente, il riceverla costituisca fattore di grave depressione emotiva? Come si può escludere che vi intervengano piani più o meno reconditi di ghettizzazione e depotenziamento, produttivi di frustrazioni laceranti, ma contemporaneamente anche delle gabbie che le contengono?
Meditare su queste domande tenendo ben presente le estensioni inevitabili anche all’economia delle leggi logiche e fenomenologiche di portata scientifica universale, conduce a una revisione di criteri politici che non può che rivalutare un fondamentale sottinteso del socialismo radicale, pessimamente compreso e realizzato proprio dai suoi più accesi fautori: alludo alla possibilità di emancipazione diretta di qualsiasi strato sociale attraverso la concreta forza propulsiva del proprio impegno e lavoro, a prescindere dalle sentenze e dai divieti presenti nelle superfetazioni di un sistema, prima ancora che ingiusto e distorsivo, perfettamente opaco in quanto non esplicitamente strutturato in quel senso.
Qualsiasi istituzionalizzazione della procedura di carità solidale, esterna al processo produttivo, a cui si connette attraverso nebulose saldature artificiali e sovrastrutture ideologicamente compromesse e sociologicamente tendenziose (per esempio quando coinvolgono le tematiche religiose e tutto l’imponente armamentario, non certo politicamente neutro, di sovranità e autonomie) denuncia lo scadimento di tutte le pratiche relative dal ruolo di valvola di sfogo e rete di salvataggio a quello di esercito complementare o corpo di guardia scelto del potere, fornitore tra l’altro di tessere d’iscrizione e vantaggi di appartenenza.
Da momento organico della convivenza sociale e sostegno di un apparato tutto sommato efficace e trasparente, la pratica sovvenzionale diventa allora tentativo di canonizzare le fasce di povertà, delegandole a rappresentare un settore strutturale fisso e inamovibile, da gestire e controllare secondo logiche di sistema improntate alla massima dissimulazione, fingendo magari generosa sollecitudine laddove vige lo sfruttamento generalizzato e il mezzo più efficace per deprezzare la forza lavoro.
E’ ovvio, comunque, che il volontarismo idealistico e uno spirito di servizio monacale potrebbero fruttuosamente integrarsi con qualsiasi compagine civile comunque strutturata, ma resta il fatto che in nessun momento della storia e in nessun luogo della Terra si è mai vista una qualsiasi chiesa istituzionale, laica o religiosa, buddismo non escluso, che all’apice della gloria e dell’ascolto non accumulasse ricchezze nei templi e non riducesse l’impegno pauperistico a mero fiore all’occhiello di una sontuosa veste ingemmata.
Secondo principio e politica energetica.
Come è noto, il secondo principio della termodinamica ha ricevuto una più larga e profonda divulgazione culturale nella sua versione entropica, secondo cui, sempre in soldoni e nell’ottica di una fisica classica che non prevede transizioni quantistiche di fase, in un ideale sistema perfettamente isolato il disordine aumenta con il passare del tempo fino a fluttuare intorno a un massimo intrinseco.
Di questa formulazione, ogni essere umano può trarre dalle proprie esperienze esemplificazioni poco scientifiche, ma molto intuitivamente concrete, pensando al disordine fisiologico indotto dalla ricerca di sintesi esistenziali, logiche o estetiche che purifichino intricati garbugli: come minimo, ipercinesi muscolari (attraverso cui si tenta di prevenire le complicazioni neurovegetative), per cui opportunamente gli spiritualisti consigliano (dato che comunque ci pensa Dio a fornire tutte le illuminazioni che servono), una vitalistica e disinvolta ignoranza, che irraggia caos nei dintorni come per una liberazione di tossine: l’agitazione termica, in questo modo, abbandona l’ambiente corporeo della mente che la produce e ritrova la luce del cielo.
Una intera società non fa eccezione e si trova davanti alla stessa unica opportunità: trasferire il disordine all’esterno (come è evidente se si considerano, per esempio, gli sfracelli del colonialismo, lo smaltimento dei rifiuti o l’alterazione del mondo naturale).
Un centro residenziale, con i suoi interni ispirati alle geometrie fantasiose ideate dai migliori arredatori, e la favela che lo circonda rappresentano insieme una buona analogia di una mirabile macchina biologica in mezzo alle sue deiezioni.
Il punto fondamentale, quindi, riguarda la crescita spontanea o meno dell’ordine e del disordine (il secondo sempre maggiore del primo, in un’ottica sufficientemente allargata).
Ogni civiltà umana, sviluppata, sempre e sostanzialmente, all’interno di dinamiche globalmente irriflessive, benché localmente contenute e programmate (anche i più dispotici sistemi teocratici, fascisti o comunisti, si sono impostati su astrazioni di base e rigidità di schemi banalmente generici e insufficienti a disciplinare le azioni individuali e collettive, regolando pochissimo e malissimo) distribuisce tra tutte le forme biologiche derive caotiche superiori alle quote, per così dire, di organicità: è un fatto incontrovertibile e irrimediabile.
Tutto ciò ha una diretta attinenza con la questione delle energie rinnovabili: se anche non determinano effetto serra, la bassa resa e l’artificialità dei marchingegni necessari per la trasduzione, l’accumulo e la distribuzione creeranno comunque entropia in misura più che proporzionale all’energia generata e decisamente superiore, anche se qualitativamente diversa, rispetto alle fonti tradizionali (si deduce come elementare corollario dalla minore efficienza rispetto a carbone, gas naturale e petrolio): occorrono studi molto seri per valutarne gli effetti e i pericoli (ambientali, sociali, industriali, relativi al consumo di materie prime eccetera) a prescindere dall’assenza d’inquinamento atmosferico. La rinnovabilità stessa può costituire un requisito ingannevole, poiché non riguarda gli strumenti necessari allo sfruttamento: per usufruirne in modo non fittizio occorrerebbe abbattere il principio dell’obsolescenza programmata, pregiudicando la salute delle relative industrie, e sarebbe comunque consigliabile un tipo di organizzazione che ne favorisse l’implementazione in nuclei strategicamente concentrati.
E’ pura illusione che una tecnologia attuale, per quanto avanzata (in attesa di uno strabiliante salto di qualità a tutt’oggi difficilmente immaginabile) possa controllare a lungo termine (dieci, venti, cento anni?) questo tipo di processi, il che costituisce un motivo fondamentale per cui si dovrebbe rinunciare con la massima urgenza all’idea di progresso e architettare sistemi di convivenza fondati su un riciclo stazionario delle risorse.
Tali sistemi, poiché, in un modo o nell’altro, prevedono il blocco delle prerogative e degli status, esigono una elevazione di tutti i livelli inferiori nell’ambito di elementari concetti di giustizia e uguaglianza e tuttavia, per non penalizzare troppo (almeno finché si vogliano salvaguardare anche criteri di qualità e libertà delle esistenze) la dinamicità e la varietà dei contributi, questi dovranno evitare una eccessiva aggressività, non tanto verso i vantaggi acquisiti, quanto nei confronti delle naturali differenze psichiche e attitudinali tra individui.
Certo, per le classi dirigenti è molto più facile e conveniente insistere nella mitologia del progresso e del mercato, glorificare quella mano misericordiosa, intelligente e invisibile che, se fosse reale, avrebbe impedito a spezie, bulbi di tulipano e quotazioni di Tiscali di raggiungere i valori che hanno raggiunto prima di buttarsi nel vuoto ( tre piccoli esempi tra i bilioni possibili).
Politici ed economisti, inoltre, si muovono in quella terra di nessuno, a mezza strada tra la scienza dura e l’animismo religioso, che adotta strumentalmente la logica formale come metodo euristico di scambio delle informazioni e orientamento delle decisioni, ma si mostra nel contempo piuttosto scettica e assai pressapochista nei riguardi dell’esistenza di qualsiasi insuperabile vincolo di portata universale.
In realtà lo spettro delle leggi cosmiche aleggia ovunque nelle società avanzate (dove la maggioranza intuisce, più o meno oscuramente, che i risultati della tecnica implicano l’autonomia strutturale della realtà rispetto al pensiero), ma, invece di condurre alle corrette deduzioni, istiga a esorcismi e personalizzazioni magiche che affidano l’universo a numi tutelari, dilatando assurdamente l’influenza dei loro sedicenti interpreti (ridicolo scotto pagato al principio di autorità per rafforzare l’illusione e sfuggire così al disagio del non senso e a una percezione di pericolo incombente, nonostante che solo una minoranza, quando vi rifletta a dovere, crede effettivamente all’esistenza di un Dio descrivibile mediante proprietà e attributi desumibili dalla psicologia umana).
Ma le corrette deduzioni quali sono? Nessuno, di sicuro, ne possiede il monopolio, ma restituire, con riserva e magari con baconiana astuzia, una parte del mondo alla natura non umana e ritrovarvi una fonte di sostentamento, come prefigurato nella sezione imperniata sulle attività statali e in particolare sulla produzione alimentare ed energetica, rappresenta una cessione di responsabilità della nostra specie nella gestione del pianeta e l’accorto riconoscimento alla biocenosi di ‘competenze e abilità’ nettamente superiori a quelle umane.
Questa sarebbe vera umiltà, molto diversa da quella di chi, penitente e genuflesso, attende il dono della felicità eterna (noblesse oblige, perché accontentarsi di meno?)
La soluzione proposta merita comunque un occhio di riguardo alla luce di scenari, definiti ‘catastrofisti’, ma plausibili, come quelli, per intenderci, delineati dalle cosiddette teorie di Olduvai (collegate al famoso picco di Hubbert) in base alle quali il carico di umanità sostenibile dal pianeta in pianta stabile, ovvero nei secoli dei secoli, risulta molto inferiore all’attuale (miliardi di persone in meno).
Chi ha orecchie per intendere, intenda.
Elenco di motivi intesi a confutare un possibile scetticismo generale verso la riproposta di un modello rigidamente programmato
Il livello di conoscenze scientifiche e matematiche e quello delle ipotesi, tesi, teorie e modelli disponibili per delineare scenari di base su cui operare precise scelte politiche ed economiche si è enormemente evoluto negli ultimi decenni di dominio dell’economia di mercato e ancora di più si sono sviluppate le tecniche di elaborazione e scandaglio, in primo luogo il software e l’hardware degli strumenti elettronici di analisi dei dati. Un piccolo, ma significativo esempio: negli anni settanta un campione mondiale di scacchi vinceva le sfide con il computer, oggi l’intelligenza scacchistica umana è sbaragliata da quella artificiale, il che si è rivelato compromettente per il prestigio del gioco, ma, chissà perché, non per quello dell’umanità.
Il comunismo reale ha perso il confronto con l’economia di mercato in un contesto storico in cui si ricercava una continua espansione del volume e delle capacità produttive, ma un modello, per così dire, neo-dirigista, proprio in base alle premesse per cui se ne ammette la necessità, opererebbe in una condizione di economia stazionaria o di progresso controllato e in parte bloccato (efficienza organizzativa a parte), situazione completamente nuova nei confronti della quale le esperienze passate risultano totalmente inespressive.
L’utopia comunista è nata e ha mosso tutti i suoi passi all’interno di una idealità di uguaglianza, clamorosamente negata nella cruda realtà, che non è affatto indispensabile sostenga il progetto di un neo-dirigismo: si possono tranquillamente ipotizzare tenori di vita diversi, gradualmente differenziati, l’unica condizione non eliminabile è che il raggiungimento di ciascuno di essi sia rigorosamente subordinato all’impegno lavorativo, più o meno regolamentato, profuso dalla persona che vi accede
Tutte le esperienze di socialismo reale, contrariamente agli auspici originari del marxismo o a causa di un difetto congenito di esso (non mi interessa scegliere), si sono svolte all’insegna di una temperie culturale tipicamente dogmatico-religiosa, in cui le sentenze del partito unico risuonavano come le encicliche e le bolle emesse dai papi dall’alto di una infallibilità sancita per diritto divino. Il progetto Colib assume in via preventiva e inderogabile la convenzionalità delle norme e lo fa senza rinunciare alla necessaria tassatività, ma escludendo qualsiasi giudizio etico e di valore dalla sfera della legge operante. Il suo unico criterio è la funzionalità a cui tutti i vincoli e le disposizioni devono rigorosamente soggiacere. La pena dissuasiva non sarà mai rieducativa, il che comporterebbe una valutazione razziale e una etichettatura secondo una presunzione di superiorità oggettiva e metafisica, bensì semplicemente preventiva, anche se mai, per nessun motivo, vendicativa. La propulsione di base riguarda la sottoscrizione o meno di un sistema da parte di una fetta maggioritaria e coerente della comunità, sufficiente a reggere quel tipo specifico di organizzazione: o il sistema vige e si prolunga nel tempo oppure cessa e al suo posto subentra qualsiasi cosa che non sarà quel sistema e che, dal punto di vista interno al sistema, non interessa.
Il progetto Colib si propone come possibile sbocco di una traiettoria storica al termine della quale l’effetto propulsivo dell’innovazione tecnologica ai fini di un effettivo progresso sociale, nel duplice aspetto di incremento intellettuale e materiale delle condizioni di vita, si può considerare esaurito. I prodotti tecnologici innovativi rivelano sempre di più impulsi e motivazioni fini a se stessi, riferibili unicamente a logiche promozionali che rispondono alle esigenze presenti sul lato dell’offerta ovvero alle necessità di sostenere adeguati livelli di fatturato. I meccanismi in azione tendono a ridurre le sollecitazioni all’acquisto a espedienti molto più simili alle pressioni indotte dai vari tipi di cosiddetta obsolescenza programmata (una vera e propria tassa che gli acquirenti pagano al sistema economico vigente, catastrofica per la salute del pianeta e delle generazioni future), piuttosto che alla creazione di interesse implicita nel fascino di autentiche novità. Il sistema si sta quindi squilibrando verso forme autoreferenziali di interessi produttivi schiavizzati da logiche interne, che tendono inesorabilmente a scollarsi da interessi di benessere ed economicità molto più popolari e diffusi, sfociando in un logorio di concorrenze menzognere e perfino truffaldine, incentrate su un turbinio di insensate speciosità illusionistiche, poco rispettose dell’interesse generale e di ogni criterio democratico di salvaguardia del tenore di vita più comune.
E’ bene sottolineare che non si tratta di profetizzare la fine del progresso o della storia o dell’innovazione scientifica, previsione già azzardata in passato, spesso immediatamente prima di una svolta e un’impennata vertiginosa delle conoscenze e degli assetti sociali: si tratta di prendere coscienza del livello raggiunto dalla ricerca scientifica e rendersi conto che l’abbattimento delle nuove frontiere richiederà una concentrazione di sforzi e risorse che non potrà essere sostenuta dalle singole imprese se non al prezzo di conferire loro poteri di arbitrio e condizionamento tali da configurare vere e proprie plaghe di potere sovrano autonomo, paritario o, più probabilmente, superiore a quello detenuto dagli organi pubblici e statali: è il momento insomma di scegliere se sottrarre il potere di decisione agli organi pubblici di rappresentanza e conferirlo alle multinazionali o, al contrario, ristrutturare le regole della partita in modo da conferire agli stati il ruolo primario di una iniziativa economica e imprenditoriale. In questa visuale, purtroppo, la politica si sta rivelando un assurdo balletto complementare a quello di una economia che, esclusi i piani alti della dissipazione e del lusso, non riesce più a collaborare con i cittadini, ma riesce solo a sfruttarli alla stregua di consumatori inerti e manodopera marionetta. Due esempi specifici, per non rimanere nel vago. L’industria dei viaggi spaziali, lasciata all’impresa privata, sta degenerando in progetti di scampagnata turistica che diventerà prima o poi un’altra saga dello status symbol più pomposamente idiota, da farsi valere come un blasone nobiliare o un’altra di quelle acrobazie tecnologiche le cui successive ricadute sociali nell’ambito della qualità media di vita si stanno praticamente azzerando e tra un po’ assumeranno valori negativi. Il computer quantistico e la fusione nucleare presentano aspetti di criticità tale che senza quei controlli per cui gli organismi pubblici appaiono ridicolmente impotenti, potrebbero rivelarsi dei boomerang colossali, pensiamo soltanto allo scardinamento del sistema dell’e-commerce (una fonte reale di emancipazione economica soprattutto per quanto riguarda la capacità di scelta e risparmio del consumatore) che si genererebbe dalla possibilità di violare i codici basati sulla crittografia a chiave pubblica o su ogni altro metodo a parte l’utilizzo del blocco monouso. Inoltre è l’intero complesso della filosofia gestionale di imprese strategiche per un sistema paese a essere messo in crisi da un mercato mondiale in cui gli stati assumono ormai il carattere di una mega collezione di interessi industriali e finanziari, dove gli intrecci tra i vari strati di rappresentanza economica e civile perdono qualsiasi caratteristica di perspicuità e competenze e ruoli si confondono agevolando il malaffare. I grandi manager dovrebbero occuparsi di ricerca, innovazione, investimenti diretti alla qualità dei prodotti e delle offerte, ma in realtà il loro successo dipende interamente dalle politiche industriali su larga scala e dal sistema delle alleanze internazionali.
Anche come conseguenza immediata di quanto esposto al punto 6), assistiamo a una drastica revisione dei parametri che presiedono ai verdetti relativi ai confronti concorrenziali e alle graduatorie ispirate ai concetti di meritocrazia e utilità sociale. Si genera così un ribaltamento storico dei criteri distintivi che informavano la qualità, i profili, i tipi di indole, gli atteggiamenti operativi che, ai tempi della guerra fredda, contraddistinguevano il capitano di industria e il leader democraticamente eletto, da una parte, e gli esponenti più in vista della burocrazia di apparato facente capo al partito unico, dall’altra: genericamente marcati, i primi, da priorità di esiti funzionali, di oggettiva produttività e trasparenza, gli altri da un astuto e conformistico mix di convinto dogmatismo e pugnace o subdola retorica assembleare. In effetti le doti che determinano il successo nei vari consigli di amministrazione assomigliano sempre di più a quelle una volta indispensabili a scalare i piani gerarchici del partito unico identificato con l’essenza stessa dello stato, un indizio che l’esautorazione della politica a favore dell’economia comporta il decadere di quest’ultima a una serie di potentati oligarchici che tendono a instaurare forme di concentrazione burocratica simili ai domini del vecchio socialismo reale.
Considerazioni conclusive sulla filosofia generale di sistema.
Gli economisti ci ripetono fino alla nausea che la natura non concede pasti gratis.
Se aggiungessero che non distribuisce neppure patenti di superiorità e impunibilità metafisica, darebbero l’impressione di sconfinare dalle loro competenze.
In realtà, se l’uomo smettesse di auto-incensarsi dalla mattina alla sera con il disco rotto e il megafono gracchiante della retorica ufficiale, se cominciasse a rendersi conto delle proprie disastrose inadempienze di specie ‘intelligente’ e del modo assolutamente criminale in cui ha gestito finora il pianeta, forse si avvicinerebbe a una svolta veramente positiva.
I più saggi tra noi ci ripetono fino alla nausea che nessun uomo possiede la verità assoluta, poi si dimenticano di aggiungere, anche se rientrerebbe nelle loro competenze, che, proprio per questo, dovremmo cominciare a buttare in discarica le ‘verità’ più vertiginose, ingombranti, roboanti e impegnative, soprattutto se mettono a tacere le evidenze e i fatti più elementari.
L’unico dato certo e incontrovertibile della nostra condizione esistenziale dice che siamo individui che filtrano tutto quello che ci perviene dall’universo esterno attraverso un marchingegno biologico che si trova in una scatola ossea di poche decine di centimetri quadrati.
Dobbiamo ripartire da lì, dal nostro essere individui, come gli animali che tutti i giorni vengono sterminati a milioni (niente rivela il carattere convenzionale, utilitaristico ed eminentemente difensivo dell’etica quanto il disprezzo e la mancanza di scrupoli verso gli animali, un atteggiamento che accomuna i grandi credi monoteisti al vetero-marxismo ortodosso).
Dobbiamo diffidare degli adulatori che ogni giorno ci ricordano la nostra purezza e nobiltà e ci additano mete gloriose: non esistono pasti gratis e nemmeno lusinghe e complimenti gratuiti, tutta quella piaggeria sottilmente colpevolizzante ed erosiva alla fine compromette la qualità del pasto.
Quello dell’individuo può essere il concetto unificante, il filo rosso che riannoda le divergenze tecniche e politiche nel senso di una nuova impostazione di ricerca dialogante di assetti concreti, dove due diverse macro-attitudini si possano confrontare, ma soltanto per quello che è utile a entrambi, potendo ignorarsi a vicenda quando l’attrito logora, nell’ambito di un concetto di libertà che non deve più sottostare agli imperativi soffocanti dell’armonia a ogni costo, alle mitologie ipocrite fino al grottesco dell’amore umanitario, ma rispondere invece a obblighi di funzionale coerenza.
Sull’accettazione dell’individuo e dei suoi limiti e difetti inevitabili, delle sue stranezze irriducibili (quindi sulla ricerca di un regime di regole concrete e basilari, un insieme organico di norme razionali che assicurino un livello dignitoso di coesistenza) si potrebbe fondare una nozione di trasversalità laica in grado di competere con quell’eclettismo politico, pervaso di astuzia interclassista, che garantisce la strisciante invadenza del credo religioso anche nelle società moderne.
In fondo, che si arringhino le folle cercando di diventare il simbolo del loro desiderio di riscatto ed emancipazione o si cerchi di risalire la scala del successo sociale per motivi di orgoglio o narcisismo, gli ingredienti indispensabili (magari solo un pizzico) di megalomania e paranoia ossessiva non cambiano granché ed è difficile dire quali sono i più pericolosi e se creano dipendenze irreversibili
C’è chi si attiva nel volontariato sociale o adora la compromissione politica e chi ambisce invece costruire passo per passo qualcosa di solido e duraturo, anche se ridotto ad ambiti locali e contingenti, con poche interazioni immediate: il disegno e gli effetti complessivi sfuggono a chiunque, la complessità sociale ha continuamente in serbo risonanze dalla portata imprevedibile e crolli o spiragli dove le pareti sembravano più solide.
Tutto quello che si può tentare di fare è passare a un tipo di moralità costruttiva che abbia poco a che vedere con le presunzioni di valore e gli attestati di nobiltà emanati per diritto divino o di casta dalle diverse consorterie di potere e instaurare invece un nuovo regime di concorrenza dinamica, in cui ogni individuo, liberato dalle pastoie e dai ricatti dell’indigenza, possa esercitare impegno e creatività in ambiti che assecondino le proprie tendenze, con meno vincoli burocratici e sotto il controllo e la vigilanza di una normativa priva di ambiguità e di interessi nascosti.
Non si sa se effettivamente l’imprenditoria privata funzioni meglio di quella pubblica per motivi intrinseci e oggettuali, di sicuro non è stato provato con quella sicurezza che l’ideologia attualmente vincente, spalleggiata dai grandi interessi, vorrebbe farci credere.
In ogni modo, ammesso e non concesso, i costi di quella vittoria stanno sostituendo ai mali dello spreco e dell’inefficienza storture che prefigurano guai ancora peggiori.
Mutando il terreno di gioco e le regole della partita, la competizione potrebbe riaprirsi in un modo molto più scientificamente perspicuo e socialmente produttivo.
In un contesto opportuno, si potrebbe forse emendare il concetto della concorrenza economica quale elemento di costante rigenerazione del tessuto sociale da quelle ambigue e tendenziose forzature che, mentre assecondano servilmente le esigenze mitologiche dei ceti dominanti e le rispettive ideologie metafisiche, inquinano e deteriorano una più generale e concreta qualità di sostanza non appena la si riferisca a qualsiasi temperie vitale che non corrisponda al puro, ineffabile privilegio.
Gettandoci di slancio nelle braccia dell’utopia senza abbandonare neppure per un istante un appiglio di plausibilità razionale, a questo punto si potrebbe addirittura intravedere un individuo meno dilaniato tra le necessità esistenziali e quelle di lavoro o di carriera, più libero di organizzarsi secondo ritmi mutevoli e metamorfosi successive, ora inquadrato in una disciplinata, ma comunque attiva e creativa, routine collettivista e ora impegnato, per motivi economici o di affermazione personale, in performance più faticose e stressanti.
Ovviamente, armonizzare il benessere individuale con la funzionalità collettiva richiede un enorme investimento preliminare di intelligenza progettuale da realizzare poi con coraggio innovativo e successivamente mantenere e salvaguardare con le giuste dosi di rigore e tassatività.
Parentesi
Per giudicare le varie costrizioni e se accettare o meno vincoli tassativi, bisognerebbe ragionare approfonditamente sulla discrepanza sempre più palese che si sta manifestando nel rapporto tra libertà economica e libertà di tipo più generale (esistenziale, civile, politico).
Tutta la dottrina liberale classica tendeva a collegare in modo inscindibile e reciprocamente e proficuamente i due ordini di prerogative e opportunità, ma invito chiunque a valutare se, ormai da qualche anno, non si stia delineando una netta spaccatura al riguardo.
Se fosse realmente così e la tendenza si rivelasse irreversibile, delle due l’una: o si è disposti a pagare il benessere materiale o addirittura una semplice sopravvivenza dignitosa con uno scadimento drastico di una più generale qualità della vita, oppure si deve tentare un rovesciamento simmetrico, abbracciando una visione strategica che accetti di limitare le libertà economiche cercando di non mortificare e anzi, se possibile, rinvigorire, ogni altro tipo di libertà.
In effetti, il progetto Colib, almeno nelle intenzioni, non deprime la libertà economica in senso stretto, ne modifica semplicemente i connotati, spazzando via tutta una serie di equivoci e ambiguità che permettono finte lusinghe e promesse da parte di chi realizza soltanto lacci e lacciuoli reali.
Va da sé che questo scritto rappresenta soltanto un piccolo mattone dell’edificio che invita a costruire.